mercoledì 23 febbraio 2011

DALLA e DE GREGORI / primo tabloid

 
Mannaggia alla maturità, mannaggia agli anni che passano e forse regalano equilibrio ma certo sottraggono entusiasmo, incoscienza, voglia di rischiare. Prendete Lucio Dalla e Francesco De Gregori, il cui tour “Work in progress” ha fatto tappa ieri sera in un Politeama Rossetti tutto esaurito. Il pubblico triestino li aspettava assieme da trentun anni e mezzo, visto che “Banana Republic” (leggi qui a destra) non fece mai tappa in città.

Quelli che nel ’79 erano due baldi giovani, con carriere ancora in fase di decollo, oggi sono due tranquilli signori col cappello (68 anni la settimana prossima il bolognese, 60 ad aprile il romano) che hanno avuto tutto dalla vita e dalla professione. E probabilmente il meglio della loro eccellente creatività lo hanno già dato, scrivendo pagine importanti della storia della canzone italiana. Allora cantavano «ma dove vanno i marinai», quasi a indicare la ricerca di un significato per esistenze, personali e collettive, in cerca di un approdo alla fine dei tumultuosi anni Settanta. Oggi, in una delle poche canzoni nuove dello spettacolo, ammettono che «una canzone non basta e non basta saper cantare». Perchè «ci vuole tempo e pazienza per imparare il dolore». E «la luna si è spostata come la vita che passa o che l'abbiamo passata, così tanto per vivere senza farci del male».

Parole che dicono molto di uno spettacolo e di due artisti che sul palco entrano uno nel brano dell’altro, si divertono a scambiarsi le canzoni, s’intrufolano - l’uno con l’armonica, l’altro con clarinetto o sax - in ogni pertugio musicale libero.

Ognuno offre alla causa i suoi classici. Dalla apre con “Tutta la vita” e “Anna e Marco”. De Gregori risponde con “Titanic” e “La leva calcistica della classe ’68”. Il brevilineo prosegue con “Nuvolari” e “Futura”. Il lungagnone replica con “Viva l’Italia” (applauso particolarmente lungo, in questi tempi patriottici...) e “L’abbigliamento del fuochista”, introdotta dall'inutile recitato di Marco Alemanno, da “La fine del Titanic” di Enzensberger. Ma arrivano anche "L'ultima luna", "Sempre e per sempre", "Agnello di dio", "La valigia dell'attore", “Disperato erotico stomp", "Alice", "Piazza grande" e tanti altri classici. I due non potrebbero essere più diversi: Dalla è un irresistibile clown, istrione, animale da palcoscenico; De Gregori è l'elegante e distaccato "principe" della nostra canzone, ma non ha mai cantato così bene. Fra i brani nuovi, oltre al citato “Non basta saper cantare”, che apre il secondo tempo, brilla “Solo un gigolò”, mirabile riscrittura della vecchia “Just a gigolò” di Louis Prima. Al Rossetti, concerto godibilissimo e successo più che caloroso. Pubblico di mezza età, come gli artisti sul palco. Pochini i giovani, anche se il momento è favorevole per i “vecchi cantautori”, come dimostra la vittoria di Vecchioni a Sanremo. Chissà che l’anno prossimo Dalla non ci faccia un pensierino...

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Ma com’è nata questa “reunion”, a distanza di trentun anni dall’ormai mitico tour “Banana Republic”? Spiega Lucio Dalla: «Due estati fa dovevo suonare a Solferino, per i 150 anni della Croce Rossa. Mi viene in testa di invitare Francesco, convinto, conoscendolo, che avrebbe detto di no. Invece lui viene e cantiamo assieme ”Santa Lucia”, una delle sue canzoni che amo più, che quasi gli invidio».

E poi? «Poi ci accorgiamo che era il 24 giugno 2009, anniversario della battaglia che fece l’Italia ma anche trentennale del debutto di ”Banana Republic”. Ci è sembrato un segno del destino». E il destino va accettato. Primo concerto nel gennaio 2010, in un locale di Nonantola, nel modenese. Poi a maggio i concerti a Milano e Roma, l’estate scorsa il tour nelle piazze (passato anche da Udine, in ricordo del concerto nel luglio ’79 allo Stadio Friuli) e ora quello nei teatri. Sempre con questo titolo, ”Work in progress”, che è già una dichiarazione di intenti .

domenica 20 febbraio 2011

SANREMO ultimo


Questa maledetta notte dovrà pur finire, canta Roberto Vecchioni. E vince a sorpresa (di solito le canzoni migliori qui arrivano ultime) il 61.o Festival di Sanremo. Con un brano, ”Chiamami ancora amore”, che parla di immigrati («per la barca che è volata in cielo, che i bimbi ancora stavano a giocare»), dell’«operaio che non ha più il suo lavoro», di chi «ha vent’anni e se ne sta a morire in un deserto come in un porcile», dei ragazzi «così belli a gridare nelle piazze, perché stanno uccidendoci il pensiero». Parla insomma dell’Italia vera, sana, pulita, quella che non sta nei reality, non cerca scorciatoie, quella per la quale non esiste solo il dio denaro.

Avevamo lasciato il Festival in balìa dei talent show, l’abbiamo ritrovato - grazie a Vecchioni e all’emozionante monologo di Roberto Benigni - di nuovo specchio di un Paese migliore, che forse è arrivato per davvero alla vigilia di una salutare svolta. «Svegliatevi, svegliamoci! svegliarsi è l’unico modo per realizzare i propri sogni...», ha ricordato il Premio Oscar trasportando nell’attualità il verso dell’Inno di Mameli che dice «l’Italia s’è desta». Chissà, potrebbe essere un segnale al Paese, da parte di quell’universo parallelo - un po’ baraccone, un po’ anticipatore delle svolte sociali e forse anche politiche - che dal lontano 1951 è il Festival.

Festival che per la prima volta, da molti anni a questa parte, è stato vinto in entrambe le categorie dalle canzoni migliori e dagli artisti più meritevoli. Fra i Giovani, dove abitualmente la qualità viene massacrata, è infatti stato premiato Raphael Gualazzi, che è solo l’ultima scoperta, in ordine di tempo, di quella geniale discografica che è diventata nella sua seconda vita Caterina Caselli. Il suo raffinato jazz formato canzone rappresenterà l’Italia all’Eurosong, ovvero il vecchio Eurofestival.

Dati sulla finale. Media di 12 milioni e rotti di spettatori davanti al video nella lunga maratona conclusasi dopo l’una di notte,<WC1> pari a uno share del 52%<WC>. Vecchioni ha preso 225.714 televoti (48,3%), Emma e i Modà 186.217 (39,8%), Al Bano 54.957 (11,7%).

Dietro al Professore, dunque, buona affermazione della cantante e del gruppo dati per favoriti alla vigilia. In particolare, la vincitrice di ”Amici” (che purtroppo aveva dato al Festival gli ultimi due campioni: Valerio Scanu l’anno scorso, Marco Carta due anni fa) ha dimostrato personalità di interprete ma anche bella stoffa di giovane donna: la sua carriera è solo all’inizio, non sarà una meteora. Per quanto riguarda l’eterno gorgheggiatore di Cellino San Marco, dopo esser stato eliminato la seconda sera e ripescato la terza, è stato premiato dallo zoccolo duro più tradizionalista del pubblico.

Ieri scrivevamo che già si parla di un Morandi bis. Il direttore di Raiuno (una delle ”mazze” del Festival, copyright Luca e Paolo...) conferma: «Per la prossima edizione rivoglio Morandi, con il direttore artistico lavoreremo a questo obiettivo». Speriamo lascino a casa almeno la Canalis. E comunque, se non si mettono d’accordo, Massimo Ranieri è già pronto. Ma stiamo uniti.

SANREMO finale


Roberto Vecchioni meritatamente primo con ”Chiamami ancora amore”. Dietro di lui Emma e i Modà con ”Arriverà” e poi Al Bano con ”Amanda è libera”. È questo l’«anziano» podio (primo e terzo sono nati nel ’43) del 61.o Festival di Sanremo. Di cui rimarranno soprattutto l’emozionante lezione storica di Roberto Benigni, la satira bipartisan delle ”iene” Luca e Paolo, una manciata di belle canzoni (su tutte: proprio quella di Vecchioni), ma anche il godibile ”come eravamo” di ieri sera fra Gianni Morandi e Massimo Ranieri. Al netto del ”piccolo giallo” sorto ieri sul televoto, quando è stata rivelata una graduatoria parziale che invece doveva rimaner segreta (con seguito di polemiche, proteste, esposti...)

Cominciamo da Morandi. Con mezzo secolo di carriera alle spalle, dopo aver inciso a caratteri indelebili il proprio nome nella storia della canzone ma anche del costume italiano, a sessantasei anni (portati splendidamente, va da sè), il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro si è lasciato tentare dall’avventura di firmare un Festival. Lui che è sempre stato cantante, a volte attore, nemmeno autore.

E va subito detto che il meglio l’ha dato allestendo il cast, portando in gara artisti di valore e canzoni presentabili, pur senza tradire la vocazione ”tuttifrutti”, un colpo al cerchio della qualità e uno alla botte della tradizione, senza la quale Sanremo non è Sanremo. Ma Morandi non è un conduttore, tantomeno un intervistatore, e il fatto di avere a disposizione ben sei autori (per lui, Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis) non gli ha evitato di evitare figure imbarazzanti.

Da certi passi falsi - si pensi alle gaffe con la Bellucci e alle cosiddette interviste a De Niro e Andy Garcia, mentre ieri con Ranieri era comprensibilmente più a suo agio - altri sarebbero usciti con le ossa rotte: rispediti a casa, bravo ma basta e a mai più rivederci. Il Gianni nazionale è invece troppo amato da tre generazioni di italiani, disposti a perdonargli tutto, sull’altare della sua bonomia e di essere quell’«uno su mille» che ce la fa e non si monta la testa. Risultato: mentre il suo «Stiamo uniti, siamo una squadra...» è già un tormentone, lui esce da questo Festival da vincitore. E alla Rai, complici gli alti ascolti realizzati, qualcuno sta già pensando di affidargli il bis.

Di certo un bis non lo meritano le due bellone. La sarda Canalis frequenterà pure Hollywood, grazie al fidanzato Clooney, ma è rimasta velina nella testa (fu lì che debuttò, a ”Striscia”, nel ’99) e ha la presenza scenica di una pianta di mirto. Passerà alla storia il figurino rimediato in qualità di ”traduttrice” delle domande a De Niro: in un’occasione ha tradotto in inglese la domanda dopo che l’attore aveva già risposto in italiano, poi si è bloccata su un misterioso - almeno per lei - termine inglese del vecchio Bob che raccontava dell’infanzia a Little Italy. E la chiacchierata è praticamente finita lì.

Meno peggio l’argentina Belen, che almeno è più reattiva, meno rigida, balla bene. «Una scienziata» anche rispetto al fidanzato Corona, come le hanno cantato ieri Luca e Paolo sulle note di ”Grazie perchè”. Ma siamo comunque nel territorio di quelle bellezze femminili con le quali - scusate, signore - tutto fila liscio finchè tacciono.

È chiaro che, dinanzi alle due stangone, giganteggiano le due ”iene” Luca e Paolo. Qualcuno li ha accusati di aver subìto i diktat Rai di ”bilanciare” politicamente i propri interventi. Una sorta di par condicio dello sfottò. Ma i risultati danno ragione alla coppia: dopo l’esilarante ”Ti sputtanerò” della prima serata, che sulle note di un vecchio successo morandiano ha messo alla berlina Fini e Berlusconi (il più preso di mira durante tutto il Festival) e la fine del loro amore politico, non meno azzeccati sono risultati ieri il monologo sugli ondivaghi ”valori della sinistra” e l’altra sera la gragnuola di colpi ai dirigenti del Pd, sull’aria di un altro classico di Morandi, ”Uno su mille”. Domandina: dove sta scritto che si può ridere solo dell’imbarazzante sultano di Arcore e non di certi figuri del centrosinistra, che hanno permesso all’altro di farci precipitare nell’abisso attuale?

Lasciamo perdere, ch’è meglio. E segnaliamo che un altro punto al merito delle due ”iene” è l’umiltà. «Fare i comici sul palco dell'Ariston dopo Roberto Benigni è come girare un film porno dopo che l'ha fatto Rocco Siffredi...», hanno detto giovedì, prima di ridurre al minimo le loro gag. Sì, perchè la terza serata del Festival è stata marchiata a fuoco, come gli zoccoli del cavallo bianco in sella al quale si è presentato in teatro, dal monologo del grandissimo ”piccolo diavolo”.

Benigni è stato invitato per proporre una sorta di esegesi dell’inno d’Italia, nella serata celebrativa dei 150 anni dell’unità del nostro scassato ma sempre vivo Paese. Poteva far solo quello, o fregarsene e buttarsi sull’appetitosa - per un comico - attualità politica. Da artista sublime qual è, ha saputo far molto di più. Prima non ha risparmiato qualche battuta sulle insane passioni del presidente del Consiglio, poi ha snocciolato una lezione di storia coi fiocchi, di quelle che i professori nelle scuole non hanno mai saputo fare, tenendo incollati venti milioni di italiani allo schermo per quasi cinquanta minuti di monologo.

Un monologo sul senso dell’essere italiani che ha messo d’accordo tutti. Non a caso solo la Lega non ha gradito, forse anche per la lezioncina impartita a Bossi e ai suoi («Umberto, nel testo non è l’Italia a essere schiava di Roma, il soggetto è la vittoria...»). Un monologo sull’idea di un’Italia pulita che, nei giorni delle polemiche sull’istituzione della festa nazionale il 17 marzo (di nuovo solo la Lega contraria), è finito dritto al centro del dibattito politico, con tanto di complimenti di Napolitano e proposta di farlo vedere nelle scuole. Grande Benigni, davvero, definito da Mogol ”il nuovo Chaplin”.

Rimangono le canzoni, che teoricamente sarebbero la cosa più importante, in un Festival che si ostina a chiamarsi ”della canzone italiana”. Ripetiamo ormai da troppi anni che la miglior canzone italiana non frequenta Sanremo da troppo tempo, o meglio: lo frequenta solo parzialmente, a piccole dosi omeopatiche. E ripetiamo anche che, Morandi o non Morandi, nell’Italia dei nuovi media e delle nuove tecnologie è folle continuare ad allestire uno spettacolo televisivo - di questo si tratta - che dura cinque sere, cominciando all’ora di cena per protrarsi fino all’una di notte (poco più, poco meno).

Ma qui va ripetuto anche che l’«eterno ragazzo» ha saputo far bene il suo lavoro di direttore artistico, di selezionatore di artisti e canzoni. E il 61.o Sanremo ha brillato di una manciata di grandi interpreti e di belle canzoni. Su tutte, come si diceva, quella che ha vinto: ”Chiamami ancora amore” parla senza retorica della nostra povera Italia del 2011, rimanda alle cose migliori dell’ormai quarantennale repertorio di Vecchioni, che al Festival c’era già stato nel lontano ’73 con ”L’uomo che si gioca il cielo a dadi” e ha avuto l’umiltà di tornarci, in gara, a sessantotto anni. E vincere.

Dietro di lui, in un’ideale classifica di qualità, sicuramente i La Crus con l’atmosfera retrò di ”Io confesso”, elegante gioiellino che pesca nella nostra miglior tradizione cantautorale. Di certo Luca Madonia con Franco Battiato, raggiunti nella serata dei duetti dall’altra catanese Carmen Consoli, per proporre una versione da incorniciare della loro ”L’alieno”.

Da ricordare anche la freschezza folk di Davide Van De Sfroos (”Yanez”), la naiveté stralunata di Tricarico (”Tre colori”), la vittoria jazzata fra i Giovani di Raphael Gualazzi. Occasione sprecata invece per due brave interpreti provenienti da ”X Factor” come Nathalie e Giusy Ferreri, penalizzate da brani inadeguati. Mentre per Patty Pravo vale il discorso opposto: ”Il vento e le rose” non è una brutta canzone, anzi, ma è l’ultima diva che ormai non è più in grado di cantare senza stonare. Il resto? Da dimenticare. Come sempre.

sabato 19 febbraio 2011

SANREMO 3


Per fortuna è arrivato Roberto Benigni, a risollevare le sorti del 61.o Festival di Sanremo, che altrimenti - Morandi o non Morandi, satira o non satira - alla terza serata rischiava già di annegare nella solita noia. Il ”piccolo diavolo” arriva dalla platea alle 22.30 su un cavallo bianco, agitando il tricolore. Ripete due volte «Viva l’Italia!», saluta Morandi, gli fa i complimenti. Prima punturina: «Avevo dei dubbi a entrare col cavallo, perchè ai cavalieri ultimamente non gli va mica tanto bene...».

Ripete sillabando: «Siamo qui per parlare e-sclu-siva-mente dell’inno di Mameli e dell’Unità d’Italia». Ammicca ai caporioni Rai nelle prime file e butta lì: «Il verso ”dov’è la vittoria” sembra scritto per il Pd». Poi si scatena con le minorenni: anche la Cinquetti sedicenne a Sanremo si era spacciata per la nipote di Claudio Villa, per sapere di Ruby bastava andare all’anagrafe a vedere se Mubarak si chiama di cognome Rubacuori, Silvio Pellico che ha scritto ”Le mie prigioni” («prima di trovare un altro Silvio che scrive un libro così...»), Cavour è il secondo statista degli ultimi 150 anni ma ha avuto anche lui problemi con la nipote di Metternich.

Poi diventa serio: tutti i protagonisti del Risorgimento erano giovani, hanno dato la vita per noi, Garibaldi era un mito in tutto il mondo, in Italia è nata prima la cultura e poi la nazione, i valori del patriottismo sano. La storia del poema risorgimentale diventato inno prima sulle barricate e poi dell’italia risorgimentale.

L’esegesi verso per verso. «L’Italia s’è desta: svegliatevi! svegliarsi è l’unico modo per realizzare i propri sogni...». Un altro celebre verso gli permette di spiegare «a Umberto»: nel testo non è l’Italia a essere schiava di Roma, il soggetto è la vittoria (della serie: Bossi, prendi e porta a casa). L’omaggio al tricolore, alle donne, il saluto finale, il canto a cappella dei primi versi dell’Inno d’Italia. Poi gli applausi prolungati, la standin’ ovation, tutto il teatro in piedi, l’emozione autentica. Quasi cinquanta minuti, una vera lezione di storia. Di quella storia che potrebbe far ancora appassionare i nostri ragazzi.

La serata, dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia, era cominciata con il balletto tricolore di Daniel Ezralow intitolato ”Italia unita”, con Elisabetta Canalis al braccio di un’inedita Belen Rodriguez vestita da uomo («ormai siamo una coppia di fatto»), con l’omaggio di Luca e Paolo al grande Giorgio Gaber («ha fatto un solo errore: ci ha incoraggiati a fare questo mestiere»).

Poi spazio ai quattordici big, stavolta alle prese con brani in qualche modo legati alla storia del nostro Paese. Fuori dall’Ariston un gruppo di manifestanti canta ”Bella ciao”, l’inno della Resistenza protagonista di una polemica della vigilia e poi non inserito fra le canzoni prescelte.

Apre allora Davide Van de Sfroos, che abbandona per l’occasione il dialetto del lago di Como e regala un’onesta versione di ”Viva l’Italia” (1979), di Francesco De Gregori. Di fatto è un’altra sberla alla Lega, che tante volte aveva tentato - peraltro senza successo - di tirarlo per la giacchetta.

Anna Tatangelo, per cantare ”Mamma” (1940), di Beniamino Gigli, si è vestita da donna. Forse dando ascolto a chi ha spiegato la sua provvisoria eliminazione della prima serata con il look maschile e aggressivo. Arriva Anna Oxa, l’altra eliminata di martedì sera, che ha scelto di puntare sulla classicissima ”O sole mio” (1898), nota soprattutto per la versione di Enrico Caruso. Ancor più classica la scelta di Al Bano, bocciato dalle giurie della seconda serata: una ridondante ”Va pensiero” (1842), dal Coro del Nabucco verdiano.

Il padrone di casa lascia per tre minuti le vesti del bravo presentatore e partecipa anche lui alla festa. Lo fa alla sua maniera, cantanto ”Rinascimento”, musica di Gianni Bella («l’ha scritta pochi giorni prima di essere colpito da un ictus...») e parole di Mogol. Bella canzone, Morandi la interpreta nella maniera migliore. E poi quasi si commuove, quando si rivolge all’amico malato: «Ciao Gianni, spero che tu ti rimetta presto».

Tocca a Patty Pravo, che completa il poker degli eliminati, due dei quali sono stati ripescati proprio ieri sera: l’ultima diva, l’ex ragazza del Piper si rivela perfettamente adeguata all’atmosfera retrò di ”Mille lire al mese” (1938). Riesce persino a non stonare, cosa ultimamente molto rara.

Morandi pesta un piede a Belen (con simbolo pacifista griffato Moschino sulla schiena nuda), che lo sovrasta sempre di una spanna, e introduce Luca Madonia per ”La notte dell’addio”, brano non molto noto che Iva Zanicchi portò al Sanremo del 1966, quando faceva ancora la cantante e tutti eravamo più felici (del fatto che facesse la cantante, of course). E stavolta Battiato dirige l’orchestra.

Scambio di freddure delle due ”iene” con l’eterno ragazzo. «È bello vedere Masi, il direttore generale della Rai, in platea - dicono Luca e Paolo - perchè vuol dire che così non chiama». E poi: «Guarda, c'è La Russa, ma allora esiste. Pensavo che fosse una parodia. Se è ministro lui vuol dire che c'è speranza per tutti». Ancora: «La ringraziamo perchè ha parlato bene di noi sui giornali, ma se potesse smentire sarebbe meglio, perchè a casa ci hanno tolto il saluto».

Microfono a Giusy Ferreri, che regala una versione miagolante e accelerata di ”Il cielo in una stanza” (1960), di Gino Paoli. L’effetto è straniante. Molto meglio la lettura che un’altra donna di ”X Factor” regala della battistiana ”Il mio canto libero” (1972): Nathalie è brava, funziona meglio come interprete che come autrice, deve solo trovare un repertorio all’altezza della sua personalità.

Si torna al Risorgimento italiano con ”Addio mia bella addio” (1848), grazie a Luca Barbarossa con Raquel Del Rosario. Meglio ”Here’s to you” (1971), di Joan Baez, dalla colonna sonora di ”Sacco e Vanzetti”, nella versione dei Modà con Emma. Che ha declinato, perchè voleva rimanere concentrata sul Festival, l’invito rivoltole da Santoro per un collegamento con ”Annozero”, dopo la sua partecipazione alla manifestazione di domenica per la dignità delle donne.

Max Pezzali canta con Arisa ”Mamma mia dammi cento lire” (primi del Novecento): non lasciano traccia. Altra classe, altra statura di interprete per ”O surdato ’nnammurato” (1915), nobilitata dal milanese («ma sono figlio di genitori napoletani») Roberto Vecchioni.

Arriva il momento di Benigni. Poi completano la serata La Crus con ”Parlami d’amore Mariù” (1932), di Vittorio De Sica, e Tricarico con Toto Cutugno, venuto di persona per duettare nella sua classicissima ”L’italiano” (1983). Nella maratona c’è ancora spazio per i rimanenti quattro Giovani (stasera la loro finale) e per il ripescaggio di due big. Ma ormai è notte fonda.

giovedì 17 febbraio 2011

SANREMO 2


Sanremo alla seconda serata, affiora la noia. Dopo che il debutto è stato nel segno di poche belle canzoni (Vecchioni su tutti) ma soprattutto della satira delle ”iene” Luca e Paolo. La loro ”Ti sputtanerò”, sull’aria di un vecchio successo di Morandi, dedicata a Fini e Berlusconi, è già la canzone più ascoltata e cantata del Festival. Altro che i big in gara.

L’«eterno ragazzo» di Monghidoro si ripresenta per fortuna senza la Clerici ma di nuovo con quella improponibile giacca fosforescente: appare più rilassato, forse rinfrancato dagli ottimi dati degli ascolti. Uno spezzone per ognuna delle due eliminate della prima sera, Anna Tatangelo e Anna Oxa, che però già stasera possono essere ripescate e concorrere alla vittoria finale.

E poi entra ”l’argentina più amata dagli italiani”, Belen Rodriguez: scambio di cortesie con l’altra bellona del Festival di quest’anno, la sassarese Elisabetta Canalis. Morandi scherza: «Ma non dovevate litigare? Così non facciamo notizia». Poi riattacca col tormentone autoironico: «Dài, stiamo uniti, siamo una squadra...».

Comincia la seconda passata di sedicenti big. Prima cantante in gara Nathalie, poi c’è Al Bano. Il secondo ascolto non aggiunge molto a quello della sera precedente. La vincitrice dell’ultimo ”X Factor” è brava, ma questa sua ”Vivo sospesa” non le rende giustizia, passa via senza lasciare traccia. Il patriarca pugliese di Cellino San Marco, che al quindicesimo Sanremo ha scoperto la canzone di denuncia sociale con ”Amanda è libera”, non risulta assolutamente credibile. È proprio vero: ci sono certi artisti che non accettano la dignitosa uscita di scena.

La situazione migliora con il godibile medley che Luca e Paolo dedicano ad alcuni grandi successi di Morandi. Che alla vigilia aveva detto: canterò solo nella serata-evento dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia (dunque stasera, e il brano previsto è ”Rinascimento”, di Mogol e Gianni Bella). Ma evidentemente si lascia trascinare dalla simpatia delle due ”iene”, entra e accenna ”Un mondo d’amore”.

Tocca a Emma con i Modà: ”Arriverà” ha un crescendo che funziona, e non a caso è data fra i brani favoriti per la vittoria finale. Unico problema: dovesse salire sul podio, dopo le vittorie di Marco Carta e Valerio Scanu, sarebbe la prova della dittatura dei campioni di ”Amici” sul Festival.

Ma ecco la diva Patty Pravo, che la prima sera era sembrata la caricatura di se stessa. Scivola sempre su qualche stecca di troppo, ma la sua ”Il vento e le rose” non è una brutta canzone. Anzi.

Si conferma invece una bella e originale canzone ”Tre colori”, gioiellino senza tempo che Tricarico maneggia con cura: sembra quasi aver paura che il giocattolo che Fausto Mesolella (Avion Travel) gli ha affidato possa rompersi da un momento all’altro.

Arrivano gli immancabili fiori di Sanremo. E le due ”iene” non perdono l’occasione: «Diamo i fiori alle mazze», e scendono in platea coinvolgendo il direttore di Raiuno Mauro Mazza e il direttore artistico Gianmarco Mazzi seduti in prima fila. E aggiungono: «Direttore, ci scusi se ieri l'abbiamo preso per i fondelli...»

È il turno del primo ospite internazionale, l’attore Andy Garcia, che chiacchiera con Morandi, fa il galante con le primedonne del Festival («Io guardo... ma non tocco...»), poi si siede al pianoforte e intona il suo canto per ”Cuba libre”. «Dedico questa canzone a Cuba, che vorrei fosse libera. Come l'Italia», dice l’attore americano originario proprio dell’isola caraibica, da dove è andato via due anni prima della rivoluzione castrista e dove non ha più messo piede.

Tornano i cantanti. Max Pezzali con il suo oreccchiabile, ma tutto sommato innocuo rockettino. Luca Madonia con Franco Battiato, che canta solo l’ultima strofa della raffinata canzone ma finisce per sembrare proprio lui, ”L’alieno” del Festival. Luca Barbarossa con Raquel Del Rosario: al secondo ascolto il loro allusivo duetto ha già stufato. Meglio, molto meglio la classe senza tempo degli eleganti La Crus. E anche Davide Van De Sfroos: forse non aiutato dal dialetto del suo lago, che non permette di cogliere appieno l’ironia dei suoi eroi salgariani sbarcati sulla riviera romagnola, ma certo una bella boccata d’aria fresca, in mezzo a tante atmosfere e melodie mosce.

Il gioco della satira di Luca e Paolo stavolta funziona così: il primo tenta di portare il discorso su Berlusconi, il secondo tira in ballo Roberto Saviano («che pare che la lotta alla camorra la fa solo lui...») e Michele Santoro («e chissà se andremo ancora in onda...»), Gianfranco Fini («appena ha visto una ragazza giovane ha perso la testa: ci credo la casa a Montecarlo, con tutti quei parenti...») e Luca Cordero di Montezemolo. Ma l’effetto è meno esilarante della serata precedente.

Completano il cast dei big il grande Roberto Vecchioni (applausi a scena aperta e ovazioni per la sua bellissima ”Chiamami ancora amore”) e la sempre più incerta Giusy Ferreri. In fondo, quasi fosse un obbligo, fra altre chiacchiere, ospiti e battute, si trova spazio anche per la prima parte della gara dei Giovani. Che il Festival dovrebbe valorizzare e invece relega in tardissima serata.

«Sono partiti in settecento e sono arrivati in otto», dice Morandi. I quattro in gara ieri sera: la brava Serena Abrami, con ”Lontano da tutto”, scritta da Niccolò Fabi; il pianista jazz Raphael Gualazzi, che ha già un certo successo in Francia, con ”Follia d’amore”; Anansi (Stefano Banno), un passato di corista con Roy Paci, con ”Il sole dentro”; Gabriella Ferrone, con ”Un pezzo d’estate”, che mette in luce una bella sensibilità soul. E la serata scivola via bella moscia.

SANREMO 1


Ci hanno pensato le ”iene” Luca e Paolo, a dare una bella scossa alla prima serata del 61.o Festival di Sanremo. La loro satira era temuta dalla banda (Masi, Mazzi, Mazza...) che circonda il povero Gianni Morandi. E grazie alla diretta, non censurabile, è arrivata puntuale. Entrando a botta sicura sull’attualità.

Ma andiamo per ordine. Peggior inizio di serata non poteva essere architettato. Il passaggio del testimone fra l’insostenibile Antonellona Clerici e l’ecumenico Morandi si è infatti trasformato in un imbarazzante siparietto nel quale la conduttrice della passata edizione non ha esitato a coinvolgere l’incolpevole e stranita figlioletta di appena due anni. Unico pregio della scenetta: è durata poco.

Un balletto, due parole di circostanza e spazio subito alle canzoni, quelle canzoni sulle quali l’«eterno ragazzo» di Monghidoro, classe 1944, smoking luccicante e farfallino, ha puntato molto per dare sostanza al ”suo” Festival.

Rompe il ghiaccio Giusy Ferreri, la ”Amy Winehouse di Abbiategrasso” (ma è nata a Palermo). La sua ”Il mare è immenso” ha una bella grinta rock ma non rimane in testa. Arrivano Luca e Paolo, sembrano quasi intimiditi. Ma è una finta, una manovra diversiva.

Secondo cantante Luca Barbarossa, che per tornare al Festival vinto nel ’92 (”Portami a ballare”, ricordate?) ha scelto di farsi scortare dalla star spagnola Raquel Del Rosario, nota anche in quanto moglie del pilota Fernando Alonso: la loro ”Fino in fondo” è un discreto duetto con esplicite allusioni erotiche.

Ci pensa Roberto Vecchioni ad alzare - e di molto - il livello qualitativo della serata: la sua ”Chiamami ancora amore” è la classica canzone che ti aspetteresti dal Professore, parla della nostra povera Italia del 2011 («per tutti i ragazzi, così belli a gridare nelle piazze, perchè stanno uccidendoci il pensiero..»), ci riconcilia con quella forma d’arte nobile e popolare che sa essere la canzone. Era da anni che il sessantottenne cantautore milanese non scriveva un pezzo così bello, che avrebbe già vinto il Festival, se il Festival di Sanremo venisse vinto dalla canzone migliore.

Si ritorna sulla terra con Anna Tatangelo, le cui cose migliori sono l’indubbia avvenenza e le due note di un vecchio brano di Prince che ne introducono l’ingresso in scena (ogni concorrente è infatti ”accompagnato” da citazioni di classici del rock: ”Satisfaction” per Vecchioni, ”Let’s dance” per la Ferreri, mentre lo stacchetto morandiano è ”Un mondo d’amore”...). La ”Bastardo” proposta dalla compagna di Gigi D’Alessio, invece, è tutta da dimenticare.

Molto meglio i La Crus: ”Io confesso” pesca con eleganza nella tradizione cantautorale di casa nostra, ha un’atmosfera retrò e si conclude con un omaggio a Morricone.

È passata un’ora dall’inizio del Festival e finalmente Morandi introduce Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez. La prima in rosso, la seconda in azzurro. Entrambe una spanna più alte del caposquadra. Belle, molto belle, niente da dire. Ecco, forse questo è il punto: nonostante abbiano sei autori, fra cui il celebre Federico Moccia, non hanno proprio niente da dire...

Arriva Max Pezzali, con ”Il mio secondo tempo”, un rockettino orecchiabile e scanzonato in stile 883, il duo dei suoi primi successi. Meglio il dialetto ”laghè” (cioè del Lago di Como) di Davide Van de Sfroos, all’anagrafe Davide Bernasconi: la sua ”Yanez” profuma di suggestioni folk, l’idea dell’eroe salgariano che sbarca sulla riviera romagnola vale da sola il prezzo del biglietto.

Ma ecco finalmente Luca e Paolo. Annunciano «un omaggio a due grandi comici». Appaiono sul grande schermo le faccione di Fini e Berlusconi. E sulle note di ”In amore”, un vecchio successo proprio di Morandi con Barbara Cola, il primo attacca: «Ti sputtanerò, al Giornale andrò con in mano foto dove tu sei con un trans, poi consegnerò le intercettazioni e alle prossime elezioni sputtanato sei».

Risponde l’altro: «Ti sputtanerò, con certi filmini che darò alla Boccassini dove ci sei tu, le mostrerò donne sopra i cubi e ci metto pure Ruby e ti fotterò». E avanti con Emilio Fede, Lele Mora, la casa a Montecarlo, la Santanchè, l’Olgettina, Noemi e la D'Addario, Minetti e Ghedini... Finale: «Ti sputtanerò, non mi butti giù, sì ma il 6 aprile in aula ci vai solo tu». Applausi, ma anche fischi, a dimostrazione del pubblico particolare che frequenta l’Ariston. Imbarazzo nelle prime file, ma lo stesso Morandi riappare in scena con una faccia che la dice lunga.

Torna la gara. La camaleontica Anna Oxa con ”La mia anima d’uomo”, il patriottico Tricarico di ”Tre colori”, Emma e i Modà già dati per favoriti con la loro ”Arriverà”. Completano il cast dei big Luca Madonia con Franco Battiato, Patty Pravo, Nathalie e Al Bano. Ma le polemiche sulla canzoncina delle ”iene” sono partite subito. Oggi si prevede il seguito. Censura in arrivo? Tutto è possibile.

martedì 15 febbraio 2011

SANREMO presentazione


Del 61° Festival di Sanremo, che comincia stasera nella canonica diretta su Raiuno, come sempre accade nelle vigilie finora si è parlato per cose assai poco musicali.

Nell’ordine. Prima la polemica sull’esecuzione di ”Bella ciao” ingenuamente proposta da Gianni Morandi per la sera di giovedì, dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Proposta finita nel nulla quando Gianmarco Mazzi, che divide con lui la direzione artistica e per fortuna non la conduzione, in una sorta di folle par condicio ha proposto anche la fascistissima ”Giovinezza”.

Poi grandi titoli sull’assai presunta rivalità fra le due primedonne (guai a chiamarle vallette...) Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez..Sull’altrettanto presunta maternità della modella sudamericana. Sull’assenza delle due bellone alla presentazione svoltasi due settimane fa a Roma. Sulla possibile presenza al Festival dei rispettivi fidanzati: ovvero il bel George Clooney, che tutti vorrebbero veder arrivare, e l’ingombrante Fabrizio Corona, che molti vorrebbero tener lontano dalla città dei fiori. Persino sulla ventilata censura alle battute delle ”iene” Luca e Paolo, che completano la squadra del Festival.

Stasera, finalmente, la parola passerà alle canzoni. E il pubblico potrà giudicare il certosino lavoro svolto da Morandi: fatto di inviti, suggerimenti e infine selezione degli artisti e delle canzoni in gara.

Un risultato, l’eterno ragazzo di Monghidoro, per la verità l’ha già raggiunto. All’interno della solita macedonia tuttigusti che ogni anno è il cast sanremese, il nostro è riuscito a portare - in certi casi per la prima volta - nomi che fanno parte della miglior tradizione della musica e della canzone italiana.

Si è già parlato di ”festival dei cantautori”, e in effetti la presenza di alcuni artisti - chissà, forse rassicurati dalla ”garanzia” di avere Morandi sulla tolda di comando - permette di usare questa definizione.

Innanzitutto Roberto Vecchioni, che era già stato al Festival nel lontano ’73 con ”L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, e che vi torna alla bella età di sessantotto anni con una gran canzone che parla dell’Italia di oggi: ”Chiamami ancora amore” è esattamente il brano che ti aspetti dal Professore, roba di qualità, come sul palco dell’Ariston raramente si è ascoltato.

Franco Battiato - che a Sanremo ’81 aveva vinto come autore di ”Per Elisa”, cantata da Alice - al Festival arriva di persona per la prima volta, ma solo come spalla di Luca Madonia. L’ex Denovo propone ”L’alieno”, e quando Morandi ha saputo che stava lavorando assieme all’illustre corregionale, è partito l’invito («vieni anche solo per cantare un verso...»), che quasi a sorpresa è stato accettato.

Ma cantautori sono anche Luca Barbarossa, che canta assieme alla star spagnola Raquel Del Rosario la sensualissima ”Fino in fondo”; il comasco Davide Van De Sfroos, che proporrà nel dialetto del suo lago ”Yanez”; i due La Crus, tornati assieme solo per l’occasione di cantare al Festival la loro ”Io confesso”; l’originale Tricarico, al terzo Sanremo in quattro anni con la patriottica ”Tre colori” (scritta però da Fausto Mesolella, degli Avion Travel); la talentuosa Nathalie fresca di vittoria a ”X Factor”, che canterà ”Vivo sospesa”; tutto sommato anche Max Pezzali, che ha scelto l’Ariston per proporre ”Il mio secondo tempo”...

Una bella schiera, non c’è che dire. Completata da un altro gruppetto che pesca fra tradizione festivaliera e provenienza - di questi tempi assai consigliata - dai talent show imperanti. Del primo gruppo fanno parte Al Bano, che al quindicesimo bollino sanremese inaugura una svolta quasi sociale con la sua ”Amanda è libera”, che parla di violenza sulle donne; Anna Oxa, all’ennesima trasfigurazione non solo estetica con ”La mia anima d’uomo”; Anna Tatangelo, che non va per il sottile sibilando un esplicito ”Bastardo”; Patty Pravo, sempre sospesa fra classe e passi falsi, stavolta alle prese con ”Il vento e le rose”.

Dal secondo gruppo, oltre alla citata cantautrice Nathalie, arrivano anche Giusy Ferreri, lanciata dal primo ”X Factor” (canterà ”Il mare immenso”) e la salentina Emma, vincitrice dell’ultima edizione di ”Amici”, che assieme ai Modà, gruppo lanciato dal popolo di internet, proporrà il brano ”Arriverà”.

Le previsioni della vigilia li danno fra i papabili per la vittoria finale. Un’eventualità che, se si realizzasse, porterebbe al terzo Festival consecutivo vinto dal giovane arrivato a Sanremo con la corona di vincitore della fabbrica di talenti orchestrata da Maria De Filippi: due anni fa Marco Carta, l’anno scorso Valerio Scanu... Anche se stavolta il televoto, determinante nelle ultime due edizioni, è stato assai opportunemente bilanciato da un maggior peso dato alle giurie di qualità.

Da segnalare ancora che la Tatangelo, reduce dalla sua partecipazione come giudice a ”X Factor”, nella serata dei duetti chiamerà al suo fianco proprio Dorina, la triestina nata a Tirana che faceva parte della sua squadra al ”talent show” di Raidue e con la quale, almeno all’inizio, il rapporto non era stato dei migliori.

Stasera apertura con l’ideale passaggio di consegne fra Antonellona Clerici, forte dei suoi ascolti record dell’anno scorso, e Gianni Morandi. Difficile però che la bionda conduttrice monopolizzi l’inizio del Festival, come aveva fatto Paolo Bonolis nel passaggio di testimone di dodici mesi fa.

Poi spazio ai quattordici cantanti della sezione più importante. Nelle sere successive toccherà anche agli otto giovani, ai duetti, alle canzoni storiche, agli ospiti... In attesa di sapere chi vince, ma soprattutto di confrontare i dati dell’Auditel. In fondo, trattasi pur sempre di uno spettacolo televisivo. Altro che Festival della canzone italiana. 

domenica 13 febbraio 2011

DISCHI / JOVANOTTI + giusy ferreri


Ci sono certe carriere già scritte nell’album d’esordio, che tante volte è anche il migliore di un artista. Non a caso si parla della ”sindrome del secondo disco”, a voler indicare le difficoltà che molti incontrano, dopo un debutto di qualità, nel proseguire sullo stesso livello.

Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, romano di origini toscane, classe 1966, è la miglior negazione di questo assunto. Si pensi infatti che il suo primo album, uscito nel 1988, s’intitolava ”Jovanotti for president”, subito bissato l’anno succcessivo dagli altrettanto evanescenti ”La mia moto” e ”Jovanotti special”. Ed è tutta roba che non passerà alla storia della musica italiana.

Certo, non c’era bisogno di attendere questo ottimo ”Ora” (doppio cd, SoleLuna/Universal), suo dodicesimo album in studio, per accorgersi della grande trasformazione, artistica, musicale e culturale, che l’ex dj scoperto, anzi, ”inventato” da Claudio Cecchetto, ha avuto nel corso degli anni.

È infatti da almeno tre lustri, se non di più, che Jovanotti è un’altra persona e dunque un altro artista rispetto ai citati esordi. Ha scelto di mantenere lo pseudonimo che gli ha portato fortuna, ma per tutti - anche su tanti titoli dei dischi - è ritornato innanzitutto Lorenzo.

E Lorenzo oggi ha sfornato un disco di qualità, che per inciso è anche subito salito ai vertici delle classifiche di vendita. Quattro anni dopo ”Safari”, in un momento difficile da un punto di vista personale, seguito alla scomparsa della madre e del fratello, l’artista si mette a nudo con un disco che suona davvero bene, che riesce nel miracolo di mettere assieme tradizione cantautorale e reminiscenze dance, melodia e ritmo, tentazioni rock e filosofia pop.

Apre con ”Megamix”, quella dove canta che c’è ”un po’ di apocalisse e un po’ di Topolino”. Prosegue con belle canzoni molto ”alla Jovanotti”, come ”Tutto l’amore che ho” e la stessa ”Ora” scelta per il titolo. Affonda il colpo con le virate rock di ”Il più grande spettacolo dopo il big bang”.

Sperimenta quel che fino a ieri aveva messo da parte, cioè le suggestioni dance, con brani come ”Spingo il tempo al massimo” e ”Io danzo”. Non dimentica di inoltrarsi ancora nel terreno delle ballate, con ”Le tasche piene di sassi” e ”L’elemento umano”, e della musica etnica, con ”La bella vita”. Sorprende chi non ne conosce la sensibilità, ispirandosi alla canzone francese con ”Quando sarò vecchio”.

Ma nel disco, un disco allegro, quasi a compensare il momento difficile da un punto di vista personale, c’è in realtà molto di più. Dice Jovanotti: «Che cos'altro abbiamo se non la possibilità di celebrare l'Ora? Rivolgersi al futuro con fare speranzoso non sempre funziona, mentre affrontare l'Ora con un atteggiamento positivo paga. A me è successo, e racconto questa esperienza. In questo disco c'è la mia visione della musica. A me piace il tempo che passa, per questo uso sempre la mia faccia come copertina dei dischi, perchè dalla mia faccia vedo il suo scorrere».

Insomma, è diventato anche un saggio, il ragazzo che cantava ”È qui la festa?”...



CRISTINA DONA'

Finora Cristina Donà è stata un’artista cosiddetta di nicchia, cantautrice talentuosa molto apprezzata dalla critica e da una parte tutto sommato piccola del pubblico. ”Torno a casa a piedi” (Emi Music), il suo nuovo album, già entrato nelle classifiche di vendita, potrebbe avere il merito di allargare molto la platea dei suoi estimatori.

Una raccolta di canzoni che> celebrano la vita attraverso piccole istantanee. Come quella che dà il titolo all’album: una fotografia di una coppia di amanti in un caffé, una coppia di amanti ormai stanca e demotivata, incastrata nelle piccole noie di tutti i giorni.

«Osservando la scena - afferma Cristina - ho cercato di ritrarla con leggerezza e ironia. Tornare a casa a piedi è una scelta, non un imprevisto, è per me sinonimo di liberazione e anche simbolo di libertà. È un momento di riflessione, di indipendenza, di autonomia. Durante lo spostamento a piedi è possibile osservare con più tranquillità le cose. Si possono meglio cogliere i dettagli che compongono la realtà, dove ogni scontata normalità nasconde, quasi sempre, lo straordinario, nel bene e nel male».

Oltre al primo singolo ”Miracoli” e al brano citato, il disco propone ”Un esercito di alberi”, ”In un soffio”, ”Giapponese (l'arte di arrivare a fine mese)”, ”Lettera a mano”, una toccante ”Più forte del fuoco” (dedicata a Niccolò Fabi e alla sua compagna dopo la tragica scomparsa della loro bimba), ”Aquilone”, il momento acustico di ”Bimbo dal sonno leggero” e quello rock di ”Tutti che sanno cosa dire”.

Spicca la voce graffiante, da rocker di razza, dell’artista lombarda. Una voce ormai matura e definita, proprio come lo stile musicale di questo disco, che brilla ormai di un suo proprio marchio di fabbrica.

Dopo tanta gavetta, insomma, Cristina Donà ormai è un’artista che si riconosce al primo ascolto. E rispetto al precedente ”La quinta stagione", si nota una crescita, un passo avanti che va nella direzione della maturità ormai raggiunta.





GIUSY FERRERI

Domani sera, nella prima serata di Sanremo, Giusy Ferreri canterà ”Il mare immenso”, una ballata rock che ha scritto con Bungaro e Max Calò, alla quale affida le sue speranze di bissare il successo dell’album di cover ”Fotografie”, ma soprattutto quello dei precedente ”Gaetana” e ”Non ti scordar mai di me”. Il brano farà parte de ”Il mio universo”, nuovo disco di inediti che sfoggia la collaborazione di autori come Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone, Francesco Bianconi, Roberto Casalino, Rudy Marra, Massimiliano Zanotti, Luca Rustici e Ania, Gennaro Cosmo Parlato. La cantante lanciata dal primo ”X Factor” ha firmato lei stessa cinque brani dell'album, per il quale si è affidata a quattro differenti produttori, fra i quali spicca Corrado Rustici, raggiunto per l’occasione nei suoi studi di San Francisco. Fra i brani: ”Dèjà vu”, ”Piccoli dettagli”, ”Hai scelto me”, ”Noi brave ragazze”, ”Rossi papaveri”, ”Il mio comandamento”... Dopo Sanremo, vada come vada il Festival, Giusy sarà in tour a primavera. 



 AMICI 10

Uno degli interrogativi del Festival di Sanremo che comincia domani sera è vedere se per il terzo anno consecutivo vincerà una creatura di ”Amici”. Dopo Paolo Carta e Valerio Scanu, stavolta la candidata è Emma, già vincitrice dell’ultima edizione del ”talent show” targato Mediaset, che si presenta assieme al gruppo dei Modà. In attesa di sapere come andrà a finire (la bionda salentina è già fra le favorite...), becchiamoci questa nuova compilation dei ragazzi di Maria De Filippi. Dentro ci sono undici tracce di cui dieci inedite che, ancora una volta, toccano tutti i generi musicali. Apre ”Io nego”, di Simone Annichiarico e Francesco Marino, già diventato tormentone grazie alla voce di Francesca Nicolì. La giovanissima cantante pugliese interpreta anche l'ultimo brano del disco, ”Sono bugiarda (I’m a believer)”, unica cover, già nota nell’antica versione di Caterina Caselli. Ma ci sono anche Annalisa Scarrone (”Inverno” e ”Cado giù”), il cantautore Virginio Simonelli (”Non ha importanza” e ”A maggio cambiò”), Diana Del Bufalo (”Nelle mie favole”), Antonella Lafortezza (”Nell’immensità”)... Ragazze e ragazzi da tener d’occhio. 

sabato 12 febbraio 2011

POOH


Nel 1966 l’America di Lyndon Johnson bombardava il Vietnam, la Russia comunista di Breznev spediva una sonda spaziale sulla Luna, in Italia c’era Aldo Moro a capo di un quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri, ai mondiali inglesi di calcio la Corea del Nord umiliava l’Italia, i Beatles cantavano ”Yellow submarine”, Berlusconi costruiva le prime palazzine, il Sessantotto doveva ovviamente ancora arrivare... E nascevano i Pooh.

Sono passati quarantacinque anni. Il mondo di oggi sembra un lontano parente, nemmeno troppo somigliante a quello di allora. Ma i Pooh ci sono ancora, rassicuranti come la mamma ed eterni come il rincorrersi delle stagioni. Il segreto della loro longevità si ignora dove stia. Chissà, forse riuscirà a capirlo il pubblico triestino giovedì e venerdì al Politeama Rossetti (inizio alle 21, biglietti ancora disponibili nel circuito tradizionale delle prevendite).

«Ma in realtà quel segreto è molto semplice - dice Red Canzian, che dei tre Pooh attuali è quello entrato nel gruppo per ultimo, nel comunque lontano ’73 - e si chiama amore per la musica, rispetto per il pubblico, passione per questo mestiere. È questa la ricetta che ci ha permesso di superare tutte le crisi, compresa l’ultima...».

L’uscita di Stefano D’Orazio, dopo la quale pochi avrebbe scommesso sulla vostra volontà e capacità di andare avanti.

"È vero. Stefano ci aveva comunicato due anni e mezzo fa la sua determinazione a smetterla. Non ce la faceva più, sentiva che una fase della sua vita si stava chiudendo, aveva voglia di fare altre cose. All’inizio noi tre (Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e lo stesso Red - ndr) eravamo molto in dubbio su cosa fare. C’era tanta confusione».

Come ne siete venuti fuori?

«Passando assieme le vacanze di Natale del 2009, parlando fra noi, scoprendo che avevamo voglia di continuare. Allora ci siamo messi due mesi a scrivere, ognuno per conto suo. Quando ci siamo ritrovati, ricordo che era il 28 febbraio 2010, abbiamo ascoltato il materiale che avevamo scritto. E ci siamo resi conto che in quelle registrazioni c’era la musica con la quale potevamo ancora presentarci dinanzi al nostro pubblico».

Dalla possibile fine al rilancio?

«Sì, ma anche da un fatto negativo come una rottura (peraltro assolutamente civile e amichevole: abbiamo scritto le musiche per il suo musical ”Aladin”) a un’iniezione di nuovo entusiasmo, di rinnovata voglia di comporre e suonare».

Ma allora l’ultimo periodo in quattro facevate finta...

«Questo no. Diciamo che eravamo entrati nella routine, davamo tutto per scontato, come nelle coppie stanche, quando non si pensa più all’altra persona. La separazione aveva creato una certa tensione. Ora abbiamo ritrovato un’amicizia, un affiatamento, una compattezza che col tempo avevamo smarrito».

Nel nuovo disco, ”Dove comincia il sole”, c’è aria di anni Settanta. Vi siete salvati tornando alle origini?

«In un certo senso sì. In quell’anno di riflessione, fra l’uscita di Stefano e la ripartenza in tre, ci siamo chiesti che cosa ci aveva fatto diventare grandi, che cosa ci aveva permesso di passare dalle balere di provincia agli stadi, dalla gavetta allo status di gruppo pop più famoso d’Italia».

E vi siete risposti...

«...che era stato l’amore per la musica, per una certa musica di quando anche noi eravamo ragazzi. Insomma: i Beatles, i Pink Floyd, i Genesis, quella gente lì. E da lì, da quella stagione irripetibile della musica internazionale, dal nostro grande amore per quei grandi gruppi, siamo ripartiti in cerca delle nostre radici».

Le avete trovate?

«Direi di sì, almeno a giudicare dalla reazione del pubblico in questi concerti che stiamo tenendo in giro per l’Italia. Da questa svolta, da questa scossa che l’essere rimasti in tre ci ha dato, è venuto fuori un album molto amato, che amiamo ancor più ora che lo portiamo dal vivo nei concerti. Con brani nuovi che profumano della stagione musicale nella quale i Pooh sono nati».

Si aspettava un batterista al posto di D’Orazio, ma la vostra scelta è stata diversa.

«Sì, nel disco e nei primi sette concerti nei palasport c’era con noi il grande Steve Ferrone, batterista inglese che non ha bisogno di presentazioni, avendo suonato fra gli altri con artisti del calibro di Eric Clapton e Paul Simon. Ma la collaborazione con lui è stata a livello di ”guest star”».

Costava troppo?

«No, non è quello. È che per la quotidianità, abbiamo bisogno di musicisti più vicini a noi, anche fisicamente. E ora con noi tre, in questo tour, ci sono Danilo Ballo alle tastiere, Ludovico Vagnone alle chitarre e Phil Mer alla batteria. Il primo era già nostro collaboratore in sala d’incisione, il secondo ha lavorato con Andrea Bocelli e Miguel Bosè, il terzo...».

È vero che al terzo, la prima batteria, quand’aveva solo cinque anni, gliel’ha regalata lei?

«Ebbene sì, Phil è figlio di mia moglie. Ma non si pensi a un becero caso di nepotismo. Lui è bravissimo: ha già collaborato con Pino Daniele, con Patty Pravo, con Malika Ayane. Quella prima batteria gliela regalai io, i maligni dicono per dirottarlo su uno strumento nel quale non mi avrebbe fatto concorrenza... Scherzi a parte, a sette anni Phil si divertiva già a suonare la batteria di Stefano, veniva ai nostri concerti, conosceva tutte le nostre canzoni prim’ancora di venire a suonare con noi».

Insomma, la temuta categoria dei ”figli dei Pooh” cresce...

«Non posso negarlo. Del resto dieci o quindici anni fa i backstage dei nostri concerti somigliavano a degli asili infantili. Tutti i nostri figli sono cresciuti in mezzo alla musica, ma in un ambiente sempre serio e professionale. Accorgendosi che si tratta di un lavoro affascinante ma non di un gioco».

Sua figlia Chiara Canzian che fine ha fatto, dopo il Sanremo Giovani di due anni fa?

«Ora è a New York, suona con un gruppo di musicisti americani, a marzo esce il suo nuovo album. Anche lei sta trovando pian piano la sua strada, come ha fatto Francesco Facchinetti, come sta facendo Daniele Battaglia, per non parlare di Alessandra Facchinetti, affermata stilista, per ora l’unica fuori dal giro della musica».

Morandi vi voleva in gara a Sanremo?

«Sì, è venuto a trovarci ai primi di gennaio. Ma purtroppo non è stato possibile. Poi ha detto che il suo unico rammarico è non aver convinto i Pooh. Davvero carino».

In compenso siete andati a suonare in America.

«Sì, abbiamo fatto due concerti in Canada, alle Niagara Falls, e due negli Stati Uniti, ad Atlantic City. Noi tre da soli, in acustico. Pubblico soprattutto di italoamericani, dire che erano entusiasti è poco...».

Di Trieste cosa ricorda di più?

«Tantissimi concerti. Quella famosa volta che Stefano passò una notte al Coroneo, nel ’74, perchè aveva difeso ”troppo animatamente” una ragazza che per strada era stata trattata male da un tale, che poi si era rivelato essere un colonnello dei carabinieri... Ma anche una notte in barca, quattro anni fa, dinanzi alla stupenda piazza dell’Unità...».

Al Rossetti che spettacolo fate?

«Uno spettacolo sobrio, compatto, abbastanza rock. Un miscuglio fra cose nuove e i nostri classici, in un’atmosfera a tratti medioevale, quasi fantasy, come nelle nostre suite dei primi anni Settanta. Cominciamo con ”Dove comincia il sole” e chiudiamo, quasi tre ore dopo, con ”Questo sono io”: i brani che aprono e chiudono il nuovo disco. In mezzo, ovviamente c’è tutta la nostra storia».

Una sorpresa?

«Facciamo per la prima volta dal vivo ”Il tempo, una donna, una città”, una suite di nove minuti che stava nel nostro album del ’75 ”Un po’ del nostro tempo migliore”. Pezzo difficile, finora non ce l’eravamo mai sentita. Ma stavolta siamo in sei...».

sabato 5 febbraio 2011

INTERVISTA LUCIO DALLA


"La storia è fatta di fluttuazioni. Dopo anni bui, possono e debbono arrivare tempi migliori. Anche se non sai mai quando hai toccato il fondo. Ecco, mi sforzo di pensare, di sperare che l’Italia sia alla vigilia di un nuovo rinascimento, di una vita migliore, nella quale ci si occupi di cose più importanti. Oggi il mondo sembra grigio, ma qualcuno può sempre accendere la luce, prendere coscienza, provocare una reazione. Del resto, è proprio quando ti viene negata la libertà che la cerchi con più forza, con più ostinazione...».

Lucio Dalla riflette a voce alta, in una pausa del tour che lo sta riportando in giro per l’Italia assieme all’antico sodale Francesco De Gregori. Il loro ”Work in progress”, a trentadue anni dal mitico ”Banana Republic”, è già alla terza tranche. Dopo i teatri della primavera scorsa e le piazze dell’estate (con tappa anche a Udine, a settembre), ora i due tornano giovedì 10 al Nuovo di Udine e lunedì 21 al Rossetti di Trieste.

«Dovrebbe essere l’ultima parte - annota il cantautore e musicista bolognese, classe 1943 -, ma se poi si deve andare avanti, per me va bene lo stesso. Ci divertiamo...».

Com’era l’Italia di ”Banana Republic”, l’Italia del ’79?

«Più stimolante, più piacevole, più curiosa, forse anche più autentica. Sentivamo il vento delle idee nuove, di una socialità diversa. C’era la voglia di tirar fuori la parte migliore di ognuno di noi».

Oggi?

«C’è più tecnologia, ma tutto sembra molto più finto, essendo virtuale. La realtà risulta più annacquata. Anima e cervello vengono alterati, spesso sono peggiori».

Nel ’79 venivano a vedervi i giovani, oggi un pubblico di tutte le età.

«È vero. Vengono ai concerti anche ragazzi che non ci avevano mai visto dal vivo. La cosa non mi turba, sono sempre stato trasversale, avendo fatto cose come ”Caruso” e ”Henna”, ma anche ”Attenti al lupo” e ”Canzone”. Ma vedo che anche De Gregori, più radicale, si diverte dinanzi a questo slittamento verso un mondo più generalista, transgenerazionale...».

È vero che vi frequentate solo sul palco?

«Verissimo, oggi come allora. C’è stima e rispetto reciproco, ma non c’è quell’amicizia intesa come uscire la sera, andare a cena, giocare a carte. C’è condivisione dei momenti importanti. Che a mio avviso è la radice vera dell’amicizia».

Com’è nata l’idea della ”reunion”?

«Due estati fa dovevo suonare a Solferino, per i 150 anni della Croce Rossa. Mi viene in testa di invitare Francesco, convinto, conoscendolo, che avrebbe detto di no. Invece lui viene e cantiamo assieme ”Santa Lucia”, una delle sue canzoni che amo più, che quasi gli invidio».

Poi?

«Poi ci accorgiamo che era il 24 giugno 2009, anniversario della battaglia che fece l’Italia ma anche trentennale del debutto di ”Banana Republic”. Ci è sembrato un segno del destino».

Ricorda la tromba d’aria che colpì lo Stadio Friuli di Udine, poche ore prima del vostro concerto, nel luglio ’79?

«Perfettamente. I ragazzi della Fgci, che organizzava il concerto, andarono a comprare tutti i phon che trovarono nei negozi udinesi. E asciugarono in quella maniera rudimentale tutte le casse acustiche dell’impianto, che erano fradice d’acqua...».

Morandi vi ha fatto qualche ”proposta indecente”?

«No, di Sanremo non si è nemmeno parlato. Anche se non ho nulla contro il Festival. E tantomeno contro Gianni, con cui ho fatto un altro tour in qualche modo storico: ”DallaMorandi”. Ho sempre amato lavorare con artisti apparentemente lontani fra loro. Le differenze aggiungono sempre qualcosa. Mi divertono».

Si divertiva anche con il poeta Roberto Roversi?

«Da lui ho soprattutto imparato, quando a metà degli anni Settanta scrivemmo assieme la trilogia di ”Automobili”, ma anche dopo, quando abbiamo collaborato ancora assieme, come nel brano ”Comunista”, che stava nel mio album ”Cambio”, del ’90. Ha appena compiuto 88 anni, lo vedo ancora, rimane un mio forte punto di riferimento culturale».

Dopo Roversi cominciò a scriversi anche i testi.

«Sì, da lui ho imparato la disciplina vera della scrittura. Ricordo che mi dava grande soddisfazione lavorare con lui. Dopo quella collaborazione evidentemente mi sentii pronto. Roversi mi fece scoprire un mondo diverso da quello che conoscevo».

Molti anni dopo si è fatto attirare dalla lirica.

«Quello è sempre stato un mio grande amore. Ormai ho fatto diverse regie. Ora devo tornare in Irlanda per uno Stravinkij e un ”Arlecchino” di Busoni. È che non ho abbastanza tempo...».

Ecco, dove trova il tempo per fare tutto?

«Non lo so. Mi aiuta il fatto di avere tre studi di registrazione: a Bologna, alle Tremiti e sulla barca. Sto scrivendo anche tre colonne sonore: per il nuovo film di Pupi Avati, ”Il cuore grande delle ragazze”, per un ”Pinocchio” di Enzo D’Alò, e per un altro film la cui sceneggiatura è stata scritta dal nipote di Bob Kennedy».

E magari sta lavorando anche al nuovo disco.

«Certo. Sto scrivendo le canzoni. L’album uscirà a Natale. L’altro giorno ero a Bologna, al bar sotto casa mia, che fra l’altro sta chiudendo, e c’era un piccione che mi tormentava. Ne è venuto fuori un pezzo, che per ora ho intitolato senza troppa fantasia ”Il piccione”».

Lei frequentava Berlusconi...

«Sì, ai tempi di Craxi. Tipo simpatico, generoso, divertente. Lo considero un amico anche se non condivido nulla di lui. Già allora si intuiva che avesse un destino diverso dall’edilizia e dalle televisioni, anche se non pensavo diventasse il protagonista di vent’anni di storia politica. Come non avrei mai pensato che il degrado arrivasse a questo punto. Ma ormai l’argomento è abusato, è difficile parlarne».

Siamo a fine impero?

«Boh. Di certo in altri paesi, se uno avesse fatto un quarto di quel che ha fatto lui, sarebbe a casa già da un pezzo. Comunque non mi ha mai sconvolto lui, mi turbano quelli che lo votano. E forse continueranno a votarlo».