domenica 27 giugno 2010

LACOSEGLIAZ
S’intitola ”Panduro” ed è il nuovo album di Alfredo Lacosegliaz, musicista triestino con quasi quarant’anni di onorata carriera sulle spalle. Dai dischi con la Cooperativa L’Orchestra negli anni Settanta alla collaborazione musicale e teatrale con Moni Ovadia, dalle musiche per il cinema (”Senza pelle” di Alessandro D’Alatri, ”Facciamo Paradiso” di Mario Monicelli) alle sigle televisive per Michele Santoro, dalle frequentazioni con il teatro alle installazioni di teatro danza, Lacosegliaz è stato un precursore della musica etnica e ha sempre rivolto la propria attenzione verso Est, verso l’universo balcanico così prodigo di suggestioni musicali e culturali.
«Questo disco - spiega l’artista, classe 1953 - mette assieme suoni balcanici e tentazioni classiche. Anzi, il tentativo è quello di recuperare suoni della tradizione e inserirli in un contesto che utilizza strumenti della musica classica».
Il ”panduro”?
«Il riferimento è ai boiardi ungheresi del Settecento poi diventati gruppo di ventura e successivamente, nell’Ottocento, corpo di fanteria dell’esercito austriaco. Dentro c’erano ungheresi, rumeni, serbi, croati: pare avessero una ferocia e una cattiveria superiore agli standard già alti dell’epoca. Stupri e saccheggi erano all’ordine del giorno...».
Una chiave di lettura?
«Gliene offro tre. La prima nasce dall’intuizione del grafico ucraino Sergej Glinkov, che ha disegnato questi faccioni che sembrano assistere immobili al passaggio delle genti e dei secoli. Sembra quasi che pensino, ma non possono esprimersi».
Poi?
«Un riferimento a questi nostri anni difficili, direi pure orrendi. Come dico nel secondo brano, ”Grazie”, dobbiamo proprio ringraziare i gentiluomini che ci governano, per l’onestà, il lavoro, la sanità, direi quasi il diritto alla felicità».
Terza chiave di lettura?
«Il dio pan, la divinità boschiva che aleggia fra i brani. E un ebbro dion pan trova precisa collocazione nel brano ”Trittico”, dove invece di vedere doppio sente triplo: infatti nelle battute finali si sovrappongono e convivono tre tempi diversi. Come vede, siamo in pieno rigorismo avanguardistico...».
Con Lacosegliaz, in questo disco e da anni dal vivo, suona il Patchwork Ensemble: la cantante Ornella Serafini, Cristina Verità al violino e alla viola, Daniele Furlan al clarinetto. Con ospiti Flavio Davanzo, Edy Meola, Francesca Altran, Orietta Fossati, Irene Peljhan, Gabriele Centis, Federico Magris e Filippo Massa.
”Panduro” arriva a dodici anni da ”Dom taty Tomka”, che era uscito a livello nazionale nel circuito delle edicole con l’etichetta del Manifesto e aveva venduto ben diecimila copie. Nel 2003 Lacosegliaz aveva invece pubblicato a livello locale l’album ”Windrose”, mentre nel 2007 ha scritto le musiche orchestrali per ”Tre poeti del Friuli Venezia Giulia: Pasolini, Cergoly, Kosovel”. Non è finita: è da poco uscito il libro-cd ”Equinozi”, nel quale ha musicato le liriche della triestina Marina Moretti e dello sloveno Alexij Pregarc.
«Ma in questo periodo - conclude Lacosegliaz - ho bisogno di mettere nero su bianco le cose che ho immagazzinato negli ultimi tempi. Ho fatto cinque o sei spettacoli negli ultimi anni, e ho diverse ore di produzione musicale. A settembre esce un altro disco: s’intitolerà ”Hypnos”, il dio del sonno...».
MAURO BUSSANI
E se a salvare il mondo dalle sue mille terribili crisi, economiche ma non solo, fosse il diritto? Sì, il diritto: l’insieme delle vecchie care leggi, le norme, le regole grandi e piccole così necessarie alla convivenza civile.
La domanda sembra aver ispirato il triestino Mauro Bussani, docente di diritto privato comparato all’Università di Trieste, componente di accademie e comitati scientifici internazionali, nel libro ”Il diritto dell’Occidente - Geopolitica delle regole globali” (Einaudi, pagg 351, euro 19,50). Dimostrando che il diritto è sempre una chiave necessaria alla comprensione dei fenomeni, ma anche un’infrastruttura necessaria a qualsiasi disegno geopolitico. In grado anche di conquistare alla democrazia, nel lungo termine, società che ne sono estranee.
Bussani, perchè un libro "sul" diritto?
«Perché penso sia importante cercare di chiarire il ruolo che il diritto svolge nei fenomeni economico-sociali, a livello locale e globale, ogni giorno e dappertutto».
Il ruolo del diritto è sottovalutato?
«Il diritto viene trattato quale fonte di codicilli, oppure come esercizio letterario, al più appendice di qualche corrente filosofica. Ma il diritto ha sempre orientato governanti e governati nelle rispettive scelte».
Può esserci diritto senza Stato?
«Se diritto è l’insieme di regole attraverso le quali una comunità si organizza, si può parlare di diritto con riferimento alle regole prodotte da tutte le società umane, indipendentemente dalla loro architettura istituzionale».
In tempi di globalizzazione, esiste un diritto "globale"?
«C’è da tempo una domanda di uniformità giuridica che ha alimentato istanze come quelle rivolte alla creazione di Tribunali Penali Internazionali, alla protezione universale dei Diritti Umani, fino all’esportazione delle regole della democrazia. Quindi non si tratta di un fenomeno nuovo».
Diritto e finanza: sono mancate le regole?
«Nella crisi odierna il diritto ha giocato un ruolo fondamentale. Ma ciò è avvenuto sul piano dell’inadeguatezza delle regole e non per la loro mancanza. La comunità finanziaria si è data delle sue regole. Ma non tutti le hanno rispettate. Col risultato che le regole implodono, non vi è un giudice imparziale a sanzionare chi mal si comporta e la comunità finanziaria, insieme alle economie che da essa dipendono, sono forzate verso l’incertezza, l’imprevedibilità e il collasso».
Come se ne esce?
«È bizzarro che si sia permesso ai mercati finanziari di autogovernarsi. Occorre una regolazione effettivamente globale, capace di adattarsi alle future innovazioni finanziarie, e dotata di strumenti sanzionatori reali. Non basta espellere chi ha già fatto danni».
Che cos'ha in più la civiltà giuridica occidentale?
«Molte aree del mondo hanno finito coll’adottare, più o meno spontaneamente, regole legislative di marca euro-americana, per governare questo o quello spicchio delle loro società. Ma ogni tradizione giuridica s’irrora degli stimoli del tempo, filtrati dagli orientamenti delle diverse comunità. Non esiste, insomma, un modello ideale di sviluppo giuridico».
Esiste un'Europa del diritto?
«Se il paragone è con l’impiego che gli Usa fanno del loro diritto come strumento di politica estera, di valorizzazione della propria civiltà e di protezione dei propri interessi, la risposta è negativa. Ma dobbiamo lavorare per la formazione di una classe dirigente all’altezza delle sfide poste all’Europa, e al suo diritto, dalle evoluzioni del tempo».
La dichiarazione Onu del '48 come ha cambiato i diritti degli Stati?
«Quella Carta e i movimenti per l’affermazione dei diritti umani hanno saputo creare un’attitudine culturale, sociale, emozionale, che si è diffusa e che ha dato e dà quotidiano sostegno a innumerevoli ”ultimi”, vittime di ogni sopruso. Questo è potuto avvenire anche grazie alla capacità propulsiva dimostrata dal discorso politico, accademico e mediatico, che nel tempo ha edificato il piedistallo su cui i diritti umani poggiano. È un discorso che ha potuto produrre icone, parole d’ordine, luoghi comuni, ma anche retoriche avvincenti, rese possibili dal dominio che l’Occidente ha esercitato, soprattutto negli ultimi decenni, sui paradigmi a disposizione dell’opinione pubblica mondiale».
In passato. E oggi?
«Oggi c’è in effetti da chiedersi se il vento della storia spiri ancora alle nostre spalle o se lo faccia con lo stesso impeto del passato. Se così non fosse – e alcune avvisaglie, demografiche, economiche e politiche, offrono una misura di questa eventualità – occorrerebbe interrogarsi seriamente anche su quale destino possa garantirsi il nostro modo di pensare i diritti umani nei nuovi equilibri: quelli che la concorrenza fra modelli giuridici, economici e politici sta determinando, per noi e per le generazioni a venire».
Può esserci diritto senza democrazia, e democrazia senza diritto?
«Il diritto certamente esiste in ogni luogo e da sempre. Ovunque la democrazia abbia prevalso si è invece trattato di una vittoria faticosa e costosa. Ma di sicuro è una vittoria che non si sarebbe potuta raggiungere se il diritto non si fosse liberato dalle pressioni della religione e dell’ideologia, se il diritto non avesse posto a disposizione di governanti e governati le sue nozioni di proprietà, libertà, responsabilità, imparzialità, e con esse i suoi rimedi, i suoi professionisti».
Dunque ci salverà il diritto?
«Forse. Di certo - conclude il giurista triestino - è solo dove si sono realizzate queste condizioni che la democrazia si è affermata. Condizioni che assumono oggi il ruolo di demarcatori, e fra i più nitidi, di cosa sia l’Occidente rispetto a ciò che non lo è. Di dove la democrazia possa farsi strada in tempi ragionevoli e di dove quella strada rischi di rivelarsi cieca, o assai più lunga».

mercoledì 23 giugno 2010

GIORGIO GASLINI
MILANO Se gli ricordi ”quel” concerto, un lampo sembra attraversargli gli occhi. La memoria è lucidissima. Giorgio Gaslini torna indietro di trentasei anni, a quel 4 settembre del 1974, parco del manicomio triestino di San Giovanni...
«Un giorno di quell’estate - ricorda il musicista milanese, che ha girato la boa degli ottant’anni nell’ottobre scorso - mi telefona Franco Basaglia e mi dice: ho aperto i cancelli, qui ha già suonato Ornette Coleman, vieni anche tu a fare un concerto. Gli dissi solo: arrivo. Chiamai i musicisti del mio quartetto di allora e partimmo».
Conosceva Basaglia?
«Non personalmente. Seguivo il suo lavoro, lo stimavo, ma fino a quel giorno non ci eravamo mai incontrati di persona. Quello fu il primo incontro. Per me era un mondo tutto da scoprire».
Cosa la colpì?
«Ricordo l’arrivo a Trieste, il parco splendido, i viottoli fra gli alberi, un fiume di gente, giovani e malati assieme, non si capiva quali erano i ”matti”, quali i medici, quali gli appassionati di musica richiamati dal concerto. Capii che eravamo all’interno di una grande rivoluzione civile».
Il concerto?
«Allora suonavo con Bruno Tommaso al contrabbasso, Gianni Bedori (poi noto come Johnny Sax) al sassofono, il friulano Andrea Centazzo alla batteria. Il palco era poco più di una pedana, al centro di un campo sportivo. Eravamo circordati dalla gente anche sul palco. Ricordo una giovane che mi prese amorevolmente il braccio proprio mentre suonavo. Un altro sosteneva che io l’avevo fregato tempo prima perchè aveva dovuto pagare quattromila lire per assistere a un mio concerto. Fu una delle esperienze che più mi hanno segnato in tanti anni di carriera».
In quegli anni lei scrisse ”Musica totale”.
«Mi fu chiesto da Inge Feltrinelli. Lo scrissi in venti giorni, attingendo alla mia esperienza diretta. Che è poi la storia della mia vita...».
Ci aiuti a ricordarla.
«Cominciai a suonare il pianoforte classico a sei anni. Poi la guerra portò la mia famiglia a sfollare in Brianza, dove un’orchestrina locale mi fece conoscere il primo jazz, le musiche di Glenn Miller».
L’Africa?
«Mio padre era un celebre africanista, la nostra casa era piena di strumenti strani ma anche di dischi di Josephine Baker portati da Parigi. Fu lui che mi spinse verso l’improvvisazione. E poi non va dimenticato il ruolo di una balia emiliana che mi cantava le canzoni di lotta e di lavoro della sua terra».
Vuol dire che la sua ”musica totale”...
«Sì, la ”musica totale” nacque mettendo assieme classica e jazz, suoni africani e canti popolari. Me ne resi conto solo anni dopo, quando quei fili si erano già collegati nel mio modo di suonare».
La Milano del dopoguerra?
«Vitalissima. Tutto sembrava possibile, nonostante le difficoltà. Io sapevo solo che volevo suonare. Il primo lavoro lo trovai in un cinema di Porta Vittoria, vicino casa mia: allora fra un tempo e l’altro del film c’era un musicista che suonava dal vivo. Poi mi chiamarono alla radio, la vecchia Eiar, e poi ancora l’Orchestra nazionale italiana».
La pausa di studio?
«Alla fine degli anni Cinquanta decisi di iscrivermi al Conservatorio, corso di composizione. Mi rendevo conto che c’era una fase accademica da percorrere, per poter dirigere e scrivere musica. Ma già sapevo che sarei presto tornato al jazz, alla mia natura, al rapporto diretto con il pubblico».
Il cinema?
«Era il ’61. Tramite Nicola Arigliano avevo conosciuto Mastroianni, che fece ascoltare delle mie musiche a Michelangelo Antonioni. Il maestro stava girando ”La notte” a Milano. Ricordo che una sera mi chiamò, voleva sentire altre cose mie. Per farla breve fui ingaggiato anche come attore, per suonare dal vivo le musiche del film. Vincemmo il Nastro d’argento, ma io lo seppi dalla tivù. E poi scrissi le musiche per una quarantina di film».
La sua prima volta in America?
«In quegli stessi anni, invitato da John Lewis del Modern Jazz Quartet. Mi rendevo conto di essere nella patria del jazz, che è musica neroamericana, nata per cantare la condizione dei neri d’America. Ebbi il privilegio di assistere alla nascita delle ultime idee-forza del jazz americano: il free jazz di Ornette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane, artisti che seppero liberare il jazz da pastoie e formalismi. Erano gli anni della fantasia e della creatività al potere».
E arriviamo all’elemento dell’impegno.
«Che nel jazz è sempre stato fondamentale. Io ho sempre avuto a cuore l’impegno civile, l’idea di giustizia sociale. Negli anni Sessanta e Settanta avevo un rapporto stretto con il Movimento studentesco. Tenni molti concerti nelle fabbriche occupate. Era il mio modo di testimoniare una scelta di campo».
L’Italia di oggi?
«È ovvio che mi piace poco. Ma sono troppo concentrato sulla serietà del mio lavoro quotidiano, che è quel che conta. Assieme alla solidarietà fra liberi pensatori e artisti: una sorta di ”nostra” Italia dentro l’Italia vera, in attesa che prenda piede questo nuovo umanesimo che sta nascendo».
Dove lo coglie?
«Nei giovani. Almeno in quelli che non portano il cervello all’ammasso. Oggi i giovani non fanno più notizia, ma è solo questione di tempo. La storia riparte sempre, e lo fa con le nuove generazioni».
Oggi Milano la premia con l’Ambrogino d’oro.
«Non posso nascondere che si tratta di una grande soddisfazione, perchè arriva dalla mia città.
Sarà una premiazione singola, ho invitato i miei amici ”liberi pensatori e artisti”. Nella motivazione si ricorda che ho portato la musica italiana e l’immagine di Milano in tutto il mondo: è vero, in tutti questi anni ho tenuto concerti in oltre sessanta paesi. E di ognuno ricordo qualcosa...».

martedì 15 giugno 2010

PIERO SIDOTI
UDINE Giorgio Gaber non l’ha conosciuto personalmente. Ma i suoi spettacoli, i suoi dischi, Piero Sidoti li conosce tutti. Con il teatro canzone dell’artista di origine triestina, il quarantaduenne cantautore udinese si è cresciuto. Ed è chiaro che quando gli hanno comunicato di aver vinto il Premio Gaber, per lui la soddisfazione è stata doppia.
Per lui, finalista a Castrocaro nel lontano ’93, forse questa è davvero la volta buona. Dopo anni di prodotti artigianali e spettacoli teatral-musicali, spesso con l’amico attore Giuseppe Battiston, in questi giorni ha messo a segno due colpi. Il primo: la pubblicazione del suo primo album distribuito a livello nazionale, intitolato ”Genteinattesa” (edizioni Fuorivia) e registrato in parte negli studi bolognesi di Lucio Dalla. Il secondo: questo Premio Gaber, che il 23 e 24 luglio gli verrà consegnato al Festival Gaber di Viareggio assieme alla cantautrice fiorentina Susanna Parigi.
«Beh, è chiaro - ammette Sidoti - che sono molto contento. Avevo mandato alle selezioni del premio alcuni estratti del mio spettacolo ”Particelle”, scritto con Giuseppe Battiston. La storia di un giovane precario, giovane anche se ormai ha trentasei anni, che manda in giro il suo ottimo curriculum ma poi si deve adattare a fare lavoretti saltuari e malpagati. La storia di tanti, che si consumano fra aspirazioni che invecchiano e lavoro che non si trova».
Lei fa l’insegnante. Per la scuola sono momenti bui.
"Insegno matematica e scienze alle scuole medie di Lestizza e Talmassons. Non mi lamento. Ma un Paese che non investe sulla cultura e l’istruzione non ha futuro».
Un cantautore che insegna matematica...
«Lo so, sono un’eccezione. Ma non c’è contraddizione. La matematica, ad alti livelli, parte da dati certi per esplorare mondi incerti. Dunque ha delle analogie con la musica, con la creatività».
La sua creatività dove nasce?
«Sono cresciuto con le canzoni di De Andrè, di Conte, di Gaber, dei grandi cantautori. E il disco risente di quello che ho ascoltato e amato. Le mie canzoni sono una galleria di ritratti: metto in scena i personaggi che interpreto. Ma mi considero un cantautore, non un attore. Anche per non infastidire la gente di teatro, che si prende molto sul serio...».
Lei ha fatto una particina al cinema.
«Sì, in ”Agata e la tempesta”, il film di Silvio Soldini del 2004, cantavo ”Granada” in un bowling. Un piccolissimo ruolo, ottenuto tramite il mio amico Battiston, che era fra i protagonisti».
Ma nel 2004 lei ha avuto altre soddisfazioni...
«Se si riferisce al Premio Recanati, sì, è stata la prima grande soddisfazione della mia carriera. Quella che mi ha fatto capire che dovevo andare avanti, nonostante le difficoltà. Ma nel 2004 ho vinto anche <IP0>il “Premio l’artista che non c’era” e il Premio De André come “miglior poesia in musica” e “miglior cantautore”. Sì, è stato un anno fortunato».
A Recanati ha conosciuto anche Lucio Dalla.
«Sì, mi ha incoraggiato e aiutato molto, in questi anni. Dandomi dei consigli e ospitandomi nel suo studio bolognese per la registrazione di alcune canzoni del disco. È un grande artista».
Dalia Gaberscik che le ha detto?
«Mi ha detto che sono stato scelto da Sandro Luporini (amico e coautore degli spettacoli di Gaber - ndr). L’ho interpretato come un complimento. Con lei è stato un bell’incontro. Mi viene da trattarla come un’amica, essendo lei figlia di suo padre. Perchè io, Gaber, pur non avendolo conosciuto, lo considero un mio grande amico...».
I suoi studenti hanno scoperto che fa il cantautore?
«Sono ragazzi molto giovani. Comunque sì, qualcuno è anche venuto a vedermi cantare ed era contento, a vedermi muovermi sul palco. Anzi, a fare il cretino, come dico io. Ma in fondo il cretino lo faccio anche in classe, per catturare la loro attenzione e comunicare con loro».
Quando viene a presentare il disco a Trieste?
«Spero presto. Magari al Teatro Miela, quando il mio amico Sandro Mizzi mi organizza qualcosa...».
BOCCA DI ROSA
Ma ”Bocca di rosa” era genovese o triestina? Il dubbio rimane, anche dopo la morte di Liliana Tassio, detta Lilli, scomparsa ieri a ottantotto anni dopo una vita piuttosto difficile, indicata da alcuni come l’ispiratrice della storica canzone di Fabrizio De Andrè, uscita nel lontano ’67.
Secondo i giornali genovesi la donna, tanti anni fa, avrebbe offerto lo spunto al grande cantautore per quello che poi sarebbe diventato un classico del suo ricco repertorio. L’aveva rivelato tempo fa, prima di morire, suo figlio Gianni, già proprietario di un negozio-museo di musica dedicato a Faber, proprio in via del Campo.
Ma Dori Ghezzi e Paolo Villaggio, giusto per fare due nomi, non ne sono affatto certi. Dice l’attore, che con Fabrizio aveva condiviso gli anni della giovinezza, scrivendo con lui ”Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”: «Non ho mai conosciuto la Tassio, ma sono moltissime le persone che mitizzano il proprio passato. E questa sarà un'altra leggenda. Forse Bocca di rosa non esisteva nemmeno». La vedova è sulla stessa linea: «Neppure la conobbe. Fabrizio mi ha detto che non era genovese ma una fan che gli aveva raccontato la sua vita. Mi sembra che venisse da Trieste».
Storia che era già venuta fuori altre volte, fra libri e interviste. Che a volte facevano confusione fra due canzoni di De Andrè: ”Bocca di rosa” e ”Via del campo”, entrambe comprese nell’album ”Volume I”, del ’67, ed entrambe dedicate a prostitute.
«Quello di ”Bocca di rosa” è un fatto vero - aveva affermato il cantautore in un’intervista del ’96 -, un episodio che è accaduto a me personalmente nel ’62 a Genova. Il paesino di Sant'Ilario citato nella canzone è in realtà la stazione di Nervi. Fu lì che sbarcò la mia Bocca di rosa. E proprio come nella canzone, lei lo faceva per piacere e per passione, non per denaro...».
Già. Ricordate? «La chiamavano Bocca di rosa, metteva l'amore metteva l'amore, la chiamavano Bocca di rosa, metteva l'amore sopra ogni cosa. Appena scese alla stazione del paesino di Sant'Ilario, tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario. C'è chi l'amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa nè l'uno nè l'altro: lei lo faceva per passione...».
Fabrizio De Andrè se n’è andato l’11 gennaio del ’99. Era nato a Genova nel febbraio del ’40, dunque oggi avrebbe settant’anni. Si è portato via con sè il suo piccolo segreto su ”Bocca di rosa”. E in fondo, che fosse genovese, triestina o figlia della sua fantasia, non ha poi molta importanza.

lunedì 14 giugno 2010

ELISA / CLANNAD
E poi dicono che il 17 porta sfortuna. Balle, sciocchezze, credenze superstiziose di gente retrograda. Il numero in questione porta invece bene, è foriero di abbondanza e varietà. Al massimo, a voler cercare sempre il pelo nell’uovo, può indurre in qualche imbarazzo.
Prendete i triestini che amano la musica. Sabato 17 luglio non sapranno come fare, davanti a un dubbio quasi amletico. Tutti in piazza Unità a celebrare il ritorno a Trieste della ”nostra” Elisa, oppure al Rossetti a godersi il concerto degli irlandesi Clannad? Meglio la popstar monfalconese ormai entrata (unica del Friuli Venezia Giulia) nell’olimpo dei grandi, oppure il gruppo folk che festeggia quarant’anni di carriera? Fossimo a Roma o a Milano, o in qualche capitale europea, la questione e il dubbio non farebbero notizia. Ma qui la coincidenza merita un supplemento di riflessione, dopo quanto già affermato in occasione della cancellazione dello spettacolo di Fiorello, previsto per venerdì 18 giugno allo Stadio Rocco.
Abbiamo scritto - e confermiamo - che Trieste, d’estate, rispetto alle altre città regionali, gioca la parte della cenerentola. I calendari degli spettacoli in programma a Udine e Pordenone, a Grado e Tarvisio, a Villa Manin e Lignano, lo dimostrano. Non li riproponiamo perchè la lista occuperebbe tutto lo spazio a disposizione.
Non vale nemmeno l’alibi dei privati che rischiano dove vogliono e degli enti pubblici che non organizzano in prima persona. L’agenzia Azalea (che lavora bene e ha quasi il monopolio sui concerti regionali), negli ultimi quindici anni, col cambiare di maggioranze e assessori, è stata prima chiamata, poi messa alla porta e poi richiamata dall’amministrazione comunale triestina. E gli enti pubblici (a partire dal Comune di Udine, con UdinEstate) partecipano a vario titolo a tutti i concerti e le rassegne che si svolgono nei centri citati.
Dunque teniamoci quel che abbiamo, ma non tentiamo di far credere alla gente - che non è fessa - che viviamo nel migliore dei mondi possibili. A Trieste, da oggi fino al 16 luglio, spettacoli quasi zero (tranne qualche volonterosa iniziativa minore). Il 17 luglio Elisa e Clannad. Dal 18 luglio all’8 agosto, per gli amanti del genere afroamericano, la quarta edizione di Trieste Loves Jazz (e per i rockettari Steve Hackett e qualche altro vecchio leone al Trieste Summer Rock Festival). Il 13 agosto i Morcheeba. E basta, a meno di aggiunte dell’ultimo minuto.
Estate piuttosto grama, dunque. Tranne sabato 17 luglio. Quando la possibilità di scegliere fra due grandi nomi ci farà illudere di vivere in una capitale della musica. Per una sera.

domenica 13 giugno 2010

LIBRO SHEL SHAPIRO
Forse la rivoluzione degli anni Sessanta cominciò dai colori. Sentite cosa scrive Shel Shapiro, leader dei mitici Rokes, il gruppo (anzi, il complesso...) più popolare del beat italiano. «Giunti alla stazione di Milano, ricordo che la prima sensazione fu quella di un mondo regredito al bianco e nero, con certe inquietanti tonalità di grigio. Rispetto alla Swinging London technicolorata che ci lasciavamo alle spalle, il salto era sconvolgente...».
Così Shel ricorda il suo arrivo in Italia, nel maggio ’63, assieme a quelli che di lì a poco sarebbero diventati i Rokes, nel libro ”Io sono immortale” (Mondadori, pagg. 227, euro 18), sottotitolo ”L’avventura di un ragazzo e di una generazione innamorati della musica e della libertà”.
Londinese, classe ’43, David Norman Shapiro (Shel derivava dal primo gruppo, Shel Carson Combo) racconta con ironia e sincerità la storia della sua vita e della sua carriera artistica: successo e momenti bui, gioie e dolori, alti e bassi.
Si parte dall’adolescenza inglese, famiglia di ebrei russi emigrati, persino una tata italiana «e più precisamente di Udine, che si chiamava Ninfa, ed era sposata con un certo Stefan, un prigioniero di guerra slavo». La passione per la musica, la prima chitarra portata dal padre dall’Ungheria, gli albori del rock’n’roll, i primi tour in Inghilterra e in Germania, nella stessa Amburgo che pochi mesi prima aveva svezzato i Beatles. «Ci siamo sfiorati - scrive - ma siamo rimasti ignari delle nostre reciproche presenze. Loro proiettati verso l’America, la conquista del pianeta. Noi destinati a un altro futuro, a un’altra America: l’Italia».
Dove i quattro arrivano per accompagnare un certo cantante Colin Hicks. Erano già diventati The Cabin Boys, i loro capelli lunghi provocavano tamponamenti a catena in piazza Duomo fra automobilisti curiosi che si voltavano a guardarli, la loro occasione stava per presentarsi sotto forma di una laringite che un giorno, a Torino, mette fuori combattimento il cantante solista. «Adesso tocca a voi». Sotto con il repertorio di blues e rock’nroll. Comincia l’avventura.
Teddy Reno li scrittura per accompagnare Rita Pavone («trentaseimila lire a sera, novemila a testa...»). Nascono The Rokes. La prima canzone è ”Un’anima pura”, classico di Don Marino Barreto jr del 1940, da Shel scomposta e ricomposta con effetti sconvolgenti sui giovanissimi italiani. Il 17 febbraio del ’65 apre il Piper. C’è tutta la Roma che conta. I Rokes sono le stelle della serata. Fellini e Giulietta Masina chiedono loro un autografo («E io non sapevo chi fossero loro...»). Successo, soldi, amori, sbronze.
Nel ’65 esce ”C’è una strana espressione nei tuoi occhi”, ma il botto, quello vero, arriva l’anno dopo, con un singolo che ha su un lato ”Che colpa abbiamo noi” e sull’altro ”Piangi con me”. Sono anni in cui i 45 giri vanno via come il pane. Nel ’66 esce anche ”E la pioggia che va”, testo di Mogol, da un’intuizione dei Rokes: «Sotto una montagna di paure e di ambizioni c’è nascosto qualche cosa che non muore...». È rimasta un classico, il loro brano più importante. Scrive oggi Shel: «La gente dava retta alle nostre canzoni, diceva di trovare nelle nostre parole il libretto d’istruzioni per smontare e rimontare il mondo».
Nel ’67, anno del suicidio di Tenco, vanno a Sanremo con Lucio Dalla e con ”Bisogna saper perdere”. Arriva il ’68, i quattro tornano a Sanremo con una canzone che parla di alienazione e della vita di un operaio (”Le opere di Bartolomeo”, eliminata la prima sera). Ma il mondo ormai sta cambiando. Appunto.
Shel chiude i Rokes nel ’70, stesso anno in cui si sciolgono i Beatles. Poi il nostro fa il produttore, anche di successo (Mina, Patty Pravo, Cocciante...). Fa dischi solisti, spettacoli teatrali (come il recente ”Sarà una bella società”, con il compianto Edmondo Berselli). Rifiuta il bieco revival. Gli rimane la voglia di comunicare con i giovani.
La parte più interessante del libro è quella dedicata agli anni magici coi Rokes: il ritratto di un’Italia che stava cambiando, sulla scia di quel che avveniva nel resto del mondo. Stagione irripetibile, di cui Shel e i Rokes sono stati protagonisti.

venerdì 4 giugno 2010

SABINA GUZZANTI / FILMAKERS
Sabina Guzzanti incontrerà il pubblico triestino domani alle 21.30, al Cinema Ariston, fra una proiezione e l’altra del suo ”Draquila”, nell’ambito di ”FilMakers”. Ma l’attrice e regista romana rischia di essere anche l’ultima stella della rassegna nata undici anni fa da un’idea di Mario de Luyk e che ha portato all’Excelsior (finchè non l’hanno chiuso), al Cinecity delle Torri e all’Ariston molti grandi nomi del cinema italiano: da Carlo Verdone a Marco Bellocchio, da Sergio Castellitto a Pupi Avati, da Giuseppe Tornatore a Paolo Virzì, da Silvio Orlando a tanti altri attori e registi.
Il motivo lo spiega lo stesso de Luyk, presidente della sezione triestina dell’Agis: «FilMakers rischia di chiudere, e questo con la Guzzanti rischia di essere l’ultimo incontro della rassegna, perchè ci è appena stato comunicato dall’assessorato alla cultura della Regione che il contributo annuo di diecimila euro dall’anno prossimo non ci sarà più erogato. Sono tempi di crisi economica e di tagli alle spese pubbliche, lo sappiamo, come sappiamo anche che non saremo i soli a vederci annullare (o ridurre, per i più fortunati...) il contributo. Ma senza quei soldi noi chiudiamo bottega. Peccato, perchè in questi anni FilMakers è stato un ponte fra Trieste e i protagonisti del cinema italiano».
I tempi di crisi e le coloriture politiche delle varie amministrazioni rendono peraltro difficile reperire nuovi fondi. Ancora de Luyk: «Al Comune, anni fa, ce l’hanno detto chiaro e tondo: la vostra rassegna non ci interessa, perchè chiamate solo ospiti di sinistra. Quindi zero euro. La Provincia ha poche possibilità e ce ne dà mille, di euro, che forse saranno ulteriormente ridotti. Noi cercheremo degli sponsor, ma è chiaro che in questa situazione siamo più vicini alla chiusura che alla sopravvivenza...».
Fin qui i problemi di FilMakers. Per quanto riguarda Sabina Guzzanti, con ”Draquila - L’Italia che trema” dicono abbia abbracciato il giornalismo d’inchiesta alla Michael Moore. Di certo ha realizzato un ottimo film-documentario che denuncia i retroscena e gli scandali della ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila dell’aprile 2009. La sua presenza a Cannes è stata anche il motivo dell’assenza del ministro Bondi (che peraltro pare nessuno avesse invitato...) alla kermesse cinematografica francese. Le polemiche scatenate dal centrodestra in quell’occasione hanno per la verità ottenuto l’effetto opposto, attirando l’attenzione dei media stranieri sul film.
Che a questo punto è diventato un caso internazionale, tanto da essere presentato poche sere fa al Parlamento Europeo di Bruxelles. «L'idea - ha detto in quell’occasione Sabina Guzzanti - è quella di raccontare l'Italia attraverso la vicenda del terremoto aquilano in cui ci sono un po’ tutti gli ingredienti della crisi italiana. C'è l'elemento della corruzione, quello del controllo dell'informazione e quindi dell'opinione pubblica e l'elemento della protezione civile, sorta di esercito con pieni poteri nelle mani dirette del premier. Elementi che ci portano a una domanda: perchè votate e continuate a votare Berlusconi?».
Ovviamente altre polemiche, stavolta sull’asse Roma-Bruxelles. E una nuova replica della regista: «Le polemiche ci confermano che in Italia c'e una sostanziale mancanza di diritto di critica, per cui chi la pensa diversamente viene trattato come un bugiardo, uno che mente, ma senza spiegare perchè. Se le nostre critiche fossero infondate, avrebbero replicato nel merito, invece dicono solo che mento, che il film mente, ma non affrontano le questioni che sollevo. E dire che se solo il 10% delle cose che sottolineo fossero false, avrebbero già parecchi argomenti per replicare nel merito, invece non lo fanno...».
Prima di arrivare domani sera a Trieste, Sabina Guzzanti sarà stasera alle 20 al Cinema Sociale di Gemona, ospite della Cineteca del Friuli, nel luogo simbolo del terremoto del Friuli del ’76.

giovedì 3 giugno 2010

ANNULLATO FIORELLO
È stato annullato lo spettacolo di Fiorello annunciato per venerdì 18 giugno allo Stadio Rocco. Doveva aprire la stagione di SerEstate. E assieme al concerto di Elisa - per ora confermato il 17 luglio in piazza Unità - rappresentava una delle due punte di diamante della rassegna organizzata dal Comune con Azalea Promotion. Che ora si trincera dietro non meglio precisati ”problemi organizzativi”.
Scavando un po’, si scopre che il popolare showman avrebbe scoperto all’ultimo minuto di avere in quei giorni una convention per uno dei suoi ricchi sponsor in Sudafrica, in occasione dei Mondiali di calcio. E ha dunque cancellato l’appuntamento triestino, per il quale 1300 persone avevano già acquistato il costoso biglietto. Che ora sarà valido per il suo spettacolo del 12 giugno a Piazzola del Brenta, in provincia di Padova, oppure verrà rimborsato (vedi www.azalea.it).
Chissà, forse i dati della prevendita sono stati considerati bassi, in confronto ai 6500 spettatori attirati dalla precedente performance, sempre allo Stadio Rocco, nell’estate 2006. O forse, più semplicemente, quando lo sponsor chiama Rosariuzzo risponde...
Non vogliamo entrare nelle dinamiche che governano il mondo dello spettacolo. Quello che ci interessa sottolineare è che Trieste, d’estate, checchè se ne dica, continua a fare la parte della cenerentola. Con tutto il rispetto per il concerto di Elisa, per le rassegne Trieste Rock Summer Festival e Trieste Loves Jazz, per gli artisti che verranno ingaggiati probabilmente all’ultimo minuto - e magari a prezzi di saldo - per rinforzare il cartellone di spettacoli da offrire a cittadini e turisti.
Come già scritto giorni fa, altri centri regionali - per forza di cose più piccoli di Trieste, maggior città della regione - si sono già attrezzati alla grande. Esempi? Quanti ne volete. A Udine Dalla e De Gregori, Paolo Nutini, Malika Ayane, Emma Marrone (sì, la vincitrice di ”Amici”); a Villa Manin Motorhead, Mika, Giovanni Allevi, Iron Maiden, Placebo; a Pordenone Antonello Venditti, J Ax, Heaven & Hell; ad Azzano Decimo Iggy Pop, White Lies e Baustelle; a Grado Patti Smith, Goran Bregovic, Stefano Bollani, Alessandra Amoroso, Pierdavide Carone; a Tarvisio Pat Metheny, Gotan Project, Kings of Convenience, Mario Biondi (ma questo, si dirà, a Trieste è appena venuto...); a Majano Alice Cooper e Litfiba; a Lignano Bob Sinclair; a Cervignano Elio e le storie tese...
Potremmo continuare, ma non vogliamo far venire il magone ai tanti appassionati di musica triestini, giovani e meno giovani, che ogni anno devono partire per vedere qualche concerto degno di questo nome. A Trieste, in questo come in tanti altri campi, grandi annunci in pompa magna (magari nei salotti azzurri) e poi poca ciccia.
Nell’estate ’99, per il concerto che Elton John doveva tenere in piazza Unità il 5 luglio, era stato approntato persino un annullo filatelico. Poi Sir Elton non venne. Trieste se ne fece una ragione, ma col passar degli anni comincia a essere un po’ stufa dell’accoppiata ”grandi annunci-annullamenti per problemi organizzativi”...

mercoledì 2 giugno 2010

IRENE GRANDI
TRIESTE Poca gente ma molto calda, ieri sera al Rossetti, per il concerto di Irene Grandi. L’irriverente ragazzaccia rock ha da tempo lasciato il posto a un’artista matura e a tratti sofisticata. Forse migliore di quella che il pubblico ha cominciato a conoscere e apprezzare verso la metà degli anni Novanta. Ma le dinamiche del successo sono di difficile lettura e comprensione.
E ad applaudire e acclamare la cantante fiorentina sono soprattutto i fan, quelli già convinti ed entusiasti: ieri a Trieste, l’altra sera a Padova, proprio come nelle altre tappe di questo tour, intitolato alla stessa maniera dell’ultimo disco: ”Alle porte del sogno”.
È il sogno è quello che un tempo si chiamava ”il filo rosso” che tiene assieme lo spettacolo, fra canzoni di ieri e di oggi, ma anche con citazioni che vorrebbero essere colte e profonde, rimandate dalle immagini ipertecnologiche degli schermi.
Irene, che nel corso della serata si cambia d’abito quattro o cinque volte, attacca con una versione straniata e quasi ipnotica de ”La cometa di Halley”, la bella canzone che Francesco Bianconi dei Baustelle le ha scritto per l’ultimo Sanremo.
Arrivano altri brani dal nuovo album: ”Tutti più felici”, la stessa ”Alle porte del sogno”, ”Mi manca”... A guardarla sul palco, a sentirla cantare, vien da pensare che la maturità - quella artistica - arriva davvero a quarant’anni, boa anagrafica che la signora ha doppiato giusto nel dicembre scorso. Prima, stava ”in vacanza da una vita”, come le diceva sempre la mamma, con un’espressione poi usata in una delle sue prime canzoni di successo nonchè come titolo del suo secondo album.
Era infatti il ’95, e Irene era reduce dal debutto, l’anno precedente, a Sanremo Giovani. Con il Festivalone, poi, la sua carriera si è incrociata per tre volte in tre lustri: nel 2000, seconda classificata con ”La tua ragazza sempre”, scritta per lei da Vasco Rossi; nel 2007, scartata dalla commissione giudicatrice con ”Bruci la città”, anche quella scritta dal leader dei Baustelle, che nonostante la clamorosa bocciatura divenne uno dei maggiori successi di quell’anno; da ultimo pochi mesi fa, con la citata ”Cometa di Halley” che, per qualità del brano ed efficacia dell’interpretazione, meritava nettamente la vittoria. Ma si sa, a Sanremo le cose da sempre vanno così.
A cinque anni di distanza dal precedente disco di inediti ”Indelebile” - ma nel frattempo sono usciti la doppia raccolta di successi ”Irenegrandi.hits” e l’album natalizio ”Canzoni di Natale” -, l’ex ragazzaccia oggi sembra aver messo la testa a posto. Le nuove canzoni, scritte assieme a Gaetano Curreri degli Stadio e al citato Bianconi, vivono di una consapevolezza nuova, brillano di una solarità e quasi di un entusiasmo che in passato era difficile notare. Intendiamoci, l’irrequietezza e un certo positivo rimettersi sempre in discussione sono ancora la cifra stilistica dell’artista, ma il tutto sembra permeato da un senso di equilibrio che prima latitava.
E che ora si avverte quando, in un set acustico, va a rileggere brani dei suoi esordi come ”Dolcissimo amore” e ”Fuori”. Dopo ”Buon compleanno” (stava nell’album del 2003), arriva una delle perle della serata: ”Sono come tu mi vuoi”, classico di Mina del lontano 1966, che l’artista fiorentina ha riscoperto un paio d’anni fa, dandone una versione che non sfigura accanto all’originale.
C’è tempo per altre cose del passato (”Cose da grandi”, ”Terra”, ”Onde nere”...), ma quando arriva il turno di ”Prima di partire” l’artista matura e sofisticata non resiste, torna quella di un tempo, e si trasforma in acrobata, imbracata in funi che la fanno volare sul palcoscenico.
Come si diceva, il pubblico triestino è formato soprattutto da fan prodighi d’entusiasmo. Che sale alle stelle con ”La tua ragazza sempre”, ”Bruci la città”, ”Per fare l’amore”, ”Bum bum”... Siamo già in mezzo ai bis, e non ce ne siamo neanche accorti.
Ritorna anche ”Alle porte del sogno”. Quasi una sigla. E una dichiarazione di intenti. Sognare fa bene alla vita. E anche al rock, verrebbe da dire.