domenica 27 novembre 2016

50* SAN GIUSTO D'ORO / 25-11-16

Dalla segregazione dei manicomi alla restituzione della dignità e dei diritti alle persone con problemi di disagio mentale. Il cinquantesimo San Giusto d'oro alla psichiatria triestina passa per la «rivoluzione basagliana» che si è formata in città, per poi essere seguita in tutto il mondo. Sala del Consiglio comunale gremita ieri per la cerimonia di consegna del premio nato nel 1967 e curato dall'Assostampa Fvg e dal Gruppo Giuliano Cronisti, insieme al Comune di Trieste e alla Fondazione CrTrieste. In apertura il saluto delle istituzioni, con il sindaco Roberto Dipiazza che ha ricordato come «il riconoscimento vada a premiare l'impegno dei tanti uomini e donne che hanno portato avanti il pensiero di Franco Basaglia», mentre Lucio Delcaro, vicepresidente Fondazione CrTrieste si è focalizzato su «un riconoscimento doveroso per una struttura che ha rivoluzionato la psichiatria non solo a Trieste ma nel mondo». Per la prima volta, come ha ricordato Carlo Muscatello, presidente Assostampa Fvg, il premio è stato accompagnato da una dedica, sottolineata da un lungo applauso, alla memoria di Giulio Regeni, il giovane ricercatore rapito e barbaramente ucciso in Egitto, «un figlio di queste terre, che ha studiato in quella che era la culla della civiltà e per il quale chiediamo ancora la verità». Come da tradizione, consegnata anche la targa speciale che è andata al giornalista e decano dei critici musicali Mario Luzzatto Fegiz, «un triestino curioso e figura di riferimento e d'avanguardia nel panorama musicale» ha rimarcato Furio Baldassi del Guppo Giuliano Cronisti. Curiosamente Luzzatto Fegiz è stato premiato esattamente 40 anni dopo che suo padre Pierpaolo, economista e padre della statistica italiana, nel 1976 aveva ricevuto il San Giusto d'oro. «Lasciare Trieste da ragazzo è stato straziante, ma al tempo stesso fondamentale per la mia carriera» - ha affermato -. «Ma pur essendo lontano non ho mai perso il legame con la mia città. Trieste per me rappresenta i ricordi, i flash di vita vissuta, come la piazza Unità gremita per il ritorno di Trieste all'Italia». Poi il momento centrale della cerimonia con la consegna del San Giusto d'oro 2016: «un premio collettivo per il lavoro portato avanti dalla psichiatria triestina» e ritirato da Roberto Mezzina, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e da Silva Bon, presidente delle associazioni di salute mentale. «Quando parliamo di rivoluzione basagliana parliamo di un cambiamento epocale, non solo scientifico ma anche culturale e giuridico» - ha dichiarato Mezzina -. «I manicomi sono stati trasformati in una rete di servizi alla comunità. Una legge coraggiosa che ha posto l'attenzione sulle persone attraverso un modello esportato in tutto il mondo. Siamo onorati per un riconoscimento della città che premia un lavoro lungo mezzo secolo». Così infine Silva Bon: «Un premio che rappresenta un grande onore ma anche una grossa responsabilità. Un percorso di lotta contro il pregiudizio e l'esclusione che conferma che il cammino verso la guarigione è possibile e rinnova la speranza».

Pierpaolo Pitich

venerdì 25 novembre 2016

NICCOLÒ FABI 7-12 A UDINE, INTERVISTA

La settimana scorsa a Lugano ha concluso il primo tour europeo. Con concerti a Bruxelles, Amsterdam, Oxford, Londra, Parigi, Berlino, Monaco, Vienna. Mercoledì 7 dicembre alle 21, al “Nuovo” di Udine, riparte invece la tournèe italiana. Dopo la quale, il 16 giugno sarà a Rüsselsheim am Mein, vicino Francoforte, ospite del festival Hessentag, una delle più antiche e importanti rassegne musicali tedesche. Insomma, non si può dire che Niccolò Fabi se ne stia con le mani in mano.
«Nelle date europee - dice il cantautore romano, classe 1968 - il pubblico era prevalentemente italiano. Nostri connazionali che vivono all’estero e hanno dunque un approccio con il concerto di un artista italiano diverso dal nostro. C’è in loro anche un sentimento di nostalgia, un piacere nel sentire cantare all’estero nella loro lingua».
E gli stranieri?
«Attenti, curiosi, attratti dalle parole e da un suono che comunque è internazionale. Questo tour è stato anche un atto di semina, da cui è nato l’invito al festival tedesco di giugno».
Ha appena vinto la seconda Targa Tenco consecutiva.
«Un premio importante, perchè dato da voi giornalisti e critici musicali. Gente che lavora con la musica, insomma, e che ha deciso che i miei ultimi anni sono stati entrambi i migliori delle rispettive annate. Una bella soddisfazione. Una cosa che crea interesse, discussione».
L’ultimo disco, “Una somma di piccole cose”, le somiglia molto.
«Sì, è un distillato delle mie cose, con il mio gusto, il disco più simile a me che abbia mai realizzato. Ho fatto tutto da solo, quasi con lo spirito di un falegname che costruisce un tavolo. Stavolta non posso imputare nulla agli altri. Tutta roba mia».
Si respira aria di folk americano.
«Assolutamente, in maniera esplicita, quasi citazionista, con punti di riferimento della mia storia musicale, da Woody Guthrie a Bob Dylan, fino agli americani più recenti. Da ragazzo ascoltavo di tutto, ma quel filone c'è sempre stato. Poi si sono aggiunte altre cose, oggi prediligo il folk bianco americano e la matrice nera funk».
Il progetto con Daniele Silvestri e Max Gazzè cosa le ha lasciato?
«Nuovo entusiasmo, nuovi stimoli. A me, ma anche ai miei colleghi. Sono stati due anni divertenti, che ci hanno permesso di accrescere la nostra visione di essere professionisti della musica. Personalmente mi sono messo a confronto con un altro modo di lavorare. Dividendo la responsabilità del palco tutto diventa più facile. E la ripartenza da soli, poi, è più stimolante».
Se avesse oggi diciotto anni andrebbe a “X Factor”?
«No, non è casa mia, non saprei cosa fare. Penso che il mio linguaggio musicale non sia adatto a una gara».
Otto album in vent’anni: tiene un buon ritmo.
«Mi sento più a fuoco adesso, pur avendo responsabilità maggiori sulle spalle. Credo che il tempo della maturità mi si addica di più».
Il prossimo viaggio?
«Ora sono in tour, poi non so. E comunque il viaggio è una condizione, uno stato d’animo. Ho la fortuna di muovermi tanto, dunque... Viaggio anche quando lavoro.
Com’è nato e in che cosa consiste il suo impegno in Africa?
«Nasce da curiosità sul viaggio, sulla scoperta di cose che non conosco. Giro per il continente da quasi dieci anni. Poi nel 2009 c’è stato l’incontro con una ong di Padova, il Cuamm, meglio noto come Medici con l’Africa, e ho cominciato a lavorare con loro».
Che mondo ha scoperto?
«Ho viaggiato in Africa in modo ovviamente non turistico, ho fatto sentieri e percorsi significativi, ho aiutato i medici nella loro opera di comunicazione. Ho suonato in situazioni di tutti i tipi, dai presidi ospedalieri alle ambasciate fino ai piccoli teatri. Poi c’è la parte della raccolta di fondi per la ristrutturazione di ospedali in Angola e in Sudan».
Tre anni fa Niccolò Fabi era partito per il Sudan con i compagni d’avventura - in quel caso non solo musicale - dell’epoca, Daniele Silvestri e Max Gazzè. Dovevano portare i 22 mila euro raccolti per il reparto pediatrico di un ospedale dalla fondazione “Parole di Lulù”, creata dal cantautore e dalla moglie in ricordo della loro piccola Olivia, morta di meningite a ventidue mesi, nel 2010. Un dolore immenso, impossibile da dimenticare.

mercoledì 16 novembre 2016

25 ANNI FA I NIRVANA A MUGGIA

Stasera alle 20.30, nello stesso Teatro Verdi di Muggia che li vide esibirsi ancora quasi sconosciuti al grande pubblico, “si celebreranno” i venticinque anni dal concerto dei Nirvana. Era il 16 novembre 1991. Di lì a poco, la band di Seattle sarebbe letteralmente esplosa con l’album “Nevermind”, ormai considerato una pietra miliare della musica rock. Il concerto di Kurt Cobain (morto suicida il 5 aprile ’94), Dave Grohl e Krist Novoselic (genitori originari di Zara, emigrati negli Stati Uniti) si sarebbe dovuto svolgere originariamente in Slovenia, che proprio in quel ’91 aveva combattuto per la sua indipendenza dalla Jugoslavia. Situazione dunque instabile. E le agenzie Rock Alliance e Devon Rex, con la collaborazione dei triestini di Globogas, lo dirottarono su Muggia.
Stasera si ricorda la serata passata alla storia. Prima la parola a chi c’era (organizzatori, giornalisti, fan). Poi musica con un “tributo acustico triestino” affidato al duo Nasty Monroe, alla cantante Dorina Leka e ai Beat on Rotten Pilots (ovvero un mix fra Beat on Rotten Woods e Damned Pilots...). Gran finale con i milanesi “Poottana Play For Money - Nirvana Tribute Band”, in versione unplugged, e una superband triestina creata per l’occasione: Andrea Belgrado, Michele Chiesa e Andrea Zanolla.
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Il concerto che i Nirvana tennero al Teatro Verdi di Muggia il 16 novembre 1991, poche settimane prima della loro esplosione mondiale con l’album “Nevermind”, fa ormai parte della storia della musica triestina. Solo un altro (mancato) evento gli tiene testa: il concerto che i Genesis avrebbero dovuto tenere al Dancing Paradiso di via Flavia l’8 aprile del ’72. Peter Gabriel e compagni avevano appena pubblicato “Nursery Crime”. Arrivarono a bordo di due macchinoni neri, trovarono la sala chiusa perchè nei giorni precedenti vi era scomparsa una minorenne. Breve conciliabolo, colloquio con gli organizzatori, e poi dietrofront, con sosta in una vicina pizzeria.
Ma torniamo ai Nirvana. All’epoca la band di Seattle aveva appena pubblicato “Nevermind”, il secondo album uscito nel settembre ’91 e seguito al disco di debutto “Bleach”, pubblicato nell’89. Gruppo di nicchia, ma fino a un certo punto, visto che quel tour europeo che arrivò anche da noi fece registrare quasi ovunque una lunga serie di tutto esaurito. Tempo poche settimane e, fra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, Kurt Cobain e soci fanno il botto, grazie anche al successo del primo singolo estratto dall’album, “Smells like teen spirit”. Basti pensare che a gennaio il disco spodesta “Dangerous” di Michael Jackson dalla vetta delle classifiche di vendita. Oggi “Nevermind”, oltre dieci milioni di copie vendute, è considerato uno degli album fondamentali degli anni Novanta e della storia del rock in generale.
Il caso e un pizzico di fortuna unirono il nome dei Nirvana alla cittadina muggesana. «Il bassista Krist Novoselic - ricorda Fabrizio Comel, all’epoca nell’agenzia Globogas che organizzò il concerto - era di origine croata, i suoi genitori erano emigrati negli Stati Uniti dalla natia Zara. Dunque voleva assolutamente suonare vicino al confine, nel momento in cui i tragici fatti di quel ’91 avevano fatto tramontare la possibilità di suonare in Slovenia. Fu l’agenzia Rock Alliance di Pordenone a proporre al management dei Nirvana l’opzione Muggia. Dove noi di Globogas organivamo in quei mesi vari concerti. Ricordo Working Week, Fleshtones, Mordred, Atom Seed, Maceo Parker, Galliano con Mick Talbot degli Style Council...».
«Per i Nirvana - prosegue Comel, che in occasione dell’anniversario annuncia la pubblicazione di “nuovi materiali recuperati dal baule dei ricordi” - la sala era strapiena, almeno metà erano ragazzi arrivati per l’occasione dalla ex Jugoslavia. Aprirono la serata gli Urge Overkill. I Nirvana suonarono nella penombra, quasi al buio, Cobain tirò fuori di colpo tutta la sua grinta sofferente, Novoselic si muoveva molto e si notava di più per la sua stazza mentre brandiva il basso. Gran “pogo” del pubblico e noi organizzatori entusiasti lavoravamo in un bar improvvisato in galleria. Dopo il concerto ho fatto i complimenti a Dave Grohl che è venuto a bersi una birra su da noi...».
Il concerto della band di Seattle portò fortuna ai triestini di Globogas, che l’estate successiva furono chiamati a organizzare la stagione al Castello di San Giusto. Dove portarono Screaming Trees, Elio e le Storie Tese, Pitura Freska, persino un Ligabue fresco di grande successo. Nel ’93, di nuovo al “Verdi” di Muggia, un altro botto con gli Arrested Development, con pubblico da tutto il nord Italia.
«Per tornare ai Nirvana - conclude Fabrizio Comel - noi di Globogas avemmo poco a che fare con il gruppo. Loro alloggiavano all’Hotel Lido già dalla sera prima, Cobain faceva vita diciamo molto appartata, gli altri due erano più socievoli. Se ne ebbe una dimostrazione anche nella conferenza stampa che fu organizzata in albergo, alla presenza di giornalisti provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia, con Cobain abbastanza assente, quasi appisolato sulla sedia. Dopo il concerto andarono in giro per locali con alcuni di noi...». Il resto è storia.

lunedì 14 novembre 2016

ADDIO A LEON RUSSELL

Se n’è andato anche Leon Russell, leggendario pianista rock, aveva 74 anni. Il suo nome va ad aggiungersi a una lista ormai senza fine (Bowie, Prince, Keith Emerson, Gato Barbieri, pochi giorni fa Leonard Cohen...), che ha già trasformato il 2016 nell’annus horribilis del rock. Claude Russell Bridges, questo il suo vero nome, era nato a Tulsa, Oklahoma. Negli anni Cinquanta le collaborazioni con Ronnie Hawkins e Jerry Lee Lewis lo sottraggono a un destino di pianista da night club. Nei Sessanta lavora con Phil Spector e Herb Alpert e partecipa alle registrazioni di “Mr. tambourine man”, dei Byrds. Ma la botta di vita, e di popolarità, arriva nel ’70, con la partecipazione al tour di Joe Cocker “Mad dogs & englishmen”, immortalato anche nell’omonimo film. Suona vari strumenti, mescola rock, rhythm’n’blues, funk. Collabora con Dylan, Clapton, George Harrison, Stones, Sinatra, Ray Charles... Nel 2010 era tornato in pista con l’album “The union”, realizzato con Elton John. Dal 2011 era nella Rock and Roll Hall Of Fame.

LA FIABA DI EMJAY, MICHAEL JACKSON, di MASSIMO BONELLI

Una fiaba per raccontare la storia del re del pop. Michael Jackson non c’è più, se n’è andato il 25 giugno 2009, poco più che cinquantenne. Ma ci ha lasciato la sua musica, i suoi dischi, una lezione artistica che con il passare degli anni viene via via rivalutata.
A Massimo Bonelli, classe 1949, nato a Conegliano, cresciuto a Trieste (le elementari alla Nazario Sauro, le medie ai Campi Elisi, i pomeriggi da ragazzo a Sant’Andrea, le estati all’Ausonia o a Sistiana...) e milanese di adozione, trentacinque anni nel mondo della discografia (è stato fra l’altro direttore generale della Sony Music), Jacko ha lasciato anche dei ricordi personali. Che gli hanno ispirato “La vera fiaba di Emjay” (edizioni Lupetti, pagg. 158, euro 29,90), volume impreziosito dai disegni davvero belli di Gianna Amendola.
Racconta Bonelli: «Ho incontrato Michael Jackson varie volte. Nel 1987 per l’uscita del suo album “Bad”, con la conferenza del lancio internazionale, avvenuta a Roma, alla presenza di Quincy Jones e Frank DiLeo. Successivamente ancora in Italia nell’88, sempre per i suoi concerti. Poi a Monaco per l’anteprima mondiale del “Dangerous Tour” e a Marbella in Spagna per una sua premiazione. Ancora a Milano nel ’97 dove venne premiato da Luciano Pavarotti con un Telegatto, che fu consegnato anche a me per essere riuscito a portare l’artista. E infine a Parigi, in un afoso giorno di giugno del 2001, per la presentazione dell’album “Invincible”. Quella fu l’ultima volta».
Il film dei ricordi si riavvolge. «La prima foto che facemmo insieme, mentre gli consegnavo il disco di platino, fu allo stadio Flaminio di Roma nell’88. Ricordo che mentre parlavamo in camerino, era rilassato e informale, sorridente e curioso. Vestito in modo semplice e casuale. Appena uscì pronto per la foto di rito, aveva indossato il vestito di scena, gli occhiali scuri: dalla sua faccia non traspariva alcuna sensazione. Era un’altra persona, quasi una statua. Mentre a Milano, in occasione della consegna del Telegatto, ci trovammo da soli nel pulmino che ci conduceva all’aereo privato. Portava la celebre mascherina sul viso, sotto la quale vedevo che a tratti sorrideva. Parlammo pochissimo, però era curioso di sapere come lui era seguito nel nostro Paese».
La storia del libro è scritta con un linguaggio molto semplice, tipico delle fiabe. «In realtà - confessa l’autore - non è stata una mia idea. Io avevo scritto un breve racconto intitolato “The Real HiStory of the King of Pop” sulla mia rubrica “Una vita tra Pop & Rock” nel web magazine “Spettakolo”. L’editore Lupetti lo ha letto e si è messo in contatto con me per incitarmi a fare di questa breve fiaba un libro. In un secondo tempo, ha pensato di inserire i disegni della giovane e bravissima Gianna Amendola. Racconto e illustrazioni erano in perfetta sintonia per una classica fiaba. Anche se preferisco definirla una favola moderna, un racconto di fantasia tra rock e psichedelia».
Una fiaba sospesa fra realtà e finzione. «Il libro - prosegue Bonelli, che quest’anno ha anche realizzato la mostra “I colori del rock”, seguita a “Una vita fra rock e pop” del 2014 - è diviso in tre parti: pop, rock e terra. Le prime due parti sono totalmente frutto della fantasia, anche se in “Rock” si citano personaggi reali e alcune gesta realmente accadute. La terza parte, Terra, è un equilibrato miscuglio fra verità e fantasia».
«Usare la fantasia - conclude - mi ha permesso di non essere vincolato a tutte le regole che una biografia impone. Il protagonista della fiaba, il folletto EmJay, mi permette di volare ovunque io desideri. I personaggi ai quali attribuisco ruoli e pensieri fondamentali hanno solo il nome, invece coloro che si trovano sul percorso della fiaba hanno nome e cognome. In fondo penso che la fantasia è una grande libertà, un modo leggero per descrivere la verità».
Quello di Massimo Bonelli è un libro per bambini grandi o adulti piccoli, comunque per amanti della musica. «Durante il breve periodo della sua permanenza sulla Terra - scrive nel prologo - ci siamo incontrati più volte. Solo quando si instaurò una sincera e profonda amicizia, in via confidenziale, mi raccontò tutta la sua fantastica avventura. Ora cercherò di narrarla su due linee parallele: quella favolistica per i più piccoli, per gli adulti ma non troppo quella di un’esperienza pseudo psichedelica...».

domenica 6 novembre 2016

ELISA, MARTEDÌ DATA ZERO A JESOLO

Elisa vive da giorni reclusa nel suo studio di Cervignano. Pochi contatti con l’esterno. Concentrazione massima per la “data zero” del nuovo tour, che si terrà martedì sera al palasport di Jesolo. In vista del debutto vero e proprio, venerdì 11 a Firenze.
Ogni tanto pubblica qualche foto su Facebook. Dove l’altra notte si è sfogata così, in un idioma “alla Sturmtruppen”: «Voler mettere tutti i miei pezzi preferiti nella scaletta esseren impossibilen... io testona come mulo sardo, parola impossibilen non piacere neeeeein. Ma dubbien amletichen ja volt. Penzaren... gran penzaren... per poi giraren balle per troppo penzaren e poi affliggerzi ancoren. Che faren? Aiuten».
Nel nuovo “On Tour” Elisa porta infatti in scena uno show con tutti i suoi più grandi successi, assieme ad alcuni brani estratti dall’ultimo album “On”, pubblicato a marzo. E visto che i successi della popstar di Monfalcone sono ormai tanti, comprensibile lo scoramento nel rendersi conto che nella scaletta non c’è spazio per tutti...
“No hero” e “Love me forever” sono fra i brani di maggior successo dell’ultimo album. Del secondo brano Elisa ha detto: «Questa canzone è una delle prime che ho scritto, avevo solo 14 anni. Sentivo che questo era il disco giusto per questo brano perché è un album pop dove ho scelto di non avere un unico genere musicale ma di spaziare liberamente. E poi amo da sempre le Ronettes, “Be my baby” è una delle mie canzoni preferite in assoluto. E le produzioni americane anni ’60 di Phil Spector mi rapiscono...».
I concerti del tour verranno aperti dal giovane Lele Esposito, finalista dell'edizione 2015 del talent “Amici”, e dal cantautore albanese Ermal Meta. A febbraio, tour nel Regno Unito e in Irlanda.

venerdì 4 novembre 2016

ORNELLA VANONI DOMANI A GORIZIA

«È un progetto che presento al mio pubblico con emozione e molto entusiasmo. Per andare avanti bisogna cambiare sempre, con coraggio e passione. Questo trio fantastico ed eccezionale mi porta dentro l’anima una nuova gioia».
Lei è Ornella Vanoni, eterna signora della canzone italiana, che domani alle 20.45 apre la stagione del Teatro Verdi di Gorizia con il suo nuovo spettacolo “Free soul”. Letteralmente “anima libera”, e lei lo è, lo è sempre stata, da quando nella seconda metà degli anni Cinquanta Giorgio Strehler se l’era inventata al Piccolo Teatro di Milano “cantante della mala”, con brani capolavoro come “Ma mi”, “Le mantellate”, “Hanno ammazzato il Mario”... Ma i richiami del titolo del nuovo spettacolo vanno ovviamente al jazz, al free, al soul, all’improvvisazione, ma anche alla bossa nova, al Brasile di Vinicius de Moraes (la cui voce apre lo spettacolo) e di Toquinho.
Signora, è vero che lo spettacolo nasce da due chiacchiere con il jazzista Paolo Fresu?
«Sì. Avevo voglia di lasciare il pop e di entrare nel jazz, Paolo mi ha dato due musicisti di talento di cui lui ha piena fiducia: Roberto Cipelli al piano e Bebo Ferra alla chitarra. Ho aggiunto il violoncellista Piero Salvatori, che rende il trio molto particolare».
L’incontro con Vinicius?
«Bardotti all’epoca era il mio produttore ma anche il traduttore in italiano di tutte le sue cose. Ebbe questa idea. Siamo andati a San Paolo e a casa di Vinicius ci ha raggiunti Toquinho. È nata così l’idea di fare un disco insieme (“La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria”, 1976 - ndr)».
Cosa ricorda degli “anni brasiliani”?
«È stato un periodo meraviglioso, nel quale abbiamo suonato, riso, pianto, mangiato, bevuto, ci siamo innamorati, lasciati...».
Jazz, bossa nova, soul: cosa significano per lei?
«La bossa nova fa parte del Brasile, l’ha inventata Joao Gilberto, ma non tutto il Brasile è bossa nova. Per quanto riguarda il soul Lucio Dalla diceva che “la cantante più soul d'Italia è Ornella Vanoni. E quando dorme, se russa, russa soul». Tra il soul e il jazz, poi, il passo è breve».
Sul palco gioca e scherza con il pubblico: un tempo non era così.
«Un tempo ero timida. Poi con il tempo sono cambiata e ho preso sicurezza di me. Oggi sul palco mi diverto».
Nello spettacolo canta anche Luigi Tenco, a gennaio saranno cinquant’anni...
«Ho parlato talmente tanto di Tenco che non ho più niente da dire. La sua morte resta qualcosa di quasi incomprensibile e assurdo».
Rilegge anche Sergio Endrigo, nato a Pola. Pensa che in vita sia stato sottovalutato?
«Non credo. Ha vinto Sanremo. No, non è stato affatto sottovalutato».
Quando il pubblico sente “Una lunga storia d’amore” pensa a lei e Gino Paoli. Cosa le ha dato musicalmente?
«Quella canzone non è più nella scaletta di questo spettacolo. Gino Paoli mi ha dato Gino Paoli, tutto intero, per alcuni anni. Eravamo due ragazzi di venticinque anni che scoprivano assieme la musica americana e quella francese».
Recentemente ha cantato a Vienna: com’è il suo rapporto con il pubblico non italiano?
«Buono, nel caso del concerto nella capitale austriaca addirittura straordinario, perché conoscendo il tedesco mi sono potuta permettere di farli ridere».
Una nuova voce femminile, italiana e straniera, che apprezza?
«In Italia sicuramente Malika Ayane. All’estero Lady Gaga. Ma in fondo anche Cher, che non invecchia mai».
Domani a Gorizia dovrebbe cantare “Accendi una luna nel cielo”, “Sorry seems to be the hardest word”, “Mi sono innamorata di te”, “Naufragio”, “Just in time”, “Samba in preludio”, “Vedrai vedrai”, “Senza fine”, “Che cosa c'è”, “Raindrops keep fallin' on my head”, “Caruso”, “Rossetto e cioccolato”, “Tu sì ’na cosa grande”, “Pata pata”. Finale con “Domani è un'altro giorno” e “Io che amo solo te”. Ama Trieste, piazza dell’Unità, ultimamente i libri di Roveredo. Chissà che non si conceda una scappatina in città...

IL GATTO ROSSO, LIBRO DI CESCHIA (su Articolo 21)

Il sindacato dei giornalisti negli anni Settanta aveva un nome e un cognome: Luciano Ceschia. Triestino, classe 1934, è stato infatti segretario generale della Fnsi per dieci anni, firmando ben cinque contratti. La sua storia sindacale, ma anche quella politica (negli anni Sessanta era stato giovanissimo assessore democristiano in una giunta comunale a Trieste, negli anni Ottanta aveva tentato senza successo la corsa al parlamento europeo con il Pci) e professionale, torna ora sulle pagine del libro Il gatto rosso, sottotitolo “Tasi, picio, te prego”, edizioni Mgs Press.
Ceschia racconta sessant’anni di professione, da precario a direttore. Comincia come “abusivo” (come si diceva un tempo…) in quel Piccolo che poi avrebbe diretto per tre anni, come giornalista al Gazzettino e alla Rai del Friuli Venezia Giulia. Dopo il quotidiano triestino dirige anche l’Alto Adige. Memorabile lo scambio di battute, riportato nel libro, con Chino Alessi, all’epoca potente direttore proprietario del quotidiano triestino. Il giovane cronista chiede se non è finalmente arrivato il suo turno per la sospirata assunzione, il direttore dice che ha «altri progetti”, lui prende cappello e sibila «non metterò più piede in questa azienda. O meglio, la informo che tornerò da direttore». Cosa poi puntualmente avvenuta.
Storie, episodi, ricordi, aneddoti. Come lo scambio a distanza con Montanelli, che quando la redazione del Piccolo si divide e sciopera all’arrivo del nuovo direttore Ceschia, che aveva fatto inserire nel contratto nazionale la clausola sul gradimento della redazione al nuovo arrivato, lo fulmina sul Giornale con queste parole: «Chi di contratto ferisce, di contratto perisce».
Ceschia racconta tutto. Professione, sindacato, vita privata. Dice che si è divertito, rispettando sempre le regole. Aveva e mantiene fama di “non affidabile”. Di certo è uomo del sindacato dei giornalisti. Sono rari i casi di giornalisti diventati direttori che mantengono la passione per il sindacato. Per questo i suoi interventi al consiglio nazionale della Fnsi, di cui è componente “a vita” per i suoi trascorsi da segretario generale, sono sempre ascoltati con rispetto e attenzione. Per questo continua a dare il suo contributo di esperienza e saggezza all’Associazione della stampa del Friuli Venezia Giulia. Di cui da qualche mese è presidente onorario.

giovedì 3 novembre 2016

EDOARDO DE ANGELIS PRESENTA ALBUM SABATO A UDINE

«La bellezza che non muta, che brilla nel tempo, è sconosciuta, poco praticata, o dimenticata. Così è anche per le canzoni. Questo album racchiude il desiderio di riportare all’attenzione generale alcune canzoni d’autore che sono state importanti per la nostra storia, la nostra cultura, la nostra vita. Non solo come valori sentimentali, ma anche di formazione».
Parola di Edoardo De Angelis, figura storica della nostra canzone d’autore, dai tempi del Folkstudio e della Schola Cantorum (“Lella”, ’71), che sabato presenta dal vivo il suo nuovo album “Il cantautore necessario” a Udine: alle 18 all’Angolo della musica e alle 21 al Caffè Caucigh.
«Una voce così forte - prosegue l’artista, nato a Roma nel ’45 -, così presente, quella dei cantautori, da diventare necessaria. Probabilmente un gran numero di giovani non conosce queste canzoni, non le ha mai ascoltate. E magari qualcuno tra i meno giovani può averle dimenticate».
Ancora De Angelis: «L’idea di questo lavoro era accesa, sotto la cenere, già da tempo, quando ne parlai con Francesco De Gregori. Il progetto gli sembrò molto interessante, tanto che ne assunse personalmente la direzione artistica, regalandomi consigli preziosi sull’impostazione del lavoro, sulla scelta dei brani e degli artisti da rappresentare».
«La collaborazione con De Gregori - aggiunge - si è spinta fino alla sua presenza nell’album, con l’armonica e una partecipazione in voce. Per la costruzione dell’edificio musicale ho invece chiamato Michele Ascolese, compagno di viaggio per tanti anni di Fabrizio De André».
La presentazione a Udine non è casuale. «All’Angolo della musica - spiega De Angelis, che sarà accompagnato dai chitarristi Giovanni Pelosi e Mario Fales, specialisti nella tecnica del “fingerpicking” - ho già presentato in anteprima altri album. Sono molto legato alla città e al Friuli, che per me una seconda casa: da molti anni faccio parte del direttivo dell’Associazione Canzoni di Confine, e per quattro anni sono stato direttore dei progetti speciali di Folkest».
Fra i brani dell’album: “La canzone dell’amore perduto” (De Andrè), “Amara terra mia” (Modugno), “Santa Lucia” (De Gregori), “Cosa portavi bella ragazza” (Jannacci), “Io e te Maria” (Ciampi), “Io che amo solo te” (Endrigo); “Fratello che guardi il mondo” (Fossati), “Porta romana” (Gaber), “Il mare, il cielo, un uomo” (Paoli), “La casa nel parco” (Lauzi), “La casa in riva al mare” (Dalla), “Se stasera sono qui” (Tenco).

SAN GIUSTO D'ORO ALLA PSICHIATRIA TRIESTINA NEL RICORDO DI BASAGLIA, TARGA SPECIALE A MARIO LUZZATTO FEGIZ, EDIZIONE 2016 DEDICATA A GIULIO REGENI

Il San Giusto d'oro 2016 va alla Psichiatria triestina "nel ricordo di Franco Basaglia", la targa speciale del San Giusto d'oro al giornalista Mario Luzzatto Fegiz. L'edizione di quest'anno del premio, nato nel 1967 e organizzato dall'Assostampa Fvg e dal Gruppo Giuliano Cronisti, con la collaborazione del Comune di Trieste e della Fondazione CrTrieste, è dedicata alla memoria di Giulio Regeni: figlio di queste terre, ricercatore universitario ma anche appassionato autore di articoli, barbaramente assassinato a febbraio in Egitto, sulla cui morte ancora non si conosce la verità. 
"Con questo premio alla psichiatria triestina - dice Carlo Muscatello, presidente dell'Assostampa Fvg  - abbiamo voluto sottolineare il lavoro delle tante donne e dei tanti uomini che nei trentasei anni trascorsi dalla scomparsa di Basaglia hanno portato avanti le sue intuizioni e le sue idee. La chiusura dei manicomi seguita alla legge 180 del 1978 ha significato la restituzione della dignità e dei diritti a tutte le persone, comprese quelle soggette alla malattia e al disagio mentale, che prima di Basaglia vivevano segregate. La cosiddetta "rivoluzione basagliana" è nata qui, dopo le prime esperienze a Gorizia e a Parma. E da anni studiosi, ricercatori e addetti ai lavori arrivano da tutto il mondo a Trieste proprio per studiare sul campo l'organizzazione del locale Dipartimento di salute mentale".
"Con la targa speciale a Mario Luzzatto Fegiz - aggiunge Muscatello - diamo invece il giusto riconoscimento a un giornalista nato a Trieste, che da mezzo secolo non vive più qui, ma non ha mai dimenticato la sua città d'origine. Sul Corriere della Sera, alla radio e in televisione è diventato nel corso di una lunga carriera firma, voce e volto molto popolare: il decano dei critici musicali italiani, ma anche uomo di spettacolo, come ha dimostrato il suo show "Io odio i talent show", visto un paio d'anni fa anche in un Rossetti tutto esaurito per l'occasione. Esattamente quarant'anni fa, il San Giusto d'oro 1976 andava a suo padre Pierpaolo Luzzatto Fegiz: economista, padre della statistica italiana, fondatore della Doxa, accademico dei Lincei. Oggi, quarant'anni dopo, la targa speciale al figlio Mario".
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La psichiatria triestina
Le idee, gli interrogativi, le pratiche che sostennero il lavoro di Franco Basaglia (1924-1980) avviarono una stagione di straordinari cambiamenti. Le  porte aperte, la parola restituita, l’ingresso nel mondo reale animarono la paziente “lunga marcia attraverso le istituzioni” che quella impensabile apertura aveva tumultuosamente avviato.
Quando Basaglia entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre, è costretto a chiedersi angosciato «che cos’è la psichiatria?». Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento irreversibile: “il malato e non la malattia”.
I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro  della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa in relazione alle persone e  alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà, intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile.
La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo Stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.
Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire. Una storia di civiltà, una storia soprattutto triestina.
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Mario Luzzatto Fegiz
E' nato a Trieste nel gennaio 1947. Dopo l’esordio nel 1969 nel programma radiofonico “Per voi giovani”, si è affermato come uno dei critici musicali più noti e apprezzati del paese, come firma del Corriere della Sera, collaborando con altre testate e lavorando alla Rai, dove ha condotto per anni in televisione la trasmissione “Mister Fantasy” e alla radio “Fegiz Files”. Nella sua carriera ha anche lavorato direttamente nel campo musicale, scrivendo testi per la cantante Giuni Russo. Ha fondato una delle prime emittenti radiofoniche private italiane, Radio Milano Centrale (poi diventata Radio Popolare), e lavorato per Radio Capodistria, Radio della Svizzera italiana, Rete 105 e Radio Montecarlo.  È stato direttore editoriale della collana musicale edita da Sperling & Kupfer e docente dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Milano. Ha portato a teatro lo spettacolo “Io odio i talent show”, pubblicando anche il libro omonimo. Per i suoi settant'anni, a gennaio pubblicherà l’autobiografia intitolata "Troppe zeta nel cognome".