TRIESTE Provate a dire «sassofono», nel mondo della musica leggera/pop/rock
italiana. Nove interlocutori su dieci, c’è da scommetterci, risponderanno
«Claudio Pascoli». Il musicista triestino, monfalconese di nascita (a
proposito, l’anagrafe della città dei cantieri ospita da sola più star dello
spettacolo che l’intera regione: Gino Paoli, Paolo Rossi, Elisa, lui...),
trapiantato prima a Milano e poi in Brianza ormai da oltre trent’anni, è
infatti il sassofonista più ricercato e più presente nei dischi, nei tour,
nei programmi tv più importanti degli ultimi venti/venticinque anni. «Se
penso a come tutto ciò è cominciato - dice Pascoli - mi sembra ancor oggi
tutto molto strano...».
Cominciamo dall’inizio?
«Sono nato nel ’47, a Monfalcone. Quando avevo tredici anni la mia famiglia
si trasferì a Trieste. Ho fatto il liceo scientifico, prima Oberdan e poi
Galilei. E mi sono iscritto senza troppa convinzione al primo anno di
medicina...».
Nel frattempo aveva scoperto la musica...
«Ho cominciato a suonare il sax nella banda di Monfalcone. Arrivato a
Trieste, nel ’61 sono passato a un’altra banda, quella del Ricreatorio
Brunner. All’epoca ogni ricreatorio aveva la sua banda, c’era un bel senso
della compagnia, e una sana rivalità fra le varie bande...».
Perchè il sax?
«Ero rimasto colpito dall’estetica dello strumento, oltre che dal suono.
Ricordo che nel ’59 rimasi affascinato da un servizio sul jazz su una
rivista, con splendide foto in bianco e nero di Gerry Mulligan, Stan Getz...
Che poi avrei scoperto alla radio, nei programmi che Sergio Portaleoni
conduceva a Radio Trieste. Ascoltavo gli assoli e li imparavo a memoria,
prima con la voce e poi con lo strumento».
Ma con la banda non suonava jazz...
«No, il repertorio si limitava alle solite Radetzky March con contorno di
canzoni triestine. Tranne il periodo dopo ogni Sanremo: imparavamo tutte le
canzoni e le suonavamo già una settimana dopo il Festival».
Ricorda il primo sax?
«Certo, lo comprai con una borsa di studio. Provavo ore e ore. Andavo a casa
di Portaleoni, che aveva una raccolta immensa, con un vecchio registratore a
bobine: registravo un sacco di roba, tornavo a casa e mi mettevo a studiare.
Poi c’era anche il Circolo triestino del jazz, all’epoca molto attivo».
Erano gli anni del beat...
«E dunque tempi nerissimi per il jazz. Tante chitarre, i primi strumenti
elettronici, tutta roba con cui non andavo d’accordo. Per fortuna alla fine
degli anni ’60 si è diffuso il rhythm’n’blues, la musica nera, con i fiati
in primo piano».
Lei aveva un gruppo?
«Suonavo con tanti complessi, come si chiamavano all’epoca. Poi, nel
’67/’68, con Toni Soranno e Fabio Ursich fondai i Combo. Una bella
formazione, facevamo il repertorio dell’epoca, lavoravamo nei migliori
locali della regione».
Il salto di qualità?
«Arrivò proprio nel momento critico. L’università non era la mia strada. E
cominciavo ad avere un’età in cui uno deve cominciare a capire cosa fare
nella vita. Fossi rimasto a Trieste, avrei dovuto trovarmi un lavoro
”normale” e suonare nel tempo libero...».
Invece...
«Invece, proprio nei giorni in cui avevo fatto un concorso al Lloyd
Triestino, mi chiama Euro Cristiani (batterista triestino che ha lavorato a
lungo con Umberto Tozzi, ndr). Era il ’72. Lui suonava a Torino con Patrick
Samson, quello di ”Soli si muore”. Ed era stato contattato per il tour di
Adriano Pappalardo, all’epoca primo in classifica con «È ancora giorno”...».
Insomma, gli serviva un sassofonista...
«No, magari... Gli serviva un trombonista, ma Euro mi spacciò per tale,
anche se io il trombone lo suonavo pochissimo. Comunque parto col mio sax.
All’inizio erano un po’ perplessi, poi è andato tutto bene...».
Tanto che...
«Arrivai alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti. Claudio Fabi,
vicedirettore artistico, mi propose di lavorare con lui, nell’ufficio
artistico».
Cosa faceva?
«Suonavo nei provini, ascoltavo i dischi che arrivavano dall’America,
scrivevo gli arrangiamenti... Insomma, un po’ di tutto. Ma era un lavoro. E
decisi di trasferirmi a Milano. Due anni in città, e poi dal ’75 in Brianza,
dove si sta più tranquilli. Ora vivo in un paese vicino Lecco».
Lei ha suonato con Lucio Battisti...
«Mi aveva sentito in sala d’incisione, per un 45 giri di Pappalardo. Mi fece
lavorare con lui per ”Anima latina”, l’album del ’74. Per sei mesi ho fatto
l’assistente di studio, dal primo giorno di lavoro a quello del missaggio
finale e della consegna dei nastri».
Che tipo era?
«Ovviamente un fuoriclasse dal punto di vista musicale. Raramente ho
incontrato artisti col suo piglio, la sua intelligenza, il suo istinto, la
sua sicurezza nell’andare in una direzione precisa. Era riservato, sia sul
privato che sulle scelte musicali. Non loquacissimo, anche se sapeva stare
in compagnia, non teneva gli altri a distanza».
Cosa ricorda maggiormente di lui?
«Che in studio aveva un atteggiamento professionale ma anche giocoso, quasi
ludico. Sapeva divertirsi, sperimentava... Era il periodo dei
sintetizzatori, dei processori del suono: era stato a Londra, aveva comprato
queste nuove meraviglie della tecnica, con lui il lavoro era anche
divertimento».
Suonò ancora con Battisti?
«Nel disco successivo, ”La batteria, il contrabbasso, eccetera”, nel ’76. Ma
lì feci solo lo strumentista. E il mio assolo ne ”La compagnia” mi ha fatto
conoscere nel giro. Era moderno per quei tempi, colpì molto nell’ambiente.
La mia carriera cominciò da lì...».
Facciamo un gioco. Io le dico un nome e lei... Franco Battiato.
«Con lui ho fatto ”La voce del padrone”, con cui nell’81 sbancò dopo anni di
sperimentazione. A un certo punto decise di realizzare un disco che avrebbe
venduto molto. E ci riuscì. Personalità forte, con una sicurezza simile a
quella di Battisti».
Eugenio Finardi.
«Con lui ho fatto ”Sugo” e ”Diesel”. Anni ’70, festival di Parco Lambro, le
molotov ai concerti, la musica politica. Era un po’ un casino...».
Il compianto Ivan Graziani.
«Un futurista, un pazzo dalle idee surreali, simpatico. Con lui ho fatto ”La
ballata delle quattro stagioni” e ”Pigro”...».
Il Nobel Dario Fo.
«Due mesi di teatro, nel ’77/’78, alla Palazzina Liberty. Lo spettacolo era
”La signora da buttare”, una satira ambientata al circo. Come tanti uomini
di teatro, piegava la metrica musicale alle sue esigenze».
Gianna Nannini.
«Con lei ho fatto quel disco che aveva in copertina la Statua della libertà
(”California”, del ’79 - ndr). Dopo tanti anni mi ha chiamato perchè voleva
delle lezioni di sax. Dopo tre o quattro incontri ha rinunciato...».
Roberto Vecchioni.
«Tanti tour e dischi, l’ultimo l’anno scorso. Persona di grande cultura,
grande affabulatore. Magari a volte parla un po’ troppo, ma ha scritto
alcune canzoni bellissime».
Un altro che parla tanto: Francesco Guccini.
«Beh, lui - come Fiorello, con cui ho fatto l’ultimo tour - è divertente.
Persona coltissima. Una volta mi ha regalato un libro di Carpinteri &
Faraguna...».
Il grande De Andrè.
«Che dire... Forse solo che ci manca. Una spanna su tutti gli altri. Cultura
micidiale. Se in tour qualcuno faceva la Settimana Enigmistica, era
imbattibile. Un tour con lui, suonando le tastiere».
Vasco.
«Ero con lui nell’84/’85, ai tempi di ”Bollicine”, in un periodo un po’
strano. Visti gli eccessi, nel tour il manager Guido Elmi aveva imposto un
rigido proibizionismo. E la situazione era un po’ tesa...».
De Gregori.
«Prima di cominciare a suonare dice sempre ”vamos trabajar...”, andiamo a
lavorare. Ha questo senso della musica come lavoro, come impegno. Un poeta,
di grande umanità. Non è distaccato: non ha quell’espansività forzata che
oggi va per la maggiore...».
L’azienda Pooh.
«Con loro tutto è perfettamente organizzato. Grande rispetto per le esigenze
dei musicisti, forse perchè hanno fatto una lunga gavetta. Un’azienda,
appunto...».
Ivano Fossati.
«Ho lavorato con lui già nel ’73, nel disco con Oscar Prudente. Poi
nell’87/’88, ai tempi de ”La pianta del te”. Linguaggio alto, colto. Ma i
concerti erano una sorta di work in progress, sempre in evoluzione».
Fiorella Mannoia.
«Persona eccezionale. Sembra altera ma è l’opposto: sarebbe un’ottima
attrice comica. Forse il marito-manager-chitarrista, Piero Fabrizi, è un po’
ingombrante. Ma ha il merito di averla condotta sul binario giusto».
Eros Ramazzotti.
«Con lui ho un ricordo strepitoso di un concerto al Radio City Music Hall di
New York. Ora mi sembra gravato da una sorta di ”pesantezza industriale”.
Nel nuovo disco, la cosa migliore è il suo canto soul in ”La nostra
vita”...».
L’impegno più recente: Celentano.
«Con lui, dal ’79 a oggi, ho fatto dischi, tour italiani ed europei, tutti i
programmi tv tranne il ”Fantastico” dell’86. Lui è sempre uguale. Ha
un’ipervalutazione di se stesso: vuol salvare il mondo. È naif, ha
quell’ingenuità che funziona».
Rockpolitik?
«La bufera era fuori. Dentro eravamo tranquilli. Per me se n’è parlato
troppo, si è fatta troppa dietrologia. Le ultime due settimane sono state un
po’ pesanti: prove saltate, errori... E Celentano non ammette mai gli
errori. Per il resto è un grande».
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