venerdì 28 ottobre 2005

Ha detto che il 31 dicembre 2005 - praticamente fra pochi giorni -
appende il microfono al chiodo. E per festeggiare degnamente la fine di una

grande carriera canora, Rita Pavone sta portando in giro da alcuni mesi lo

spettacolo «Goodbye? La mia favola infinita». Che il 29 e 30 ottobre fa

tappa al Politeama Rossetti, in quella Trieste che in fondo è un po’ anche

sua, per la proprietà transitiva dovuta al fatto che da oltre quarant’anni

divide casa e palcoscenico con un certo Teddy Reno, all’anagrafe Ferruccio

Merk Ricordi, «triestìn patoco» alla vigilia degli ottanta.

«È una cosa a cui pensavo da tempo - spiega la cantante, nata a Torino nel

1945 -. Credo di essere in questo momento al meglio delle mie possibilità

vocali e vorrei lasciare alla gente il ricordo e magari il rimpianto di

qualcosa di positivo, che non il semplice ricordo di un’artista. Ecco allora

l’idea di questo show, che è il mio racconto di una favola bellissima,

cominciata nella Torino povera del dopoguerra e proseguita attraverso luoghi

e personaggi che mai avrei pensato di conoscere. Cantare è sempre stata la

mia passione. Ed è ancora la stella che mi guida. Nello spettacolo ci sono

monologhi, canzoni, balletti, filmati d’archivio e momenti musicali non

necessariamente legati alla mia carriera».

Una carriera lunga oltre mezzo secolo, visto che Rita ha debuttato a nove

anni, nel ’54, al Teatro Alfieri di Torino. Ma sbaglia chi pensa a un

definitivo pensionamento, magari al sole di Palma di Maiorca, dove la

famiglia Merk Ricordi ha una delle sue tre basi (le altre due sono a

Lattecaldo, in Svizzera, e ad Ariccia, ai Castelli romani...). Intanto per

il 2006 è già in programma un certo numero di repliche di questo spettacolo

all’estero. E poi la signora fa sapere, sempre amorevolmente supportata da

Teddy Reno, che «mi piacerebbe molto dedicarmi di più al teatro e alla

commedia musicale...».

«È un’altra mia vecchia passione - spiega -, sin da quando negli anni

Sessanta mi hanno portato a Broadway a vedere “Funny girl”, e ho conosciuto

la protagonista, Barbra Streisand. Era la prima volta che andavo a teatro,

ed è stata una folgorazione. Un’altra volta, in camerino mentre mi preparavo

per uno spettacolo, sento bussare alla porta. Era Ella Fitzgerald che voleva

complimentarsi con me, e mi chiedeva un autografo per suo figlio...».

Episodi. Che confermano come quarant’anni fa il miracolo di «Pel di Carota»

non conobbe confini. Nei mitici anni Sessanta italiani «La partita di

pallone» (un brano di Edoardo Vianello che era già stato inciso da Cocky

Mazzetti, passando però inosservato) fu solo il primo di una lunga serie di

successi: da «Cuore» (cover di «Heart», canzone di Phil Spector già portata

al successo dall’americano Wayne Newton) a «Sul cucuzzulo», da «Come te non

c’è nessuno» a «Datemi un martello» (cover di «If I had a hammer», di Trini

Lopez, cantata anche dai Surfs), da «Che mi importa del mondo» a «Il

geghegè»...

La televisione e il cinema diedero il loro contributo. «Enzo Trapani,

nell’autunno del ’62, affidò a me e a Gianni Morandi - ricorda Rita - la

conduzione del primo programma dedicato ai giovanissimi: ”Alta pressione”. E

poi accadde il miracolo. Un giorno mi chiama Guido Sacerdote per sostituire

Mina (incinta di Massimiliano Pani), nel cast fisso di ”Studio Uno”...».

«Morandi lo conosco proprio dal ’62: ero appena tornata a casa dalla

vittoria ad Ariccia, che mi chiamarono dalla Rca, per andare a Roma a

incidere il mio primo disco, ”La partita di pallone”. Anche Gianni era

entrato da poco nello staff della casa discografica e stringemmo subito

amicizia. Entrambi venivamo da origini umili: io figlia di un operaio della

Fiat di origine siciliana, lui figlio del ciabattino comunista di

Monghidoro. Entrambi stavamo per essere baciati da un successo di

proporzioni enormi...».

Con i suoi «Collettoni» (un gruppo di ragazzi che si agitano attorno a lei e

costituiscono la sua scatenata «banda»), nel sacro sabato sera in bianco e

nero del canale unico dell’incontrastata Rai, in quegli anni la Pavone

diventa l’idolo, la beniamina di milioni di ragazzi e ragazzini italiani.

Poi Lina Wertmuller le offre la parte di protagonista nello sceneggiato

televisivo «Gianburrasca», tratto dal famoso «Giornalino di Gianburrasca» di

Vamba: otto puntate, fra il novembre ’64 e il gennaio ’65, ma sufficienti

per entrare nella storia della televisione per ragazzi. E il successo non si

ferma all’Italia: prima la Francia, la Spagna, la Germania, poi

l’Inghilterra, gli Stati Uniti, il Sudamerica... Fra il ’62 e il 70 la

ragazzina vende diciassette milioni di dischi, su un totale che ormai supera

i trenta milioni. Fra il ’64 e il ’68 partecipa sei volte all’Ed Sullivan

Show. Nel ’64, a Memphis, conosce Elvis Presley.

«Quella fu l’emozione più grande. Ci siamo conosciuti a Nashville, in sala

d’incisione. Elvis si è avvicinato, mi ha detto: “Ehi, ma io ti ho visto

ieri sera alla tv...”, e mi ha dato un buffetto sulla guancia. All’epoca

infatti ero spesso ospite all’“Ed Sullivan Show”. Una volta c’era anche

Orson Welles: non mi sono resa subito conto di chi avevo a fianco, l’ho

capito dopo. Per me Hollywood era Cary Grant, William Holden. E comunque lui

è stato molto alla mano, come tutte le grandi star che ho conosciuto in

America...».

Torniamo alla carriera. Alle canzoni seguono i film: «Totò e la figlia

americana», «Rita la zanzara», «Non stuzzicate la zanzara», «Little Rita nel

West» (con Terence Hill e Lucio Dalla, del ’67), «La più bella coppia del

mondo» (con walter Chiari), «La Feldmarescialla», «Due sul pianerottolo»...

«Quei film mi hanno dato la possibilità di lavorare con gente come Giulietta

Masina, Lucio Dalla, Terence Hill, Giancarlo Giannini. Senza dimenticare

Totò: un principe, in tutti i sensi. Grazie a ”Gianburrasca”, che mi capita

di rivedere e che trovo ancora fresco e attuale, ho avuto la fortuna di

lavorare con il meglio del teatro italiano. Con Lina Wertmuller siamo

rimaste in contatto, ogni tanto ci sentiamo. Mi piacerebbe che oggi mi

riscoprisse come attrice...».

«Infatti io credo di aver avuto due incontri fondamentali nella mia vita:

uno con lei, che è stata importantissima perché io non avrei mai immaginato

di poter recitare. L’altro con Macario, che mi ha preso per mano in teatro:

fare con lui sei mesi di tournée sono valsi tre anni di Accademia. Ma devo

ringraziare anche Franco Branciaroli che mi ha fatto fare “La dodicesima

notte” di William Shakespeare a Verona...».

Ricordi di una grande carriera, come si diceva. Teoricamente giunta al

capolinea, ma che nella realtà - volete scommettere? - durerà ancora a

lungo. Le parole di Teddy Reno, al proposito, sono rivelatrici: «Sì, Rita dà

l’addio alla sua carriera pop live, ma non a futuri impegni come attrice o

protagonista di qualche musical. Se dovesse infatti imbattersi in qualche

copione adeguato a una sessantenne che ha lo sprint di una ventenne, beh,

penso che non saprebbe dir di no...».

«Del suo sprint - conclude ”el mulo Ferucio”, che già preannuncia anche un

possibile ritorno discografico della consorte entro un paio d’anni - si

accorgerà il pubblico triestino il 29 e 30 ottobre. Mi esibirò anch’io, ma

nel secondo tempo, quando si parla della storia di due innamorati osteggiati

dalla famiglia di lei... A quei tempi anche i giornali erano scettici sulla

durata della nostra unione. Invece, siamo ancora qua...».

 

domenica 23 ottobre 2005

Considera il Friuli Venezia Giulia «una grande città di un milione e duecento mila abitanti». E il suo obbiettivo è informarla tutta. Da Trieste a Udine, da Gorizia a Pordenone, dalla Carnia a Grado e a Lignano. Senza dimenticare che dietro l’angolo c’è un’Europa sempre più grande. Di cui tutti dobbiamo sentirci parte.
Lui è Giovanni Marzini, classe 1954, da cinque anni a capo della redazione giornalistica italiana della sede Rai del Friuli Venezia Giulia. Una redazione formata da ventisette giornalisti e dodici telecineoperatori (questi però in comproprietà con la redazione slovena e quella dei programmi), che nel corso di questi ultimi anni è stata ringiovanita. Ed è chiamata a fare informazione regionale ma anche a svolgere il ruolo di «grande ufficio di corrispondenza» per le testate nazionali. Nonchè di osservatorio prililegiato verso Est.
Marzini, la nostra è una regione difficile da tener assieme?
È la nostra prima missione, il primo punto del mio piano editoriale che ho presentato cinque anni fa: il Friuli Venezia Giulia è come una grande città di un milione e duecento mila abitanti, quindi dobbiamo intenderla come tale.
Le spinte centrifughe di Udine? Non volevano una sede Rai autonoma per il Friuli?
Penso che siano problematiche superabili e forse già superate. Mi fanno sorridere le polemiche che ogni tanto vengono fuori sullo spazio che viene dato a Trieste e a Udine. Sono polemiche sterili e pretestuose. Noi abbiamo l’obbligo di fare un grande giornale regionale, tentiamo di farlo. Le nostre telecamere e le nostre troupe vanno dove c’è la notizia, cercando di esser presenti anche in zone avare di notizie e spunti di cronaca: le zone montane, i paesi con problemi di ripopolazione, di sviluppo industriale....
Ma dicono che il tg è «Triestecentrico»...
I dati confermano che noi copriamo tutte e quattro le province. Poi è chiaro che tutti vorrebbero avere sempre e comunque la propria città, il proprio paese sulle pagine dei giornali e nei tg. Noi cerchiamo di accontentare tutti, fatto salvo che dobbiamo andare dove succedono le cose...
Che succedono più spesso nelle città...
Sì, ma il nostro obbligo è coprire nella maniera migliore l’intero territorio, cercando di fare quello che continua a essere l’unico giornale regionale di questa regione. Perchè la carta stampata giustamente privilegia coi due principali quotidiani da un lato Trieste, Gorizia e l’Isontino, dall’altro Udine, il Friuli e Pordenone. E lo stesso vale per le tv private: le due principali si dividono la regione nella stessa maniera dei quotidiani.
Che cosa chiede Roma a una sede regionale «di frontiera»?
Il Tg1 chiede almeno due o tre volte al mese la bora. È una battuta, ma in effetti le immagini della bora sono la cosa che Trieste esporta di più. Evidentemente colpiscono molto l’immaginario. Non c’è servizio sul maltempo che non passi attraverso un’immagine del Molo Audace flagellato dalla bora. Su questo non ce ne vogliano gli amici friulani... Ma è una particolarità che la Trieste del turismo potrebbe sfruttare molto meglio di quanto fa: un museo della bora (che racconti la storia di questo vento, attraverso il patrimonio di immagini, di racconti, di libri...) sarebbe molto interessante.
Bora a parte?
Ci chiedono tutto quanto di rilevanza nazionale può accadere in questa regione. Anni fa eravamo in prima linea sul conflitto balcanico, con una guerra che ci era scoppiata a un’ora di macchina da qui. Adesso forse non siamo più la ”porta verso Oriente” per droga stupefacenti e altro, com’è stato per anni, ma dobbiamo sempre dar conto di tutto quel che accade....
Siamo ancora «osservatorio privilegiato»?
Lavoriamo per questo. E rivendichiamo un ruolo che l’azienda ci sta riconoscendo: essere un osservatorio privilegiato verso i paesi della nuova Europa, dell’area balcanica, dell’Est Europa... Non più ai confini dell’Occidente, ma come centro della nuova Europa che si sta allargando. E tutti i discorsi sull’Euroregione portati avanti da Illy devono trovare una sponda adeguata nel servizio pubblico radiotelevisivo.
Come vi state preparando?
Per esempio con il settimanale ”Est Ovest”, da noi curato, che è il primo passo di questo progetto. Un progetto che abbiamo presentato tre anni fa, che è stato accolto. Da Trieste i nostri inviati partono alla volta di diversi paesi europei. Realizziamo un rotocalco di quindici minuti, i cui servizi vengono poi proposti anche ad altre testate, anche satellitari, della Rai. Dunque si vedono in tutta Europa.
E dunque...
Dunque è un primo passo verso quello che dovrebbe essere in futuro il ruolo di questa sede regionale: portare avanti un progetto, per ora sperimentale, legato alla televisione transfrontaliera. Possiamo anche chiamarla Eurotv, tv dell’Euroregione... L’importante è intendersi sul ruolo: informare un’area che parte dal Nord Est italiano, coinvolgendo quindi anche Veneto e Trentino Alto Adige, e arriva a Slovenia, Croazia, Austria, Slovacchia, Ungheria, Romania... Realizzando quindi un grande canale televisivo che possa unire, con notiziari plurilingui, queste regioni, trattando i temi che a queste regioni interessano.
I politici telefonano a un caporedattore della Rai?
Assolutamente sì, com’è logico sia. Ma in cinque anni, sui colleghi che sono stati assunti, e sono entrati a far parte di una redazione che si sta progressivamente svecchiando e ringiovanendo, non c’è mai stata un’ingerenza del mondo politico....
Una svolta epocale: dunque non vale più il vecchio sistema, secondo cui in Rai si assumeva uno del partito x, uno del partito y e uno bravo...
È un fenomeno che, almeno nella nostra regione, e per quel che mi riguarda, non è mai accaduto. Qui sono entrati giornalisti che hanno cominciato a far la gavetta, e dopo un periodo di precariato, sono stati assunti. Dunque le telefonate dei politici non arrivano per segnalare questo o quello, ma per segnalare eventi per i quali viene chiesta un’adeguata copertura.
Nessuno che si lamenta?
A volte, ma sono più numerose le lettere e le mail di ringraziamento (e tira fuori un faldone zeppo di roba... - ndr). Certo, c’è chi si lamenta, ma spesso è il frutto di equivoci, che poi vengono chiariti. Tutti si sentono in diritto di chiedere sempre qualcosa di più....
Siamo bombardati da informazioni. Troppe?
Forse sì. Forse c’è troppa offerta rispetto alla domanda. Ma in questo moltiplic</CP><CF><CP>arsi di canali informativi, farà sempre più la differenza l’autorevolezza del giornale che dà l’informazione. Un giornale o una tv che ti racconta per quattro o cinque volte una fregnaccia, perde autorevolezza. Per questo prima di sparare un titolo, prima di presentare un presunto scoop, verifichiamo più volte. A costo di non dare la notizia anche quando l’abbiamo. Perché il pubblico non ci perdonerebbe una notizia non vera sparata da noi. Non è abituato.
Marzini, cos’ha imparato da radio e tv private?
Trent’anni fa sono stato fra i fondatori di Radio Sound e poi ho lavorato a Telequattro dal primo giorno di trasmissione. È lì che ho imparato il mestiere. Quella radiofonica era un’esperienza pionieristica e lontanissima da come si sono poi evolute le radio private. La nostra era sperimentazione, con le prime radiocronache, soprattutto con la grande esperienza del maggio ’76 per il terremoto nel Friuli, con una ”nostop” di una settimana al microfono: informazione, servizi, coordinamento soccorsi... Ci sentivamo e forse eravamo pionieri dell’etere.
In tv è stato diverso...
Beh, dal punto di vista professionale è stata un’esperienza molto più importante. Anche se ovviamente è molto diverso fare il cronista a Telequattro e coordinare l’informazione regionale della Rai: prima dovevi coprire tutto quel che accadeva fino a Barcola, ora dobbiamo spaziare in tutta la regione. E sapere che ci si rivolge - attraverso i tanti contributi alle testate nazionale - a un pubblico nazionale: la prima funzione delle sedi regionali, come servizio pubblico, è infatti quella di essere dei grandi uffici di corrispondenza dalle regioni per i tg nazionali.
La radio però a Trieste ha una grande tradizione...
Certamente. Qui nacquero i primi giornali radio regionali. Basti pensare che in questi giorni festeggiamo i 75 anni di Radio Trieste. La tradizione e l’attaccamento rimangono, soprattutto fra gli ascoltatori più anziani. Visto che i giovani ascoltano la radio in maniera molto diversa. E comunque ancor oggi le prime due edizioni dei nostri giornali radio sono seguitissime, i più seguiti in Italia, come rapporto fra ascolto e popolazione coperta.
Su scala regionale l’informazione può essere mischiata all’intrattenimento, come avviene sulle reti nazionali?
No, io credo molto nel servizio pubblico della Rai. In un paese civile dev’esserci grande spazio per la tv come intrattenimento, come momento di evasione. La tv commerciale ha i suoi spazi sacrosanti, la tv pubblica deve a sua volta fare intrattenimento, ma io penso che i tg devono pensare a informare il pubblico - che paga il canone - in maniera corretta, il più possibile esaustiva e completa.
A rischio di un’informazione un po’ paludata...?
Ammetto che il tg regionale, per le sue stesse caratteristiche, certe volte rischia di essere un po’ noioso. Ma io non mi sento obbligato a trattare gossip o a proporre qualche bella figliola in abiti discinti per catturare ascolto. Grazie al cielo i nostri ascolti sono comunque notevoli, siamo comunque ai primissimi posti fra i venti tg regionali della Rai.
Secondo lei perché?
Perché a costo di fare a volte un tg noioso, ci siamo guadagnati sul campo una certa autorevolezza. Noi dobbiamo trattare temi spesso non facili, spesso problematici: crisi industraili, disoccupazione, problemi sociali, le famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine mese, le riunioni dei consigli regionali e il governo regionale, gli aspetti istituzionali della regione devono trovare spazio in tg pubblico. Noi crediamo in questa missione.
Com’è cambiata Trieste da quando lei ha cominciato a lavorare?
Trieste sta facendo dei grossi passi avanti, anche se a fatica. E molti di questi passi avanti sono legati alle nuove generazioni. Siamo una città difficilissima, che ha ancora delle ferite che si stanno rimarginando, ma che deve assolutamente guardare avanti. Con la politica dell’odio, delle barriere, dei confini, dei ricordi che fanno ancora male, non si va da nessuna parte. In questo, le nuove generazioni hanno un compito importantissimo.
Continui...
Bisogna guardare al futuro, aprirsi, dobbiamo considerarci come una città europea, dobbiamo guardare all’Europa come a una grande nazione fatta di regioni che devono abbattere i confini, perchè chiudendosi in se stessi non si va da nessuna parte.
So che è un discorso difficile da fare a Trieste, in una città che aveva i confini con la Jugoslavia a dieci minuti dal centro. Ma lo sviluppo futuro per i nostri figli e nipoti - conclude Marzini - è guardare a una città senza confini, che si deve sentire al centro d’Europa. E non ai margini di un paese.

venerdì 21 ottobre 2005

Della serie: piccoli divi crescono. O almeno stanno crescendo. E
quando il piccolo divo in questione si chiama Cesare Cremonini, beh, diciamo

la verità: siamo disposti a perdonargli quasi tutto. Anche quell’aria da

narciso un po’ esibizionista, che fra l’altro fa parte del mestiere,

sfoggiata ogni volta che il ragazzo sale su un palcoscenico con un microfono

in mano e un pubblico davanti.

A Cremonini - il cui tour teatrale ha fatto tappa ieri sera al Politeama

Rossetti - perdoni tutto, anche il fatto di aver ucciso praticamente nella

culla i suoi Lunapop, che gli avevano regalato il successo appena

diciannovenne, perchè oggi, che di anni ne ha venticinque, è uno dei

migliori autori giovani di musica pop del nostro Paese. E se qualcuno avesse

nutrito ancora dei dubbi, dopo l’ascolto del recente album «Maggese» e dei

precedenti, ebbene, questo nuovo spettacolo contribuisce a fugarli.

Platea giovanissima, completa anche di bambini in età da elementari. Lui

attacca con «Padre madre», che stava in «Bagus», il suo primo album solista,

uscito nel 2002. La prima sorpresa è l’orchestra, la London Telefilmonic

Orchestra, quasi tutta d’archi e quasi tutta femminile, che lo affianca.

Evidentemente il gruppo elettrico, con il fido Nicola «Ballo» Balestri, al

cantautore bolognese non basta più. Urgono nuove prove, stimoli che esaltino

il suo indubbio genio musicale. «Accettare le sfide è indice di coraggio -

confessa Cremonini -, mi sono costruito la sfida da solo e ho deciso di

mettermi alla prova. Non avevo voglia di palasport, di caos, di occhi

nascosti nel buio. Avevo voglia di vedere il pubblico negli occhi, di

toccarlo... E il teatro è l’unico spazio che rende possibile tale

desiderio».

E allora ben venga il teatro. E ben venga l’orchestra inglese, la stessa che

lo aveva già affiancato nella realizzazione dell’ultimo disco, pensato e

suonato fra la sua Bologna e Londra, con passaggio nei mitici Abbey Road

Studios dove registrarono i Beatles.

Ma non divaghiamo. Secondo brano in scaletta «Gli uomini e le donne sono

uguali», Cremonini si siede al pianoforte e la galoppata comincia. E

prosegue con «La fiera dei sogni». Il ragazzone bolognese parla col

pubblico, racconta e si racconta, scherza, si lascia andare, un po’ se la

tira, beandosi degli occhi che lo guardano e vanno in estasi.

Infila un brano che Gaber scrisse nel lontano 1970, quando lui e gran parte

dei presenti non erano ancora nati: «L’orgia», lo stesso interpretato

l’estate scorsa, a Viareggio, al festival del teatro canzone dedicato per

l’appunto al grande artista scomparso. Recupera «Walter ogni sabato un

trip», affonda con «Le tue parole fanno male». E dopo la strumentale «St.

Peter Castle» parte l’epopea di «50 Special», completa di raccontino

autobiografico sulla conquista del primo motorino.

Secondo tempo. Apre con «Momento silenzioso», prosegue con «Sardegna» e

l’inedita «Dev’essere così»: due canzoni che pagano un consistente debito a

un certo De Gregori. È tempo di «Marmellata #25», gradevole tormentone

dell’estate da poco conclusa, ma anche delle ormai classiche «Latin lover» e

«Vieni a vedere perchè», di un altro inedito che in realtà risale ai tempi

dei Lunapop («Il pagliaccio»), degli echi beatlesiani che impreziosiscono

«Maggese», ultimo brano in scaletta prima dei bis. E poi tutti a nanna

contenti. Che stamattina si va a scuola...

 
ROMA È morto a 81 anni in una casa di riposo Ezio Radaelli, organizzatore di

grandi manifestazioni musicali. Nato a Milano, organizzò le prime edizioni

di Miss Italia, poi varie edizioni del Festival di Sanremo, dal ’58 al ’61 e

dal ’67 al ’71. E fu l'inventore del «Cantagiro».



Con Radaelli se ne va l’ultimo patron della musica italiana. Dopo Gianni

Ravera e dopo Vittorio Salvetti. E si potrebbe pomposamente dire che si

chiude un’epoca, se non fosse che quell’epoca, pionieristica e forse

romantica, è già finita da un pezzo.

Era, quello degli anni Sessanta e Settanta, il periodo storico della canzone

e della discografia italiana. Quello seguito alla rivoluzione di Modugno nel

’58, ai primi cantautori, al beat italiano, ai complessi che scopiazzavano

in buonafede quanto di nuovo arrivava da oltremanica e da oltreoceano.

Quello di personaggi carismatici, un po’ mecenati e un po’ imprenditori, che

segnarono la crescita - e l’affrancamento almeno parziale dai modelli

stranieri - della musica popolare italiana.

Grandi discografici: Slanislao Sugar, Ennio Melis, Vincenzo Micocci, Nanni

Ricordi... Ma anche grandi impresari e organizzatori, ancora a mezzo

servizio fra piazze e televisione, il cui potere - oggi sterminato - era

ancora nascente. Salvetti inventò il Festivalbar sfruttando con intuizione

geniale il momento magico dei juke-box, e poi seppe trasformare la

manifestazione, che non a caso gli sopravvive nelle mani del figlio Andrea.

Ravera legò a doppio filo il proprio nome al Festival di Sanremo, che sotto

le sue cure era una macchina nella quale nessun dettaglio era affidato al

caso. Radaelli, oltre a tanti Sanremo (alcuni dei quali firmati in coppia

proprio con Ravera), legò il suo nome soprattutto al Cantagiro.

Era una manifestazione canora itinerante che si svolse ogni anno dal ’62 al

’72 (e venne ripresa con scarso successo fra il ’90 e il ’93). La formula

era presa in prestito dal Giro d'Italia di ciclismo: una carovana canora in

giro per la penisola, coi vari cantanti che si spostavano in comitiva e

gareggiavano tra loro giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico

delle varie città. Ogni sera veniva proclamato il vincitore di tappa, nella

tappa finale (a Fiuggi) quello assoluto dei vari gironi.

Radaelli - che da giovane era stato partigiano e dirigente sindacale - di

quelle carovane era l’anima. I cantanti non erano ancora divi

irraggiungibili, costruiti a tavolino da discografici attenti solo ai

numeri. La televisione non badava solo all’audience. Erano gli anni di

«Bandiera gialla», la storica trasmissione radiofonica di Arbore e

Boncompagni, di cui ieri sera è stata trasmessa su RadioDue un’edizione

speciale, nel quarantennale del debutto. Roba di un secolo fa.

 

martedì 4 ottobre 2005

Da molti anni, ormai, la Barcolana è anche musica. Musica del mare, musica delle vele, musica dei colori, musica della gente. E poi musica propriamente detta, quella fatta di suoni e parole ed emozioni, col Barcolana Festival. La parentesi jazz dell’anno scorso (Arigliano, la Casale, Benny Golson, Dalla, Jannacci...) era stata foriera di qualità, ma forse aveva alzato un po’ troppo, dal punto di vista degli organizzatori, l’età media del pubblico. Quest’anno si torna a parlare il linguaggio dei giovani e dei giovanissimi, che poi sono quelli che storicamente riempiono le piazze. Meglio se a ingresso gratuito.
E dunque a ingresso gratuito, da domani sera, piazza dell’Unità sarà per tre serate il palcoscenico per le esibizioni di un drappello di nomi, alcuni noti e altri meno noti, ma tutti accomunati dal fatto di poter contare sui favori del pubblico giovanile.
Si parte allora domani sera, con i salentini Negramaro (di cui parliamo più diffusamente qui sotto), debuttanti eccellenti dell’ultimo Festival di Sanremo, dove sono stati sonoramente eliminati alla prima serata, ma da dove hanno avuto la possibilità di far conoscere la loro buona musica a un pubblico molto più vasto rispetto ai pochi che li conoscevano prima della breve performance al Teatro Ariston.
La serata comincerà alle 19, con alcune belle realtà locali (e questa è una novità dell’edizione di quest’anno...): il «dj set» dei Papastuff, il solista Cortex, i triestini Trabant, i monfalconesi Jade, ma anche Mike Sponza & Central Europe Blues Convention (ospite: l’americano Carl Verheyen), protagonisti recentemente di un bel progetto discografico che sta suscitando interesse e ottenendo consensi in Italia e all’estero.
Venerdì apertura locale con Dj Kashmire, i Makako Jump e C-Side. Poi tocca a Frankie Hi Nrg, vero e proprio nume tutelare dell’universo hip hop di casa nostra. Chiusura col rock dei Negrita, reduci da una grande estate sulle note della loro «Rotolando verso sud».
E siamo a sabato, la serata finale che da anni significa musica, grande folla, spettacolo pirotecnico, e poi tutti a nanna, che la mattina dopo bisogna svegliarsi presto perchè c’è la regata.
Apertura con Dj Spiller e i Wet-Tones, poi sotto con i Montefiori Cocktail (ovvero i fratelli Francesco e Federico Montefiori, campioni di quello che un tempo si chiamava «easy listening» e oggi è assurto al rango di «lounge music»...) ma soprattutto con Lara-B. Per la quale è giusto spendere qualche parola in più, visto che si tratta forse della maggiore rockstar slovena e che è nata a Capodistria.
Ventisei anni, figlia d'arte, debutta appena tredicenne come cantante e autrice di testi. Nel ’95, a quindici anni, comincia a vincere premi. Due anni dopo esce il primo album. Seguono tour, festival, programmi radio e tv, collaborazioni prestigiose, ancora premi... Siamo a oggi. Dopo tre album campioni di vendite in Slovenia, ora Lara-B esce sul mercato internazionale con «Mindhacher», lavoro scritto in inglese di cui presenterà alcuni estratti a Trieste. Fra cui «Password», il cui video è attualmente in rotazione su Mtv Adria (il nuovo canale del colosso mondiale che guarda a Est).
Ma torniamo al cartellone del Barcolana Festival. Dopo Lara-B e dopo la pausa dedicata allo spettacolo pirotecnico (una novità di quest’anno: nelle edizioni scorse i fuochi chiudevano la baracca a mezzanotte, a musiche finite...), l’onore dell’ultima parola sabato sera è riservato a Paola Turci, la brava cantautrice romana che ha appena pubblicato il suo nuovo album, intitolato «Tra i fuochi in mezzo al cielo» e anticipato dal singolo «Dimentichiamo tutto».
«È un disco che ho scritto quasi tutto da sola - ha detto la Turci, cantautrice da sempre attenta al sociale -. Sono contenta del modo in cui l’ho realizzato. Il mio desiderio era di lavorare a un progetto musicale in assoluta armonia, libertà e autonomia. Volevo convivere con il mio gruppo per un periodo di tempo, registrando, suonando, divertendoci, conoscendoci anche di più: insomma volevo fare un lavoro in comunità. Le canzoni le ho scritte da sola: raccolgo sempre spunti e intuizioni dei miei collaboratori. Ma avevo voglia di mettermi alla prova, per conoscere gli aspetti più intimi e nascosti della mia personalità, del mio carattere. O forse ieri ero sempre incuriosita dalle cose altrui, oggi meno...».
Da segnalare infine un’altra novità dell’edizione di quest’anno. Venerdì e sabato, per quelli che non ne hanno ancora abbastanza (e magari non debbono svegliarsi presto la mattina successiva...), è stata pensata un’appendice intitolata «Barcolana Festival After Midnight Tergesteo», per l’appunto nella centralissima Galleria Tergesteo (lato piazza Verdi). La prima sera scena per Dj Riki Borsini, Simon Dj, Dj G. Amodio, Dj Kashmire e Vocalist Silvia; la seconda sera spazio a Papastuff vs Olindo Dj, Montefiori Cocktail, Simon Dj, Dj Spiller, Dj Kashmire e Vocalist Silvia.

domenica 2 ottobre 2005

Da Lampedusa a Trieste, passando per la sua Roma. Dove fra l’altro c’è un disco appena uscito, «Tra i fuochi in mezzo al cielo», da promuovere. Lei è Paola Turci, che concluderà sabato 8, in piazza Unità, il Barcolana Festival.
«Sì, a Lampedusa - dice la cantautrice romana - ho partecipato alla terza edizione di ”O Scià”, la manifestazione voluta da Claudio Baglioni nell’estrema propaggine italiana, di cui si parla sempre per i continui sbarchi di clandestini. Sbarchi che non sono la malattia, come dice Claudio, ma la febbre».
La musica ancora una volta al servizio di un’emergenza sociale.
«Sì, anche se poi dei problemi degli emigranti quella sera non se n’è parlato. Anche chi vive lì, in fondo, è vittima di questa situazione. E la manifestazione, alla fine, si è ridotta a tutta una serie di duetti. Una sorta di Sanremo sulla spiaggia...».
In Vietnam ha vissuto invece una situazione molto diversa...
«Tutto è cominciato all’inizio di quest’anno. Un’Ong toscana, che opera a favore dell’infanzia nel nord del Vietnam, mi ha chiesto di sostenere il loro lavoro. Ad aprile sono andata con loro in Vietnam, ho suonato al Goethe Institut di Hanoi, ho visitato alcune regioni poverissime nel nord del Paese. Lì manca l’acqua potabile, la gente e soprattutto i bambini si ammalano e muoiono per malattie che in Occidente abbiamo debellato da decenni».
Lei cosa farà?
«Poco, troppo poco. Ma aiuterò questa Ong a farsi conoscere, ne parlo nel disco, ne parlerò ai concerti, faremo dei banchetti dove venderemo oggetti per raccogliere fondi destinati a loro...».
Ha accennato al nuovo disco...
«Sì, l’ho scritto quasi tutto da sola. Sono contenta del modo in cui l’abbiamo realizzato. Il mio desiderio era di lavorare a un progetto musicale in assoluta armonia, libertà e autonomia. Volevo convivere con il mio gruppo per un periodo di tempo, registrando, suonando, divertendoci, conoscendoci anche di più: insomma volevo fare un lavoro in comunità».
Tutti insieme, ma con canzoni che ha scritto da sola. Un’esigenza nuova?
«Raccolgo sempre spunti e intuizioni dei miei collaboratori. Ma avevo voglia di mettermi alla prova, per conoscere gli aspetti più intimi e nascosti della mia personalità, del mio carattere. O forse ieri ero sempre incuriosita dalle cose altrui, oggi meno...».
Cantautrice rock: un’etichetta in cui si riconosce?
«Mi sento più rock nella vita che nella musica. Dove invece tendo a sfuggire alle etichette. Anzi, la musica non ha bisogno di etichette. A me piace di tutto...».
Per esempio...?
«Da Sinead O’Connor a Fossati, da De Gregori a De Andrè...».
No, questi nomi da lei sono prevedibili. Ci sorprenda...
«Beh, allora le dirò che sono appassionata delle sonate per piano di Beethoven, che amo la musica brasiliana più leggera, più popolare. E che apprezzo anche un bel pezzo della Pausini o di Shakira...».
Nel disco c’è una sola cover...
«Sì, ”Tu non dici mai niente”, di Leo Ferrè. L’ho sempre sentito, l’ho sempre amato, ma lo riscoperto attraverso un bel disco di ”Les Anarchistes”, un gruppo di Carrara che canta le sue canzoni...».
A Trieste cosa suona?
«Propongo il concerto che ho portato in giro per l’Italia quest’estate. Le canzoni del disco precedente, ”Stato di calma apparente”, ovviamente i classici e un brano del nuovo disco, ”Quasi settembre”...».
Brano di stagione...
«Non scherzi. È una canzone scritta a partire da una domanda precisa: cosa si prova nel momento del trapasso? C’è una frase di Gandhi che dice ”partiamo per poi tornare sempre da dove siamo venuti”. Mi ha ispirato un’intepretazione circolare dell’esistenza. E quel verso: ”È un soffio di vento, non credere...”».
(3-9-05)

Pare allora che Fats Domino sia sano e salvo. Sarebbe stato portato via

assieme alla moglie e a una figlia dalla sua casa di New Orleans. Chi dice

in elicottero, chi su un battello. Quel che è certo è che del

settantasettenne pianista - leggenda del blues e del rock’n’roll - non si

avevano notizie da domenica, quando aveva detto al manager, che lo chiamava

da Nashville, che «avrebbe affrontato la tempesta a casa». Katrina dunque

non se l’è portato via, nella sua folle corsa sterminatrice su New Orleans,

sulla Louisiana, sull’Alabama, sul Sud degli Stati Uniti. Delta del

Mississippi, schiavi neri che cantavano i primi blues, la madre di tutta la

musica moderna.

Classe 1928, vero nome Antoine Dominique Domino, l’artista deve il

soprannome di «Fats» (da «fat», grasso), oltre che alla corporatura

massiccia, a un pianista che lo influenzò da giovane, Fats Waller, e al

titolo di una delle sue prime canzoni, «The fat man», cioè «Il grassone».

Dal ’55 azzeccò un successo dietro l’altro, persino Beatles e Rolling Stones

incisero suoi brani, fu fra i primi a entrare nella Rock’n’roll Hall of

Fame.

Ma l’autore di «I’m walking (Yes indeed I’m talking)» e «Ain't that a

shame», di «Blue monday» e «Walking to New Orleans», di «Blueberry hill» e

tanti altri successi è solo una delle tante facce musicali della meticcia

New Orleans. In quella che è considerata «la capitale del jazz» era nato nel

1901 Louis Armstrong, cui è intitolato l’aeroporto: pare che i suoi spartiti

conservati nella sua casa natale siano finiti in queste ore nella melma. Di

New Orleans sono i fratelli Wynton e Brandon Marsalis, stelle del jazz

contemporaneo, e i Neville Brothers, il cui studio è andato distrutto. E fra

i dispersi ci sarebbero anche Allen Toussaint e la «regina del soul» Irma

Thomas.