domenica 30 marzo 2008

MASSIMO RANIERI


Dai vicoli della Napoli povera degli anni Cinquanta al teatro con Strehler, dal successo agguantato giovanissimo alla voglia di reinventarsi continuamente. Con le esperienze cinematografiche, nelle fiction televisive, con le regie liriche. Senza mai dimenticare il primo amore: la canzone.

Tutto questo è Massimo Ranieri, che torna giovedì sera a Trieste per un concerto al Politeama Rossetti. Sono passati due anni dalla regia lirica della «Traviata» al Verdi. In quell’occasione, fra prove e debutto, rimase quasi un mese in città, conoscendola finalmente meglio che negli anni precedenti, quando arrivava per un concerto o uno spettacolo (da «Barnum il re del circo» a «Varietà», fino a «Hollywood ritratto di un divo») e subito doveva scappare via. Ma l’emozione di tornare in quello che chiama «il mio teatro», ricordando le tante volte che vi si è esibito nel corso dei decenni, è ancora grande e genuina. E aumenta («Davvero? Non lo sapevo...») quando gli ricordiamo che la via dove si affaccia il Rossetti da qualche anno è intitolata a Giorgio Strehler.

«Trieste - racconta Massimo Ranieri - l’ho amata dalla prima volta che vi ho messo piede, tanti anni fa. Come molte città di mare mi ha sempre dato l’impressione di un porto spalancato sul mondo, pronto ad accogliere genti che arrivano da chissà dove. Culture, lingue, religioni, razze, usanze, costumi diversi...».

E in più c’è Strehler.

«Il maestro, io l’ho sempre chiamato così, era fiero di essere triestino. Diceva sempre che esistono due sole grandi lingue: il veneto, di cui il triestino è parente stretto, e il napoletano. Gli altri sono soltanto dialetti. Con Strehler ho lavorato la prima volta nel 1980, per ”L'anima buona di Sezuan”. Poi nel ’94 abbiamo fatto assieme anche ”L'isola degli schiavi”. Lui mi ha insegnato davvero tutto: la disciplina, il rigore, l’amore e l’abnegazione per questo mestiere...».

Un mestiere nato nei vicoli napoletani...

«Sì, ho cominciato a cantare che avevo otto anni. A tredici era già un modo per tirare a campare, come fanno tanti ragazzini a Napoli. I miei genitori avevano vissuto in tempi di guerra, avevano fatto la fame. Per loro vedere un figlio che si guadagnava da vivere cantando all’inizio sembrava una cosa quasi impossibile, poi pian piano è diventata una grande soddisfazione».

Il primo incontro importante?

«Enrico Polito, il mio primo produttore, quello che mi portò prima a Roma e poi a Milano. Era il ’66, avevo quindici anni. Alla Cgd i discografici decisero che dovevo cambiare nome: Giovanni Calone faceva troppo vicoli napoletani, troppa miseria. Second</CP></CF>o loro meglio Brunello. Sì, fu questa la loro prima proposta. A me non piaceva per niente. Con Polito riuscimmo a convincerli: meglio Massimo Ranieri. A Napoli in quegli anni nessuno si chiamava Massimo, e Ranieri richiamava il principe di Monaco, faceva tanto nobiltà...».

Il successo fu immediato. La sorprese?

«Sorpreso? Rimasi folgorato. Fu un successo incredibile, per un ragazzo costretto a crescere in fretta, autodidatta in tutto. Dalla fame al lusso. Ma fra il ’69 e il ’75 avevo fatto tutto. Canzone e cinema. Ero senza più stimoli. E i tempi stavano cambiando. Incontrai Patroni Griffi che mi propose di fare teatro. Fu un nuovo inizio, i primi tempi furono duri. Ero considerato il cantante, il divo...».

Dunque le persone per lei importanti sono diverse...

«Dopo Enrico Polito, sono stato sicuramente influenzato dalla forza di grandi personaggi come Patroni Griffi e Bolognini, che mi ha fatto fare ”Metello”. E ovviamente Strehler, il maestro...».

Si ritorna sempre a Strehler. La voglia di rimettersi sempre in gioco, forse, lo scugnizzo napoletano l’ha imparata dal grande uomo di teatro nato a Barcola. Forse anche la nuova passione per le regie liriche, che chiama «il mio nuovo, meraviglioso giocattolo».

«Cinque anni fa - prosegue Ranieri, che il 3 maggio compie cinquantasette anni - mi offrirono di fare ”Cavalleria rusticana” e ”Pagliacci” a Macerata. E mi ci sono buttato. Ho deciso di ricominciare, un’altra volta. Della ”Traviata” a Trieste ho un ricordo bellissimo. Ora ho una proposta per fare ”Giulietta e Romeo” quest’estate all’Arena di Verona, mentre è già sicuro che a ottobre debutto a Teramo con ”La Cenerentola” di Rossini...».

Ranieri, non abbiamo ancora parlato dello spettacolo che porta a Trieste...

«S’intitola ”Canto perchè non so nuotare... da quarant’anni”. Che poi è lo stesso titolo del mio ultimo album e del dvd che è uscito assieme al disco. È un omaggio al mondo femminile: sul palco mi accompagnano un’orchestra e un corpo di ballo di sole donne. L’unico maschietto è Lele D’Angelo, un piccolo acrobata di undici anni - fra l’altro campione di tip tap - che cammina sulla palla assieme a me. Nello spettacolo è lui che rappresenta il futuro...».

Non solo canzoni, dunque...

«Parole e canzoni, per raccontare la mia storia a chi ha ancora voglia di ascoltarla. Il canovaccio è comunque una carrellata di successi, un raccontarsi fra passato e presente. E un omaggio ai grandi cantautori: Bindi, Tenco, Paolo, Endrigo, Battisti... Gli autori delle canzoni che cantavo da bambino nei ristoranti napoletani».

Ristoranti nei quali la mozzarella era sacra...

«Non me ne parli. Questa storia della mozzarella, dopo quella dei rifiuti per le strade, sta dando una mazzata tremenda al tessuto sociale ed economico della città. Una zona come la nostra deve vivere di turismo, di immagine, e che figura ci facciamo con quello che sta succedendo negli ultimi mesi...?».

Responsabilità?

«Di tante persone, non solo di Bassolino o della Jervolino. Certo, la situazione è sfuggita loro di mano. E le responsabilità politiche non possono essere negate. Ma il problema riguarda tutti, Napoli non è avulsa dall’Italia. Oggi hanno fatto il giro del mondo le foto della monnezza nelle strade, ieri quelle dei politici in manette ai tempi di Tangentopoli. Il pesce puzza dalla capa, come diciamo dalle nostre parti...».

Ranieri, ci lasci con una parola di speranza...

«Per quanto riguarda Napoli, dove torno spesso, mi sembra che la situazione stia migliorando. La città deve comunque rimboccarsi le maniche. Per quanto riguarda le mie cose, oltre a questo tour e alle regie liriche, sto preparando un nuovo disco di canzoni napoletane. Esce a gennaio prossimo...».

VASCO «E adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni, che cosa me ne faccio della realtà. Adesso che non ho più le mie illusioni, che cosa me ne frega della verità...». Vasco Rossi canta (il brano è «E adesso che tocca a me», dall’album appena uscito per la Emi «Il mondo che vorrei») e almeno un paio di generazioni ritrovano l’interprete delle loro speranze che non ci sono più, delle loro delusioni e disillusioni ricorrenti, a volte delle loro frustrazioni in attesa dietro l’angolo. Il rocker di Zocca lo dice e lo canta in tutte le salse: «Questo mondo non mi piace, la realtà che vedo mi fa schifo...». Qualche milione di persone, giovani e meno giovani, la pensano come lui. In Italia e nel mondo. Per tanti e tanti motivi che sono sotto gli occhi di tutti quelli che hanno ancora voglia di vederli. Undici canzoni nuove più quella «Basta poco» già nota, uscita l’anno scorso. Qualcuno ha già detto che con questo disco Vasco rinnega la sua «Vita spericolata» che nell’83 era una canzone ma anche un manifesto programmatico. Addirittura che anche lui, come Tricarico, oggi sogna soltanto «Una vita tranquilla». La verità - forse - è che oggi il rocker di Zocca è un uomo di cinquantasei anni, troppo onesto con se stesso prim’ancora che con gli altri per nascondere dubbi, delusioni, stanchezze assolutamente umane. E le parole delle sue canzoni, siano esse sgroppate rock o sognanti ballad, dicono delle nostre vite e dei nostri malesseri più dei discorsi di quest’ennesima campagna elettorale. Con stile minimalista ma sempre efficace.

Si parte con il brano che dà il titolo all’album. «Ed è proprio quello che non si potrebbe che vorrei, ed è sempre quello che non si farebbe che farei, ed è proprio quando arrivo lì che ritornerei...». Autoritratto dell’uomo, prim’ancora che della rockstar, come si diceva prima.

Il primo affondo rock arriva con «Gioca con me», omaggio alla femminilità con Slash (Guns'n'Roses) alla chitarra: «Come riempi bene quei jeans, cammini come una dei film, coi tacchi quasi galleggi...». Ancora il (complicato) rapporto con le donne in «Non vivo senza te» («Vuoi che lo canti in una splendida canzone, così la sentirai da milioni di persone...»).

Le ballate migliori sono «Vieni qui» («Non potrai mai trovare un altro come me...») e la citata «E adesso che tocca a me», malata di insoddisfazione e conflitto con la realtà. «Non sopporto» è una lancia in resta contro tutte le ipocrisie. «Dimmelo te» è un sarcastico atto d’accusa contro chi è pieno di certezze. «Colpa del whisky» è un’ironica sfilza di «mi piaci tu». E fra le righe torna sempre il sogno, come antidoto a una realtà indigesta.

L'album, prodotto da Vasco Rossi e da Guido Elmi, tranne due canzoni prodotte da Celso Valli, è stato pensato in Italia e realizzato tra Bologna e Los Angeles. Due anni di lavoro. Tutti i testi sono firmati da Vasco, che per le musiche si è avvalso della collaborazione dei soliti compagni d’avventura Tullio Ferro, Gaetano Curreri e Guido Elmi. Oltre a Slash, gli ospiti sono del calibro di Vinnie Colaiuta, Lee Sklar, Michael Landau... Per una produzione di livello internazionale.

«Io penso poco al futuro - confessa il Blasco in un’intervista a ”Sorrisi e Canzoni” in edicola oggi - , credevo di morire a 35 anni e oggi ho l'età di mio padre quand'è morto. Non ho una fede, ma invidio quelli che ce l'hanno. Non importa che Dio esista oppure no: intanto loro stanno meglio perchè credono che esista...».


REM La velocità i Rem ce l’hanno già incisa nel nome che si sono scelti, nel 1980, nella loro Athens, Georgia. In quell’acronimo che sta a indicare i Rapid Eyes Movement, ovvero la fase del sonno caratterizzata da un’intensa attività onirica. Arrivati al quattordicesimo album, Michael Stipe e compagni hanno capito che è tempo di «accelerare» ma anche di recuperare alcune cose del loro glorioso passato.

«Accelerate» (Warner) suona infatti come un ritorno alle origini, alle sonorità di un tempo e alle stesse antiche ispirazioni oniriche. I Rem riscoprono l'essenza rabbiosa del rock, ma come una sorta di rifugio alle disillusioni del sogno americano. E l'essenza del disco sta tutta nel titolo, che richiama un’urgenza dove tutto è veloce, rapido, ridotto all'essenziale negli undici brani.

In poco più di mezz’ora di musica (per l’esattezza trentaquattro minuti), i riff aggressivi, le chiusure brusche e gli arrangiamenti talvolta spigolosi lasciano il fiato corto già dal primo ascolto. I brani comunicano energia ma anche rabbia: nelle interviste i tre hanno spiegato che «da cittadini americani è difficile non essere arrabbiati per quel che ha fatto il nostro governo negli ultimi otto anni».

«Until the day is done», uno dei pezzi più impegnati dell'album, è più lo sfogo di un sognatore deluso che un inno alla rivolta. Più pessimismo della ragione che ottimismo della volontà, insomma. Non a caso l'album si chiude simbolicamente con la graffiante «I’m gonna dj», che rievoca le aspirazioni dei ribelli di Seattle contro il Wto.

Ancora velocità negli assolo di chitarra di «Living well's the best revenge», le manie dell'uomo moderno nel primo singolo «Supernormal superserious», giusto una parentesi melodica in «Mansized wreath» e nel pianoforte e chitarra acustica di «Hollow man», persino echi folk in «Until the day is done». Buon disco, anche se siamo lontani dai capolavori di tanti anni fa.

I Rem saranno in tour in Italia quest’estate, con tappa il 24 luglio a Villa Manin.


MICHAEL JACKSON Sono passati venticinque anni dalla pubblicazione di «Thriller», l’album più venduto di tutti i tempi con i suoi 104 milioni di copie. Per festeggiare l’anniversario il disco viene ripubblicato in edizione speciale: un cd con tutti i brani dell’83 rimixati (con la collaborazione di Kanye West, Fergie, Will.I.Am, Akon...), alcune bonus track e un dvd con i video di «Thriller», «Beat it» e «Billie Jean» (quest’ultimo anche in un’esibizione live dell’83). Il disco anticipa il nuovo lavoro di Jackson, da tempo sottotono, che dovrebbe essere il seguito di «Invincible» del 2001, e quella che sembra l’ormai certa reunion dei Jackson Five in un tour celebrativo.


NINA SIMONE Il 21 aprile saranno cinque anni che la grande Nina Simone ci ha lasciati, a settant’anni. Questo doppio album antologico raccoglie rarità e inediti del periodo fra il ’67 e il ’73, il cosiddetto periodo Rca. In apertura c’è subito una chicca: «Così ti amo», versione italiana di «To love somebody». Ma i due cd sono zeppi di classici e versioni inedite, in studio e dal vivo. Davvero una bella raccolta, per ricordare come merita l’amica e alleata di Malcolm X e Martin Luther King nella battaglia per i diritti civili negli States degli anni Sessanta. Originaria del North Carolina, vero nome Eunice Waymon, lasciò gli Usa proprio alla fine degli anni Sessanta, vivendo poi a Barbados, in Liberia, Egitto, Turchia, Olanda, Svizzera...





POOH


«Noi nel ’68 cantavamo ”Piccola Katy”, che raccontava la storia di una ragazzina scappata di casa, come succedeva a tanti giovanissimi in quegli anni. Al di là del ritornello orecchiabile che tutti ricordano, la canzone parlava di disagio, di malessere giovanile. In fondo, a modo nostro, con quella e altre canzoni anche noi fotografavamo il conflitto generazionale che si consumava in quegli anni tra genitori e figli...».

I Pooh hanno cominciato ieri sera a Mantova - dopo un’anteprima nei giorni scorsi a Iesolo - il loro «Beat ReGeneration Tour», che mercoledì 2 aprile arriva al PalaTrieste. Una tournèe che segue l’album dedicato alla «rilettura delle canzoni - spiega Stefano D’Orazio, batterista dello storico gruppo - con cui negli anni Sessanta abbiamo imparato a suonare...».

Un titolo, quello del disco e del tour, che rischia di perpetuare l’equivoco e la confusione con i poeti e i romanzieri americani della Beat Generation, che con questa storia non c’entrano nulla... «Certo - dice ancora D’Orazio - ma non dimentichiamo che il beat in Italia ha avuto lo stesso ruolo che, dieci anni prima negli Stati Uniti, aveva avuto il rock di Elvis: ha inventato i giovani, che prima come categoria sociale non esistevano. Prima c’erano solo delle persone destinate a seguire e ripetere il percorso, i valori, i gusti dei propri genitori. Poi è successo qualcosa. Una sorta di esplosione. Musica, vestiti, capelli, tutto quello che significava diversità dagli adulti. Tutto quel che ti permetteva di distinguerti dalla situazione circostante».

Un discorso che andava al di là della musica, da cui comunque partiva. «Nella patria della tradizione e del belcanto, in quegli anni scoprimmo che era possibile fare canzoni in una maniera nuova, con due chitarre, un basso e una batteria. All’inizio mancavano gli autori, e dunque si facevano le ”cover” dei brani inglesi e americani. Melodie abbastanza semplici, suoni ”easy”, ma i testi italiani erano permeati di quel che si respirava nell’aria, di quella voglia di cambiamento».

Anni Sessanta e inizio dei Settanta, si torna sempre lì. «Sono anni che ritornano perchè furono un periodo di grande creatività. Uscivamo da un torpore covato troppo a lungo, c’era come un fuoco sommerso che non aspettava altro che l’occasione per venir fuori. Tutto era nuovo, tutto provocava stupore: la musica, i locali, i capelli lunghi, le minigonne. Una rivoluzione nel costume di dimensioni tali che non era mai avvenuta prima né dopo. C’era l’urgenza di cambiare, di evadere, di uscire fuori dal passato, dalle tradizioni, dai valori che si trasmettevano di generazione in generazione...».

Stagione emozionante ma tutto sommato breve. Gli anni Settanta se la portarono via alla svelta. «Tutto ciò è finito da un lato quando è diventato moda, denaro, industria che detta i tempi e i modelli da seguire. E dall’altro, almeno dal nostro punto di vista, quando la politica è entrata prepotentemente nella musica. Quando i figli dei fiori sono stati sostituiti dai militanti che portavano la contestazione anche ai concerti».

Fin qui il passato. «L’idea del disco, cui ora segue il tour, è nata perchè noi quell’epoca l’abbiamo vissuta prima da fan e poi da protagonisti. Con un piede sotto il palco e l’altro sopra, insomma. Abbiamo voluto rendere omaggio a quel periodo in cui tutto è cominciato e ai protagonisti dell’epoca».

Operazione non facile, se fatta seriamente. «E infatti è stato il disco più difficile che abbiamo mai fatto. Scrivere nuove canzoni sarebbe stato più semplice. Qui c’era invece da scegliere dei brani rappresentativi, che avessero resistito all’usura degli anni, e ”rigenerarli” con grande cura, affetto e attenzione. Non potevamo stravolgerli. In fondo parliamo di pezzi di storia della nostra musica. Ne è venuto fuori uno spaccato sincero e appassionante di quegli anni».

Rokes, Bisonti, Ribelli, Corvi, Califfi, Quelli, Equipe 84: la storia della musica italiana di quegli anni. «Nella scelta abbiamo privilegiato i gruppi che non ci sono più, cioè quasi tutti... Fa uno strano effetto ritrovarci ancora in scena, con pochissimi altri, come i Nomadi, che però hanno cambiato più volte formazione. Noi l’ultimo innesto l’abbiamo fatto nel ’73, quando Red Canzian ha preso il posto di Riccardo Fogli. Tutti gli altri cambiamenti erano avvenuti precentemente. A volte pensiamo che il nostro segreto è che, nello spirito, siamo rimasti un gruppo beat

Il rischio dell’effetto nostalgia? «Era presente ma siamo convinti di averlo evitato. Dal vivo proponiamo uno spettacolo moderno, attuale, con suoni all’avanguardia, proprio com’è successo nel disco. Per noi sarà il tour delle emozioni, perchè ognuno di noi quattro, passando attraverso le note dei dodici classici riletti, da ”La casa del sole” a ”Un ragazzo di strada”, da ”Che colpa abbiamo noi” a ”Pugni chiusi”, che hanno provocato anche i nostri inizi, non potrà non ripensare a quando tutto era ancora un sogno».

L’altro pericolo è il revival sempre in agguato. «Sì, siamo stati anche attenti a evitare la mera celebrazione del passato, come avevamo fatto per il quarantennale del nostro gruppo. Dunque niente abiti vintage, niente strumenti dell’epoca, niente citazioni filologicamente corrette. La nostra è una lettura moderna, contemporanea di quell’epoca e di quelle canzoni. Che devono sembrare come se le avessimo scritte stamattina...».

Con i suoni di ieri o quelli di oggi? «Sul palco c’è molta tecnologia, come sempre nei nostri tour. Anche perchè dobbiamo rifare in quattro, dal vivo, quello che in sala d’incisione puoi inventare con mille sovraincisioni. Ma non c’è molta elettronica. Da sempre preferiamo i suoni veri».

In scaletta, per questo concerto, i Pooh hanno quarantadue canzoni. «Cominciamo da ”29 settembre” - conclude Stefano D’Orazio - di Mogol e Battisti: brano dell’Equipe che abbiamo preferito ad altri, come ”Ho in mente te”, perchè ci sembrava meno usurato dal revival. Nella prima parte ci sono tutte le canzoni del beat che abbiamo ”rigenerato”. Poi è la volta delle canzoni che noi proponevamo in quegli anni, i nostri primi successi, come ”Piccola Katy”, recuperando cose come ”Quello che non sai” e ”Vieni fuori”. Segue il periodo del ”progressive”, con ”Parsifal” e i brani complessi e classicheggianti. Per concludere con i nostri grandi successi e un set acustico, chitarra e pianoforte: da ”Pierre” a ”Nascerò con te”, da ”La mia donna” a ”Uomini soli”...».

E ancora «Tanta voglia di lei» e «Pensiero», «Dammi solo un minuto e «Chi fermerà la musica», «Nascerò con te» e «Noi due nel mondo e nell’anima». La speranza dei Pooh è che fra trenta o quarant’anni ci siano gruppi che «rileggano» i loro tanti successi di ieri e di oggi. Canzoni cui un posticino nella storia - minore fin che si vuole, ma non per questo meno importante - del costume e della musica italiana spetta di diritto.

venerdì 28 marzo 2008

GIOVANNI ALLEVI


TRIESTE Arriva il pianista che ha trasformato le sue esibizioni in concerti rock. L’ex timidone solitario cui la musica ha letteralmente trasformato la vita. Lunedì sera al Teatro Verdi di Gorizia, martedì (e non è un pesce d’aprile...) al Politeama Rossetti di Trieste ritorna insomma in regione Giovanni Allevi, il pianista fenomeno delle ultime due o tre stagioni musicali, già visto più volte nella nostra regione.

Momento davvero magico per il compositore e pianista di Ascoli Piceno, premiato da pubblico e critica grazie ai suoi dischi, al dvd «Joy Tour 2007» (registrato dal vivo nell’agosto scorso allo Sferisterio di Macerata) e all’«Allevi Tour 2008», partito il 23 febbraio da Roma e che passa da un tutto esaurito all’altro.

Ma ora c’è anche il primo libro, ad alimentare la fama e il successo. «La musica in testa», uscito per Rizzoli, ha venduto 33 mila copie nei primi dieci giorni, entrando ai vertici delle classifiche di vendita. Un libro - che martedì alle 18 verrà presentato alla Feltrinelli di via Mazzini, a Trieste, alla presenza dell’autore - dal tono leggero ma al tempo stesso ricco di frasi, episodi e aneddoti che permettono al pubblico di conoscere meglio questo artista così particolare.

Storico l’episodio in cui il ragazzo non esita a travestirsi da cameriere alla cena di apertura della Scala per avvicinare Riccardo Muti, il suo idolo. Per tutta la sera Allevi serve i vini e porta vassoi pieni di prelibatezze, finché trova finalmente il momento di consegnare al maestro un suo cd. Parole, complimenti e auguri di circostanza, ma è grande la delusione del giovane musicista quando, a fine serata, ritrova il suo cd «dimenticato» da Muti sul tavolo, fra piatti e bicchieri sporchi...

Poi viene fuori che in un’intervista Allevi dice di considerare Mozart noioso. Per questo viene quasi aggredito da una ragazza: «Come si permette di criticare un genio assoluto della musica?» Preso dal panico, il nostro per fare ammenda apre il concerto successivo con un brano del grande compositore, ma prima si scusa con il pubblico: «Spero di non annoiarvi...».

O ancora si legge di una volta che, dopo una lunga tournée negli Stati Uniti, il pianista si riposa al mare, steso su una sdraio, quando viene suo malgrado ingaggiato come giudice per una gara di... polpette. Polpette che è quasi costretto a mangiare a forza, cosa che però fa volentieri, provando «la strana ebbrezza del sentirsi, per una volta, giudice e non giudicato...».

Sfogliando il libro sono diverse le frasi che colpiscono il lettore: «I tasti racchiudono un giardino di meraviglie», «Se impariamo a fare silenzio, saremo in grado di cogliere l'eterna danza che ci circonda», «Non bisogna mai aver paura di rompere le regole, se è il nostro cuore a chiederlo».

E ancora: «L'ispirazione può regalarmi momenti di gioia pura», «Le persone in viaggio verso il proprio sogno vanno sempre protette», «Le nuove generazioni trascineranno il mondo verso un Nuovo Rinascimento»...

Oltre al libro, attualmente Allevi - che compie trentanove anni il 9 aprile - ha ben tre dischi in classifica fra i primi trenta: il doppio disco dal vivo «Allevilive» (uscito nell’ottobre 2007, oltre 60 mila copie vendute, comprendente l’inedito «Aria» e ventisei brani tratti dai quattro album di Allevi per pianoforte solo: «13 dita» del ’97, «Composizioni» del 2003, «No Concept» del 2005, «Joy» del 2006), e appunto l’album «Joy» (oltre 120 mila copie vendute) e il vecchio «No Concept» (oltre 70 mila copie), che non mollano le posizioni.

Ma il musicista sta già lavorando al nuovo album di composizioni inedite. Il 10 aprile deve infatti consegnare il materiale alla casa discografica. La pubblicazione del disco, per pianoforte e orchestra, è prevista a giugno per Bollettino/Ricordi-Sony Bmg Music.

Sarà un’altra tappa di una carriera che ha dell’incredibile. Allevi è infatti ormai apprezzato dagli Stati Uniti al Giappone. A conferma di quanto di buono aveva intuito Jovanotti quando nel ’97 decise di produrre per la sua etichetta Soleluna il primo album di quel ragazzo alto e magro, con gli occhiali e una gran testa di capelli ricci, diplomato con il massimo dei voti al Conservatorio Morlacchi di Perugia e al Verdi di Milano, ma anche laureato in filosofia con una tesi su «Il vuoto nella Fisica Contemporanea».

Il pianista ha poi continuato a collaborare con Jovanotti, in studio e dal vivo. E forse anche da lì ha tratto questa sua splendida sensibilità pop ben innestata su un impianto classico e jazz, che si coglie nei dischi e nei concerti. Di Allevi l’ascoltatore apprezza il senso melodico del pianismo, quel suo muoversi oltre ogni barriera di genere e al di fuori di categorie e definizioni. Sembra di ritrovare, trent’anni dopo, gli insegnamenti di un altro celebre pianista, Giorgio Gaslini, sulla musica totale.

Di certo oggi Allevi è una delle voci più interessanti e originali della scena musicale italiana e internazionale. Che rielabora la tradizione classica europea aprendola alle nuove tendenze pop e contemporanee. Nel libro l’ha spiegato così: «Devo essere spettatore impossessato della Musica, mentre nella mia mente un silenzio energetico, gravido e vigile segue, vuoto, ogni minimo movimento. Allora come un carillon, ogni elemento entrerà in rapporto armonico con l'altro: il respiro con il battito cardiaco, la pressione con la temperatura delle dita; e la memoria musicale troverà, nel silenzio della mente, un lucido lago ghiacciato su cui scorrere senza alcun ostacolo, senza altre intenzioni che interferiscano con quella proveniente dalla tastiera...».

E quando l’ispirazione arriva, Giovanni Allevi si fa trovare sempre pronto. «Spesso - confessa - mi capita di scrivere le note in sms che spedisco a me stesso...».

giovedì 20 marzo 2008

GIGI D'ALESSIO


«È la prima volta che canto a Trieste, anche se la città un po’ la conosco. L’anno scorso, in occasione di una serata a Nova Gorica, l’ho visitata e devo dire che mi sono trovato un po’ come a casa, nella mia Napoli. Sarà che le città di mare si somigliano un po’ tutte, ma davvero ho colto qualcosa di familiare. Ricordo il lungomare, quella bella piazza, la gente. Tutte cose che mi hanno messo di buonumore. E pensare che ho girato mezzo mondo, dagli Stati Uniti al Canada all’Australia, prima di arrivare a Trieste...».

Parla Gigi D’Alessio, che stasera alle 21 presenta il suo nuovo spettacolo «A gentile richiesta... mi faccio in quattro» al Politeama Rossetti. Uno show particolare, nel quale la scaletta verrà decisa dal pubblico. Spaziando nel suo vasto repertorio e fra i classici della canzone napoletana.

«Ogni sera è una festa - dice il quarantunenne cantante napoletano - e ciò avviene a Nord come a Sud, cosa che mi fa molto piacere. Questo tour teatrale è un omaggio che faccio al pubblico che mi segue da anni: stavolta è lui che sceglie le canzoni in scaletta».

Per tanti anni la sua fama stentava a uscire da Napoli. Poi cos’è successo?

«La partecipazione al Sanremo del 2000, con ”Non dirgli mai”, ha cambiato le cose. Avevo già inciso sette album e venduto tanti dischi, ma il pubblico mi considerava un cantante napoletano e basta. A quel punto decisi di cambiare perchè ne sentivo il bisogno».

E il pubblico l’ha seguita...

«Sì, perchè la canzone napoletana è solo una delle mie tre anime. Assieme alla musica classica studiata al Conservatorio e ai cantautori che ho amato da ragazzo: Baglioni, Battisti, Dalla, Pino Daniele...».

Il primo contatto con la musica?

«A Napoli la musica si respira nell’aria, per la strada, nei vicoli. Comunque avevo quattro anni quando mio padre mi regalò una fisarmonica che aveva comprato a Caracas, dov’era andato a lavorare per sfuggire alla miseria e dare da mangiare alla nostra famiglia. Ricordo che quella fisarmonica la consumai a furia di suonarla...».

Del Conservatorio cosa ricorda?

«Che avevo dodici anni, e in famiglia avevamo deciso di fare il grande passo, visto che la musica era diventato il mio chiodo fisso. Al Conservatorio San Pietro a Macella arrivai accompagnato da mio padre. Sembravamo Totò e Peppino. Ogni ragazzo era ”appoggiato” da un insegnante da cui aveva già preso lezioni. Mio padre diede trecentomila lire a un bidello sperando in una raccomandazione. Ma dopo la prova, ricordo che eseguii al pianoforte il Carnevale di Venezia e un giro armonico di do, quelli della commissione dissero al bidello che mi ero... raccomandato da solo».

Ma la sua gavetta furono matrimoni e feste di piazza...

«Sì, finivo alle cinque del mattino. È stata un’esperienza che mi ha insegnato molto. Anche perchè sono convinto che a volte è più difficile suonare davanti a trecento invitati che hai lì, a due passi, che non in uno stadio.

Dai matrimoni all’Olympia...

«Sì, la mia gavetta mi è tornata in mente anche l’anno scorso, prima di salire sul palco dell’Olympia di Parigi. Con l’emozione di essere il primo napoletano - e uno dei pochi italiani - a esibirsi in quel teatro. Basti pensare che la sera dopo suonava Paul McCartney...».

L’incontro con Mario Merola?

«Mi ha cambiato la vita. Lui era il re di Napoli, io un giovane pianista da matrimoni e feste di piazza. Accadde che il suo pianista si era ammalato e lui doveva fare una serata. Merola mi sentì suonare a un matrimonio, ma non mi credeva all’altezza della situazione. Lo convinsi suonando e poi suonando ancora».

Poi non l’ha più mollata...

«Avevo ventitre anni. Divenni il suo pianista, mi fece dirigere la sua orchestra di venti elementi, partecipai ai suoi film. E grazie a lui cominciai anche a cantare. Fino a quel momento, infatti, io mi limitavo a suonare il pianoforte. Scrivemmo e cantammo assieme ”Cient’anne”: fu l’inizio della mia carriera di cantante».

Nella sua carriera ha incontrato successo ma anche ostilità.

«Non pretendo di piacere a tutti. Ma quello che mi dà fastidio sono i pregiudizi, i luoghi comuni. A volte sembra che se uno arriva da Napoli dev’essere per forza un delinquente o un camorrista. Abbiamo il marchio di fabbrica. E dobbiamo lavorare più degli altri per imporci, per sfatare questi pregiudizi. In questi anni ho dovuto abbattere molte barriere, ma sono cose che poi ti rendono più forte».

Soddisfatto del Sanremo di Anna Tatangelo?

«Molto. Alla vigilia era data per favorita. E ciò può averle attirato qualche antipatia. Ma alla fine è andata bene. Ha fatto una bella figura, anche nel duetto con Michael Bolton».

Con la monnezza come va...?

«Eh... La monnezza vera è dentro le persone. Per esempio dentro le persone che hanno gestito quella che è diventata una vera e propria emergenza, oltre che una vergogna nazionale, in tutti questi anni. Io sono amico di Bassolino, ma penso che lui e la Jervolino dovrebbero avere il buon gusto di dimettersi. Esiste la responsabilità politica di chi dirige una macchina amministrativa».

giovedì 13 marzo 2008

TRIESTE Il Politeama Rossetti ieri sera sembrava il Radio City Music Hall. Protagonista del miracolo un certo Mario Biondi, ragazzone siciliano alto quasi due metri, classe ’71, che sembra aver... inghiottito Barry White quand’era ancora in fasce, nella sua Catania sempre più capitale musicale del Sud. Che emozione sentirlo cantare. E che storia, la sua. Basti pensare che due anni fa erano in pochi a conoscerlo, nel nostro Paese dei pochi profeti in patria. In compenso colui che per l’anagrafe si chiama Mario Ranno (il cognome d’arte l’ha ereditato dal padre, il cantautore Stefano Biondi), dopo aver lasciato la sua Sicilia ed essere approdato prima a Reggio Emilia e poi in quella Parma dove vive tuttora, aveva già lavorato con una certa qual soddisfazione a New York, a Londra e persino in Giappone.

L’Italia l’ha scoperto quando proprio non poteva farne a meno. Grazie all’album «Handful of soul», uscito nell’ottobre 2006. Grazie al tormentone «This is what you are», che dopo aver sbancato Radio Bbc1 (dove il dj Norman Jay lo aveva inserito nella sua playlist e nella compilation «Good Times 5», assieme ad artisti del calibro di Otis Redding, Marvin Gaye e James Brown), diventa il jingle natalizio di Radio Montecarlo. Grazie al duetto di Sanremo 2007, con Amalia Grè, in «Amami per sempre». Ma soprattutto grazie a un lungo tour poi immortalato dal doppio dal vivo «Mario Biondi and Duke Orchestra, I love you more - Live», uscito nel novembre scorso.

Il concerto triestino è stato un gioiellino di classe, eleganza e buon gusto. Sin dalla scenografia, costruita su un gioco di sipari velati che salgono e scendono a seconda delle esigenze, e sui quali vengono proiettate delle immagini. Si parte con un Biondi trasformato in fumetto e con dei grandi orologi, che ritornano nel corso della serata, le cui lancette corrono veloci a simboleggiare il tempo che scappa via. In questa «vita che è come uno spartito, che ognuno interpreta come vuole», riflette l’artista.

Tre, due, uno... La grande Duke Orchestra è pronta e infila «A child runs free», il brano che apriva l’album «Handful of soul». «Close to you», che Burt Bacharach e Hal David scrissero nel ’70, diventa un prezioso gioiellino swing (e fa ripensare con mestizia alla versione che una malaticcia Dionne Warwick ne diede due mesi fa, in questo stesso teatro...). «Rio de Janeiro blue» veste gli abiti di una bossanova ritmatissima e decisamente godibile.

Ogni brano viene punteggiato da applausi a scena aperta, ma la temperatura decolla quando arriva la citata «This is what you are», dimostrazione che anche un tormentone può essere elegante e raffinato, nelle sue coloriture afro-jazz.

Biondi si muove sinuoso sulla scena, accenna qualche passo di danza, è una vera e propria forza della natura. Peccato solo per alcuni tempi morti, che coincidono sempre con qualche presentazione un po’ più prolissa e involuta del necessario. Ma sono dettagli.

Si procede che è una bellezza, fra altri classici statunitensi rivisitati con gusto e maestria («Slow hot wind», la stessa «Handful of soul»), perle originali («Moonlight in July»), un brano strumentale per tirare il fiato. Fino a che arriva, anticipato da una gag in tema radiofonico, quel gran classico di Billy Joel, datato 1978, che risponde al titolo di «Just the way you are». E la rilettura che ne dà il nostro è più di un omaggio alla storica versione firmata Barry White.

Qui Biondi ringrazia, finge di salutare. Ma «On a clear day», altro classico americano, tratto dall’omonimo musical, è solo in primo di una bella serie di bis. Senza i quali l’entusiasta e caloroso (ebbene sì, caloroso...) pubblico triestino non avrebbe permesso al nostro di accomiatarsi.

Gran concerto, davvero, che sfata alcuni luoghi comuni. Il jazz genere di nicchia? No, se è mischiato, anzi, contaminato dal soul e dal pop e dalle mille influenze stilistiche schierate da Mario Biondi e dalla sua orchestra. La musica dal vivo è in crisi? Riempiono solo le grandi star e gli appuntamenti gratis? Falso, basta puntare su artisti vivi e in fase ascendente, non sulle solite repliche o sulle tristi vecchie cariatidi. Pubblico triestino freddo? Sbagliato, soprattutto se va in scena un soul-jazz caldo e passionale, che sembra disegnato addosso alla voce calda e profonda, bassa e roca di un ragazzone di nome Mario Biondi.

domenica 9 marzo 2008

LENNY KRAVITZ Possiamo anche perdonargli quel siparietto sanremese con Baudo, a strimpellare al pianoforte «Donna Rosa». Visto che la sua ospitata, per presentare alla grande platea festivaliera (calo o non calo, si trattava pur sempre di otto/nove milioni di spettatori...) il suo album «It’s time for revolution» (Emi Virgin), ha rappresentato comunque uno dei momenti musicalmente più alti di Sanremo 2008. Già, perchè Lenny Kravitz - nato a New York nel ’64, da padre ebreo americano (Sy Kravitz, produttore discografico di origini ucraine) e madre nera, originaria delle Bahamas - è pur sempre uno che si è cresciuto ascoltando Beatles e Jimi Hendrix, Led Zeppelin e Stevie Wonder, Curtis Mayfield e Bob Marley. Il suo debutto discografico, nel 1989, s’intitolava «Let love rule». E lasciò molti a bocca aperta. Ora lui racconta che dopo «Baptism», il disco uscito nel 2004, si era trovato davanti a un bivio: «Da una parte c’ero io com’ero una volta, dall’altra ero diventato un uomo d’affari. Ho scelto di tornare alle origini e di rimettermi nei panni che vestivo diciannove anni fa, quando ho pubblicato ”Let love rule”...».

Sì, perchè in quegli esordi dell’89, il rocker newyorchese era in effetti una vera e propria forza della natura. Capace di mescolare sfuriate rock, introspezioni soul, tentazioni rhythm’n’blues. Tanto da diventare in breve un simbolo della nuova scena newyorkese, quella a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, con un occhio a Prince e l’altro ai grandi del jazz. Poi si è un po’ perso, complice una certa immagine glamour: copertine, gossip, belle donne. Si sa, la Grande Mela e lo star system sono tentatori...

Ma ora si ricomincia. Anticipato da «I’ll be waiting» - il brano presentato a Sanremo - il nuovo album è l’ottavo in carriera e riporta l’ascoltatore a quei (bei) tempi. Ha un solido impianto ritmico, e mischia ancora una volta e nel modo migliore gli ingredienti della casa con l’inconfondibile, appassionata voce di Kravitz. Che confessa: «Amo questo disco e il feeling che l’ha ispirato. Mi sentivo come un bambino che gioca nella sua camera, e questa è la migliore fonte d’ispirazione cui si possa attingere quando si fa musica, il senso di libertà».

Fra i brani, oltre al citato singolo di lancio, da segnalare «Good morning», «This moment is all there is», «A new door» e la stessa «Love revolution» che apre la sequenza e detta il tema.

Oggi, di questo suo nuovo disco che parla di una «love revolution», una «rivoluzione d’amore», Lenny Kravitz dice: «Credo che una rivoluzione sia possibile oggi e che debba essere basata sull’amore reciproco. I temi fondamentali della mia musica sono stati sempre l'amore e Dio, ma adesso sento che è necessario un impegno più militante, avverto la necessità di un coinvolgimento più personale».

In questo contesto, il musicista americano si schiera apertamente con Barack Obama: «Mi piacciono le cose che dice mi piace la vibrazione che sa trasmettere. Siamo moltissimi a condividere le cose che dice ma ora è necessario passare ai fatti concreti. Dopo l'era Bush, una delle presidenze più disastrose della storia, è necessario un cambiamento drastico. In un certo senso perfino McCain rappresenterebbe un cambiamento, visto che è considerato un repubblicano anomalo».

Lenny Kravitz sarà il 13 luglio al Pistoia Blues Festival e il 14 luglio all'Arena Civica di Milano, nell'ambito del Milano Jazzin' Festival. Saranno serate toste...


FINARDI C’era una volta l’Eugenio Finardi della «Musica ribelle», della «radio libera ma libera veramente», di «diesel è il ritmo della vita». Era la seconda metà degli anni Settanta, la musica italiana era politicizzata oppure non era... E Finardi ne figurava fra i protagonisti.

Sono passati trent’anni e molta acqua sotto i ponti. Oggi il cantautore milanese, classe 1952, ha deciso di cimentarsi anche con il teatro. Nelle settimane scorse è stato in scena a Milano, al Teatro Filodrammatici, con lo spettacolo «Suono»: due ore divise in due tempi (il primo più personale, mentre il secondo più ideologico) che presentano una miscela di musica e parola, dove non mancano le canzoni che lo hanno contraddistinto e momenti autobiografici che raccontano le esperienze di una vita (come il viaggio in Sudan, nel ’98, con Medici senza Frontiere, o un monologo sull'amore).

Ma ora esce anche il cd «Il cantante al microfono» (Velut Luna), in cui Finardi con l’ensemble Sentieri Selvaggi, diretto da Carlo Boccadoro, interpreta i brani dell’attore e autore russo Vladimir Vysotsky. Che fu anche cantante, anche se boicottato dal regime sovietico. E i cui brani circolarono comunque in tutta l'Unione Sovietica, valendogli la fama di «autore maledetto».

Come De Andrè, Vysotsky - scomparso tragicamente nel 1980 - cantò i perdenti che non si arrendono, gli sconfitti indomiti, gli idealisti disillusi. E visse un’esistenza fatta di dissipazione e disperazione. Finardi lo fa rivivere. Con questo progetto presentato dal vivo al Teatro dell’Elfo di Milano nel maggio 2007, e poi a settembre al Festival della Letteratura di Mantova nel settembre dello stesso anno. Ora arriva anche questa documentazione su cd, che getta un ponte tra la canzone d'autore e la musica classica contemporanea.

All’interno di un repertorio ricco di oltre 500 canzoni, Finardi e il traduttore Filippo Del Corno hanno scelto una decina di titoli fortemente rappresentativi della tensione etica, spirituale, politica e dell'ironia corrosiva dell’autore russo. Emozionante.


MODUGNO Ancora Modugno, nei cinquant’anni da «Nel blu dipinto di blu», il brano noto in tutto il mondo come «Volare», che rappresentò una rivoluzione nella canzone italiana. Questo cofanetto consente di cogliere tutti gli aspetti di una personalità straordinaria non solo attraverso i titoli più importanti del suo repertorio (compresi quelli meno scontati come «Lazzarella») ma anche un’antologia di sue performance, in gran parte televisive, dove emergono tutte le componenti di artista nato per il palcoscenico. Nel video inedito di «Così bella così sola», girato dal figlio Massimo, insieme a immagini della sua carriera e della sua vita familiare, compare una sorta di videoclip ante litteram girato per le strade di Roma.


ENDRIGO Finalmente su cd questo album pubblicato dal cantautore istriano per la Fonit Cetra nel 1971. La ristampa contiene anche tre bonus track: «Chiedi al tuo cuore», «La donna del Sud» e «Canzone della libertà». E ha mantenuto la grafica originale dell'ellepì e anche le note del cantautore che cerca di spiegare il perché di quel titolo: «Parlare d'amore diventa sempre più difficile. Ormai, almeno nelle canzoni italiane, il problema è stato sviscerato e sfruttato a fondo. Ma forse resta ancora qualcosa da fare. Può darsi che qualcuno un giorno si inventi un nuovo modo di parlare (e cantare) d'amore». Fra i brani: «La prima compagnia», «Ljubica»», «Io che vivo camminando», «Quando ti lascio»...


 

domenica 2 marzo 2008

SANREMO / FINALE


di Carlo Muscatello


SANREMO Giò Di Tonno e Lola Ponce, con la canzone «Colpo di fulmine», scritta da Gianna Nannini, hanno vinto il 58° Festival di Sanremo. Dietro la coppia del musical «Notre Dame de Paris», si sono piazzati Anna Tatangelo, favorita della vigilia, con «Il mio amico», e Fabrizio Moro con «Eppure mi hai cambiato la vita». A Tricarico il premio della critica. Un’edizione tenuta a galla dall’ironia di Piero Chiambretti, ma caratterizzata soprattutto dal forte calo di ascolti, dall’invettiva di Baudo e dal caso Bertè.


La serata. Il tempo di esprimere con Baudo «solidarietà, affetto e commozione» per l’ennesima morte sul lavoro (quella dell’operaio Fabrizio Cannonero, giovedì notte, nel porto di Genova) e si parte per l’ultima maratona. Chiambretti promette: «L’ultima puntata finirà prima dell’inizio delle Olimpiadi 2008». E a Baudo che gli dice qualcosa: «Non ti sento ma ti vedo. E mi basta...».

Aprono i fratelli veronesi Sonohra, incoronati vincitori dei giovani l’altra notte all’una e mezzo. Poi ricomincia la parata dei big. Sfilano Meneguzzi, Grignani, Little Tony, Cutugno, L’Aura, Tatangelo e via via tutti gli altri. Tutti gli altri protagonisti canori di questo 58° Festival di cui rimarranno soprattutto alcune immagini.


Innanzitutto l’ira di Baudo, incredulo dinanzi all’evidenza che il pubblico lo sta abbandonando. L’uomo di Militello ha un problema: crede di essere Sanremo, forse è convinto addirittura di essere la televisione. Ricorda l’ottantenne De Mita, che sta in parlamento dal ’63 ma quando si sono permessi di escluderlo dalle liste ha fatto fuoco e fiamme e ora si candida con un altro partito. Il settantaduenne Baudo ha fatto il primo Sanremo nel ’68 e non capisce che il suo tempo - almeno davanti alle telecamere - è scaduto.

Un’altra cosa che Pippuzzo non comprende (lui, i caporioni di Raiuno, il Comune di Sanremo...) è che solo un folle oggi può pensare di mettersi davanti all’elettrodomestico favorito per cinque sere, dalle ventuno all’una o le due di notte, per seguire uno spettacolo di canzoni. Che poi se si trattasse solo di canzoni avremmo già risolto il problema. Quel che appensantisce il festival fino mandarlo a fondo è il contorno: le gag, i siparietti, le presentazioni interminabili, le vallette, le ospitate degli attori col film da pubblicizzare (ieri sera Verdone è tornato con la Gerini), i premi a Vianello e Mondaini, i pistolotti su quanto è bella la Liguria, la pubblicità vera e quella più subdola che va sotto il nome di telepromozioni, con presentatori e vallette che passano senza soluzione di continuità dalle quattro chiacchiere con il cantante di turno all’esaltazione della tal autovettura... Sfrondato da tutta questa zavorra, e riportato alla scansione naturale di una canzone dietro l’altra, inframmezzate al massimo dalle due parole di circostanza che ogni umano medio può agevolmente sopportare, e se vogliamo anche da qualche blocco pubblicitario (pare che la Rai quest’anno abbia incassato 40 milioni di euro), ebbene, un Festival così può ancora fare la sua parte e avere un ruolo nella scassatissima tivù generalista di casa nostra. Due o tre ore al massimo, però, e per non più di tre sere.


Seconda immagine. Il caso Bertè, squalificata per plagio (ma sarebbe meglio parlare di «remake»...) e poi trattata con tutti i riguardi per paura di guai peggiori. Loredana è stata una delle migliori, forse la miglior voce rock al femminile di casa nostra. Oggi è soprattutto una donna sola, in crisi, cui le cose della vita hanno fatto pagare a caro prezzo il successo ottenuto. Sperava in questo Sanremo per risollevarsi. È incappata nella storia incredibile di una canzone che era già stata pubblicata vent’anni fa, con un testo diverso. Gli autori, l’ex chitarrista della Formula 3 Alberto Radius e Oscar Avogadro, se ne erano scordati (possibile...?) ed ecco fatta la frittata. Rimane il fatto che la sua canzone e la sua interpretazione sono state le cose migliori di un Festival che la sfortunata cantante calabrese avrebbe meritato di vincere. Perchè la Bertè è una che sa ancora regalare emozioni. Emozioni vere.


Ma fra le immagini che rimarranno ci sentiamo di inserire un episodio che a molti sarà sfuggito: la faccia stralunata del povero Tricarico, ultimo cantante in scaletta a mezzanotte e quaranta della prima sera, in mezzo a Baudo e Chiambretti che continuavano a far battute come se fosse l’ora dell’aperitivo, mentre lui (come tutti quelli che erano ancora davanti al teleschermo) chiedeva soltanto di cantare la sua «Vita tranquilla» e finirla lì. Andate a rivedervi quella faccia (la trovate su http://it.youtube.com/watch?v=Qd8MqfqZVqU</CF>, a proposito di mondo che va avanti mentre Rai, Baudo e Sanremo dormono...), e vi leggerete tutto lo scollamento, la distanza fra il mondo reale, anche della canzonetta, e la sua rappresentazione festivaliera.


Il paradosso, in tutta questa debacle, è che anche quest’anno a Sanremo la qualità media delle canzoni è stata accettabile. Baudo come si diceva ha tanti difetti, ma ama la musica e conosce bene il panorama discografico italiano. La sua scelta di proporre un cast macedonia, emergenti e vecchie glorie, un occhio alla tradizione e l’altro alle nuove tendenze, è l’unica possibile in una rassegna come il Festival.

Quest’anno ha visto bene con molte proposte. Fra i giovani - oltre alla freschezza pop dei vincitori Sonohora - sono piaciuti i ritmi gitani dei Frank Head (premio della critica), la delicata vena cantautorale di Giua, i richiami etnici dei romani La Scelta (secondi per le giurie). Fra i big - oltre alla grinta rock della Bertè e all’originalità surreale di Tricarico - bene anche l’elegante bossanova di Sergio Cammariere (il più votato dalla giuria di qualità), la taranta degli emigranti di Eugenio Bennato, il raffinato amor cortese di Mario Venuti, il rap «rivoluzionario» di Frankie Hi-Nrg (che ieri sera si è «beccato», seppur garbatamente, con i giurati di qualità Mughini e Fede), i temi sociali dei Tiromancino, ma anche la gran voce di L’Aura, l’originalità cantabile di Max Gazzè, l’amore crepuscolare di Fabrizio Moro. E nella serata dei duetti non erano sembrate male nemmeno le canzoni di Mietta e Grignani. Come si vede, dunque, il problema non è nelle canzoni. Sta nella formula, nella durata, nel sapore di vecchio, nell’illusione che si possa tenere la gente davanti al teleschermo fino all’una o le due di notte per vedere Sanremo. Un Sanremo comunque di svolta, quello che si è concluso, ora che qualcuno si è metaforicamente alzato a dire che «il re è nudo». Ripetiamo da anni, da decenni che il Festival è lo specchio del Paese. Sicuramente lo è stato anche quest’anno, ma nel segno dell’incertezza.


Alla vigilia dell’ennesimo, incerto appuntamento elettorale, anche Sanremo non sa che fare del suo futuro. Perchè futuro ci sarà, statene certi, qui non si butta via niente. La soluzione sarebbe già scritta, se la Rai non fosse nelle mani di personaggi mediocri, intenti soprattutto ad apparire in prima fila all’Ariston. Baudo dovrebbe essere confermato direttore artistico ma con la proibizione assoluta - pena l’esilio, magari nella Militello da dove è arrivato troppi anni fa - di apparire dinanzi a una telecamera. E al timone, al posto dei Bonolis o dei Carlo Conti di cui già si parla, dovrebbero sistemare un paio di giovani svegli presi da Mtv o da All Music, da dove arriva per esempio quella Lucilla Agosti che è stata la vera sorpresa del Dopofestival di Elio e le storie tese (ieri sera promossi sul palco dell’Ariston per una strepitosa comparsata rossiniana che a mezzanotte passata ha salvato tutti dall’abbiocco incipiente...). Oppure confermate Chiambretti, che non graffia più come un tempo ma ha comunque tenuto a galla un Festival che stava andando a picco. O ancora recuperate quel vecchio marpione di Claudio Cecchetto, che venerdì sera troneggiava nella giuria di qualità ed era fra i pochi ad aver titolo per farne parte. Ma soprattutto tagliate, tagliate, tagliate... Al Festival di Sanremo, come in tanti altri luoghi e cose della vita, l’arte vera è sottrarre, non aggiungere.