venerdì 30 novembre 2012

DE GREGORI, Sulla strada - raccolta FOSSATI

Difficile realizzare un nuovo disco “all’altezza” per un artista che, in quarant’anni di carriera, ha scritto tanta parte della miglior canzone d’autore di casa nostra. Altre volte Francesco De Gregori non ce l’ha fatta, restando al di sotto della sua fama e della sua storia (ogni riferimento a “Per brevità chiamato artista”, uscito quattro anni fa, è assolutamente volontario). Stavolta il sessantunenne cantante e autore romano (lui “aborre” il termine cantautore...) firma invece un buon album, ben piantato nel presente ma con le radici doverosamente salde nel passato. “Sulla strada” comincia con il brano omonimo, ballata elettro-acustica che ha anticipato qualche settimana fa l’album. Il nostro ha ammesso di aver letto soltanto da poco il capolavoro di Kerouac, pubblicato nel lontano 1957. Ma qui la Beat generation c’entra poco. «Io mi sento musicista - spiega - solo andando in giro a suonare: ci sono quelli che fanno un solo concerto per ventimila persone, io preferisco farne dieci per duemila. È un fatto fisico. Il momento peggiore, per me, è quando sono fermo: ho come un senso di colpa, mi sento un perdigiorno». Sulla strada, dunque, ma a “Passo d’uomo”, brano che sta a indicare la lentezza, ma anche la misura con cui camminare nella vita: un passo da esseri umani. “Belle epoque” è la storia di un sergente che festeggia, fra vino e bordelli, il passaggio dall’Ottocento al Novecento. “Omero al Cantagiro” (con la voce di Malika Ayane) immagina il grande poeta presentarsi alla rassegna anni Sessanta sullo sfondo di ritmi latini, che si discostano dalle sonorità country-folk del disco. “Guarda che non sono io” è una finestra sul rapporto non sempre facile dell’artista con il suo pubblico: «E io gli dico scusa, però non so di cosa stai parlando, sono qui con le mie buste della spesa, lo vedi che sto scappando, se credi di conoscermi non è un problema mio...». Archi scritti e diretti da Nicola Piovani. “Ragazza del ‘95” (ancora con la voce di Malika) immagina il futuro in un mondo che sembra voler negare ai giovani la possibilità e il diritto di costruirsene uno, di futuro. “La guerra” è vista attraverso la quotidianità disperata di un soldatino. “Showtime” e “Falso movimento” parlano d’amore, ma alla maniera nobile di De Gregori. Insomma, l’impressione è che l’artista abbia voluto raccontare qualcosa del suo Novecento, della sua (e nostra) Italia amata sin da tempi non sospetti (“Viva l’Italia” è del ’79, quando a sinistra il concetto di patria aveva controversa cittadinanza...), oggi compresa e accettata con difficoltà. Ma non sono io quello che ti spiega il mondo, ammonisce in “Guarda che non sono io”. Lo racconta bene, però. . IVANO FOSSATI “Live: dopo - tutto” (Emi) Con il tour concluso a marzo di quest’anno, Ivano Fossati sembra aver effettivamente posto la parola fine alla sua carriera di musicista che pubblica dischi e tiene concerti. Anche se, quando si parla di industria dello spettacolo, è sempre meglio andare coi piedi di piombo: un ripensamento è sempre possibile, e il mondo della musica è già pieno di infiniti ritorni. Ce lo ricorda la casa discografica dell’artista genovese, che pubblica nei prossimi giorni un nuovo album che è la testimonianza della sua ultima tournèe e arriva a un annetto di distanza da quello che dovrebbe restare come il suo ultimo disco di inediti. Anticipato nelle radio dal brano “Ho sognato una strada”, l’album comprende in tutto sedici canzoni registrate dal vivo per la prima volta, che coprono un arco di tempo che va dagli anni Settanta a oggi. Riascoltiamo “La crisi”, “Cara democrazia”, “Stella benigna”, “Carte da decifrare” e “L’orologio americano”, ma anche classici come “Viaggiatori d’occidente”, “La musica che gira intorno”, “La costruzione di un amore”...

giovedì 29 novembre 2012

SPRINGSTEEN ITALY 2013

Barley Arts presenta BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E STREET BAND GIOVEDI' 30 MAGGIO 2013 – NAPOLI, PIAZZA DEL PLEBISCITO; SABATO  1° GIUGNO  2013 - PADOVA, STADIO EUGANEO; LUNEDI' 3 GIUGNO 2013 – MILANO, SAN SIRO; GIOVEDI' 11 LUGLIO 2013 – ROMA, IPPODROMO DELLE CAPANNELLE "ROCK IN ROMA". Le voci si rincorrono ormai da qualche settimana e ora trovano finalmente conferma. BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E-STREET BAND ritornano dal vivo in Italia nel 2013 e per ben 4 concerti: il 30 Maggio a Napoli, in Piazza del Plebiscito, il 1° Giugno allo Stadio Euganeo di Padova, il 3 a San Siro, lo stadio di Milano dove Bruce suonerà - unico artista internazionale - per la quinta volta, e infine l'11 Luglio nell'ambito del Rock In Roma all'Ippodromo Delle Capannelle, ma con un allestimento specifico studiato appositamente per questo concerto, così da accogliere i tanti fan che attendono Springsteen di nuovo a Roma dopo 4 anni di assenza dalla Capitale. I biglietti per i quattro concerti, organizzati dalla Barley Arts di Claudio Trotta, saranno resi disponibili secondo il seguente calendario: la prevendita per lo show di San Siro aprirà sabato 1° dicembre nel circuito Ticketone (dalle 10 sul sito Ticketone.it e dalle 16.00 nei punti vendita sul territorio). Con la stessa dinamica, ma da Venerdì 7 Dicembre entreranno in vendita i biglietti per i concerti di Napoli e Padova, mentre da Lunedì 10 Dicembre sarà la volta di Roma: biglietti disponibili dalle 10.00 sul sito Ticketone e dalle 16.00 nei punti vendita sul territorio. In tutti e quattro i casi, dal giorno feriale successivo all'apertura delle prevendite su Ticketone saranno abilitati anche i punti vendita dei circuiti locali (elenco completo consultabile sul sito barleyarts.com). Sarà consentito l'acquisto di 4 biglietti al massimo per ogni transazione. Le nuove date confermate per il 2013 vedranno Bruce Springsteen and The E Street Band ritornare in Europa forti dell'enorme successo riscosso nell'estate 2012 e in particolare in Italia, dove nei 3 concerti a Milano, Firenze e Trieste hanno radunato un pubblico di oltre 130mila persone.

martedì 27 novembre 2012

CONCATO ven 30-11 a cervignano

Ci sono le star da classifica e gli eterni emergenti, quelli “da una botta e via” che spariscono dopo una stagione e quelli che rimangono dignitosamente in sella attraverso i decenni, da non confondersi con i patetici abbonati al revival. E poi ci sono quelli come Fabio Concato, fine artigiano dell’arte nobile e popolare chiamata canzone, il cui tour farà tappa venerdì alle 21 al Teatro Pasolini di Cervignano. Milanese, classe ’53, debutto nel ’77 con l’album “Storie di sempre” (nel quale c’era l’indimenticata “A Dean Martin”), sempre in bilico fra canzone d’autore, amore per il jazz e un filo d’ironia, l’uomo è sopravvissuto anche al successo di classifica, giusto trent’anni fa, con la popolarissima “Domenica bestiale”. «È vero - dice Concato -, molti mi identificano ancora con quel brano, altri con “Guido piano”, “Ti ricordo ancora”, “Rosalina”... La cosa non mi dà particolare fastidio. Evidentemente sono le canzoni rimaste più impresse nel pubblico, all’interno di una produzione e una discografia ormai quasi quarantennale». Il nuovo album è arrivato dopo una lunga pausa. «Sì, “Tutto qua” è uscito undici anni dopo il precedente disco di inediti, “Ballando con Chet Baker”. Ci sono brani che fanno sorridere, commuovere, pensare. Tutto gira attorno alla volontà di mettere l’uomo al centro dell’attenzione. Lo spread sarà pure importante, ma noi forse meritiamo una vita diversa. Dobbiamo cercare di guardare gli altri mettendoci nei panni di tutti, soprattutto delle nuove fasce deboli». Un tema che lei aveva portato al Sanremo 2007. «Lì avevo forse anticipato i tempi. In “Oltre il giardino” cantavo le difficoltà e le angosce di un disoccupato di 40/50 anni, che non riesce a rientrare nel mondo del lavoro. Quanto accaduto in questi ultimi anni conferma tristemente quella mia ispirazione compositiva». Che anni sono? «Viviamo in una dittatura finanziaria. L’essere umano sembra non contare più nulla. Sono tempi che bruciano tutto in pochi giorni, nella musica, nell’editoria, ovunque. E invece dovremmo recuparare il teatro, la cultura, l’attenzione per l’uomo». Ama ancora il jazz? «Certo. Negli anni in cui non ho inciso ho lavorato molto dal vivo, proprio con un gruppo jazz. Sono amori che non finiscono. Io sono cresciuto in un ambiente musicale, mio padre suonava jazz. Attraverso lui ho conosciuto molta della musica che amo, compresa quella sudamericana». Dicono che l’hip hop ha sostituito la canzone d’autore. «Proprio sostituito non lo so. Diciamo che è verosimile che i ragazzi di oggi si sentano rappresentati dall’hip hop alla stessa maniera in cui noi, quarant’anni fa, seguivamo la canzone d’autore. Fabri Fibra dice delle cose acute, intelligenti. Lo stesso Jovanotti è partito da lì. Dunque il paragone regge. Anche se a me il genere non entusiasma...». Quest’anno riprova con Sanremo? «Non so. Nell’ultima edizione ero dato fra i sicuri partecipanti, poi sono stato escluso in extremis, non ho capito perchè. Un peccato, anche perchè avevo pianificato il lavoro per la pubblicazione dell’album e coinvolto Toquinho come possibile ospite internazionale. Un vero peccato». I giovani la ascoltano? «Il mio pubblico è formato soprattutto da miei coetanei, o giù di lì. Ma mi sorprende che ai concerti ci siano anche tanti giovani e giovanissimi, che magari mi hanno conosciuto attraverso i dischi dei propri genitori. La cosa mi dà particolare piacere».

lunedì 26 novembre 2012

JIMI HENDRIX 27-11: 70 anni, film woodstock, etc...

Oggi Jimi Hendrix compirebbe settant’anni. È morto invece il 18 settembre 1970, dopo aver rivoluzionato il rock e l’arte di suonare la chitarra elettrica. Tanto da essere considerato dalla rivista Rolling Stone “il più grande chitarrista di tutti i tempi”, davanti a Eric Clapton e Jimmy Page. I suoi fan di ieri e di oggi lo possono festeggiare con un film, un libro e un disco. Il film è “Hendrix 70. Live at Woodstock”, solo oggi nelle sale italiane (a Trieste allo “Space” delle Torri, in Friuli a Pradamano e a Torrealta di Martignacco). Le immagini - reastaurate - sono quelle girate da Michael Wadleigh all’alba del 19 agosto 1969 al Festival di Woodstock. Due ore di concerto, nel quale Jimi introdusse per la prima volta la sua nuova - e purtroppo ultima - band, lanciata in una scaletta ricca di classici come “Voodoo child” e “Fire”, “Purple Haze” e “Foxy Lady”. Anche se di quella visionaria esibizione rimane soprattutto la versione straniata e straniante dell’inno nazionale statunitense, “Star Spangled Banner”. Era l’alba di lunedì, a chiusura della tre giorni di pace, amore e musica. Hendrix aveva insistito per essere l’ultimo a esibirsi. E lo fece davanti a “sole” 200mila persone, visto che altre 300mila erano già ripartite, lasciando le terre di Nel film anche materiale inedito e interviste ai componenti della band Billy Cox e Mitch Mitchell, all’ingegnere del suono Eddie Kramer e all’organizzatore del festival Michael Lang. Ma si diceva anche di un libro e di un disco. Il primo è “Jimi Hendrix - Mio fratello”, biografia scritta dal fratello Leon con Adam Mitchell. A febbraio arriva il doppio cd “Live at the Fillmore East” con il documentario “Band of Gypsys”. Nell’album sedici brani, tredici dei quali inediti o comunque mai pubblicati in questa versione.

mercoledì 21 novembre 2012

SPRINGSTEEN nuove date italiane 2013

Quasi sicuramente Padova, probabilmente Genova e Roma, forse Torino e Milano, difficilmente Napoli. Sono queste le città che si giocano la possibilità di ospitare le nuove date italiane del tour 2013 di Bruce Springsteen. Questione di giorni, forse di ore e i concerti verranno annunciati. C’è molta attesa fra i seguaci del rocker di Freehold, la corsa alla prevendita dei biglietti partirà un minuto dopo l’annuncio da parte di Barley Arts, l’agenzia di Claudio Trotta che organizza il tour italiano. In queste settimane sono circolate molte voci, suffragate da poche certezze. Andiamo per ordine. Stiamo parlando sempre del “Wrecking ball tour” cominciato il 13 maggio di quest’anno a Siviglia - ma prima c’erano già state delle tappe negli Stati Uniti - e passato l’11 giugno dallo Stadio Rocco di Trieste (le altre date italiane di quest’estate erano il 7 a Milano e il 10 a Firenze). Dopo essere rimbalzato un paio di volte fra Europa e Stati Uniti, e aver ovviamente rispettato alcuni periodi di riposo (seppur tonico, il nostro rocker è pur sempre del ’49...), il tour prosegue in questi giorni lunedì 26 a Vancouver, Canada; il 28 a Portland, il 30 a Oakland, il 4 dicembre a Anaheim, California, il 6 a Glendale, il 10 a Mexico City, e poi il 12 a New York, al Madison Square Garden, nel concerto a favore delle vittime dell’uragano Sandy (con lui anche Paul McCartney, Jon Bon Jovi, Billy Joel, Alicia Keys, Roger Waters, Who...). Ma torniamo alla tappe italiane 2013, che dovrebbero essere tre o quattro, sistemate proprio come quest’anno nella prima metà di giugno. Il 12 giugno Springsteen potrebbe essere allo stadio di Genova, il 13 all’Euganeo di Padova (sarebbe già stato firmato un pre-contratto), mentre nei giorni successivi potrebbero essere calendarizzati i concerti di Torino e Roma. Capitolo Napoli. Alcuni media hanno lanciato nei giorni scorsi la suggestione di un concerto di Springsteen, a giugno, in piazza del Plebiscito. Si è parlato anche di una data: il 30 maggio. Sarebbe una grande sorpresa, perchè i megaconcerti delle grandi rockstar straniere non sono praticamente mai scesi sotto Roma. Probabilmente anche a causa delle cattive esperienze che molti organizzatori hanno avuto in passato nella gestione locale dei tour. Lo stesso Trotta è rimasto scottato per una recente esperienza a Caserta. Ma chissà, forse San Gennaro potrebbe fare la grazia... Capitolo Milano. Il Boss ha un rapporto speciale con la metropoli lombarda, sin da quel primo concerto italiano a San Siro, del giugno ’85, dopo il quale confidò al suo staff il proponimento di non voler più fare tour che non toccassero la terra dei suoi avi materni. Purtroppo, per banali problemi di sforamenti orari, con tanto di strascichi giudiziari, per alcuni anni Milano è stata “bypassata” dalle sue tournèe. Ma il ritorno di quest’anno è stato assolutamente trionfale, e la possibilità di un bis nel 2013 ci sta tutta. «Con ogni probabilità - sostiene il triestino Daniele Benvenuti, che continua a girare l’Italia col suo libro “All the way home”, dedicato al Boss - questo sarà l’ultimo tour con la E Street Band. E credo che Bruce non lo concluderà senza ritornare a Milano. Chissà, magari a luglio, a chiusura della tournèe...».

VASCO film-concerto 2011 giov/ven anche a trieste

Nella permanente incertezza sulle sue reali condizioni di salute, Vasco Rossi continua a mandare messaggi nella bottiglia al suo popolo. Dopo le tante incursioni sul web, oggi e domani è la volta del cinema. Arriva infatti in 170 sale italiane (a Trieste allo “Space” delle Torri e all’Ambasciatori, in Friuli a Pradamano e a Torreano di Martignacco) il film-concerto “Vasco Live Kom 011 al cinema”. Si tratta del leggendario concerto allo stadio milanese di San Siro del giugno 2011, quattro “sold out” di fila, campione assoluto di incassi nel primo semestre di quell’anno. In programma oltre due ore di musica, con tutte le migliori canzoni del Blasco nella potenza ipertecnologica dell’audio Dolby Stereo. E le immagini del backstage e del pubblico, sempre “uno spettacolo nello spettacolo” quando di scena c’è il rocker di Zocca. Alla vigilia della partenza per il “Live Kom 011” Vasco scriveva: «Un tour è un lungo viaggio, comincia mesi prima, con la preparazione atletica e la concentrazione. È un periodo di grande intensità emotiva. L’inizio delle prove, quando ogni giorno le idee, i dubbi e le incertezze sono accompagnati dalla musica che mi tranquillizza. Le prime prove sul palco, quando me lo guardo incantato e me lo godo. E naturalmente la prima data, la seconda,la terza e così via. Cambiano gli alberghi, gli scenari, la tensione è continua ma quando comincia la musica ogni volta è una libidine unica». Ma si diceva dei vari modi che Vasco Rossi ha scoperto da qualche tempo per comunicare con il suo popolo. In primis Facebook, dove usa pubblicare quelli che lui chiama “clippini”, ovvero dei piccoli filmati autoprodotti in casa. Alla vigilia di questo film-concerto, l’altro giorno si è “autointervistato” a cura della “redazione del Blasco”. E ha risposto così a una domanda. «Chi sono oggi? Un padre di famiglia, con un figlio, Luca, desiderato, voluto e nato come frutto dell’amore con Laura, fedele compagna da ormai 25 anni. E altri due figli, Davide e Lorenzo, riconosciuti, assistiti e seguiti con affetto. E... l’artista che tutti conoscono». I fan possono inviare altre domande all’indirizzo e-mail redazione vascorossi.net. Info sul film-concerto su www.vascoalcinema.it e www.thespacecinema.it

FEGIZ, successo al Rossetti

C’è un momento di autentica commozione, sul palco e in platea, nello spettacolo “Io odio i talent show”, che Mario Luzzatto Fegiz ha portato ieri sera in un affollato Rossetti. È quando alla fine del primo tempo, parlando delle origini del Festival di Sanremo, il giornalista e critico musicale triestino, per l’occasione trasformato in showman, ricorda la sua infanzia davanti alla tivù. «A Trieste, occupata dagli angloamericani, c’era una canzone che ci faceva piangere tutti. Era “Vola colomba” di Nilla Pizzi: “che inginocchiato a San Giusto (canticchia - ndr), prega con l’animo mesto, fa che il mio amore torni, ma torni presto...”. L’amore che doveva tornare era l’Italia. Quella canzone era dedicata all’Italia, a cui noi sognavamo di appartenere». In altre parti d’Italia questi versi vengono accolti da applausi educati (“del primo tipo”, per usare la definizione offerta a inizio spettacolo), qui è mancato poco alla standing ovation. Doveroso tributo a un triestino "propheta in patria" che ha lasciato la città da adolescente, senza in realtà mai abbandonarla. Tributo ricambiato da vari passaggi in dialetto che ovviamente non sono presenti nel copione originale. Lo show nasce dall’autoironica riflessione di un critico che vede il suo ruolo, la sua potenza spazzati via nell’epoca dei talent show, dei social network, dei televoti, degli sms. Ma diventa ben presto lo spunto per raccontare - oltre a parte della sua vita - fatti e misfatti di mezzo secolo di musica popolare. Affiancato dal chitarrista e cantante Roberto Santoro e dal fisarmonicista ucraino Vladimir Denissenkov, Fegiz - con la collaborazione di Giulio Nannini e Maurizio Colombi per testi e regia - squaderna decine di aneddoti su Tenco e Mogol-Battisti, De Gregori e Dalla, Michael Jackson e Madonna, Sanremo e i personaggi emersi dai “talent”. Il fondale è rappresentato da una vecchia radio, in una scena completata da un jukebox, una scrivania, la scritta “on air”, dischi di vinile sparsi ovunque. Fra le sue proustiane “madeleine” sfornate nella villa di famiglia di via Rossetti, Fegiz sfoggia verve, autoironia e memoria elefantina, accennando persino qualche passo di twist. Dimostrandosi istrionico e versatile animale da palcoscenico. A Trieste accoglienza molto affettuosa, a tratti trionfale. E alla fine bis pensati apposta per la platea di casa.

lunedì 19 novembre 2012

QUEEN concerto budapest '86 al cinema mart20-11

Budapest, 27 luglio ’86. L’Europa è ancora divisa in due. Quel giorno i Queen di Freddie Mercury tengono nella capitale ungherese quello che sarebbe passato alla storia come il primo concerto di una band occidentale oltre la cortina di ferro. Ma anche l’ultimo con il cantante nato a Zanzibar, che sarebbe morto il 24 novembre ’91. Da quell’evento è nato il film “Hungarian Rhapsody - Queen Live in Budapest”, visibile oggi in duecento sale italiane (a Trieste al Giotto, a Monfalcone al Kinemax). Dinanzi a 80mila spettatori, nella cornice imponente del Nepstadium, la band inglese sforna due ore di grande spettacolo, alternando celebri cavalli di battaglia (da “Bohemian rhapsody” a “Crazy little thing called love”, da “A kind of magic” a “I want to break free”, da “Under pressure” a “Who wants to live forever” alla classicissima “We are the champions”) e immagini del backstage e della visita in Ungheria di Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon. «I Queen - ha scritto il Guardian del film - erano al loro culmine. Una band che viveva per stare sul palco. E questo è il miglior documento mai visto su quell’esperienza». «Siamo felici – hanno detto May e Taylor - che i fan di tutto il mondo possano finalmente rivivere questo momento incredibile per i Queen. Sapevamo che il concerto di Budapest sarebbe stato speciale, ma all’epoca non immaginavamo che notte storica sarebbe stata». Il film, in versione digitale rimasterizzata, arriva mentre Hollywood sta mettendo in cantiere l’atteso film biografico su Mercury e il suo gruppo. Il ruolo del cantante è stato affidato all’attore Sacha Baron Cohen (quello di “Borat”). Le riprese avranno inizio in primavera e che la data di uscita nelle sale è prevista per i primi mesi del 2014.

domenica 18 novembre 2012

MLF, IO ODIO I TALENT SHOW mart20-11 a trieste

Mario Luzzatto Fegiz odia i talent show perchè hanno posto fine alla dittatura della (sua) critica. Nasce da questa autoironica constatazione lo spettacolo “Io odio i talent show”, con cui il giornalista e critico arriva domani al Politeama Rossetti. «Nello spettacolo - spiega Fegiz, nato a Trieste nel ’47 - interpreto me stesso, ovvero un critico musicale in pieno psicodramma. Un tempo temuto e rispettato, mi trovo a dovermi confrontare con una nuova realtà: quella dei social network, dei talent show, dei televoti, degli sms, di improbabili giudici dal retroterra culturale esile». Perchè uno spettacolo? «Da anni giro l’Italia per conferenze per le quali attingo al mio immenso archivio di articoli e ricordi. Spesso gli amici mi chiedono “ma com’è Madonna a tu per tu? e Jagger?”. Così quattro anni fa ho messo assieme una sorta di reading con il musicista e cantante Roberto Santoro». Il balzo a teatro? «Maria De Filippi mi chiese di scrivere le note di copertina del cd del decennale di “Amici”. Le risposi: al massimo posso scrivere che odio i talent show. E lei: mi sembra una buona partenza. Così scrissi il monologo omonimo, per lei e per lo spettacolo che stava prendendo forma». Ci fu una serata a Udine. «Sì, per la rassegna “Bianco e nero”. E una prova aperta al Folk Club di Torino, di cui scrisse sul suo blog la collega Marinella Venegoni. Il manager Claudio Trotta la legge, vede alcuni spezzoni di video, decide di produrre lo spettacolo. E trova anche il regista, Maurizio Colombi, quello di “Peter Pan”. Si crea subito una forte sintonia fra me, lui e il mio storico assistente Giulio Nannini». E poi? «Il collage di aneddoti diventa lo psicodramma comico di un critico che a 65 anni si accorge di non contare più nulla, derubato dai talent show che hanno spalmato la sua funzione su sms, televoti, twitter, giurie popolari». Com’è stato ritrovarsi dall’altra parte della barricata? «Spaventoso. Il teatro è crudele, faticoso, medioevale. Ho perso otto chili in un mese. Imparare a memoria un copione, le posizioni, fare e rifare e sudare è stata una delle esperienze più forti della mia vita». Insomma, si fatica. «Sì, sul palco sudo come un batterista. Il primo tempo dura 52 minuti, il secondo 35. La mia resistenza stabilisce questi tempi. Quel che è rimasto fuori è nel libro “Io odio i talent show” di prossima uscita». Come hanno reagito i cantanti dei “talent” che cita? «Nulla. Tranne Emma, che ha fatto irruzione nel programma tv di Fabio Volo subito dopo il mio monologo, pochi giorni fa. Sembrava divertita. Ha fatto la parte di quella che mi riporta all’ospizio. La Amoroso, di cui ospito un’intervista vera nella quale diceva di non conoscere Jannacci e Bowie, non si è fatta viva». Con Santoro ora c’è anche Vladimir Denissenkov. «Santoro è un bravo artista, versatile e disponibile. Sa cantare, scrive, genera effetti sonori e strumentali con abilità. Vladimir l’ho scoperto in una cantina milanese al raduno di un’associazione culturale. Me l’ha presentato Lella Costa. Aveva lavorato con Moni Ovadia. E De Andrè aveva utilizzato la sua fisarmonica cromatica russa in “Anime salve”». Nello spettacolo si parla di Trieste. «Più volte. In maniera comica ma anche struggente. E c’è un passaggio in cui mi commuovo ogni volta...». Anche se manca da quarant’anni. «Ma il legame non si è mai interrotto. La villa di famiglia in via Rossetti, l’Adriaco e le uscite in barca, gli incontri con i compagni di scuola del Dante e persino con le compagne della prima elementare alle Ancelle della Carità di via Ginnastica. Quando arrivo in auto sulla costiera comincio automaticamente a parlare in dialetto...». Cosa ama e cosa odia della città? «Sono innamorato dell’umorismo triestino, dei witz. Amo il lungomare, i sardoni, le donne di ogni età, quell’ironia unica nel suo genere. Odio la pigrizia e l’immobilismo della serie “no se pol”. E gli orari nei negozi, sempre chiusi». Pensa a un altro spettacolo? «No. Assolutamente». Ora che ha provato il palco, sarà un critico più buono? «Sì, credo che in futuro farò degli sconti a quelli che calcano il palcoscenico. O almeno ci proverò...».

venerdì 16 novembre 2012

MANNOIA sab17-11 a udine

La crisi aguzza l’ingegno. E stavolta riserva una piccola sorpresa per i fan di Fiorella Mannoia che andranno a vedere il concerto della cantante romana di nascita e milanese di adozione, stasera alle 21, al “Nuovo” di Udine. Per il prezzo del biglietto riceveranno anche il recente doppio cd+dvd dedicato a questo “Sud, il tour”, già passato in regione a maggio a Pordenone e ad agosto a Lignano. L’album “Sud”, da cui è nato il tour, è stato ispirato dal libro “Terroni”, di Pino Aprile. E dalla “scoperta” che la storia della nostra penisola, della nostra Italia unita e repubblicana, non è quella che ci hanno insegnato a scuola, né tantomeno quella spacciata da certa propaganda leghista. «Non sapevo - ha detto la cantante - che il nostro Sud prima dell’annessione fosse ricco, opulento, moderno e all’avanguardia. Non sapevo che i briganti fossero resistenti e non criminali. Ignoravo il bagno di sangue e il saccheggio che questa parte del nostro Paese ha subito con il Risorgimento. Da questi elementi è scaturito il disco, che è anche un omaggio al Meridione. È stato un attimo poi allargare il pensiero e la denuncia a tutti coloro che nel mondo subiscono la stessa sorte». Nel disco e nello spettacolo il nuovo approccio alla storia del Meridione diventa dunque il pretesto per focalizzare l’attenzione su tutti i Sud del mondo. Con problemi simili, a partire dalle difficili condizioni di vita di tante persone e dal conseguente dramma dell’emigrazione, dalla necessità di lasciare la propria terra per inseguire pane e lavoro. Un disco sul filo della denuncia sociale, insomma, affidata soprattutto al brano “Non è un film” (scritto da Frankie Hi-Nrg, che nel disco duetta con la cantante), Premio Amnesty Italia come miglior canzone dell’anno sul tema dei diritti umani. Con questo concerto Fiorella Mannoia torna a Udine dopo tre anni di assenza. Sul palco con lei Carlo Di Francesco (percussioni), Davide Aru (chitarra), il triestino Fabio Valdemarin (pianoforte), Luca Visigalli (basso), Diego Corradin (batteria), Arnaldo Vacca (percussioni), Andrea Pistilli (chitarra), Natty Fred e Kaw Dialy Mady Sissoko (cori).

giovedì 15 novembre 2012

TEATRO DEGLI ORRORI domani a Trieste

Il nuovo rock italiano parla la loro lingua. La lingua colta e dura del Teatro degli Orrori, considerato da pubblico e critica uno dei migliori gruppi della scena attuale. Il loro terzo album s’intitola “Il mondo nuovo”, come il lungo tour cominciato a primavera da Pordenone e che arriva domani sera a Trieste, all’Etnoblog. Per il batterista del gruppo, il triestino Francesco Valente, un ritorno a casa... «Con Francesco suoniamo assieme da tanti anni - dice Pierpaolo Capovilla, cantante e leader della band -, dai tempi di One Dimensional Man. E assieme eravamo anche nel nucleo di base che ha dato vita al Teatro degli Orrori, già nel nome un tributo ad Artaud e al suo “Teatro delle crudeltà”...». Citazioni e riferimenti culturali sono una sua costante. «Sì, sono un affezionato citazionista. Sbatto i poeti nella contemporaneità. Se poi l’ascolto della nostra musica induce qualche ragazzo ad andare a cercare un libro, beh, vorrà dire che avremo fatto qualcosa di utile». È vero che per “Il mondo nuovo” voleva citare De Andrè? «Sì, volevamo intitolarlo “Storia di un immigrato”, parafrasando la sua “Storia di un impiegato”. Poi ci è sembrato un po’ presuntuoso. E abbiamo cercato un altro riferimento». Trovandolo in Aldous Huxley. «Esatto, nel suo “Brave new world”, in italiano proprio “Il mondo nuovo”, romanzo di fantascienza in cui nel lontano 1932 lo scrittore inglese immaginava un mondo in cui tecnologia e genetica l’avrebbero fatta da padrone». Lei dice che ci siamo vicini? «Beh, sicuramente tecnologia e genetica hanno cambiato il mondo in cui viviamo. La globalizzazione di cui si parla tanto è innanzitutto una nuova divisione mondiale del lavoro, da cui emerge la figura del migrante». Di cui parla il disco. «Sì, il nostro è una sorta di “concept album”, come quelli che uscivano negli anni Settanta. Sedici istantanee, sedici piccole storie di viaggio e speranza, di lontananza e solitudine, purtroppo anche di violenza e morte». Come quella di “Ion”. «Ion Cazacu era un operaio rumeno ucciso nel 2000 a Varese da un italiano. Una vicenda terribile e paradigmatica. Quando il fatto avvenne mi colpì molto, avrei voluto scrivere subito qualcosa, ma all’epoca il Teatro degli Orrori nemmeno esisteva. Quando abbiamo deciso di fare un disco sui migranti la sua storia mi è tornata in mente». In certi brani avete quasi un approccio giornalistico. «Certo. La cronaca nera è un autentico serbatoio di spunti, di idee. Sulle pagine dei giornali troviamo fatti dai quali emerge la vita reale, che è poi quella che vogliamo raccontare». Nel brano “Rivendico” citate persino Slavoi Zizek. «Il filosofo sloveno è un grande intellettuale post-marxista, capace di guardare al futuro con riferimenti alla cultura popolare. Lo citiamo con Pasolini e Asor Rosa, a mo’ di provocazione. Provocazione che alcuni non hanno capito».

martedì 13 novembre 2012

LUCIANA CASTELLINA presenta a trieste il libro SIBERIANA

«Sul Lago Baikal, nella Siberia meridionale, un luogo splendido dove però d’inverno ci sono quaranta gradi sotto zero, su un traghetto a un certo punto sento parlare italiano. E non era nessuno dei miei compagni d’avventura. Parlo con queste persone e scopro che fra il 1870 e i primi del Novecento settecento lavoratori friulani erano arrivati fin lassù, soprattutto da Clauzetto, per lavorare alla costruzione della Transiberiana. Tanti erano morti, e molte tombe e lapidi con nomi italiani sono lì a testimoniarlo. Altri tornarono a casa. Ma alcuni rimasero lì, e i loro discendenti parlano ancora nella nostra lingua». È l’episodio forse più particolare raccontato da Luciana Castellina nel suo nuovo libro “Siberiana”, che presenta oggi a Trieste. Il diario di un viaggio sospeso tra passato e presente, sulla Transiberiana, sulla linea ferroviaria più lunga del mondo, da Mosca al mar del Giappone, un viaggio durato tre settimane nel settembre 2011. Giornalista e scrittrice, Castellina è stata un pezzo importante della sinistra italiana. Prima nel Pci, dal quale fu radiata nel ’69 assieme al gruppo che diede poi vita al Manifesto, poi nel Pdup, in Democrazione proletaria, in Rifondazione comunista. Un impegno politico di lungo corso, che l’ha portata per tre legislature nel Parlamento italiano e quattro in quello europeo. «Il Salone del libro di Mosca - spiega - ha ogni anno un Paese ospite d’onore. L’anno scorso toccava all’Italia. Dunque siamo stati invitati una decina di scrittori e giornalisti, per prender parte alla spedizione “Transiberiana Italia-Russia”. Ci aspettava un viaggio di seimila chilometri attraverso cinque fusi orari». Partenza ovviamente da Mosca. «Che è diversa dalla Russia alla stessa maniera in cui New York non somiglia agli Stati Uniti. Comunque da Mosca siamo appena passati, giusto il tempo di visitare il Salone del libro. Poi dritti alla stazione, dove siamo sistemati su un vagone speciale della Transiberiana, attrezzato per il nostro lungo viaggio. Tante tappe, in ogni città ci fermavamo due giorni, poi la seconda sera tornavamo su quella che era diventata la nostra piccola casa per tre settimane». Fra voi si era creato un buon clima? «Sì, siamo stati fortunati, andavamo d’accordo, ci eravamo simpatici. Cosa fondamentale, visto il tanto tempo che abbiamo dovuto passare assieme. Tenga conto che dormivamo nelle cuccette, che spesso i pasti venivano serviti a bordo. Ma è stato divertente, eravamo un’allegra brigata. La sera facevamo delle piccole festicciole, c’era quasi un clima da gita scolastica». È stato un viaggio anche nel suo passato? «Diciamo che per me è stata l’occasione innanzitutto per ripensare al fatto che a questo grande paese, che nel bene e nel male ha occupato per tanti anni la nostra immaginazione e quella di almeno un altro paio di generazioni, ormai non pensa quasi più nessuno. È come se non esistesse». E invece? «E invece esiste ancora, rimane il più grande paese del mondo ed è anche molto bello. Uno dice Siberia e pensa ai gulag, e invece si tratta di una regione con paesaggi meravigliosi. Un paese di poeti e di viaggiatori, di prigioneri e di gangster. Una sorta di far west ancora tutto da scoprire, soprattutto per noi occidentali». Con paesaggi diversi. «E meravigliosi, mai monotoni. Centinaia di chilometri di boschi di abeti, di faggi, di betulle, senza mai incontrare una casa. Una vera rivincita della natura sul mondo cosiddetto civilizzato». La sua prima volta in Russia? «Era il ’57, per il Festival della gioventù a Mosca. Ne ho un ricordo bello ma illusorio. C’era ancora Kruscev. Città grigia, austera, poche luci e nessun cartellone pubblicitario per le strade. Ricordo che il ballo fu organizzato dentro le mura del Cremlino. La delegazione italiana portò la Roma Jazz Band. Credo sia stata la prima esibizione di un gruppo jazz al Cremlino». La sua penultima volta? «Autunno ’93, ai tempi di Eltsin e del parlamento bombardato. Mosca era già radicalmente trasformata, non era più l’austera capitale sovietica, i negozi erano pieni di beni di consumo, nelle strade c’erano tante luci, tanti cartelloni pubblicitari. La transizione dal socialismo al capitalismo in quei mesi era segnata da un drammatico caos». Lei quando cambiò idea, sulla Russia e sul comunismo sovietico? «Nel ’69, dopo Praga, quando con il gruppo che avrebbe dato vita al Manifesto comprendemmo che si trattava di un regime ormai non più riformabile. I nostri vecchi compagni del Pci lo capirono con qualche anno di ritardo». Putin? «Il suo è ancora un regime, dai pesanti aspetti illiberali. Il cambiamento è stato vissuto dai russi come una speranza di liberazione che però è stata decisamente tradita. Il passaggio dal comunismo al capitalismo selvaggio è caratterizzato da aspetti di grande durezza. Molti si sentono imbrogliati». Il viaggio è stato per lei anche una piccola evasione dall’Italia del settembre 2011? «Assolutamente. Non dimentichiamo che a Palazzo Chigi c’era ancora un certo Berlusconi, che la nostra immagine nel mondo era duramente compromessa. Pochi mesi prima, a New York, al controllo dei passaporti, la battuta ammiccante sul bunga bunga era immancabile. Di buono, nel nostro lungo viaggio sulla Transiberiana, c’è stato anche che nessuno faceva riferimenti per noi imbarazzanti quando capivano che eravamo italiani...». La prima presentazione del libro la fa nella “sua” Trieste. «È vero, a Roma lo presentiamo solo due giorni dopo. Ed è vero che con Trieste ho un legame particolare. Di qui era un mio nonno materno, di cognome faceva Liebman. Non ho mai vissuto nella vostra città, eppure quando ritorno mi sento stranamente a casa. Un fatto di odori, di cucina, di cultura. Il mio legame con quel ramo della mia famiglia è sempre stato fortissimo». Nel gruppo del Manifesto, oltre a lei, c’era un altro pezzetto di queste terre. «È vero, Rossana Rossanda è nata a Pola e da ragazza ha vissuto a Trieste. Sì, possiamo dire che quarant’anni fa al Manifesto c’era anche un pezzetto di Nordest...».

lunedì 12 novembre 2012

COLDPLAY 13-11 al cinema

Chi non li ha visti il 24 maggio, nell’unica tappa italiana del “Mylo Xylotour 2012”, allo Stadio Olimpico di Torino, può rifarsi stasera. Anche nel Friuli Venezia Giulia: nelle sale del circuito The Space a Trieste (alle Torri) e a Pradamano, in Friuli. Doppia proiezione solo oggi (20.30 e 22.15), in contemporanea mondiale. “Coldplay live 2012” è il primo film-concerto della band inglese, fotografia del tour mondiale “Mylo Xyloto”, che dal giugno 2011 in poi è stato visto da oltre tre milioni di persone. Firmato da Paul Dugdale, già regista di “Live at Royal Albert Hall” di Adele e “Word’s on fire” dei Prodigy, il film è realizzato con momenti tratti dai concerti di Parigi (allo Stade de France, davanti a 75 mila spettatori), Montreal e Glastonbury (località a ovest di Londra, sede di uno storico festival rock) nel 2011. «Questo tour - ha detto Chris Martin - è stato il più divertente tra quelli che abbiamo fatto. È partito subito con il piede giusto; in parte perchè eravamo orgogliosi della musica, dei braccialetti “led”, dei fuochi d’artificio e di tutto il resto, ma principalmente per l’incredibile audience davanti a cui abbiamo suonato. Nel corso degli anni, il nostro pubblico è diventato sempre più parte del concerto, rendendo il suono delle canzoni migliore di quanto noi siamo già in grado di fare. Abbiamo cercato di raccogliere il feeling che ci arriva da loro per trasportarlo nel film concerto». Novanta minuti da non perdere, con tutti i successi della band inglese. Il film uscirà in cd+dvd il 20 novembre.

CAPOSSELA 4-12 TRIESTE

Vinicio Capossela ritorna a Trieste. Il cantautore e musicista nato ad Hannover sarà infatti in concerto martedì 4 dicembre al Teatro Sloveno, nell’ambito del tour “Rebetiko Gymnastas”, partito il 2 novembre da Marghera e che domani e giovedì farà tappa al Teatro Bellini di Napoli. Dopo la tappa triestina, organizzata assieme alla Cooperativa Bonawentura, l’artista sarà anche giovedì 6 dicembre al Deposito Giordani di Pordenone. L’attuale tour prende il nome dall’album pubblicato a giugno, a un anno di distanza dal precedente “Marinai, profeti e balene”. Non un disco di inediti, ma una raccolta dei suoi maggiori successi reinterpretati in chiave rebetiko (“rebeta” viene dal turco “rebet”, ribelle, colui che meno si tira indietro quando le città vanno a fuoco), genere musicale greco secondo alcuni simile al fado portoghese. Secondo altri si tratta di una sorta di blues greco, la cui storia affonda le radici nella Salonicco nei primi anni del Novecento, con elementi tratti dalla tradizione ellenica, bizantina e ottomana. Una musica che parla di crisi e di emigrazione e che, proprio come il blues dei neri d’America, esprime la malinconia, le ansie, la sofferenza esistenziale della gente comune. Sentimenti che tornano di grande attualità in questi tempi di pesante crisi economica e sociale, in Grecia più ancora che nel resto d’Europa. Per realizzare il disco, Capossela ha trascorso un periodo ad Atene, dove ha registrato con l’accompagnamento di alcuni musicisti greci. Fra tutti, Manolis Pappos, maestro del bouzuki, con alle spalle una prestigiosa carriera anche al fianco di musicisti greci come Theodorakis, Arvanitaki, Xarhakos, Papazoglou e Ntalaras. Ma in sala c’erano anche il nostro Mauro Pagani, Marc Ribot e la cantante Kaiti Ntali. Quest’estate, Capossela si è dedicato ad alcuni “Esercizi allo scoperto” (in pratica: un tour estivo, partito proprio da Tarvisio, al No Borders Music Festival) con i suoi Rebetici Ginnasti. Ora il rientro nei teatri e nei club, la dimensione più adatta alle proposte spettacolari del nostro. Ma il tour non è l’unico fronte su cui è attualmente impegnato l’artista. Proprio ieri sera è infatti tornato su Radiodue come conduttore della prima di dieci puntate, dal titolo di “Rebetika Ginnatika” (ogni lunedì fino a metà gennaio, alle 19.50). «Parlare di rebetiko è parlare della vita, delle difficoltà della vita - ha spiegato Capossela -, la narrazione si snoda attraverso storie di uomini, musicisti e canzoni che dicono le cose esattamente come stanno, non se ne compiacciono e nemmeno le imbellettano e sovente hanno un grande umorismo di fondo». Ancora il musicista: «Questa musica viene dalla Grecia, un paese antico, che ha molto in comune con il nostro, ma che ha anche la tipicità di essere sospeso tra Oriente e Occidente, che è proprio il punto di incontro di questa musica». L’avventura radiofonica? «Qualcosa che va oltre il semplice esercizio di esotismo musicale, ma che rappresenta un’occasione per riflettere sul sentimento dell’identità, sull’apporto che la musica può dare in un momento di difficoltà della vita». Con Capossela, in scena anche a Trieste e Pordenone, Vassilis Massalas alla chitarra e baglamas, Ntino Chatziiordanou alla fisarmonica e all’organo Farfisa, Dimitri Emmanouil alle percussioni e il solista del bouzouki Manolis Pappos. Completano l’organico i fedelissimi Alessandro Asso Stefana alla chitarra e Glauco Zuppiroli al contrabbasso.

mercoledì 7 novembre 2012

DE ANDRE' e GABER, cofanetti il 13-11

Fabrizio De Andrè ci ha lasciato l’11 gennaio ’99, doveva ancora compiere 59 anni. Giorgio Gaber è mancato il primo gennaio 2003, di anni ne avrebbe compiuti di lì a pochi giorni 64. Entrambi sono ancora vivi nel panorama musicale e culturale del nostro Paese, oltre che nel ricordo del pubblico che li ha seguiti e amati, grazie alle tante e immortali canzoni che ci hanno lasciato. Il calendario ora li accomuna con due pubblicazioni, previste entrambe il 13 novembre. In quella data usciranno infatti sia “I concerti” del cantautore e poeta genovese (sedici dischi e un libro di 192 pagine, su etichetta Nuvole Production/Sony Music), che il triplo cd “...io ci sono” dell’artista milanese di origine triestina. Partiamo da De Andrè. L’opera propone la raccolta completa in sedici dischi dei suoi otto tour, da quello del ’75/’76 (“La Bussola e Storia di un impiegato”) fino all’ultimo, “Mi innamoravo di tutto”, del ’97/’98, molti dei quali passati anche da Trieste e dal Friuli Venezia Giulia. Come non ricordare i concerti al Rossetti: il primo febbraio ’79 (recupero della data prevista il 29 dicembre ’78 rinviata per afonia dell’artista), il 3 aprile ’93, il 18 novembre ’97. Ma anche l’accoppiata dell’agosto ’81, prima a Lignano Sabbiadoro e poi a Monfalcone. Moltissimi possono dire con orgoglio: io c’ero... Accanto alla fotografia “live” della poetica del grande Faber, accanto all’anima musicale, la sua storia viene ripercorsa anche attraverso un libro illustrato: riproduzione di schizzi originali dei palchi, foto di scena, immagini del backstage e d’archivio mai pubblicate, memorabilia, manoscritti, semplici appunti. E siamo a Gaber. Il triplo rilegge cinquanta canzoni della sua straordinaria carriera, dai primi passi nel rock’n’roll italiano fino al teatro canzone “inventato” con Sandro Luporini. Si comincia da “Ciao ti dirò”, la prima incisa nel ’59 ma anche l’ultima cantata dal vivo, con Adriano Celentano su Raiuno. Ma poi sfilano anche Luciano Ligabue (“Qualcuno era comunista”) e Laura Pausini, Claudio Baglioni e Franco Battiato (“La parola io”), Ivano Fossati e Lucio Dalla, Gianni Morandi e Gianna Nannini, e ancora Jannacci (“Una fetta di limone”), Ranieri, Vecchioni, Antonacci, Vanoni, Arbore (“Non arrossire”), D’Alessio, Finardi, i “nuovi” Daniele Silvestri (“Il signor G nasce”), Samuele Bersani, Dente, J Ax e Articolo 31 (“Io non mi sento italiano”), Emma e Noemi, Baustelle e Negramaro. Pochi di loro hanno avuto il coraggio di rileggere Gaber alla loro maniera. Le interpretazioni sono quasi tutte filologicamente rispettose dell’originale. La perla del disco è quella regalata da Patti Smith, alle prese con la versione inglese di “Io come persona”. L’artista statunitense ha partecipato quest’anno al Festival Gaber che si tiene ogni estate a Viareggio, dicendo fra l’altro: «Sono molto intrigata da Giorgio Gaber, un artista di cui sto ancora approfondendo la conoscenza e l’immensa produzione. Ritrovo i miei pensieri nelle sue canzoni...». E sostenendo inoltre di aver ritrovato le stesse considerazioni nel suo “People have the power” nei testi del “Signor G”. Del cofanetto esce anche una edizione “de luxe” che presenta tre brani in più: la versione per solo piano di Roberto Cacciapaglia di “Non arrossire”, “Quando sarò capace di amare” proposta da Ron e la storica cover di “Lo shampoo” firmata da Mina. Entrambe le pubblicazioni sono realizzate a cura e sotto l’attenta supervisione delle fondazioni alle quali gli eredi di Fabrizio De Andrè e Giorgio Gaber hanno affidato il grande patrimonio lasciato dai due grandi artisti.

domenica 4 novembre 2012

CESARE CREMONINI mart 6-11 pordenone

Cesare Cremonini dice che in un periodo così grigio, con una situazione economica così scassata, con una crisi che sembra non aver fine, immaginare e mostrare un mondo colorato può rappresentare un valido antidoto. Se non altro alla depressione incipiente e imperante. «Il mio album ”La teoria dei colori” - dice il trentaduenne cantautore bolognese, il cui tour fa tappa domani alle 21 al palasport di Pordenone - è uscito cinque mesi fa e mi ha dato molte soddisfazioni. Il pubblico sta amando questo disco policromatico, che vuole strabordare, raccontare emozioni, ricco di amore e di vita». Nel quale lei mischia pop inglese e cantautorato italiano. «Sono le due facce della mia ispirazione musicale, la mia cifra stilistica. Sono un grandissimo fan dei Beatles, sono cresciuto con le loro canzoni, sicuramente mi hanno influenzato. Come di certo mi ha influenzato la stagione dei grandi cantautori italiani, quelli bolognesi ma non solo loro». Dal vivo il disco sta funzionando? «Credo di sì, spero di sì. Anche perchè questo è l’album che volevo realizzare da tanti anni: l’ho pensato come una raccolta di canzoni pensate e scritte apposta per poter esplodere proprio dal vivo. Dove bisogna mischiare l’intrattenimento e la comunicazione. Due facce della stessa medaglia, entrambe importanti, che vanno unite. Anche perchè il “live”, nella sua irripetibilità, è un momento fondamentale nella discografia del futuro». “Il comico (Sai che risate)” è stato il brano di lancio. «Il comico è una figura centrale nella storia del nostro Paese, da Totò a Benigni. Anche quando ci si trova la sera, a tavola con gli amici, c’è sempre quello che fa battute e sdrammatizza. Insomma, il buffone della compagnia. Quand’ero ragazzo, anch’io puntavo sulla simpatia, su qualche battuta per farmi apprezzare». E quando il comico diventa politico? «Lei mi vuol far parlare di Beppe Grillo, ma io non sono ancora in grado di dare un giudizio preciso. Vedremo che cosa farà, prima di giudicarlo. Di certo la gente non ne poteva più della situazione precedente, e lui ha messo il dito sulla piaga di un Paese dove le cose non funzionano e fanno fatica a cambiare. Comunque ripeto: aspettiamo prima di dare un giudizio». Con lei c’è sempre il bassista Nicola “Ballo” Balestri. «Lui e il mio produttore Walter Mameli sono il team di lavoro di sempre, quello che in questi dieci anni non è cambiato. Siamo cresciuti e cambiati assieme, dopo gli esordi con i Lùnapop..». Con Pupi Avati com’è andata? «Un giorno mi chiama e mi dice che secondo lui sarei stato perfetto per il ruolo di Carlin nel film che stava per girare, “Il cuore grande delle ragazze”. Dissi sì subito, d’istinto. E non mi sono pentito». Cosa ha imparato? «Lavorare con un grande regista come avati ti permette di ricevere degli insegnamenti importanti, ammesso che tu abbia voglia di rimetterti in gioco e imparare. Mi ha chiesto spontaneità, mi ha spronato a dare il meglio di me. Ne ho ricevuto un grande arricchimento umano. Anche perchè per me ogni pagina nuova è un nuovo pezzo di vita». Dunque la rivedremo attore? «Non nascondo che mi piacerebbe. E molto. Ma solo a patto di essere nuovamente coinvolto in un progetto interessante, che mi faccia crescere e imparare qualcosa di nuovo. Non mi interessa sfruttare il “marchio Cremonini”, insomma».

sabato 3 novembre 2012

MARCO CAVALLO, LE GRAND CHEVAL BLEU...

Marco Cavallo ora parla anche francese. Da tempo il vecchio ronzino che nel manicomio di San Giovanni, nei primi anni Settanta, trascinava un carretto pieno di lenzuola miseramente sporche è diventato il simbolo della psichiatria dal volto umano. Anche e soprattutto grazie alla copia in cartapesta che degenti, medici, infermieri e volontari costruirono e portarono in giro per la città, un giorno del 1973. Quel cavallo, quel simbolo, quella storia hanno ispirato “Le grand cheval bleu”, libro per ragazzi scritto da Irène Cohen-Janca, che dopo la pubblicazione in Francia esce adesso anche in Italia. Titolo: “Il grande cavallo blu”, illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello, edizioni Orecchio Acerbo. Il libro racconta la storia di Paolo, l’unico bambino del manicomio di San Giovanni, dove vive perchè sua madre fa la lavandaia. Il suo amico del cuore è ovviamente Marco, il vecchio cavallo. Paolo trascorre le sue giornate chiuso tra le cancellate dell’ospedale, in mezzo a personaggi come l’uomo-trottola, la donna scalza, l’uomo-albero... Finchè un giorno arriva un nuovo medico, “matto come un cavallo e ostinato come il vento”, che decide di abbattere quelle cancellate. «Da parecchio tempo - racconta l’autrice - ero a conoscenza della storia di Franco Basaglia e della chiusura degli ospedali psichiatrici. Poi mi è capitato di lavorare in una città dove c’era un grande ospedale psichiatrico, un immenso comprensorio con numerose attrezzature. Come quello di Trieste: una vera città nella città. Questo ospedale possedeva una magnifica biblioteca dove sono andata alcune volte, e così ho avuto l’opportunità di frequentare questo universo. Inoltre, in quegli anni nell’ospedale si svolgevano varie iniziative che permettevano ai malati di uscire dall’ospedale e di mescolarsi con la popolazione. Com’era avvenuto tanti anni prima proprio a Trieste». Come ha conosciuto la storia di Marco Cavallo? «Per caso. Una trasmissione radiofonica era dedicata al vecchio cavallo di fatica e a questo cavallo azzurro, costruito dentro le mura dell’ospedale. Il cavallo azzurro rappresentava il suo destino di bestia da soma, ma anche quello dei malati. Era diventato un simbolo di tutte le lotte dedicate a considerare con umanità e rispetto ogni creatura». Cosa l’ha colpita al punto di scriverne? «Innanzitutto la vera rivoluzione che l’esperienza triestina ha provocato nel nostro rapporto con la malattia mentale, ma anche con tutto ciò che esce dalla norma. Non sottovaluto le difficoltà per le famiglie, per quelli che non erano pronti ad accogliere questi malati, per il pretesto, giustificato anche da ragioni di risparmio, che ha fatto sì che in molti luoghi ciò sia avvenuto senza che altre strutture fossero create per accompagnare chi usciva dal manicomio. Ma in questo movimento c’è un desiderio talmente possente di considerare l’altro nella sua umanità, di ridargli un nome, che tutto ciò mi ha dato una vivissima voglia di scrivere». Perchè un libro per ragazzi? «Scrivo molto per l’infanzia, credo che ai bambini si possa parlare di tutto, in un certo modo, ma di tutto. È nell’infanzia che si forgiano molte concezioni del mondo, bisogna quindi veramente affrontare tutto, compresa la follia. Ho creato il personaggio del giovane narratore affinché i piccoli lettori possano entrare in questa storia più facilmente. Inoltre, questo bambino è il solo bambino dell’ospedale, fatto che lo induce a una certa solitudine, paragonabile sotto certi aspetti a quella dei malati, che comunicano difficilmente con gli altri». Conosce Trieste? Qualche protagonista di quell’esperienza? «Sono stata in Italia moltissimo tempo fa, ma non ancora a Trieste. E credo che adesso sia proprio necessario che io venga, per camminare sulle tracce di Basaglia, ma anche di Saba e Svevo. A Cagliari ho invece conosciuto lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, che ha partecipato direttamente a questa avventura. Per me è stato estremamente emozionante: gli incontri che abbiamo fatto con i bambini avrebbero tolto qualsiasi dubbio, se dubbio vi era sul parlare ai bambini della malattia mentale». Irène Cohen-Janca è nata in Tunisia, «brutalmente lasciata - come dice lei - all’età di sette anni». Arrivata in Francia con la famiglia, ha abitato a Parigi e nella regione parigina. All’università ha studiato lettere, diventando “bibliotecario conservatore”. «Scrivo - riflette - forse perchè ho vissuto tutta la mia vita in mezzo ai libri...».