venerdì 23 dicembre 2005

Il 56.o Festival di Sanremo comincia a prender forma. Come ogni anno, a cavallo fra l’anno vecchio e quello nuovo, gli ingredienti della massima rassegna canora di casa nostra entrano nel pentolone di quello che ai primi di marzo sarà il minestrone festivaliero.
Ieri la commissione artistica - coordinata dal direttore artistico Gianmarco Mazzi e dal conduttore di quest’anno Giorgio Panariello - ha scelto fra le 484 domande di partecipazione nove dei dodici giovani. Ci sono un nome molto noto (Simone Cristicchi, quello del tormentone «Vorrei cantare come Biagio»), tre abbastanza noti fra gli addetti ai lavori (il siciliano Ivan Segreto, L’Aura - quella di «Radio star» - e il cantautore rock Riccardo Maffoni), cinque quasi sconosciuti (Ameba 4, Andrea Ori, Deasonika, Helena Hellwig, Virginio).
Non ce l’hanno dunque fatta due figlie d’arte che si erano proposte (Irene Fornaciari e Aisha Cerami, figlie rispettivamente di Zucchero e dello scrittore Vincenzo), ma anche altri nomi che erano dati per probabili, come Pago, altro protagonista di un altro tormentone estivo. La categoria giovani è comunque fatta. I nove nomi citati vanno infatti ad aggiungersi ai tre selezionati sempre dalla commissione artistica tra i finalisti di «SanremoLab Accademia della Canzone di Sanremo», e cioè Antonello, Antonio Tiziano Orecchio e Monia Russo.
Ma dei giovani alla gente non interessa molto. Anche se proprio fra loro ci sono spesso le cose più interessanti della rassegna. Al grande pubblico interessano soprattutto i sedicenti campioni o big che dir si vogliano.
Qui i nomi sicuri sono finora quelli di Gianluca Grignani, i Nomadi e l’accoppiata fra l’israeliana Noa e il milanese Carlo Fava. Dovrebbero essere della partita anche Renato Zero (che potrà dunque giocare sul palco dell’Ariston con il suo sosia Panariello...), Povia (ancora in classifica con «I bambini fanno ooh», presentata l’anno scorso fuori gara), Ron, Alex Britti, Mario Venuti, Dolcenera (rilanciata dal successo alla Music Farm»), Nicky Nicolai (stavolta senza il marito sassofonista Stefano Di battista), Anna Oxa, Loredana Bertè e Simona Bencini (per l’ex cantante dei Dirotta su Cuba c’è pronta una canzone scritta dalla nostra Elisa).
Nei giorni scorsi si era parlato anche di Patty Pravo e di Al Bano, in coppia nientemeno che con l’ex moglie Romina Power. L’ex ragazza del Piper ha smentito, l’uomo di Cellino San Marco ha smentito solo l’accoppiata, lasciando per il resto una porta aperta. Lista ufficiale, comunque, il 9 gennaio.
Nel frattempo, si parla anche di quattro clamorose ospitate: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Zucchero e Andrea Bocelli. Ovvero, quattro star italiane che sono partite da Sanremo. E che vi tornerebbero, con tutti gli onori, duettando con altrettante star straniere. Chi vivrà, vedrà...

martedì 13 dicembre 2005

Vecchia e sana abitudine: mettere un disco sotto l’albero. Quella che un tempo era una scelta riservata solo a giovani e giovanissimi, col passar degli anni è diventata una consuetudine buona per tutte le generazioni. Un po’ perchè ormai la frammentazione dei gusti musicali porta a una realtà in cui c’è un genere, un artista, un disco buono (quasi) per ogni destinatario del pacchetto natalizio con tanto di fiocco e bigliettino. C’è il cd per il bambino e quello per la nonna, per la ragazzina quasi adolescente e per il cinquantenne che ha visto tanto rock passare sotto i ponti, per i giovanissimi e per il trenta/quarantenne coi suoi gusti e i suoi ricordi. Ma c’è anche un altro motivo: il costo. Un prezzo che durante l’anno può sembrar alto per un cd, a Natale diventa quasi una soluzione economica...
E allora sotto con qualche proposta. <CF32>Madonna</CF>, con «Confessions on a dance floor» (Warner), dopo aver attraversato mezzo mondo delle sette note, è tornata alle origini e propone nuovamente musica buona anche per ballare. Dance elettronica che rimanda a un paio di decenni fa, ma con la maturità artistica e la lussuosa produzione del presente. «Hung up» è già un tormentone. In «Sorry», secondo singolo tratto dal disco, esprime il suo dispiacere in tante lingue, italiano compreso.
<CF32>Rod Stewart</CF> cambia mogli e fidanzate (giovanissime) che non si riesce a stargli dietro. Meglio rifarsi le orecchie con «Thanks for the memory... The great american songbook volume IV» (Sony Bmg), con cui il rocker scozzese chiude il lungo capitolo dedicato alla riscoperta dei classici della tradizione americana (da «My funny Valentine» a «Let’s fall in love»). Duetti prestigiosi: con Diana Ross, Elton John, Chaka Khan...
Rimpiangete l’atmosfera dei vecchi dischi dei <CF32>Dire Straits</CF>? Ecco «The best of Dire Straits & Mark Knopfler - Private Investigations» (Mercury Universal). C’è dentro il meglio del meglio, rigorosamente anni Ottanta: «Sultans of swing», «Love over gold», «Romeo & Juliet»...
Ventottesimo album in carriera per <CF32>Neil Young</CF>, che con «Prairie wind» (Reprise Warner) dimostra di aver vinto la sua battaglia per la vita, che a primavera gli aveva messo dinanzi un aneurisma al cervello. Un disco senza tempo, lontano da mode e business, che riporta a sogni e ideali della West Coast degli anni Sessanta/Settanta, filtrati attraverso la maturità e l’esperienza di un uomo di sessant’anni. Qualcuno ha detto che il disco completa la trilogia cominciata con «Harvest» nel ’72 e proseguita vent’anni dopo con «Harvest moon».
Altro amarcord. Venticinque anni dopo «Guilty» (dodici milioni di copie vendute), <CF32>Barbra Streisand e Barry Gibb</CF> tornano sul luogo del delitto con «Guilty Pleasures» (Sony Bmg). Gran musica leggera, pop di qualità, per due voci da leggenda. E «Stranger in a strange land» picchia duro contro la guerra in Iraq.
«Amarantine» (Warner) è il sesto album di <CF32>Enya</CF>, tornano la voce eterea e le melodie vellutate della cantante irlandese che ha trasformato la world music d’influenza celtica in un fenomeno da classifica.
Dopo Lee Ryan, anche un altro Blue debutta come solista. È <CF32>Simon Webbe</CF>, e il suo «Sanctuary» (Virgin Emi) propone ritmi urbani ed eleganza pop non solo per giovanissimi. Giovanissimi che amano molto i <CF32>Mattafix</CF>: «Signs of a struggle» (Virgin Emi) ha diversi brani che funzionano, oltre al tormentone «Big city life».
 C’è anche un inedito, «Cuanta pasiòn», nel nuovo doppio dal vivo di <CF32>Paolo Conte</CF> intitolato «Arena di Verona» (Warner). Registrato a luglio, ripropone classici come «Sparring partner», «Sotto le stelle del jazz», «Via con me», «Bartali»... C’è anche un dvd, com’è ormai abitudine per buona parte delle uscite discografiche, italiane e straniere.
Altro doppio, stavolta antologico, quello dei <CF32>Pooh</CF>: «La grande festa» (Warner) apre i festeggiamenti (tour, libro, dvd...) per i quarant’anni di carriera dell’intramontabile quartetto. Per l’occasione ripropongono mezza storia della musica italiana: da «Piccola Katy» a «Uomini soli», passando per tutte le altre.
S’intitola «Il dono» (Sony Bmg) ed è il nuovo album di <CF32>Renato Zero</CF>, già salito ai vertici delle classifiche di vendita. Dodici inediti, compresa una canzone dedicata a Papa Wojtyla («La vita è un dono») e un’altra che attacca l’America («Stai bene lì»). A 55 anni «el sor Fiacchini» è sempre uno spirito libero, che si permette tutto: la sua trasgressione, oggi, è essere un grande cantante melodico.
E siamo a <CF32>Mango</CF>, che ha appena pubblicato «Ti amo così» (Sony Bmg). Le sonorità etno-elettroniche sono quasi un marchio di fabbrica, per il cantante e autore di Lagonegro, che qui indulge sul lirismo poetico tanto amato dai suoi fan. «Il dicembre degli aranci» è un duetto con la moglie, Laura Valente, ex Matia Bazar. Chiusura napoletana con «I te vurria vasà» e «Mille male penziere», quasi un tributo al Sud del mondo tanto caro all’artista.
Chiusura con la <CF32>Pfm</CF>, ovvero la vecchia e cara Premiata Forneria Marconi, che a trenta e passa anni dagli esordi («Storia di un minuto», do you remember...?) se ne vien fuori nientemeno che con un’opera rock. S’intitola «Dracula» (Sony Bmg), è un kolossal firmato David Zard, che debutterà a marzo a Roma. Nel frattempo ci gustiamo l’ottimo pop-rock che Mussida e compagni gli hanno cucito addosso.
Trent’anni da «Born to run», il disco che ha imposto Springsteen all’attenzione del mondo. Facendolo entrare nell’olimpo dei grandissimi del rock di tutti i tempi. Un cofanetto celebra la ricorrenza. C’è dentro la riedizione adeguatamente rimasterizzata del capolavoro, completo di libretto fotografico. Ma ci sono anche due dvd: nel primo il leggendario concerto londinese all’Hammersmith Odeon, il 18 novembre 1975, che fece scoprire il Boss agli inglesi. Il secondo, «Wings for wheels: The making of Born to run», propone interviste e filmati d’archivio inediti. Documenti emozionanti, per tutti quelli - come noi - che amano il grande rocker di Freehold, New Jersey.
Altre emozioni. Due dvd e un libro per ripercorrere la grande avventura umana e intellettuale del Teatro Canzone di Giorgio Gaber. Quattro ore di filmati per fare di nuovo i conti con i monologhi e le canzoni che Gaber, vero combattente del pensiero, scrisse con Sandro Luporini. Oltre quaranta tra le sue canzoni più importanti, tra cui «Lo shampoo», «Far finta di essere sani», «Madonnina dei dolori», «Un'idea», «La libertà», «È sabato», «Gildo», «L'odore», «L'America»... Con quei versi che ti scavano dentro, soprattutto ora che lui non c’è più, ora che vive solo attraverso la dimensione visiva del suo teatro: l’espressività, la mimica facciale, l’uso del corpo come formidabile elemento di comunicazione...

sabato 3 dicembre 2005

«Ma cos’è questa crisi, para-para-pà-pà-pà-pà... ma cos’è questa crisi...». Vanno sempre bene, in qualsiasi epoca e forse per qualsiasi situazione, gli storici e immortali versi di Ettore Petrolini. Del resto, la crisi di chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese, da che mondo e mondo, non è mai entrata nel fiammeggiante foyer del Teatro Verdi la sera della prima.
Il gala inaugurale targato 2005 non fa dunque eccezione alla regola. Anche ieri sera, pochi minuti prima dell’inno di Mameli, l’anticamera della platea è il solito fiorire di pellicce, smoking, abiti lunghi, gioielli, acconciature fresche di parrucchiere, decollété d’ordinanza e sorrisi di circostanza. Col sindaco Dipiazza, strategicamente piazzato assieme al sovrintendente Zimolo in prossimità dell’ingresso ad accogliere ospiti più o meno importanti (c’è anche il sottosegretario Martusciello, che però nessuno conosce...), Dipiazza, dicevamo, dispensatore supremo di sorrisoni e grandi pacche sulle spalle: «come va? bene, nonostante voi...», dice per esempio a un paio di cronisti che lo salutano, prima di sbottare in una crassa e liberatoria risata.
Ma le tante e pesanti crisi economiche della città e del Paese, stavolta, s’incrociano con una crisi altrettanto grave che tocca da vicino il mondo della cultura e dello spettacolo. E quel grande striscione bianco, con la scritta rossa «Taglio Fus = chiusura!», affisso sopra l’ingresso del teatro, sta lì a ricordarlo. A ricordare che il giocattolo è sul punto di rompersi, che la dorata passerella non è garantita a vita, che le tante crisi che stringono in una morsa Trieste, l’Italia e il mondo dello spettacolo non sono in fondo poi tanto lontane. Nemmeno da questo foyer pavesato a festa.
Del resto anche essere qui, quasi come se nulla fosse, somiglia a un mezzo miracolo. Le rappresentanze sindacali del teatro hanno infatti deciso solo in extremis di revocare lo sciopero già indetto quale ulteriore forma di protesta contro i tagli apportati dalla Finanziaria al Fondo unico dello spettacolo. Senza quei soldi, oggi, in Italia, non c’è ente lirico in grado di sopravvivere. Quei soldi sono la principale voce di entrata di tutte le fondazioni lirico-sinfoniche. Senza, si chiudono baracca e burattini. E anche gli appuntamenti mondani devono trovare nuove occasioni.
Poi, si sa come vanno queste cose, la protesta è rientrata. Il sindaco, che come primo cittadino è anche presidente della fondazione lirica, si è impegnato a coprire coi fondi comunali, nella massima misura possibile, quella parte dei contributi statali che verrà a mancare per il 2006 (si parla di oltre due milioni di euro in meno). Dipiazza si è impegnato anche a sensibilizzare gli altri enti locali. Il presidente della Provincia Scoccimarro, anche lui ieri sera piuttosto allegro, non ha fatto mancare almeno il conforto della sua presenza. Lo stesso non si può dire del governatore Illy, assente dal gala per il secondo o forse terzo anno di fila.
Alle 20.37, con qualche minuto di ritardo sulla scaletta, tutti in piedi per l’inno di Mameli, che tradizionalmente apre le prime. Qualche mano sul petto, qualche verso sussurrato in punta di labbra. Poi, è solo «Turandot». Fuori del teatro, la<USnuogra> serata all’insegna della mondanità discreta si stempera pian piano nelle brume autunnali. E i tanti abeti illuminati che Dipiazza quest’anno ha voluto in piazza Unità ricordano che fra poco è Natale. Natale di crisi. Appunto.

mercoledì 23 novembre 2005

TRIESTE S’intitola «Luci a San Siro... di questa sera». È il nuovo tour di Roberto Vecchioni, che dopo la «data zero» della scorsa settimana a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, domani sera ha in programma un’altra anteprima nella nostra zona: al Casino Park di Nova Gorica, in Slovenia, con inizio alle 21. La tournèe debutterà invece ufficialmente lunedì 28 novembre a Verona, al Teatro Filarmonico. E farà tappa nel Friuli Venezia Giulia a febbraio: il 6 al Rossetti di Trieste, il 13 al Nuovo di Udine.
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Vecchioni, ma che fa: si è dato al jazz?
«È un progetto che avevo in testa da un po’ di tempo: fare le mie canzoni (i successi, gli episodi meno noti, alcune cose nuove...) nella maniera più essenziale possibile. Con due musicisti, Patrizio Fariselli <CF31>(ex Area - ndr)</CF> al piano e Paolino Della Porta al contrabbasso, che avessero tutta la libertà possibile e necessaria...».
Ne è venuto fuori uno spettacolo ma anche un disco.
«Sì, il tour è quello che sta partendo. Diversissimo da quelli passati. Il disco, intitolato ”Il contastorie”, è in realtà un cofanetto: cd più un libretto con cinque favole classiche ripensate per gli adulti».
Insomma, ormai mette i libri anche nei dischi...
«No, ho avuto la fortuna di vedere i miei libri pubblicati per Einaudi incontrare un certo interesse fra i lettori. Ma questo libretto è in realtà un’anteprima del libro vero che uscirà ad aprile. S’intitolerà ”Diario di un gatto con gli stivali” e sarà per l’appunto un libro di fiabe».
Fiabe alle quali lei cambia il finale...
«A volte sì. L’intento è rendere le cose più verosimili, togliere pesantezza agli stereotipi, evitare i finali del tipo ”vissero tutti felici e contenti”. Ecco allora che perfino il lupo di Cappuccetto rosso, alla fine, può diventare una vittima...».
Racconti.
«Non mi interessa lo stereotipo secondo cui il lupo dev’essere sempre e comunque cattivo. Fa parte delle menate che le fiabe raccontano per essere rassicuranti, proprio come lo sono i mass media. Ecco, in realtà io penso che le favole sono i mass media del Medioevo...».
Dunque le sue sono fiabe rilette per gli adulti...
«Sì, direi che la lettura è per persone vaccinate e piuttosto adulte. Provo a fare un altro esempio. Il brutto anatroccolo che rimane brutto, ed è felice così, al bambino non dice granchè. Lui vuole che il brutto anatroccolo diventi cigno. Invece noi sappiamo che il brutto anatroccolo può rimanere tale, ma esser felice lo stesso».
Interessante. Ma torniamo al jazz. Lei lo ascoltava da ragazzo?
«No. Io sono nato con la canzone e prim’ancora con la letteratura. Anche se la canzone d’autore italiana, a Genova, è nata col jazz...».
Luigi Tenco...
«Non solo lui. Anche Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, gli altri suonavano jazz, all’inizio. Il jazz è stato importantissimo nella rivoluzione della musica italiana di quarant’anni fa».
Lei però...
«L’ho seguito poco. Sono sempre stato più attratto dalla ballata, dai francesi, da Dylan. La svolta è avvenuta quando ho capito che le melodie possono trasformarsi, seguire il filo della voce, proprio come una recita durante il canto».
Una scelta di libertà.
«Sì, l’unico mezzo per arrivarci era il jazz. Dopo tanti anni ero stufo di dischi e concerti con arrangiamenti sempre uguali: le chitarre, i violini, le batterie... Molto meglio due strumenti essenziali, affidati a due grandi professionisti».
Insomma, dopo «Malindi» la sua piccola rivoluzione continua...
«Quel disco mi ha dato molti stimoli nuovi a livello di composizione, di creatività. Ma l’interpretazione era molto simile a quella dei tanti lavori precedenti. Diciamo che qui continua il lavoro di trasformazione e cambiamento».
Per capire, come dice lei, «la differenza fra silenzio e rumore»...
«Sì, bisogna cantare il meno possibile. Il canto dev’essere un parlato armonico, non bisogna sforzare le note, la voce. Le emozioni non vanno catturate, ma stimolate con la semplicità».
Nel disco si cimenta anche con Brel.
«Sì, ho rifatto ”Le moribond” trasformando la disperazione del capolavoro originale (già il titolo è tutto un programma...) in un inno alla vita, che infatti è diventato ”Stagioni nel sole”. Ho pensato a quest’uomo giovane che muore e che ha una figlia piccola. E allora la sua morte diventa uno sprone, un incentivo a vivere per tutti quelli che restano...».

martedì 22 novembre 2005

INTERVISTA CLAUDIO PASCOLI

TRIESTE Provate a dire «sassofono», nel mondo della musica leggera/pop/rock

italiana. Nove interlocutori su dieci, c’è da scommetterci, risponderanno

«Claudio Pascoli». Il musicista triestino, monfalconese di nascita (a

proposito, l’anagrafe della città dei cantieri ospita da sola più star dello

spettacolo che l’intera regione: Gino Paoli, Paolo Rossi, Elisa, lui...),

trapiantato prima a Milano e poi in Brianza ormai da oltre trent’anni, è

infatti il sassofonista più ricercato e più presente nei dischi, nei tour,

nei programmi tv più importanti degli ultimi venti/venticinque anni. «Se

penso a come tutto ciò è cominciato - dice Pascoli - mi sembra ancor oggi

tutto molto strano...».

Cominciamo dall’inizio?

«Sono nato nel ’47, a Monfalcone. Quando avevo tredici anni la mia famiglia

si trasferì a Trieste. Ho fatto il liceo scientifico, prima Oberdan e poi

Galilei. E mi sono iscritto senza troppa convinzione al primo anno di

medicina...».

Nel frattempo aveva scoperto la musica...

«Ho cominciato a suonare il sax nella banda di Monfalcone. Arrivato a

Trieste, nel ’61 sono passato a un’altra banda, quella del Ricreatorio

Brunner. All’epoca ogni ricreatorio aveva la sua banda, c’era un bel senso

della compagnia, e una sana rivalità fra le varie bande...».

Perchè il sax?

«Ero rimasto colpito dall’estetica dello strumento, oltre che dal suono.

Ricordo che nel ’59 rimasi affascinato da un servizio sul jazz su una

rivista, con splendide foto in bianco e nero di Gerry Mulligan, Stan Getz...

Che poi avrei scoperto alla radio, nei programmi che Sergio Portaleoni

conduceva a Radio Trieste. Ascoltavo gli assoli e li imparavo a memoria,

prima con la voce e poi con lo strumento».

Ma con la banda non suonava jazz...

«No, il repertorio si limitava alle solite Radetzky March con contorno di

canzoni triestine. Tranne il periodo dopo ogni Sanremo: imparavamo tutte le

canzoni e le suonavamo già una settimana dopo il Festival».

Ricorda il primo sax?

«Certo, lo comprai con una borsa di studio. Provavo ore e ore. Andavo a casa

di Portaleoni, che aveva una raccolta immensa, con un vecchio registratore a

bobine: registravo un sacco di roba, tornavo a casa e mi mettevo a studiare.

Poi c’era anche il Circolo triestino del jazz, all’epoca molto attivo».

Erano gli anni del beat...

«E dunque tempi nerissimi per il jazz. Tante chitarre, i primi strumenti

elettronici, tutta roba con cui non andavo d’accordo. Per fortuna alla fine

degli anni ’60 si è diffuso il rhythm’n’blues, la musica nera, con i fiati

in primo piano».

Lei aveva un gruppo?

«Suonavo con tanti complessi, come si chiamavano all’epoca. Poi, nel

’67/’68, con Toni Soranno e Fabio Ursich fondai i Combo. Una bella

formazione, facevamo il repertorio dell’epoca, lavoravamo nei migliori

locali della regione».

Il salto di qualità?

«Arrivò proprio nel momento critico. L’università non era la mia strada. E

cominciavo ad avere un’età in cui uno deve cominciare a capire cosa fare

nella vita. Fossi rimasto a Trieste, avrei dovuto trovarmi un lavoro

”normale” e suonare nel tempo libero...».

Invece...

«Invece, proprio nei giorni in cui avevo fatto un concorso al Lloyd

Triestino, mi chiama Euro Cristiani (batterista triestino che ha lavorato a

lungo con Umberto Tozzi, ndr). Era il ’72. Lui suonava a Torino con Patrick

Samson, quello di ”Soli si muore”. Ed era stato contattato per il tour di

Adriano Pappalardo, all’epoca primo in classifica con «È ancora giorno”...».

Insomma, gli serviva un sassofonista...

«No, magari... Gli serviva un trombonista, ma Euro mi spacciò per tale,

anche se io il trombone lo suonavo pochissimo. Comunque parto col mio sax.

All’inizio erano un po’ perplessi, poi è andato tutto bene...».

Tanto che...

«Arrivai alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti. Claudio Fabi,

vicedirettore artistico, mi propose di lavorare con lui, nell’ufficio

artistico».

Cosa faceva?

«Suonavo nei provini, ascoltavo i dischi che arrivavano dall’America,

scrivevo gli arrangiamenti... Insomma, un po’ di tutto. Ma era un lavoro. E

decisi di trasferirmi a Milano. Due anni in città, e poi dal ’75 in Brianza,

dove si sta più tranquilli. Ora vivo in un paese vicino Lecco».

Lei ha suonato con Lucio Battisti...

«Mi aveva sentito in sala d’incisione, per un 45 giri di Pappalardo. Mi fece

lavorare con lui per ”Anima latina”, l’album del ’74. Per sei mesi ho fatto

l’assistente di studio, dal primo giorno di lavoro a quello del missaggio

finale e della consegna dei nastri».

Che tipo era?

«Ovviamente un fuoriclasse dal punto di vista musicale. Raramente ho

incontrato artisti col suo piglio, la sua intelligenza, il suo istinto, la

sua sicurezza nell’andare in una direzione precisa. Era riservato, sia sul

privato che sulle scelte musicali. Non loquacissimo, anche se sapeva stare

in compagnia, non teneva gli altri a distanza».

Cosa ricorda maggiormente di lui?

«Che in studio aveva un atteggiamento professionale ma anche giocoso, quasi

ludico. Sapeva divertirsi, sperimentava... Era il periodo dei

sintetizzatori, dei processori del suono: era stato a Londra, aveva comprato

queste nuove meraviglie della tecnica, con lui il lavoro era anche

divertimento».

Suonò ancora con Battisti?

«Nel disco successivo, ”La batteria, il contrabbasso, eccetera”, nel ’76. Ma

lì feci solo lo strumentista. E il mio assolo ne ”La compagnia” mi ha fatto

conoscere nel giro. Era moderno per quei tempi, colpì molto nell’ambiente.

La mia carriera cominciò da lì...».

Facciamo un gioco. Io le dico un nome e lei... Franco Battiato.

«Con lui ho fatto ”La voce del padrone”, con cui nell’81 sbancò dopo anni di

sperimentazione. A un certo punto decise di realizzare un disco che avrebbe

venduto molto. E ci riuscì. Personalità forte, con una sicurezza simile a

quella di Battisti».

Eugenio Finardi.

«Con lui ho fatto ”Sugo” e ”Diesel”. Anni ’70, festival di Parco Lambro, le

molotov ai concerti, la musica politica. Era un po’ un casino...».

Il compianto Ivan Graziani.

«Un futurista, un pazzo dalle idee surreali, simpatico. Con lui ho fatto ”La

ballata delle quattro stagioni” e ”Pigro”...».

Il Nobel Dario Fo.

«Due mesi di teatro, nel ’77/’78, alla Palazzina Liberty. Lo spettacolo era

”La signora da buttare”, una satira ambientata al circo. Come tanti uomini

di teatro, piegava la metrica musicale alle sue esigenze».

Gianna Nannini.

«Con lei ho fatto quel disco che aveva in copertina la Statua della libertà

(”California”, del ’79 - ndr). Dopo tanti anni mi ha chiamato perchè voleva

delle lezioni di sax. Dopo tre o quattro incontri ha rinunciato...».

Roberto Vecchioni.

«Tanti tour e dischi, l’ultimo l’anno scorso. Persona di grande cultura,

grande affabulatore. Magari a volte parla un po’ troppo, ma ha scritto

alcune canzoni bellissime».

Un altro che parla tanto: Francesco Guccini.

«Beh, lui - come Fiorello, con cui ho fatto l’ultimo tour - è divertente.

Persona coltissima. Una volta mi ha regalato un libro di Carpinteri &

Faraguna...».

Il grande De Andrè.

«Che dire... Forse solo che ci manca. Una spanna su tutti gli altri. Cultura

micidiale. Se in tour qualcuno faceva la Settimana Enigmistica, era

imbattibile. Un tour con lui, suonando le tastiere».

Vasco.

«Ero con lui nell’84/’85, ai tempi di ”Bollicine”, in un periodo un po’

strano. Visti gli eccessi, nel tour il manager Guido Elmi aveva imposto un

rigido proibizionismo. E la situazione era un po’ tesa...».

De Gregori.

«Prima di cominciare a suonare dice sempre ”vamos trabajar...”, andiamo a

lavorare. Ha questo senso della musica come lavoro, come impegno. Un poeta,

di grande umanità. Non è distaccato: non ha quell’espansività forzata che

oggi va per la maggiore...».

L’azienda Pooh.

«Con loro tutto è perfettamente organizzato. Grande rispetto per le esigenze

dei musicisti, forse perchè hanno fatto una lunga gavetta. Un’azienda,

appunto...».

Ivano Fossati.

«Ho lavorato con lui già nel ’73, nel disco con Oscar Prudente. Poi

nell’87/’88, ai tempi de ”La pianta del te”. Linguaggio alto, colto. Ma i

concerti erano una sorta di work in progress, sempre in evoluzione».

Fiorella Mannoia.

«Persona eccezionale. Sembra altera ma è l’opposto: sarebbe un’ottima

attrice comica. Forse il marito-manager-chitarrista, Piero Fabrizi, è un po’

ingombrante. Ma ha il merito di averla condotta sul binario giusto».

Eros Ramazzotti.

«Con lui ho un ricordo strepitoso di un concerto al Radio City Music Hall di

New York. Ora mi sembra gravato da una sorta di ”pesantezza industriale”.

Nel nuovo disco, la cosa migliore è il suo canto soul in ”La nostra

vita”...».

L’impegno più recente: Celentano.

«Con lui, dal ’79 a oggi, ho fatto dischi, tour italiani ed europei, tutti i

programmi tv tranne il ”Fantastico” dell’86. Lui è sempre uguale. Ha

un’ipervalutazione di se stesso: vuol salvare il mondo. È naif, ha

quell’ingenuità che funziona».

Rockpolitik?

«La bufera era fuori. Dentro eravamo tranquilli. Per me se n’è parlato

troppo, si è fatta troppa dietrologia. Le ultime due settimane sono state un

po’ pesanti: prove saltate, errori... E Celentano non ammette mai gli

errori. Per il resto è un grande».

 

sabato 12 novembre 2005

«Ma quale rock... Adriano Celentano è proprio lento. E quelle pause, quei lunghi silenzi che caratterizzano i suoi programmi sono dovuti al fatto che lui legge il ”gobbo” o aspetta che dall’auricolare gli dicano che cosa dire e che cosa fare. La verità è che lui è un gran furbo, che ha saputo sempre circondarsi di gente valida. Salvo usarli ben bene, e poi passare al prossimo...».
L’attacco a Celentano - grande protagonista di questa stagione televisiva con «Rockpolitik», concluso l’altra sera - arriva da uno che lo conosce bene: il triestino Lorenzo Pilat, che con il Molleggiato ha diviso negli anni Sessanta l’avventura del «Clan di Celentano» (all’epoca si faceva chiamare Pilade), prima di diventare fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta un autore di grande successo. Da solo e soprattutto come socio della premiata ditta «Pace Panzeri Pilat» ha firmato tanti successi della canzone italiana. Uno dei quali, tradotto e ripreso da Tom Jones, ha sfondato anche negli Stati Uniti.
Pilat, ma perchè ce l’ha con Celentano?
«Io non ce l’ho con lui. Anzi. Mi legano a lui tanti bellissimi ricordi. Dico solo che non sa cantare, è stonato, ma ha una grande personalità. È furbo. Si circonda di gente in gamba...».
Da quanto non lo sente?
«Saranno ormai dieci anni. Ero a casa di sua sorella. Me l’ha passato al telefono. Mi ha chiesto: ”uè, come va?”. Gli ho risposto che faccio ancora tante serate e poi per scherzare gli ho chiesto ”allora, quand’è che mi lanci...?”».
Lui non l’ha aiutata?
«Nel Clan all’inizio eravamo un gruppo di amici. Lui ha aiutato Ricky Gianco, Guidone, Don Backy, Gino Santercole... Con me credo temesse il confronto. Io ero molto ingenuo, ma piacevo al pubblico quasi quanto lui...».
Addirittura...
«Sì, ricordo una volta a Imperia. Avevo appena fatto un disco intitolato ”Charlie Brown”: centomila copie con una sola apparizione televisiva. Dovevo aprire la serata, faccio tre canzoni, mi chiedono il bis. Poi me ne chiedono un altro... La faccio breve: alla fine Celentano mi dice ”uè, ma tu non devi mica cantare così, devi cantare un po’ meno, sennò poi io faccio fatica, eh...”».
Com’era arrivato al Clan?
«Tramite Vittorio Salvetti, che avevo conosciuto a un concorso a Udine, al quale avevo partecipato. Quello era il periodo dei concorsi musicali per esordienti. Teddy Reno ne organizzava uno per partecipare al quale bisognava pagare tremila lire, c’erano concorsi in cui dovevi pagare cinquemila lire, io un giorno decisi di iscrivermi a un concorso dove bisognava sganciare trentacinquemila lire, che all’epoca, nel 1958, erano dei bei soldi...».
Continui...
«Ricordo che mia madre quasi piangeva, quando glielo dissi. Delle trentacinquemila lire, intendo. Sono andato a Roma, ovviamente a mie spese, mi hanno fatto registrare con un Revox e mi hanno rispedito a casa col mio bravo acetato sotto il braccio. Era una specie di disco finto, di plastica, che potevi ascoltare solo tre o quattro volte, perchè poi cominciava a gracchiare. Nella mia ingenuità, pensavo che quelli fossero i dischi. Tornai a casa orgoglioso perchè credevo di aver registrato il mio primo disco...
Torniamo a Salvetti.
«L’avevo conosciuto a Udine. E dopo quel concorso a Roma, un po’ deluso, gli scrissi per chiedergli di aiutarmi. Mi disse di andare ad Asiago, dove stava organizzando la prima edizione del Festivalbar. Che poi io fra l’altro vinsi. Fu lì che mi presentò Celentano...».
Feeling a prima vista?
«No, lui era incuriosito perchè io facevo gli stessi brani americani che cantava lui. Io sono uno che non sta mai zitto, e ho cominciato a spiegargli che doveva cantare così e così... L’ho detto: ero giovane e ingenuo».
Facciamo un passo indietro. A Trieste come aveva cominciato?
«Studiavo da elettrotecnico ma sognavo la musica. Cantavo le canzoni americane che avevo conosciuto e imparato tramite i jukebox. Io stavo lì, nei bar, ad ascoltare quei brani rock’n’roll per ore. Non conoscevo né l’inglese nè la musica, ma imparavo tutto a memoria. Imitavo i grandi cantanti americani: Elvis Presley, Little Richard, Chuck Berry... Cercavo sui giornali gli annunci dei concorsi che si svolgevano in giro per l’Italia, partecipavo e devo dire che arrivavo sempre nei primi posti, spesso vincevo».
I locali triestini?
«In ogni bar c’era un jukebox. Gli americani ballavano nei bar, non era mica come adesso, c’era un’atmosfera di allegria ed euforia che contagiava chiunque. Per me andare a cantare alla birreria Dreher, lì dove adesso c’è il centro commerciale, era il massimo. Credevo fosse un trampolino di lancio per uno che voleva fare il cantante».
E ce la fece?
«Sì, ci arrivai nel ’59, quando vinsi uno dei tanti concorsi per dilettanti. Il primo impatto col pubblico fu molto difficile. Alle preselezioni cantai ”Don’t be cruel”, ma non so che parole sono venute fuori dalla mia bocca, so solo che tremavo tutto. Per farmi coraggio mi ero scolato un bicchiere di vino...».
Com’era la Dreher?
«Era una grande birreria impostata sullo stile austriaco: birra, cibo ma anche spettacolo. D’inverno dentro, lì dove ora c’è il negozio di articoli sportivi dentro il centro commerciale, d’estate fuori, nel grande giardino che costeggiava via Giulia».
Poi...?
«Poi, dopo un po’, capii che la birreria Dreher non era proprio il massimo. E che se uno voleva farcela per davvero doveva muoversi, partire, andare a Milano, dove all’epoca si facevano i dischi, si decideva il destino della musica italiana».
Dunque Milano...
«Partii pieno di entusiasmo e di speranze. Per tre mesi lavoravo come elettrotecnico in una ditta. E la sera del sabato e della domenica andavo a cantare nei locali. Era l’inizio degli anni Sessanta. C’era un’atmosfera incredibile. La nuova musica ormai stava arrivando anche nel nostro paese...».
Celentano era già un grande...
«Sì, aveva già fatto vari successi, fra cui ”Il tuo bacio è come un rock” e ”24.000 baci”. La sua forza, più che la voce, era come muoveva il corpo. Ma forse non tutti sanno come ha cominciato...».
Dica...
«Alla fine degli anni Cinquanta suo fratello Sandro faceva il rappresentante dell’Amaro Isolabella. All’epoca i bar, i locali avevano la sala da ballo, proponevano anche musica, piccoli spettacoli. Dunque lui, quando andava a vendere il liquore, in una maniera o nell’altra riusciva a piazzare anche il fratello. E così cominciò la sua carriera».
Claudia Mori?
«All’epoca non esisteva. Lui stava con Milena Cantù, la ”ragazza del Clan”. Fra l’altro lei aveva un ruolo importante, nelle dinamiche del Clan: andava in giro, nelle case discografiche, a cercare i brani americani di cui fare le cover. So che poi si è sposata con Fausto Leali, ci ha fatto due figli, prima di separarsi».
Diceva della Mori...
«Una volpe. Quasi più furba di Adriano. Si capiva subito che era una che voleva mettersi in vista. All’epoca aveva fatto anche un film di quelli piuttosto scollacciati. Senza alcun successo. Prima stava con un calciatore della Roma, Lojacono. Poi ha individuato Adriano. E non l’ha più mollato. Tuttora è lei che decide cosa fare e non fare».
Ma nel Clan i rapporti com’erano?
«Di amicizia. Celentano stesso all’epoca era uno di noi, un amico, andavamo a casa sua, si scherzava... L’amicizia per lui era un valore a cui sacrificare tutto: hai fatto questo, non andrebbe bene, ma sei un amico e allora... Poi a un certo punto le cose son cambiate».
Nel Clan quanto è durata?
«Cinque anni, nei quali feci tantissime serate, un tour con Adriano, un disco all’anno. E nel ’66, nel Trio del Clan, andai a Sanremo a cantare la seconda versione de ”Il ragazzo della via Gluck”. All’inizio Celentano si era inventato un arrangiamento pesante, davvero terribile. Per fortuna accettò i nostri consigli e la fece praticamente solo chitarra e voce...».
A Sanremo ci tornò altre due volte.
«Sì. Ma prima nel ’67 feci il Cantagiro con ”La legge del menga”, canzone che venne censurata dalla Rai per alcuni tormentoni e doppi sensi legati al titolo della canzone. Si sa: erano altri tempi. Bastava un nulla per incorrere nella mannaia della commissione che stabiliva cosa poteva andare in onda e cosa no...».
Ci dica del Festival.
«Sì. Nel ’68 avevo scritto ”La tramontana”, senza poterla firmare. Dovevo portarla a Sanremo, dove invece la cantarono Antoine e Gianni Pettenati per accordi e beghe fra case discografiche. A quel Sanremo, vinto da Endrigo e Roberto Carlos con ”Canzone per te”, ci andai comunque, cantando ”Il re d’Inghilterra” con Nino Ferrer: una canzone che non mi era mai piaciuta, ma per andare a Sanremo (dove poi sarei tornato anche nel ’75, con ”Madonna d’amore”) si fa qualsiasi cosa...».
Nel frattempo era diventato anche autore...
«In fondo fu Celentano a spingermi senza saperlo su quella strada. Lui aveva capito che ci sapevo fare e non mi voleva aiutare. Ma mi ha fatto un piacere, perchè così mi sono dedicato alla composizione e ho avuto fortuna».
Racconti.
«All’inizio non mi facevano firmare le canzoni. Perchè allora si usava così. La gavetta era questa. Io ho scritto ”Nessuno mi può giudicare” (con Beretta) nel ’66 per Caterina Caselli, ”Io tu e le rose” nel ’67 per Orietta Berti, ”Quando m’innamoro” nel ’68 per Anna Identici, ma alla Siae le hanno firmate altri autori già affermati».
Perse un sacco di soldi...
«Sì, ma a quel punto avevo fatto la mia gavetta come autore. Ed era arrivato il mio turno. Prima da solo e poi con Pace e Panzeri firmai molte canzoni: «La rosa nera» e «Alle porte del sole» per Gigliola Cinquetti, «Tipitipitì», «Non illuderti mai» e «Fin che la barca va» per Orietta Berti, ”Quanto è bella lei” per Gianni Nazzaro...».
Pace e Panzeri come li ha conosciuti?
«Pace in un albergo, sempre a Milano. Io giocavo a biliardo, lui veniva a giocare a carte, poi si finiva sempre a suonare la chitarra. Io ero nel Clan, lui era un autore, abbiamo cominciato a lavorare assieme. Con Panzeri la stessa cosa. Le canzoni le scrivevamo assieme, ognuno metteva qualcosa, a volte l’idea arrivava per caso, magari viaggiando in macchina...».
Come cantante aveva guadagnato molto?
«Poco. Come autore sono arrivati molti più soldi. Basti pensare che quando facevo le serate, alla fine degli anni Sessanta, prendevo centomila lire a sera, di cui davo quindicimila a testa ai ragazzi del gruppo: dunque me ne restava la metà. Celentano prendeva un milione a sera, e al complesso dava dodicimila lire a testa. E a me diceva: tu sei matto, non bisogna dargli tanto...».
La svolta economica?
«Quando ho visto i soldi della Siae per ”La rosa nera”: due milioni di lire in un anno per settecentomila copie vendute. Fu allora che capii che le cose stavano cambiando».
Un suo brano finì in America...
«Sì, ”Alla fine della strada”, portata al Sanremo del ’69 da Junior Magli e dai Casuals. Furono eliminati subito, perchè se a Sanremo non paghi non puoi far nulla. Ma il disco fu spedito a una casa discografica inglese. Magli imitava un po’ Tom Jones, aveva fatto anche una cover di ”Delilah”. Fatto sta...».
Fatto sta?
«Fatto sta che il disco arrivò in qualche maniera alle orecchie di Tom Jones e l’ha incisa. Una sera ero fuori con una ragazza, a Trieste, dove tornavo ogni tanto, e la radio dava questa canzone, che in inglese era diventata ”Love me tonight”...».
In America c’è poi andato?
«Quell’anno dovevo andare a Los Angeles per ritirare un premio perchè la canzone aveva avuto un milione di passaggi radiofonici e televisivi. Ma la mia paura dell’aereo mi fece rinunciare. Negli Stati Uniti ci sarei andato qualche anno dopo, per incidere un disco, ma mi ritrovai in mezzo a un giro che non mi piaceva per niente, e la cosa non ebbe un seguito...».
Trieste?
«Per tanti anni sono andato avanti e indietro. Poi sono tornato a vivere qui. Ora sto a Sistiana, vicino al mare. E i miei dischi li faccio ancora...».
Pilat, ma se Celentano la chiamasse?
«Ovvio: ci andrei di corsa. Al suo prossimo programma, a questo punto...».

giovedì 3 novembre 2005

Si conclude con «A hard rain’s a-gonna fall», di Bob Dylan, il nuovo spettacolo di Moni Ovadia «Es iz Amerike!», che ha debuttato l’altra sera al Rossetti. Una «Hard rain» alla maniera di Tom Waits: voce roca, lacerata, grattata, piena di buchi e ragni. Una «Hard rain» più che mai attuale e profetica, oggi che l’America, terra di libertà nell’immaginario collettivo del Novecento, si propone come gendarme del mondo e si scopre stretta fra guerre preventive e rovinosi uragani.
Lo spettacolo dell’ebreo bulgaro/milanese Ovadia, presentato l’estate scorsa al Mittelfest, parte da un dato di fatto: la storia dello spettacolo e della cultura americani non può prescindere dalla linfa portata dagli ebrei. Da Al Johnson ai primi produttori di Hollywood, dai fratelli Marx a George Gershwin (vero nome Jakob Gershowitz), da Leonard Bernstein a Woody Allen, da Fred Astaire (che di cognome faceva Austerlitz) a Irving Berlin, da Allen Ginsberg appunto fino a Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan.
Le scene rilanciano i grattacieli di New York, entra Moni e attacca con piglio swing «Rotchild». Poi il grande affabulatore comincia un altro capitolo del suo eterno racconto. Dice che la storia comincia oltre un secolo fa, quando due milioni di ebrei orientali, cioè russi, polacchi, ucraini, bielorussi, decisero di abbandonare le loro terre. Vita dura sotto lo zar: i ricchi diventavano più ricchi, i poveri sempre più poveri. Metà della popolazione era composta da «luftmench», uomini d'aria, i disoccupati di oggi, e vivevano di elemosina.
Ma le tempeste rivoluzionarie dell'Europa occidentale cominciavano a toccare anche quei territori. Molti giovani lasciavano i villaggi, le casupole di legno, le strade di fango, partivano per Varsavia, Minsk, Bialistok. Operai nelle prime manifatture. Scriveva il pro-pro-pro cugino Moyshele (classico personaggio delle storie di Ovadia) alla mamma: «Si lavora dalle sette di mattina alle undici di sera. A volte tutta la notte. Questo vuole il padrone».
Prime idee rivoluzionarie. Ebrei in prima fila. Repressione durissima. E la decisione: andare oltreoceano, in quel grande e mitico paese che erano gli Stati Uniti. Con la maledizione degli anziani: «Quel paese è una dannazione. Vi faranno mangiare cibi impuri. E dimenticherete lo Shabbat, la nostra festa...».
Il racconto procede alla maniera di Ovadia, fra canzoni e aneddoti e storielle che strappano il sorriso, anche quando è sorriso amaro. Il viaggio, l’arrivo a Ellis Island, le visite mediche, il villaggio che risorge, le prime attività, i piccoli commerci, gli affari: la tradizione ebraica accanto alla modernità di Manhattan. E la sinagoga, dove il canto straziante del cantore accende la nostalgia.
Alcuni di quei cantori diventarono star dell'opera, come Ian Pierce e Richard Tucker. Le avanguardie dei tanti americani ebrei di cui si diceva all’inizio, e che hanno segnato la storia dello spettacolo americano e di tutto il mondo.
«Es iz Amerike!» - che si replica fino a domenica - ha la preziosa capacità, tipica di Moni Ovadia, di raccontare storie e trattare temi serissimi e spesso tragici con leggerezza, col sorriso sulle labbra ma il cervello sempre ben collegato. Sempre più sorprendente lui, attempato ma irresistibile showman. Non perde un colpo la Stage Orchestra diretta con piglio da primus inter pares da Emilio Vallorani. E Lee Colbert (che regala una «Funny girl» da antologia e una «Summertime» che in yiddish diventa «Zummertsait») è la rossa ciliegina su una torta gustosissima e nobilmente meticciata.

martedì 1 novembre 2005

INTERVISTA DONATA HAUSER

Signora, ma è vero che vuol fare il sovrintendente del Teatro Verdi? «Non lo so, non ci ho pensato. Intanto perchè adesso ce n’è già uno, poi perchè a me va benissimo stare nel consiglio di amministrazione e fare il vicepresidente del teatro. Non so neanche se mi piacerebbe. Dovrei verificare se ne sono all’altezza. Ma se mi sentissi all’altezza sì, mi piacerebbe farlo. E comunque nella mia vita succede tutto all’improvviso...». Ed è vero che a primavera potrebbe candidarsi nella lista civica del sindaco Dipiazza? «Questo proprio no. Io non candiderò mai per le amministrative. Se domani volessi far politica, andrei a farla a Roma. Perchè è là che si fa politica: qui si amministra solamente...».
Incredibile Donata Irneri Hauser. Uno va a intervistare l’editore di Telequattro e si ritrova davanti una possibile parlamentare triestina. O la futura sovrintendente del Verdi. Schietta, sincera, molto espansiva, in qualche modo anche entusiasta. Amante del suo lavoro e della sua città, pronta sempre ed evidentemente a nuove sfide. Chissà, forse per quel dna del nonno Ugo, fondatore dell’impero assicurativo che fu di famiglia...
Signora, è vero che Telequattro si chiama così e ha il simbolo che conosciamo perchè c’era la polizza 4R che aveva portato fortuna al Lloyd Adriatico?
«Sono tante le storie, e c’è un pizzico di verità in ognuna. È vero che c’era la famosa polizza 4R che aveva fatto decollare il Lloyd Adriatico, com’è anche vero che il numero quattro, ripetuto quattro volte nel simbolo, voleva richiamare le quattro province del Friuli Venezia Giulia. L’intenzione, insomma, era già alle origini di fare una televisione regionale e non solo triestina».
Com’è stata vissuta in famiglia la scelta di suo padre di cedere il Lloyd Adriatico?
«Lui ha visto che il figlio non voleva continuare la sua attività. Non pensava alla figlia in quest’ottica. Questo forse mi è un po’ dispiaciuto, perchè ho sempre pensato che qualcosa avrei dovuto e voluto fare: non ho mai avuto lo spirito della casalinga, posso fare tutto in casa, mi piace anche cucinare, ma sono una donna molto attiva. Non so stare con le mani in mano...».
Ma suo padre...
«Mio padre a un certo punto ha fatto la scelta di vendere, perchè diceva che il mondo stava cambiando e che la compagnia doveva entrare a far parte di un gruppo che le garantisse il giusto sviluppo. Non era più tempo, insomma, delle società familiari. Forse ha fatto la cosa giusta, o forse no, chi lo sa...».
Perchè ha accettato di guidare l’Orchestra sinfonica regionale?
«Ho sempre amato la musica, ho cominciato anche a studiare pianoforte a trent’anni perchè mi mancava. Quando nel 2000 mi fu chiesto dall’allora presidente della Regione, Antonione, di dare la mia disponibilità, perchè gli accordi politici esistenti volevano un triestino ai vertici dell’orchestra regionale, chiesi consiglio a mio marito, che mi ha sempre appoggiato in tutte le mie cose e anche in quelle che considero le mie pazzie. Ricordo che era un sabato e dovevo dare la risposta entro la mattina dopo. Mio marito mi disse: se ti piace, accetta. E io ho accettato».
Perchè siete finiti in tribunale?
«È finita male perchè il signor Antonaz voleva a tutti i costi buttarmi fuori. Non credo per motivi personali, perchè non lo avevo mai conosciuto né frequentato. Io mi sono sempre comportata bene con lui, anche in questo frangente. Non voglio dire che sia stato per motivi politici. Diciamo che aveva deciso di fare il suo spoils-system, un po’ all’americana...».
C’è rimasta un po’ male...
«Sì, soprattutto per la maniera violenta con cui tutta la vicenda è stata da lui gestita. Ma non voglio dire di più, perchè c’è un procedimento giudiziario in corso. Prima di avviarlo ho aspettato che le acque si calmassero, perchè non volevo nuocere in nessun modo all’orchestra e ai musicisti. Ho aspettato che venisse designato il nuovo presidente, che ora è il mio amico Mario Diego. E poi ho trovato giusto che fosse la magistratura a decidere se tutto è stato fatto nel rispetto della legge».
I politici telefonano all’editore di Telequattro? Chiedono qualcosa?
«I politici hanno un grande rispetto per Telequattro. Comprano gli spazi che possono essere a loro disposizione, i colloqui col sindaco anzichè il filo diretto col presidente della Provincia, ma poi siamo noi a valutare quel che si deve o non si deve fare, quel che si deve o non si deve mandare in onda. Nessun politico viene mai a chiedere favori, magari segnalare qualche iniziativa, qualche avvenimento, qualche problema, quello sì. Ma è un’altra cosa».
La gente dice: «Il Piccolo» è vicino al centrosinistra, Telequattro al centrodestra...
«Che ”Il Piccolo” abbia avuto dei momenti in cui il pubblico lo ha ritenuto vicino al centrosinistra, o a volte su posizioni qualunquiste, questo può anche essere accaduto. Per quanto riguarda Telequattro, non è vicina né al centrodestra né al centrosinistra. Siamo vicini a tutti e a nessuno, ci comportiamo da emittente super partes, con grande fatica, e non ci siamo mai venduti a nessuno».
Quali sono le difficoltà che incontra un televisione privata locale?
«Nella nostra regione abbiamo poche risorse economiche. La pubblicità non riesce a fruttare quello che sarebbe necessario per le esigenze di un’emittente televisiva che ha ambizioni non solo cittadine. È molto più facile vendere pubblicità per i nostri colleghi che lavorano in Veneto, in Emilia Romagna, ovviamente in Lombardia. Il Friuli Venezia Giulia è una regione in cui la piccola e media industria si fa carico di sostenere l’economia, che manda avanti tutto. I grandi gruppi fanno pubblicità a livello nazionale, dunque non interessa loro investire sulla pubblicità nelle nostre emittenti, sempre più strette fra le reti nazionali pubbliche e quelle private».
Il tentativo di uscire da Trieste com’è andato?
«Molto bene. Monfalcone, Gorizia, Grado ci stanno dando delle grandi soddisfazioni. Nel resto della regione è un po’ più difficile. Come per i due quotidiani regionali, anche nell’emittenza c’è una sorta di divisione dei bacini d’utenza fra le due maggiori televisioni regionali. Udine ci vede in parte, ma chi ci vede chiama, telefona, dimostra di gradire la nostra programmazione. Pordenone stesso discorso. Siamo andati anche a Cortina d’Ampezzo, perchè ci sembrava giusto avere lì una presenza, e vogliamo restarci».
Le soddisfazioni maggiori?
«Quelle legate ai grandi eventi che abbiamo seguito in questi anni. Gli Alpini, la Barcolana, ma in particolare l’avventura dell’Expo, che poi purtroppo è finita male. Ma quando siamo arrivati a Parigi, per seguire l’atto finale, tutti pensavano che fossimo una televisione nazionale. Avevamo uno spiegamento di mezzi veramente di prim’ordine, con tanto di collegamento satellitare con piazza dell’Unità...».
Telequattro è stata fucina di tanti giornalisti triestini...
«Penso che sin dai tempi di Chino Alessi, che fu fra i fondatori dell’emittente assieme a mio padre, qui dentro sia sempre stato insegnato qualcosa ai tanti giovani che con coi si sono avvicinati al giornalismo e anche alla televisione. Quando sono usciti da qui, per continuare la loro carriera, si sono sempre trovati preparati e sono stati apprezzati anche in altre realtà».
Attualmente com’è la situazione della redazione?
«Tutti i nostri dipendenti sono professionisti. Abbiamo ovviamente molti collaboratori, che lavorano a gettone, e anche degli stagisti, che vengono qui per imparare il lavoro e poi, alla fine dello stage, spesso rimangono a collaborare. Penso che qui si trovino bene anche perchè l’atmosfera è bella, quasi familiare».
È vero che Telequattro sta per cambiare direttore?
«Quello che succederà al momento non lo so. L’attuale direttore ha da qualche tempo un altro incarico non giornalistico. Vediamo se regge, se ce la fa a seguire tutto, vediamo come si mettono le cose... Per adesso non si è manifestata nessuna volontà di cambiare la situazione attuale».
Lei è per la Trieste turistica, commerciale o industriale?
«Mi dispiace aver un parere diverso dal nostro governatore, ma io la Trieste industriale proprio non la vedo. Non ci sono spazi, non ci sono mai stati, e poi il triestino non ha l’animo dell’imprenditore industriale. Ha l’animo del commerciante, del venditore di servizi, ma non va oltre. Le grandi industrie qui non vengono e qui non possono nascere. Quelle piccole speriamo che crescano, si specializzino e soprattutto che rimangano. Vedo un futuro di piccole e medie realtà tecnologicamente avanzate».
Dunque preferisce l’opzione turistica...
«Mi piace moltissimo l’opzione turistica, come mi piace anche molto l’opzione commerciale. Penso che su quel fronte Trieste sia nata, sia diventata grande e possa tornare tale».
Che sarà dell’area di Campo Marzio di proprietà della sua famiglia?
«Ci sono dei progetti, che saranno parte integrante della riqualificazione e dell’ammodernamento di questa zona. Che sarà una zona molto importante della Trieste del futuro. La vedo come una zona di servizi, dove sarà molto facile arrivare. Il giusto tratto finale delle nostre meravigliose Rive, che attualmente hanno diverse cose che non vanno. Molto è già stato fatto, molto verrà fatto: il fatto che l’ex Pescheria sia quasi finita, il fatto che la questione del magazzino vini sia finalmente sbloccata...».
Nello spazio dell’ex piscina Bianchi?
«Intanto sono molto contenta che sia stata buttata giù. Era terribile. Ora sono d’accordo con tutti quei cittadini che si sono espressi per uno spazio libero, aperto sul mare, con un po’ di verde. Anche se determinate strutture leggere e ben fatte potrebbero essere compatibili con quell’area, che dopo la demolizione del magazzino vini diventerà un’area molto grande e strategica per le nostre Rive. Che devono piacere a tutti, anche se il cento per cento non si avrà mai: quando una decisione è appoggiata dal cinquanta per cento più uno, si può fare. Questa è la democrazia».
Lei frequenta i salotti?
«Poco. Sono una brutta bestia: non so star zitta, dunque mi rendo conto che a volte posso risultare sgradevole. Dunque è meglio che me stia a casa mia e che loro, quelli che frequentano i salotti, intendo, se ne stiano tranquilli. Oltretutto io ho la vita molto piena, ho un sacco di impegni...».
Fa ancora in tempo ad andar per mare con quella sua bella barca...?
«Noi abbiamo avuto per un periodo una barca perchè avevamo tempo. Da quando io sono entrata qui dentro e mio marito è stato maggiormente assorbito dalle cose sue, l’abbiamo venduta. La barca è bella se uno la può godere. E la più bella è sempre quella degli amici...».
Come vede Trieste fra dieci o vent’anni?
«Bellissima. E non è la solita frase di circostanza. Io sono ottimista e volitiva di natura. Mi piace vedere questa città come sta cambiando. Mi piace immaginarmela ancora più bella, come sicuramente presto sarà...».
E poi Donata Hauser parla di Cittavecchia, che quand’era bambina ricorda come un ammasso di catapecchie e di rottami, e che ora è rinata, si cominciano a vedere tante cose belle, Urban è stato un miracolo, «quando passo mi si apre il cuore». E il porto vecchio «speriamo diventi quello che era stato immaginato per l’Expo».
«Triestini - conclude - non piangiamoci addosso. Andiamo avanti. È un momento di cambiamenti, non dobbiamo fermarci, non dobbiamo bloccare questa città. Dobbiamo farla rinascere. Tutti assieme».

venerdì 28 ottobre 2005

Ha detto che il 31 dicembre 2005 - praticamente fra pochi giorni -
appende il microfono al chiodo. E per festeggiare degnamente la fine di una

grande carriera canora, Rita Pavone sta portando in giro da alcuni mesi lo

spettacolo «Goodbye? La mia favola infinita». Che il 29 e 30 ottobre fa

tappa al Politeama Rossetti, in quella Trieste che in fondo è un po’ anche

sua, per la proprietà transitiva dovuta al fatto che da oltre quarant’anni

divide casa e palcoscenico con un certo Teddy Reno, all’anagrafe Ferruccio

Merk Ricordi, «triestìn patoco» alla vigilia degli ottanta.

«È una cosa a cui pensavo da tempo - spiega la cantante, nata a Torino nel

1945 -. Credo di essere in questo momento al meglio delle mie possibilità

vocali e vorrei lasciare alla gente il ricordo e magari il rimpianto di

qualcosa di positivo, che non il semplice ricordo di un’artista. Ecco allora

l’idea di questo show, che è il mio racconto di una favola bellissima,

cominciata nella Torino povera del dopoguerra e proseguita attraverso luoghi

e personaggi che mai avrei pensato di conoscere. Cantare è sempre stata la

mia passione. Ed è ancora la stella che mi guida. Nello spettacolo ci sono

monologhi, canzoni, balletti, filmati d’archivio e momenti musicali non

necessariamente legati alla mia carriera».

Una carriera lunga oltre mezzo secolo, visto che Rita ha debuttato a nove

anni, nel ’54, al Teatro Alfieri di Torino. Ma sbaglia chi pensa a un

definitivo pensionamento, magari al sole di Palma di Maiorca, dove la

famiglia Merk Ricordi ha una delle sue tre basi (le altre due sono a

Lattecaldo, in Svizzera, e ad Ariccia, ai Castelli romani...). Intanto per

il 2006 è già in programma un certo numero di repliche di questo spettacolo

all’estero. E poi la signora fa sapere, sempre amorevolmente supportata da

Teddy Reno, che «mi piacerebbe molto dedicarmi di più al teatro e alla

commedia musicale...».

«È un’altra mia vecchia passione - spiega -, sin da quando negli anni

Sessanta mi hanno portato a Broadway a vedere “Funny girl”, e ho conosciuto

la protagonista, Barbra Streisand. Era la prima volta che andavo a teatro,

ed è stata una folgorazione. Un’altra volta, in camerino mentre mi preparavo

per uno spettacolo, sento bussare alla porta. Era Ella Fitzgerald che voleva

complimentarsi con me, e mi chiedeva un autografo per suo figlio...».

Episodi. Che confermano come quarant’anni fa il miracolo di «Pel di Carota»

non conobbe confini. Nei mitici anni Sessanta italiani «La partita di

pallone» (un brano di Edoardo Vianello che era già stato inciso da Cocky

Mazzetti, passando però inosservato) fu solo il primo di una lunga serie di

successi: da «Cuore» (cover di «Heart», canzone di Phil Spector già portata

al successo dall’americano Wayne Newton) a «Sul cucuzzulo», da «Come te non

c’è nessuno» a «Datemi un martello» (cover di «If I had a hammer», di Trini

Lopez, cantata anche dai Surfs), da «Che mi importa del mondo» a «Il

geghegè»...

La televisione e il cinema diedero il loro contributo. «Enzo Trapani,

nell’autunno del ’62, affidò a me e a Gianni Morandi - ricorda Rita - la

conduzione del primo programma dedicato ai giovanissimi: ”Alta pressione”. E

poi accadde il miracolo. Un giorno mi chiama Guido Sacerdote per sostituire

Mina (incinta di Massimiliano Pani), nel cast fisso di ”Studio Uno”...».

«Morandi lo conosco proprio dal ’62: ero appena tornata a casa dalla

vittoria ad Ariccia, che mi chiamarono dalla Rca, per andare a Roma a

incidere il mio primo disco, ”La partita di pallone”. Anche Gianni era

entrato da poco nello staff della casa discografica e stringemmo subito

amicizia. Entrambi venivamo da origini umili: io figlia di un operaio della

Fiat di origine siciliana, lui figlio del ciabattino comunista di

Monghidoro. Entrambi stavamo per essere baciati da un successo di

proporzioni enormi...».

Con i suoi «Collettoni» (un gruppo di ragazzi che si agitano attorno a lei e

costituiscono la sua scatenata «banda»), nel sacro sabato sera in bianco e

nero del canale unico dell’incontrastata Rai, in quegli anni la Pavone

diventa l’idolo, la beniamina di milioni di ragazzi e ragazzini italiani.

Poi Lina Wertmuller le offre la parte di protagonista nello sceneggiato

televisivo «Gianburrasca», tratto dal famoso «Giornalino di Gianburrasca» di

Vamba: otto puntate, fra il novembre ’64 e il gennaio ’65, ma sufficienti

per entrare nella storia della televisione per ragazzi. E il successo non si

ferma all’Italia: prima la Francia, la Spagna, la Germania, poi

l’Inghilterra, gli Stati Uniti, il Sudamerica... Fra il ’62 e il 70 la

ragazzina vende diciassette milioni di dischi, su un totale che ormai supera

i trenta milioni. Fra il ’64 e il ’68 partecipa sei volte all’Ed Sullivan

Show. Nel ’64, a Memphis, conosce Elvis Presley.

«Quella fu l’emozione più grande. Ci siamo conosciuti a Nashville, in sala

d’incisione. Elvis si è avvicinato, mi ha detto: “Ehi, ma io ti ho visto

ieri sera alla tv...”, e mi ha dato un buffetto sulla guancia. All’epoca

infatti ero spesso ospite all’“Ed Sullivan Show”. Una volta c’era anche

Orson Welles: non mi sono resa subito conto di chi avevo a fianco, l’ho

capito dopo. Per me Hollywood era Cary Grant, William Holden. E comunque lui

è stato molto alla mano, come tutte le grandi star che ho conosciuto in

America...».

Torniamo alla carriera. Alle canzoni seguono i film: «Totò e la figlia

americana», «Rita la zanzara», «Non stuzzicate la zanzara», «Little Rita nel

West» (con Terence Hill e Lucio Dalla, del ’67), «La più bella coppia del

mondo» (con walter Chiari), «La Feldmarescialla», «Due sul pianerottolo»...

«Quei film mi hanno dato la possibilità di lavorare con gente come Giulietta

Masina, Lucio Dalla, Terence Hill, Giancarlo Giannini. Senza dimenticare

Totò: un principe, in tutti i sensi. Grazie a ”Gianburrasca”, che mi capita

di rivedere e che trovo ancora fresco e attuale, ho avuto la fortuna di

lavorare con il meglio del teatro italiano. Con Lina Wertmuller siamo

rimaste in contatto, ogni tanto ci sentiamo. Mi piacerebbe che oggi mi

riscoprisse come attrice...».

«Infatti io credo di aver avuto due incontri fondamentali nella mia vita:

uno con lei, che è stata importantissima perché io non avrei mai immaginato

di poter recitare. L’altro con Macario, che mi ha preso per mano in teatro:

fare con lui sei mesi di tournée sono valsi tre anni di Accademia. Ma devo

ringraziare anche Franco Branciaroli che mi ha fatto fare “La dodicesima

notte” di William Shakespeare a Verona...».

Ricordi di una grande carriera, come si diceva. Teoricamente giunta al

capolinea, ma che nella realtà - volete scommettere? - durerà ancora a

lungo. Le parole di Teddy Reno, al proposito, sono rivelatrici: «Sì, Rita dà

l’addio alla sua carriera pop live, ma non a futuri impegni come attrice o

protagonista di qualche musical. Se dovesse infatti imbattersi in qualche

copione adeguato a una sessantenne che ha lo sprint di una ventenne, beh,

penso che non saprebbe dir di no...».

«Del suo sprint - conclude ”el mulo Ferucio”, che già preannuncia anche un

possibile ritorno discografico della consorte entro un paio d’anni - si

accorgerà il pubblico triestino il 29 e 30 ottobre. Mi esibirò anch’io, ma

nel secondo tempo, quando si parla della storia di due innamorati osteggiati

dalla famiglia di lei... A quei tempi anche i giornali erano scettici sulla

durata della nostra unione. Invece, siamo ancora qua...».

 

domenica 23 ottobre 2005

Considera il Friuli Venezia Giulia «una grande città di un milione e duecento mila abitanti». E il suo obbiettivo è informarla tutta. Da Trieste a Udine, da Gorizia a Pordenone, dalla Carnia a Grado e a Lignano. Senza dimenticare che dietro l’angolo c’è un’Europa sempre più grande. Di cui tutti dobbiamo sentirci parte.
Lui è Giovanni Marzini, classe 1954, da cinque anni a capo della redazione giornalistica italiana della sede Rai del Friuli Venezia Giulia. Una redazione formata da ventisette giornalisti e dodici telecineoperatori (questi però in comproprietà con la redazione slovena e quella dei programmi), che nel corso di questi ultimi anni è stata ringiovanita. Ed è chiamata a fare informazione regionale ma anche a svolgere il ruolo di «grande ufficio di corrispondenza» per le testate nazionali. Nonchè di osservatorio prililegiato verso Est.
Marzini, la nostra è una regione difficile da tener assieme?
È la nostra prima missione, il primo punto del mio piano editoriale che ho presentato cinque anni fa: il Friuli Venezia Giulia è come una grande città di un milione e duecento mila abitanti, quindi dobbiamo intenderla come tale.
Le spinte centrifughe di Udine? Non volevano una sede Rai autonoma per il Friuli?
Penso che siano problematiche superabili e forse già superate. Mi fanno sorridere le polemiche che ogni tanto vengono fuori sullo spazio che viene dato a Trieste e a Udine. Sono polemiche sterili e pretestuose. Noi abbiamo l’obbligo di fare un grande giornale regionale, tentiamo di farlo. Le nostre telecamere e le nostre troupe vanno dove c’è la notizia, cercando di esser presenti anche in zone avare di notizie e spunti di cronaca: le zone montane, i paesi con problemi di ripopolazione, di sviluppo industriale....
Ma dicono che il tg è «Triestecentrico»...
I dati confermano che noi copriamo tutte e quattro le province. Poi è chiaro che tutti vorrebbero avere sempre e comunque la propria città, il proprio paese sulle pagine dei giornali e nei tg. Noi cerchiamo di accontentare tutti, fatto salvo che dobbiamo andare dove succedono le cose...
Che succedono più spesso nelle città...
Sì, ma il nostro obbligo è coprire nella maniera migliore l’intero territorio, cercando di fare quello che continua a essere l’unico giornale regionale di questa regione. Perchè la carta stampata giustamente privilegia coi due principali quotidiani da un lato Trieste, Gorizia e l’Isontino, dall’altro Udine, il Friuli e Pordenone. E lo stesso vale per le tv private: le due principali si dividono la regione nella stessa maniera dei quotidiani.
Che cosa chiede Roma a una sede regionale «di frontiera»?
Il Tg1 chiede almeno due o tre volte al mese la bora. È una battuta, ma in effetti le immagini della bora sono la cosa che Trieste esporta di più. Evidentemente colpiscono molto l’immaginario. Non c’è servizio sul maltempo che non passi attraverso un’immagine del Molo Audace flagellato dalla bora. Su questo non ce ne vogliano gli amici friulani... Ma è una particolarità che la Trieste del turismo potrebbe sfruttare molto meglio di quanto fa: un museo della bora (che racconti la storia di questo vento, attraverso il patrimonio di immagini, di racconti, di libri...) sarebbe molto interessante.
Bora a parte?
Ci chiedono tutto quanto di rilevanza nazionale può accadere in questa regione. Anni fa eravamo in prima linea sul conflitto balcanico, con una guerra che ci era scoppiata a un’ora di macchina da qui. Adesso forse non siamo più la ”porta verso Oriente” per droga stupefacenti e altro, com’è stato per anni, ma dobbiamo sempre dar conto di tutto quel che accade....
Siamo ancora «osservatorio privilegiato»?
Lavoriamo per questo. E rivendichiamo un ruolo che l’azienda ci sta riconoscendo: essere un osservatorio privilegiato verso i paesi della nuova Europa, dell’area balcanica, dell’Est Europa... Non più ai confini dell’Occidente, ma come centro della nuova Europa che si sta allargando. E tutti i discorsi sull’Euroregione portati avanti da Illy devono trovare una sponda adeguata nel servizio pubblico radiotelevisivo.
Come vi state preparando?
Per esempio con il settimanale ”Est Ovest”, da noi curato, che è il primo passo di questo progetto. Un progetto che abbiamo presentato tre anni fa, che è stato accolto. Da Trieste i nostri inviati partono alla volta di diversi paesi europei. Realizziamo un rotocalco di quindici minuti, i cui servizi vengono poi proposti anche ad altre testate, anche satellitari, della Rai. Dunque si vedono in tutta Europa.
E dunque...
Dunque è un primo passo verso quello che dovrebbe essere in futuro il ruolo di questa sede regionale: portare avanti un progetto, per ora sperimentale, legato alla televisione transfrontaliera. Possiamo anche chiamarla Eurotv, tv dell’Euroregione... L’importante è intendersi sul ruolo: informare un’area che parte dal Nord Est italiano, coinvolgendo quindi anche Veneto e Trentino Alto Adige, e arriva a Slovenia, Croazia, Austria, Slovacchia, Ungheria, Romania... Realizzando quindi un grande canale televisivo che possa unire, con notiziari plurilingui, queste regioni, trattando i temi che a queste regioni interessano.
I politici telefonano a un caporedattore della Rai?
Assolutamente sì, com’è logico sia. Ma in cinque anni, sui colleghi che sono stati assunti, e sono entrati a far parte di una redazione che si sta progressivamente svecchiando e ringiovanendo, non c’è mai stata un’ingerenza del mondo politico....
Una svolta epocale: dunque non vale più il vecchio sistema, secondo cui in Rai si assumeva uno del partito x, uno del partito y e uno bravo...
È un fenomeno che, almeno nella nostra regione, e per quel che mi riguarda, non è mai accaduto. Qui sono entrati giornalisti che hanno cominciato a far la gavetta, e dopo un periodo di precariato, sono stati assunti. Dunque le telefonate dei politici non arrivano per segnalare questo o quello, ma per segnalare eventi per i quali viene chiesta un’adeguata copertura.
Nessuno che si lamenta?
A volte, ma sono più numerose le lettere e le mail di ringraziamento (e tira fuori un faldone zeppo di roba... - ndr). Certo, c’è chi si lamenta, ma spesso è il frutto di equivoci, che poi vengono chiariti. Tutti si sentono in diritto di chiedere sempre qualcosa di più....
Siamo bombardati da informazioni. Troppe?
Forse sì. Forse c’è troppa offerta rispetto alla domanda. Ma in questo moltiplic</CP><CF><CP>arsi di canali informativi, farà sempre più la differenza l’autorevolezza del giornale che dà l’informazione. Un giornale o una tv che ti racconta per quattro o cinque volte una fregnaccia, perde autorevolezza. Per questo prima di sparare un titolo, prima di presentare un presunto scoop, verifichiamo più volte. A costo di non dare la notizia anche quando l’abbiamo. Perché il pubblico non ci perdonerebbe una notizia non vera sparata da noi. Non è abituato.
Marzini, cos’ha imparato da radio e tv private?
Trent’anni fa sono stato fra i fondatori di Radio Sound e poi ho lavorato a Telequattro dal primo giorno di trasmissione. È lì che ho imparato il mestiere. Quella radiofonica era un’esperienza pionieristica e lontanissima da come si sono poi evolute le radio private. La nostra era sperimentazione, con le prime radiocronache, soprattutto con la grande esperienza del maggio ’76 per il terremoto nel Friuli, con una ”nostop” di una settimana al microfono: informazione, servizi, coordinamento soccorsi... Ci sentivamo e forse eravamo pionieri dell’etere.
In tv è stato diverso...
Beh, dal punto di vista professionale è stata un’esperienza molto più importante. Anche se ovviamente è molto diverso fare il cronista a Telequattro e coordinare l’informazione regionale della Rai: prima dovevi coprire tutto quel che accadeva fino a Barcola, ora dobbiamo spaziare in tutta la regione. E sapere che ci si rivolge - attraverso i tanti contributi alle testate nazionale - a un pubblico nazionale: la prima funzione delle sedi regionali, come servizio pubblico, è infatti quella di essere dei grandi uffici di corrispondenza dalle regioni per i tg nazionali.
La radio però a Trieste ha una grande tradizione...
Certamente. Qui nacquero i primi giornali radio regionali. Basti pensare che in questi giorni festeggiamo i 75 anni di Radio Trieste. La tradizione e l’attaccamento rimangono, soprattutto fra gli ascoltatori più anziani. Visto che i giovani ascoltano la radio in maniera molto diversa. E comunque ancor oggi le prime due edizioni dei nostri giornali radio sono seguitissime, i più seguiti in Italia, come rapporto fra ascolto e popolazione coperta.
Su scala regionale l’informazione può essere mischiata all’intrattenimento, come avviene sulle reti nazionali?
No, io credo molto nel servizio pubblico della Rai. In un paese civile dev’esserci grande spazio per la tv come intrattenimento, come momento di evasione. La tv commerciale ha i suoi spazi sacrosanti, la tv pubblica deve a sua volta fare intrattenimento, ma io penso che i tg devono pensare a informare il pubblico - che paga il canone - in maniera corretta, il più possibile esaustiva e completa.
A rischio di un’informazione un po’ paludata...?
Ammetto che il tg regionale, per le sue stesse caratteristiche, certe volte rischia di essere un po’ noioso. Ma io non mi sento obbligato a trattare gossip o a proporre qualche bella figliola in abiti discinti per catturare ascolto. Grazie al cielo i nostri ascolti sono comunque notevoli, siamo comunque ai primissimi posti fra i venti tg regionali della Rai.
Secondo lei perché?
Perché a costo di fare a volte un tg noioso, ci siamo guadagnati sul campo una certa autorevolezza. Noi dobbiamo trattare temi spesso non facili, spesso problematici: crisi industraili, disoccupazione, problemi sociali, le famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine mese, le riunioni dei consigli regionali e il governo regionale, gli aspetti istituzionali della regione devono trovare spazio in tg pubblico. Noi crediamo in questa missione.
Com’è cambiata Trieste da quando lei ha cominciato a lavorare?
Trieste sta facendo dei grossi passi avanti, anche se a fatica. E molti di questi passi avanti sono legati alle nuove generazioni. Siamo una città difficilissima, che ha ancora delle ferite che si stanno rimarginando, ma che deve assolutamente guardare avanti. Con la politica dell’odio, delle barriere, dei confini, dei ricordi che fanno ancora male, non si va da nessuna parte. In questo, le nuove generazioni hanno un compito importantissimo.
Continui...
Bisogna guardare al futuro, aprirsi, dobbiamo considerarci come una città europea, dobbiamo guardare all’Europa come a una grande nazione fatta di regioni che devono abbattere i confini, perchè chiudendosi in se stessi non si va da nessuna parte.
So che è un discorso difficile da fare a Trieste, in una città che aveva i confini con la Jugoslavia a dieci minuti dal centro. Ma lo sviluppo futuro per i nostri figli e nipoti - conclude Marzini - è guardare a una città senza confini, che si deve sentire al centro d’Europa. E non ai margini di un paese.

venerdì 21 ottobre 2005

Della serie: piccoli divi crescono. O almeno stanno crescendo. E
quando il piccolo divo in questione si chiama Cesare Cremonini, beh, diciamo

la verità: siamo disposti a perdonargli quasi tutto. Anche quell’aria da

narciso un po’ esibizionista, che fra l’altro fa parte del mestiere,

sfoggiata ogni volta che il ragazzo sale su un palcoscenico con un microfono

in mano e un pubblico davanti.

A Cremonini - il cui tour teatrale ha fatto tappa ieri sera al Politeama

Rossetti - perdoni tutto, anche il fatto di aver ucciso praticamente nella

culla i suoi Lunapop, che gli avevano regalato il successo appena

diciannovenne, perchè oggi, che di anni ne ha venticinque, è uno dei

migliori autori giovani di musica pop del nostro Paese. E se qualcuno avesse

nutrito ancora dei dubbi, dopo l’ascolto del recente album «Maggese» e dei

precedenti, ebbene, questo nuovo spettacolo contribuisce a fugarli.

Platea giovanissima, completa anche di bambini in età da elementari. Lui

attacca con «Padre madre», che stava in «Bagus», il suo primo album solista,

uscito nel 2002. La prima sorpresa è l’orchestra, la London Telefilmonic

Orchestra, quasi tutta d’archi e quasi tutta femminile, che lo affianca.

Evidentemente il gruppo elettrico, con il fido Nicola «Ballo» Balestri, al

cantautore bolognese non basta più. Urgono nuove prove, stimoli che esaltino

il suo indubbio genio musicale. «Accettare le sfide è indice di coraggio -

confessa Cremonini -, mi sono costruito la sfida da solo e ho deciso di

mettermi alla prova. Non avevo voglia di palasport, di caos, di occhi

nascosti nel buio. Avevo voglia di vedere il pubblico negli occhi, di

toccarlo... E il teatro è l’unico spazio che rende possibile tale

desiderio».

E allora ben venga il teatro. E ben venga l’orchestra inglese, la stessa che

lo aveva già affiancato nella realizzazione dell’ultimo disco, pensato e

suonato fra la sua Bologna e Londra, con passaggio nei mitici Abbey Road

Studios dove registrarono i Beatles.

Ma non divaghiamo. Secondo brano in scaletta «Gli uomini e le donne sono

uguali», Cremonini si siede al pianoforte e la galoppata comincia. E

prosegue con «La fiera dei sogni». Il ragazzone bolognese parla col

pubblico, racconta e si racconta, scherza, si lascia andare, un po’ se la

tira, beandosi degli occhi che lo guardano e vanno in estasi.

Infila un brano che Gaber scrisse nel lontano 1970, quando lui e gran parte

dei presenti non erano ancora nati: «L’orgia», lo stesso interpretato

l’estate scorsa, a Viareggio, al festival del teatro canzone dedicato per

l’appunto al grande artista scomparso. Recupera «Walter ogni sabato un

trip», affonda con «Le tue parole fanno male». E dopo la strumentale «St.

Peter Castle» parte l’epopea di «50 Special», completa di raccontino

autobiografico sulla conquista del primo motorino.

Secondo tempo. Apre con «Momento silenzioso», prosegue con «Sardegna» e

l’inedita «Dev’essere così»: due canzoni che pagano un consistente debito a

un certo De Gregori. È tempo di «Marmellata #25», gradevole tormentone

dell’estate da poco conclusa, ma anche delle ormai classiche «Latin lover» e

«Vieni a vedere perchè», di un altro inedito che in realtà risale ai tempi

dei Lunapop («Il pagliaccio»), degli echi beatlesiani che impreziosiscono

«Maggese», ultimo brano in scaletta prima dei bis. E poi tutti a nanna

contenti. Che stamattina si va a scuola...

 
ROMA È morto a 81 anni in una casa di riposo Ezio Radaelli, organizzatore di

grandi manifestazioni musicali. Nato a Milano, organizzò le prime edizioni

di Miss Italia, poi varie edizioni del Festival di Sanremo, dal ’58 al ’61 e

dal ’67 al ’71. E fu l'inventore del «Cantagiro».



Con Radaelli se ne va l’ultimo patron della musica italiana. Dopo Gianni

Ravera e dopo Vittorio Salvetti. E si potrebbe pomposamente dire che si

chiude un’epoca, se non fosse che quell’epoca, pionieristica e forse

romantica, è già finita da un pezzo.

Era, quello degli anni Sessanta e Settanta, il periodo storico della canzone

e della discografia italiana. Quello seguito alla rivoluzione di Modugno nel

’58, ai primi cantautori, al beat italiano, ai complessi che scopiazzavano

in buonafede quanto di nuovo arrivava da oltremanica e da oltreoceano.

Quello di personaggi carismatici, un po’ mecenati e un po’ imprenditori, che

segnarono la crescita - e l’affrancamento almeno parziale dai modelli

stranieri - della musica popolare italiana.

Grandi discografici: Slanislao Sugar, Ennio Melis, Vincenzo Micocci, Nanni

Ricordi... Ma anche grandi impresari e organizzatori, ancora a mezzo

servizio fra piazze e televisione, il cui potere - oggi sterminato - era

ancora nascente. Salvetti inventò il Festivalbar sfruttando con intuizione

geniale il momento magico dei juke-box, e poi seppe trasformare la

manifestazione, che non a caso gli sopravvive nelle mani del figlio Andrea.

Ravera legò a doppio filo il proprio nome al Festival di Sanremo, che sotto

le sue cure era una macchina nella quale nessun dettaglio era affidato al

caso. Radaelli, oltre a tanti Sanremo (alcuni dei quali firmati in coppia

proprio con Ravera), legò il suo nome soprattutto al Cantagiro.

Era una manifestazione canora itinerante che si svolse ogni anno dal ’62 al

’72 (e venne ripresa con scarso successo fra il ’90 e il ’93). La formula

era presa in prestito dal Giro d'Italia di ciclismo: una carovana canora in

giro per la penisola, coi vari cantanti che si spostavano in comitiva e

gareggiavano tra loro giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico

delle varie città. Ogni sera veniva proclamato il vincitore di tappa, nella

tappa finale (a Fiuggi) quello assoluto dei vari gironi.

Radaelli - che da giovane era stato partigiano e dirigente sindacale - di

quelle carovane era l’anima. I cantanti non erano ancora divi

irraggiungibili, costruiti a tavolino da discografici attenti solo ai

numeri. La televisione non badava solo all’audience. Erano gli anni di

«Bandiera gialla», la storica trasmissione radiofonica di Arbore e

Boncompagni, di cui ieri sera è stata trasmessa su RadioDue un’edizione

speciale, nel quarantennale del debutto. Roba di un secolo fa.