sabato 26 maggio 2007

«Ho perso le mie origini e non voglio ritrovarle, preferisco navigare nelle leggi della natura e farmi afferrare dalle zampe dell’oceano...». Sono versi di «Wanderlust», uno dei brani più emblematici - e migliori - di «Volta» (Universal), il nuovo album di Björk, il cui tour quest’estate fa tappa anche nella nostra regione, il 21 luglio a Villa Manin.

Dopo «Vespertine» (2001) e «Medulla» (2004), l’artista islandese sembra voler tornare con i piedi per terra, mischiando elettronica e suoni tribali. Non a caso nel disco suonano musicisti di varie nazionalità: Toumani Diabete, dal Mali, suonatore di kora; il gruppo Konono No1 dal Congo; Min Xiao-Fen, suonatore di pipa cinese; un gruppo di fiati femminile islandese; i batteristi Chris Corsano e Brian Chippendale, americani...

Ancora una volta pop sperimentale di qualità, con la personalissima voce del genietto islandese a cercare il punto di incontro fra avanguardia e musica popolare, persino ballabile. Con l’aggiunta qua e là di sonorità giapponesi, ricordi di carillon e ninnenanne, suoni della natura e rumori del mondo contemporaneo. Lei ha detto che voleva «muovere il corpo, tutti i muscoli, il sangue e le ossa. Con quest'album volevo semplicemente divertirmi...». Dopo quasi quindici anni di carriera solista, Björk sembra comunque pronta a una ripartenza, a una nuova svolta, peraltro lasciata trasparire già dal titolo dell’album. Che nasce - rivela l’ex cantante dei Sugarcubes, che quando aveva quattordici anni formò la sua prima punk band tutta al femminile, nella quale suonava la batteria - «dal fascino subito per i termini ”voltage” e ”voodoo” e dal nome del noto inventore delle batterie, lo scienziato italiano Alessandro Volta». I brani del disco: «Earth intruders» (singolo che ha anticipato l’album), «Wanderlust», «Dull flame of desire», «Innocence», «I see who you are», «Vertebrae by vertebrae», «Pneumonia», «Hope», «Declare independence», «My Juvenile» e le bonus track «I see who you are» e «Mark Bell Mix». Due parole anche sull’originale copertina, nella quale la ragazza s’infila in un costume che la fa sembrare un gigantesco pollo. Spiritosa e autoironica...




Nuovo disco anche per il californiani Linkin Park, campioni del «nu-metal». Il titolo, «Minutes to midnight» (Warner), è ispirato al Doomsday Clock, l'orologio dell’apocalisse creato all'università di Chicago all'indomani della bomba atomica lanciata dagli Usa a Hiroshima: «Si tratta di un orologio - ha spiegato il cantante Chester Bennington - che mostra soltanto l'ultimo quarto d'ora, dalla linea che segna il minuto 45 fino a quella della mezzanotte. Al minuto 45 significa che il mondo è relativamente stabile ma dal momento che, come razza umana abbiamo creato il potere nucleare, ci troviamo sempre a quindici minuti dalla fine del mondo...». L’album - già ai vertici delle classifiche di vendita - arriva a quattro anni dal precedente lavoro in studio, «Meteora», e ha richiesto due anni di lavoro. Nelle dichiarazioni della vigilia, doveva rappresentare un’apertura del suono della celebratissima band verso nuovi orizzonti, ma la sensazione è che il solco nel quale Bennington e compagni si muovono sia sempre lo stesso: rock duro, rabbioso, solo a tratti malinconico, ma tutto sommato abbastanza classico. I brani più riusciti: «No more sorrow» e «Hands held high».


Due anni dopo «Convivendo» (primo progetto discografico in due puntate, totale un milione e duecentomila copie: «Best Male Selling Italian Artist» ai World Music Awards 2005...), Biagio Antonacci torna alla carica con un nuovo album di inediti. «Vicky Love» (Universal) propone undici canzoni («È soffocamento», «Lascia stare», «C'è silenzio», «Sognami», «L'impossibile», «Coccinella»...) che si muovono nell’universo sentimentale e artistico proprio del cantautore lombardo. Lo stile intimista non viene abbandonato, insomma, ma la costruzione musicale dei brani, molto «suonati», denota un’attenzione verso suoni e atmosfere dei decenni passati. Spiega Antonacci: «Dopo "Convivendo", che è un lavoro molto pop, volevo tornare a sentire la batteria, quella suonata, non campionata. Sì, questo è un disco più crudo, scarno; ci sono canzoni spesso non ”tecnicamente” radiofoniche, come negli anni '70, tipo "Coccinella" che dura sei minuti, con una coda molto lunga, di sola musica, ma ben venga... aiuta a pensare».




Dopo un’assenza maggiore ritorna anche Miguel Bosè. «Papito» contiene diciassette brani: quindici suoi successi riarrangiati e ricantati in duetto con star internazionali (Shakira, Ricky Martin, Michael Stipe, Laura Pausini, Paulina Rubio, Julieta Venegas...) e due successi altrui ricantati da Bosé in duetto con Mina («Agua y sal») e con Noa («La vida es bella»). Il disco, già ai vertici delle classifiche di vendita in Spagna e America Latina e ora anche in Italia, ha avuto una preparazione lunga e meticolosa: registrato tra New York, Miami, Panama e Madrid, è il risultato di una grande produzione che ha impegnato l’artista italo-spagnolo senza sosta per mesi. Spiccano i brani «Morena mia» con Julieta Venegas, «Si tu no vuelves» con Shakira, «Bambu» con Ricky Martin e «Te amare» con Laura Pausini. Lui conosce il mestiere. Ed è sempre fascinoso quanto basta.


Per presentare questa doppia raccolta l’artista toscana è andata su Second Life, la celebrata realtà virtuale dove ognuno può inventarsi il suo doppio e qualcuno fa già anche affari. Le sue canzoni, invece e per fortuna, sono reali. Accompagnata dal singolo inedito «Bruci la città», la raccolta propone la novità de «La finestra» e le riletture di «Sono come tu mi vuoi» di Mina e la mitica «Estate» di Bruno Martino. Nel primo cd sono concentrati i successi incisi fino al 2001, dalla prima canzone «Un motivo maledetto» del '93 fino a «Per fare l'amore». Nel secondo cd l'ascoltatore può invece trovare brani particolari come il duetto «Se mi vuoi» con Pino Daniele ed «È solo un sogno» con Stefano Bollani al pianoforte.


Un’altra toscana, cresciuta però a soul e jazz. Diana Winter ha ventidue anni, è cantautrice, canta in inglese, e prima di tornare a Firenze ha vissuto in Austria (madre austriaca, padre italiano) e a Londra. Questo suo album di debutto la sta imponendo all’attenzione di pubblico e critica. Mischia suoni colti e raffinati, inventa atmosfere eleganti adatte a un pubblico internazionale. Il singolo «Just a little» sta funzionando egregiamente da apripista, per un disco che brilla anche di ospiti prestigiosi: dall’ex batterista dei Level 42, Phil Gould, al percussionista Miles Bould (già con Sting e Morcheeba), dall’armonicista Toots Thielemans alla bassista Yolanda Miles...

di Carlo Muscatello

Trentacinque anni. Ci sono voluti trentacinque anni perchè Milano ricordasse Luigi Calabresi con una lapide nel luogo in cui venne ucciso. E perchè Roma, sua città natale, lo ricordasse con l’intitolazione di un viale. Ci sono voluti tre anni di meno, perchè lo Stato ricordasse con una medaglia d’oro alla memoria, appuntata nel maggio 2004 dal presidente Ciampi sulla giacca della vedova, il commissario di polizia assassinato. Tanto, troppo tempo, troppo dolore, troppa colpevole e ingiustificabile assenza...

Era la mattina del 17 maggio 1972. Il commissario che una feroce campagna di stampa portata avanti soprattutto dal quotidiano Lotta Continua indicava da anni come il responsabile della morte dell’anarchico Pinelli venne ucciso sotto casa con due colpi di pistola, uno alle spalle e uno alla nuca. La giovane moglie, Gemma Capra, era in casa con due figli piccoli e un altro in arrivo.

Fu uno dei delitti più odiosi dei nostri terribili anni di piombo. Stagione tragica e ancora oscura, che da anni viene raccontata solo una parte, dal punto di vista degli ex terroristi. Libri, articoli, interviste, discorsi pubblici, programmi televisivi... Manca quasi completamente l’altra voce, la voce di chi è rimasto, la voce di quei parenti delle vittime la cui vita è stata tragicamente sconvolta e cui viene riservato da sempre quel rispetto formale sintetizzabile nella formula «il dolore dei parenti».

In questi giorni, nel trentacinquesimo anniversario della morte di suo padre, è uscito il libro del primogenito del commissario ucciso, Mario Calabresi, giornalista, attualmente corrispondente da New York per Repubblica. Il titolo è «Spingendo la notte più in là - Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo» (Mondadori, pagg. 134, euro 14.50). È una testimonianza preziosa ma anche un documento toccante per comprendere i tragici fatti avvenuti nel nostro Paese negli anni Settanta e Ottanta (ma le testimonianze arrivano fino ai più recenti omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi...), cambiando punto di osservazione. La storia di quegli anni vista e riletta non più solo dalla parte di chi ha sparato, e poi ha pagato o non pagato il suo debito con la giustizia, ma con gli occhi, il cuore, la quotidianità mai più ricomposta di chi si è visto portare via un marito, un padre, un figlio...

Calabresi parte dai presagi che annunciarono la tragedia, dai ricordi familiari, dalla solitudine dei suoi genitori nei mesi e negli anni che intercorsero fra la morte di Pinelli e quella di suo padre. Due uomini, l’anarchico e il commissario, «accomunati da quasi quarant’anni, un tempo più lungo di quello che gli fu dato di vivere». Due uomini che si conoscevano e forse si stimavano, se è vero che Pinelli un Natale regalò a Calabresi una copia dell’«Antologia di Spoon River». Se è vero che Pinelli in un lontano corteo dell’agosto ’67 quasi lo difese da Marco Pannella che provocatoriamente lo apostrofava.

Ma accadde quel che ormai era quasi scritto dovesse accadere. Pinelli e Calabresi continuarono - e continuano - a essere «usati uno contro l’altro, in un braccio di ferro infinito, uno dei tanti che paralizza il Paese e lo riene costretto con la testa rivolta al passato».

L’autore non si limita ai ricordi personali, alla ricostruzione del suo dramma familiare, del buco nero che si aprì davanti a una giovane donna e ai suoi figli la mattina di un giorno di maggio del ’72, e nemmeno al racconto della stagione più recente, quella degli anni dei processi a Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Insegue piuttosto quel che hanno lasciato per terra, ma soprattutto nella vita e nell’animo di chi è rimasto, quei «dolori improvvisi, a cui non si è mai preparati».

Cerca allora e fa parlare la figlia di Antonio Custra (erroneamente e inspiegabilmente ricordato sin dall’inizio come Antonino Custrà...), un ragazzo napoletano di ventidue anni, vicebrigadiere di polizia, figlio del popolo, ammazzato il 14 maggio del ’77 sempre a Milano, in via De Amicis, sul luogo dove fu scattata una delle foto simbolo di quel periodo. Quella che mostra un ragazzo col passamontagna, stivaletti e jeans a zampa, piegato sulle gambe in posizione di tiro, con una pistola impugnata a due mani...

Cerca e fa parlare la figlia del giornalista del Corriere della Sera e presidente dell’Assostampa Lombarda Walter Tobagi, la figlia del medico Luigi Marangoni (che descrive i terroristi come «dei poveretti che facevano la lotta armata per riscattare delle vite senza prospettive, gente povera di idee e di spirito... dei cazzoni tremendi...»), la vedova di Fausto Magi («dagli ex terroristi mi aspetterei il silenzio, la capacità di stare un po’ in disparte...»), il figlio del giudice Emilio Alessandrini, la vedova di Ezio Tarantelli («questo Paese non solo non è stato capace di elaborare un lutto, ma neanche un pensiero...»).

Tutta gente lasciata sola dallo Stato, a verificare anno dopo anno la disparità di trattamento tra chi uccise e chi venne ucciso, a chiedersi «perchè?». Una risposta, ricorda Calabresi, l’ha data tempo fa Corrado Augias: «Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione (...) senza rendersi conto che i veri ”figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall’altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia...».

Calabresi non sfugge nemmeno al tema della grazia a Sofri, condannato da una sentenza passata in giudicato come mandante dell’omicidio di suo padre, che si è sempre dichiarato innocente e scrive sullo stesso giornale per cui anche lui da qualche anno lavora. «La reclusione dei condannati non ci ha mai restituito nulla, non è mai stata di consolazione». La grazia è un problema dello Stato, ma non deve essere presentata - dice l’autore - come un nuovo grado di giudizio, come un’assoluzione.

Voltare pagina, allora, ma senza dimenticare di farsi carico delle vittime. Ed evitando il «manuale Cencelli della memoria», suggerisce Mario Calabresi. Che alla fine confessa: «Ho oscillato tra la lezione di mia madre (”ho fatto di tutto perchè non cresceste nel rancore e nell’odio” - ndr) e una sorda voglia di prendere tutto a calci...». Il punto di equilibrio sta nella consapevolezza che «era giusto andare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria». E per far sì, come ha detto il presidente Napolitano, che la stagione dell’odio non ritorni mai più.

venerdì 25 maggio 2007

Lo spettatore? Un pollo da spennare fino all’ultimo euro. Il giornalista? Nella migliore delle ipotesi un fan compiacente da usare a scopi promozionali, ma solo quando c’è un disco da vendere o un tour da lanciare. Il fotografo o il cineoperatore? Purtroppo l’ultima ruota del carro, cui concedere un paio di minuti all’inizio dello show quando va bene, o da lasciare fuori della porta quando va male (leggi: quando c’è una dorata esclusiva da far rispettare...).

Questo sta diventando il mondo della musica leggera, pop e rock. Ne siamo convinti da tempo, ma dopo quel che è successo l’altra sera a Grado, alla «data zero» del tour di Laura Pausini, stavolta lo scriviamo. Non si può far pagare il pubblico, formato soprattutto da giovani e giovanissimi appassionati, per una prova generale, con tanto di errori e imprecazioni da parte dell’artista (per la cronaca: 35 euro nel prato, 50 in tribuna). Non si può vietare a giornalisti e fotografi di fare il proprio lavoro, che sarebbe tutelato da un «diritto di cronaca» messo sotto i piedi da nerboruti addetti alla security. Non si può, ma è quel che avviene.

«Incredibile. Il momento clou di inizio estate in Friuli Venezia Giulia - dice il fotografo Luca d’Agostino - si è tramutato in un evento assolutamente vietato a telecamere e obbiettivi dei telecinefotoreporter regionali. E nulla hanno potuto l’Azienda Autonoma di Soggiorno di Grado e Azalea Promotion (gli organizzatori locali) con l’inaccessibile ufficio stampa della Pausini. La cui motivazione ufficiale è che si trattava di una ”data zero”. Ma come mai una ”data zero” proibita alle riprese è aperta a un numerosissimo pubblico pagante?»

Bella domanda. Forse la risposta è che ormai nello show business da tempo non si butta via nulla. Nella discografia come nelle tournèe, tutto viene riciclato, rimasticato e soprattutto venduto. In questi giorni si riparla dei costi della politica, dei privilegi della «casta» dei politici. Sacrosanto. Ma parliamo anche dei costi e dei privilegi delle star, di queste macchine costosissime che vivono sulla passione del pubblico ma anche grazie al supporto di radio, televisioni e giornali.

Non è colpa degli organizzatori locali. Probabilmente non è colpa nemmeno della cantante. Ma quel che è successo a Grado l’altra sera - e anche l’estate scorsa alla tappa triestina del Festivalbar (registrazione di uno show televisivo, ricchi contributi pubblici e ciononostante ingresso a pagamento...) - dimostra l’assoluta e crescente mancanza di rispetto per il pubblico e per i lavoratori dell’informazione.

domenica 6 maggio 2007

Diffidate da quelli che parlano male dei dischi di cover. Quando un artista sforna un album in cui rilegge successi grandi e piccoli altrui, dicono codesti sapientoni, è perchè non ha del materiale nuovo valido, convincente, all’altezza di un’uscita discografica. E allora si prende una comoda pausa di riflessione, insomma. Oppure - sempre secondo tali critici - per mancanza di ispirazione, o perchè ha un contratto che lo obbliga a far uscire un disco nuovo e non ha niente di pronto. O ancora vuol rendere omaggio all’artista o agli artisti che hanno segnato la sua storia musicale. Tutte balle. E se non ci credete, andate ad ascoltarvi «Twelve» (Columbia SonyBmg), il nuovo album di Patti Smith, la sessantunenne ex sacerdotessa del punk e del rock, che il 10 luglio torna nella nostra regione per un concerto a Villa Manin. Tre anni dopo il controverso «Trampin'», Patti Smith si guarda allo specchio e racconta se stessa attraverso una manciata di canzoni scritte da artisti che lei ha amato. Canzoni altrui ma in realtà di tutti, già consegnate all’immaginario collettivo, che l’eterna ragazza filtra attraverso la sua grande anima e la sua sempre vigorosa voce.

«Twelve» allora, ovvero dodici, come dodicesimo album o come il numero dei brani scelti e riletti. Da Jimi Hendrix («Are you experienced?») a Neil Young («Helpless»), da Bob Dylan («Changing of the guards» e non quella «Like a rolling stone» che lei spesso esegue dal vivo) ai Beatles («Within you without you»), da Stevie Wonder («Pastime Paradise») ai Rolling Stones («Gimme shelter»), dai Doors («Soul Kitchen») a Paul Simon («The boy in the bubble»)... Quasi tutta gente della sua generazione, eccetto i Nirvana (splendida rilettura acustica di «Smells like teen spirit», reinventata con tanto di banjo e violini) e i Tears for Fears («Everybody wants to rule the world»).

L’idea di questo disco, ha raccontato l’artista, è vecchia di trent’anni ma si è concretizzata recentemente, dopo un sogno nel quale le è apparso nientemeno che Jim Morrison... E dopo che nel 2002 aveva inserito nell’album «Land» il brano di Prince «When doves cry». Perchè «mi piacciono i pezzi che tutti cantano, ma non mi fidavo abbastanza della mia voce. Adesso ho sentito che il momento era giusto. La scelta è stata sui testi...».

La cosa incredibile - ma in realtà comprensibilissima, avendo a che fare con la donna che ha portato la poesia nel rock e forse anche il rock nella poesia - è che ascoltando queste dodici canzoni non sembra di aver a che fare con un album di cover. Sembrano tutte canzoni sue, figli suoi, perle della sua creatività, della sua passione, anzichè capitoli della miglior storia del rock.

Nell'album suonano fra gli altri Flea dei Red Hot Chili Peppers e Tom Verlaine dei Television (entrambi in «Gimme shelter»), ma anche Rich Robinson dei Black Crowes. Oltre i fidati Lenny Kaye (chitarra), Jay Dee Daugherty (batteria), Tony Shanahan (basso, tastiere), l’italiano Giovanni Sollima (violoncello) e i figli Jackson e Jesse Smith.

Fra due mesi Patti Smith è in Italia per un lungo tour. Fra le tappe: il 2 luglio a Milano, il 3 a Roma, il 6 a Savona, il 10 a Villa Manin, il 13 a Pistoia.


«Call me irresponsible» (Warner) è il terzo album in studio di Michael Bublé, che in soli quattro anni di carriera vanta già undici milioni di dischi venduti e due nomination ai Grammy. Stavolta il ragazzo di Vancouver, di origine italiana, propone la sua rilettura di classici firmati fra gli altri da Leonard Cohen («I’m you man») ed Eric Clapton («Wonderful night»), o portati al successo da Ella Fitzgerald e Sinatra (l’iniziale «The best is yet to come»). Convince anche l’inedito «Everything», inno alla gioia che genera il vero amore, per un essere umano ma anche per il mondo intero. La classe è sempre quella da vero crooner degli anni nostri, qual è Bublé.

Prendete Elvis Costello, e poi Björk, e ancora Annie Lennox, Prince, James Taylor, Cassandra Wilson, Caetano Veloso... Affidate loro una canzone della grande Joni Mitchell per ciascuno, e attendete fiduciosi. Ne verrà fuori questo splendido «A tribute to Joni Mitchell» (Nonesuch Warner), che celebra la produzione degli anni Settanta, quella di album come «Blue» (qui presente con tre brani), in bilico fra folk-rock e l’avvicinamento al jazz della grande artista canadese. Per la quale pare sia vicino un ritorno sulla scena musicale, dopo un ritiro troppo frettoloso...

Torniamo in Italia per il nuovo lavoro di Eugenio Bennato, fratello minore e meno conosciuto. «Sponda Sud» è il nuovo lavoro dell’ex anima dei Musicanova, partito dalla sua Napoli ma da tempo approdato nei luoghi e fra le tradizioni più vitali dell’intero Mediterraneo: dai canti arabi di Algeri ai suoni egiziani, dalle suggestioni dell’Africa nera alle civiltà di passaggio di Capoverde fino ai ritmi carioca di Bahia... Che meraviglia, quest’autentica «world music» senza confini ma con tanta anima, popolare e nobile al tempo stesso. Fra i brani: «Ritmo di contrabbando», «Canzone per Beirut», «Italia minore», «Verso il sole»...


ANDREA MIRO' Undici brani nel quinto disco - a due anni di distanza dal precedente «Andrea» - di Roberta Mogliotti, in arte Andrea Mirò, fra cui due cover di Sergio Endrigio, «Lontano dagli occhi», e degli Animals, «Don’t let me be misunderstood». Per la compagna di Enrico Ruggeri un disco davvero convincente, i cui arrangiamenti semplici mettono in rilievo testi mai banali. Fra questi, l’iniziale «Il vento» (con suggestivo video girato nel deserto del Marocco), «Preghierina dell’infame» (cantata assieme a Neri Marcorè) e «L’uomo del faro». Lei, oltre a cantare e scriversi le canzoni, suona chitarra, pianoforte, violino e molti altri strumenti.


CHRIS REA Un anno fa il chitarrista inglese ha pubblicato un’opera con le immagini dei suoi quadri e ben dieci cd inediti in cui ha esplorato il blues in tutte le sue forme. Ora arriva il meglio di quei dieci cd, con un doppio che ha per sottotitlo «A Collection Of Songs». È un tributo appassionato e vibrante alla musica che Rea ha più amato, realizzato con strumenti e microfoni originali, per riprodurre le caratteristiche sonore di ogni genere di blues. Dal sound del blues delle origini al country, dai ritmi di New Orleans a quelli elettrici di Memphis, dal suono urbano di Chicago alle ballate con contaminazioni soul, fino alla musica celtica...