mercoledì 29 dicembre 2004

ENRICO RAVA VINCE REFERENDUM M.JAZZ

Musicista italiano dell’anno, leader del miglior gruppo italiano dell’anno e, come se non bastasse, è suo anche il miglior disco italiano dell’anno. Insomma, per il triestino Enrico Rava il tradizionale appuntamento di fine anno con «Top Jazz», il referendum indetto dalla rivista «Musica Jazz», quest’anno si è tramutato in un autentico trionfo.
Non è la prima volta che Rava viene premiato dai critici in questo referendum, che è un po’ la risposta italiana a quello che oltreoceano organizza la rivista americana «Down Jazz». È infatti dall’82 che il suo nome compare quasi ogni anno fra i premiati, e per ben cinque anni di fila - dal ’93 al ’97 - si è lasciato tutti alle spalle nella categoria del miglior musicista italiano. Ma per un artista sessantacinquenne - è nato a Trieste nel ’39 -, che fra l’altro ha scritto una parte importante della storia del jazz italiano degli ultimi quarant’anni, e che è sicuramente il jazzista italiano più noto all’estero, si tratta di un’autentica consacrazione.
Fra gli italiani, il trombettista è stato preferito a quattro pianisti, che lo seguono nella classifica: Stefano Bollani, Enrico Pieranunzi, Antonello Salis e Franco D’Andrea. Fra i gruppi, il suo si è lasciato alle spalle i Nexus e gli High Five.
Ma si diceva della «triestinità» di Rava. Che una volta ha raccontato su queste colonne: «Sono nato a Trieste, in una casa di via Tor San Piero, a Roiano. Ma sono un triestino per caso, perché la mia famiglia è di Torino, dove siamo tornati quando io avevo tre anni: ci eravamo trasferiti a Trieste per motivi di lavoro di mio padre. Potrà sembrar strano, ma ricordi della città ne ho molti. Quando ci sono tornato, per la prima volta dopo tanti anni, ho riconosciuto i luoghi. A tre anni si è già ricettivi, ma per lo stesso motivo non ho avuto modo di fare alcun tipo di esperienza. Trieste è una città che amo molto anche se non la conosco come vorrei, mentre Torino è la città in cui sono cresciuto, la città dei miei genitori, della mia famiglia...».
Rava ha suonato molte volte nel Friuli Venezia Giulia e in particolare a Trieste. L’ultima volta nel maggio scorso, al Teatro Cristallo, a conclusione della rassegna «Sulle nuove rotte del jazz». In quell’occasione - accompagnato da Dado Moroni, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto - ha presentato il suo recente disco «Easy Living», pubblicato dall’etichetta tedesca Ecm, e premiato come miglior disco del 2004 dal referendum di «Musica Jazz».
Che nelle altre categorie ha premiato fra gli altri il contrabbassista William Parker, sperimentatore cinquantaduenne, neroamericano, che da anni è attivo nel settore del jazz d’avanguardia (musicista dell’anno); il trio di Keith Jarrett (gruppo dell’anno); il cd «Which way is East» del batterista scomparso Billy Higgins e del sassofonista Charles Lloyd (disco dell’anno); il trombettista Giovanni Falzone e il tastierista Craig Taborn (rivelazione, rispettivamente italiana e straniera, dell’anno).

martedì 28 dicembre 2004

ALESSANDRO SIMONETTO

Quando aveva quindici anni, dunque nel ’78, Alessandro Simonetto studiava violino e pianoforte al Conservatorio Tartini. Ma lo videro suonare con Angelo Baiguera - oggi portavoce di Riccardo Illy, allora giocatore di basket con la passione per la musica - nel programma di Tele4 «Il Pinguino», condotto da Marco Luchetta. «Applicando una regola vecchia di chissà quanti anni - ricorda Simonetto, che stasera alle 21 suona al Politeama Rossetti -, secondo la quale chi studia non può andare a suonare in giro, tantomeno musica leggera e tantomeno in tivù, prima mi sospesero e poi mi radiarono dal Conservatorio...».
Quell’episodio, lungi dal tagliare le gambe al ragazzo, gli diede la spinta necessaria per impegnarsi ancor più nel mondo delle sette note. In quel periodo, con una preparazione musicale appena accennata, quel che più colpiva in lui era l’innata musicalità: qualsiasi strumento prendesse in mano, dopo pochi minuti sapeva trarne una melodia, un riff, una scala...
«Fu la mia fortuna - dice Simonetto - quando nel ’90 mi trasferii a Milano. Andai a lavorare nello studio di Lucio Fabbri, violinista e produttore, da dove passavano a registrare tutti i grandi della musica italiana. Serviva un violino, un sax, una chitarra, un mandolino, una fisarmonica, una tastiera...? Io ero sempre pronto...».
Per il musicista triestino comincia così una carriera che lo porta a collaborare fra gli altri con Fabrizio De Andrè (suonava il violino nell’unico video dell’artista genovese, «La domenica delle salme»), con Ornella Vanoni, Massimo Ranieri, Pierangelo Bertoli (che accompagnò sul palco di Sanremo nel ’92, suonando la fisarmonica nel brano «Italia d’oro»), Francesco Guccini, Ron, Fiorella Mannoia, Paolo Rossi, Giorgio Conte, Shel Shapiro, Cristiano De Andrè, Grazia Di Michele, Vinicio Capossela, Massimo Bubola, Mango, Teresa De Sio, Ricky Gianco... Con alcuni in sala d’incisione, con altri anche in tournée. Aggiungiamo il suo zampino in alcune colonne sonore («Puerto Escondido» di Gabriele Salvatores, ma anche Marco Ferreri e Maurizio Nichetti...), e avremo la cifra di anni di lavoro piuttosto intensi.
Da alcuni anni Simonetto è tornato a vivere a Trieste. Prima per motivi familiari, poi per una scelta di vita. Ha fondato un’associazione culturale per la divulgazione musicale, l’ha chiamata «Semplicemente», ha in testa vari progetti.
Intanto questi concerti, promossi dall’assessorato regionale alla cultura. Dopo quelli a Gorizia e Tarcento, stasera suona al Rossetti, nella sua Trieste. Musica tzigana, tango argentino, flamenco, suoni balcanici. Cucinati con il triestino Roberto Daris, il goriziano Giorgio Marega, i vicentini Hotel Rif, Patrizia Laquidara (vista anni fa a un Sanremo Giovani), il gruppo Por Los Caminos Flamencos, gli udinesi Inquilini del Mondo...
«La scena nazionale in questo momento non mi manca - sottolinea Alessandro Simonetto -, sono rimasto abbastanza deluso. Da che cosa? Da tutto: i personaggi, il sistema, il mondo stesso della musica italiana, che sembra mosso soltanto dagli interessi economici...».

giovedì 23 dicembre 2004

CD STRENNE

La solita, comoda strenna dell’ultimo minuto? Un cd. O magari un cofanetto antologico che di cd ne contiene due o tre o quattro. O ancora un dvd, più in linea con le abitudini e i gusti dettati da anni e anni di Mtv...
Sotto con le idee, allora. Consapevoli di alcuni fatti: siamo nel periodo dell’anno in cui si vendono più dischi, l’industria discografica non si fa mai trovare impreparata all’appuntamento e propone soprattutto raccolte antologiche per tutti i gusti, l’occasione è quella giusta anche per ricordarsi delle migliori uscite degli ultimi mesi.
La prima indicazione è quasi obbligatoria: «Le avventure di Lucio Battisti e Mogol», il cd triplo antologico che ripercorre i dodici anni - dal ’69 all’80 - di collaborazione e i dodici album della coppia che ha cambiato la musica italiana. Cinquanta canzoni, dunque tutto il meglio della premiata ditta, fra cui anche tre interpretazioni inedite: «Vendo casa» solo chitarra e voce, «La spada nel cuore» (portata a Sanremo ’70 da Little Tony e Patty Pravo) e la misconosciuta «Le formiche».
Fra le altre antologie italiane, segnaliamo due «The Platinum Collection»: quella di Franco Battiato (uscito nelle scorse settimane anche con il buon disco di inediti «Dieci stratagemmi») e quella di Mina, che in un’indicazione di strenne natalizie - notoriamente - non può mai mancare.
Come non può mancare Adriano Celentano, presente nelle indicazioni di quest’anno - in attesa di rivederlo in video - con «C’è sempre un motivo». Ma l’occasione festiva può essere anche l’occasione per ricordarsi di alcuni dischi che hanno scritto la storia discografica italiana del 2004: da «Buoni o cattivi» di Vasco Rossi a «Passi d’autore» di Pino Daniele, da «Convivendo parte I» (la seconda parte arriva a febbraio...) di Biagio Antonacci a «Pearls» di Elisa, da «Zu & Co» di Zucchero a «Elegia» di Paolo Conte, da «Resta in ascolto» di Laura Pausini a «Illusioni parallele» dei Tiromancino... E ancora il terzo volume dal vivo di Ivano Fossati, la bella conferma di Sergio Cammariere con «Sul sentiero», «La riconquista del forum» degli Articolo 31 (amatissimi anche dai bambini). Per chi vuole qualcosa di diverso: l’originale proposta etno-rock dei calabro-bolognesi del Parto delle Nuvole Pesanti («Il parto»), il gramelot siciliano di Ivan Segreto («Porta vagnu») e il multietnico disco d’esordio dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Stranieri. Bello il cofanetto dedicato ai Nirvana, «With the lights out»: tre cd, un dvd e un libretto fotografico in un’elegante e originale confezione, per ripercorrere l’avventura della band di Kurt Cobain. Box di quattro cd, con registrazioni inedite e dal vivo, anche per i Bon Jovi: «100.000.000 Bon Jovi fans can’t be wrong», che sarebbe come dire: cento milioni di fan dei Bon Jovi non possono essersi sbagliati... Per i giovanissimi, «Best of Blue», la raccolta di successi dell’ennesima boy-band sulla via dello scioglimento: in attesa di vedere se almeno uno dei bei ragazzi riuscirà nell’impresa solista (il più attrezzato sembra essere Duncan...), si possono riascoltare alcune delle canzoni melodiche che hanno segnato le ultime stagioni, fra cui anche quella «A chi mi dice» cantata in duetto con Tiziano ferro.
Ancora stranieri, reparto inediti. Il ritorno di Prince («Musicology») e quello di Tom Waits («Real gone»), la conferma di Norah Jones («Feels like home») e quella - scontata - dei Rem («Around the sun»), la sorpresa dei norvegesi Kings of Convenience («Riot on an empty space») e quella degli inglesi Streets («A grand don’t come for free», già indicato da alcuni come il miglior album del 2004). Se poi non volete sbagliare - e rischiare - puntate sui vecchi sani e solidi U2: il loro «How to dismantle an atomic bomb» è sempre fra il miglior rock che c’è in circolazione.
Qualche dvd per chiudere. Quello di Fabrizio De Andrè, splendido omaggio dal vivo al Faber, e quello di Norah Jones. Il sontuoso quadruplo su «Live Aid», immagini di quasi vent’anni fa che è bello rivedere. Il volume di «Parole e Canzoni» (dvd e libretto) dedicato a Francesco De Gregori e curato da Vincenzone Mollica. Ma anche «Eros Roma Live 2004», doppio vendutissimo dvd che fotografa dal vivo il momento d’oro di Ramazzotti. E buon Natale...

martedì 21 dicembre 2004

...senso di nausea e spossatezza...


...quest'anno l'influenza si manifesta con gli stessi sintomi che dà il centrosinistra...


(ellekappa, repubblica)

martedì 14 dicembre 2004

VOLTARELLI / PARTO DELLE NUVOLE PESANTI

L’onda calabra sta per arrivare. Anzi, è già arrivata. E vi sommergerà tutti. Oggi alle 18.30, al caffè letterario Knulp (via Madonna del Mare 7), il Parto delle Nuvole Pesanti presenta il nuovo album intitolato «Il parto», in uno di quegli incontri con il pubblico che da un po’ di tempo si chiamano «show case».
Il gruppo calabrese (all’inizio erano in undici, poi in nove, ora in quattro ma certe volte - come nella foto qui sotto - anche in tre...) è considerato una delle realtà più interessanti della cosiddetta scena etno-rock italiana. Colti e popolari al tempo stesso.
«Ci siamo conosciuti a Bologna nel ’90 - spiega il cantante Peppe Voltarelli - dove tutti ci eravamo trasferiti dalla Calabria per motivi di studio: chi al Dams, chi a Giurisprudenza, chi in altre facoltà... Abbiamo cominciato a fare musica assieme per il gusto di mescolare il rock e la nostra tradizione popolare calabrese. All’inizio, di fronte alla nostra proposta, parlavano di ”taranta-punk”: etichetta usata soprattutto quando nel ’94 è uscito il nostro primo album...».
Prosegue Voltarelli: «Eravamo essenzialmente un collettivo di studenti fuorisede, cresciuti nell’orgoglio del nostro dialetto, delle nostre radici: materiali da trattare sempre con grande ironia, senza restare legati a un discorso di genere. L’idea era da subito quella di un gruppo e di un progetto aperto, anche con riferimento all’organico che col passare degli anni è mutato. Una sorta di allargo-stringo a seconda delle esigenze: un po’ come le nuvole, inafferrabili, con la voglia di non lasciarsi ingabbiare...».
Un momento importante, per il gruppo calabrese, sono stati l’incontro e la collaborazione con Claudio Lolli, di cui hanno rifatto lo storico disco del ’77 «Ho visto anche degli zingari felici». «La sollecitazione - spiega Voltarelli - è arrivata dalla nostra casa discografica, che è anche la sua. Lavorare con Lolli ci ha fatto prendere una sorta di ”cittadinanza bolognese” ad honorem. Ci ha sorpreso perchè è una persona semplice, schietta, che continua a fare il suo lavoro di insegnante in un liceo di Casalecchio. Su di lui imperano i luoghi comuni, che lo vogliono triste, schivo, noioso. Invece è una persona solare, che scherza e ride e fa pure un sacco di battute. Fra lui e noi c’è quasi una generazione di differenza, ma certi temi cantati dei suoi dischi (la piazza, l’abbondanza, l’idea dei fuorisede nella Bologna del ’77...) li abbiamo ritrovati come nostri, oltre che attualissimi...».
L’anno scorso, il gruppo ha realizzato un documentario (anzi, un ”rockumentary”...) sull’emigrazione calabrese in Germania, con la regia di Giuseppe Gagliardi, cosentino che vive a Roma. Un lavoro che è stato anche premiato al Torino Film Festival.
«”Doichlanda” è il modo in cui gli emigrati calabresi - spiega ancora il cantante del Parto delle Nuvole Pesanti - usano chiamare la Germania. Un termine che indica anche un luogo che offre nuove possibilità di lavoro, un luogo divenuto per molti anni meta delle migrazioni calabresi. Noi abbiamo realizzato un viaggio, che alterna le immagini della nostra tournèe in Germania e le interviste ai nostri emigranti lassù. Nelle case, nei ristoranti calabresi di Germania si dipana un viaggio che racconta i cambiamenti, le trasformazioni e le contraddizioni di una dinamica culturale per noi di estremo interesse».
«Davanti alla telecamera, accompagnati dalla nostra musica, gli emigrati raccontano la loro vita lontano dalla terra di origine, i loro problemi di inserimento e anche i loro successi, le loro soddisfazioni. Raccontano di una Calabria mai dimenticata, che ancora oggi rivive nella mente e nel cuore. E anche nei piatti della cucina tedesca rivisitata alla luce della nostra tradizione culinaria...».
«Onda calabra» è il brano che chiude il «road movie». E che apre il disco che viene presentato oggi a Trieste. A febbraio la band riparte, stavolta per l’Argentina, a riannodare altre storie di emigrazione calabrese...

domenica 12 dicembre 2004

EZIO VENDRAME

Prima il calcio, poi i libri, ora - forse - anche il Festival di Sanremo. Ezio Vendrame, friulano di Casarsa, cinquantasette anni, vive per sua stessa ammissione «murato vivo» nella sua piccola casa di San Giovanni di Casarsa. «Esco alle sei e mezzo del mattino - confessa - per comprare i giornali e bere un caffè al bar: poi, spesso, rimango in casa tutto il giorno...».
Nella sua terra («che amo, ma a cui mi sento estraneo...») Vendrame è tornato tanti anni fa, dopo aver concluso la sua avventura nel mondo del pallone. Quarantanove partite e un gol in serie A, nel Vicenza e nel Napoli, e tanti campionati nelle serie minori. Genio e sregolatezza, dicevano di lui, considerato una sorta di George Best all’italiana.
Poi, complice l’incontro con il poeta e cantautore livornese Piero Ciampi, l’amore per la poesia. Varie raccolte di versi, un paio di libri legati ai suoi trascorsi pallonari. Recentemente, il passaggio a un editore importante, Rizzoli, per cui ha scritto «Una vita fuori gioco», che sta incontrando un certo successo.
Fra un paio di mesi, Vendrame potremmo ritrovarcelo anche sul palco del Teatro Ariston. «L’anno scorso - racconta lo scrittore - sono stato invitato a Sanremo, al Club Tenco, perchè partecipavano alla rassegna con canzoni nate da miei versi, sia il gruppo dei Tete de Bois che il cantautore Nicola Costanti. Con quest’ultimo, premiato per il brano ”Io, non lui”, ci siamo conosciuti meglio ed è nata una collaborazione. Mi ha chiesto di scrivere assieme una canzone da mandare al Festival 2005. All’inizio ero un po’ titubante, poi mi sono lasciato convincere...».
«È nato un brano - prosegue Vendrame - che parla di questo nostro modo frenetico di vivere, del quotidiano di tutti noi, quasi obbligati a vivere a mille all’ora. La vita invece è breve, va gustata lentamente, noi siamo provvisori...».
La canzone comprende anche dei versi, all’inizio e alla fine, recitati da Vendrame. Che dunque affiancherebbe Costanti sul palco dell’Ariston, nel caso la canzone venisse accettata dalla commissione giudicatrice.
Ma c’è di più. Il duo potrebbe diventare un trio, con la partecipazione nientemeno che di Jane Birkin, l’attrice e cantante inglese, già moglie e musa di Serge Gainsbourg, con cui sussurrava alla fine degli anni Sessanta il classico erotico «Je t’aime moi non plus».
«A Sanremo l’anno scorso c’era anche lei - spiega Vendrame -, premiata per il disco ”Arabesque”. Ci siamo conosciuti, frequentati un po’, sono andato anche a Parigi a vedere un suo concerto, magnifico. Ora, visto che fa parte della stessa casa discografica di Costanti, c’è in ballo questo tentativo di farla partecipare al nostro progetto...».
Strano ed enigmatico personaggio, Vendrame. Fa cose, vede gente, ha un indiscusso talento e una spiccata sensibilità. Ma poi, proprio come quando giocava a pallone, sembra quasi farsi sopraffare da una specie di demone dell’autodistruzione...
«Le cose mi accadono senza che io le cerchi - confessa -, non è che io ci sputi sopra, ma non riesco a darvi troppa importanza. Il fatto è che non prendevo sul serio il pallone, e non prendo sul serio la scrittura. Sono i rapporti umani, che mi deludono. E poi mi lasciano solo...».


 

sabato 11 dicembre 2004

VENDITTI

Sarà il PalaTrieste la prima tappa del 2005 del nuovo tour di Antonello Venditti, che è partito l’altra sera dal Mazda Palace di Torino. Il cinquantacinquenne cantautore romano, che ha appena pubblicato l’album «Campus Live» (stesso titolo del tour), sarà infatti a Trieste sabato 8 gennaio. Aprendo di fatto un mese musicalmente molto ricco per il capoluogo giuliano: sempre al PalaTrieste debutterà infatti il primo di febbraio il tour di Elisa e farà tappa il giorno 8 quello di Laura Pausini.
Ma torniamo al cantore di «Roma capoccia». L’altra sera i cinquemila che lo hanno applaudito a Torino si sono trovati dinanzi un Venditti musicalmente trasformato: meno pianoforte e più chitarre, negli arrangiamenti di vecchi e nuovi classici che vanno a formare la scaletta del concerto che vedremo anche a Trieste: da «Che fantastica storia è la vita», che apre la serata, a «Notte prima degli esami» (dedicata, ha detto il cantautore romano, «a tutti quelli che non ci sono più, e penso a gente come Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti, ma anche agli amici e ai parenti che non sono più qui...»), da «Sotto il segno dei pesci» a «Ci vorrebbe un amico», per continuare con «In questo mondo di ladri», «Alta marea», «Ventuno modi per dirti ti amo», persino l’antica «Sara»...
Con lui, sul palco, i due chitarristi Marco Rinalduzzi e Giovanni Di Caprio, il bassista Fabio Pignatelli (già con i Goblin), il batterista Derek Wilson, i fedelissimi Alessandro Centofanti alla tastiera e Amedeo Bianchi al sax, e infine l'«uomo orchestra» Bruno Zucchetti.
Rispetto al disco, Venditti dice: «Si tratta di un ”live” un po’ anomalo: nel senso che di solito si fa dopo una tournèe, mentre stavolta noi lo abbiamo fatto prima. Il disco è stato infatti registrato in un campus che sa di America e invece sta a Cinecittà, nella nuova scuola laboratorio di musica aperta a Roma a settembre. Ci hanno ospitato per provare due settimane, poi col chitarrista Rinalduzzi ho pensato di scavare nelle canzoni e negli arrangiamenti e l’esperienza. Che è stata così forte che abbiamo deciso di farne un ”live”e ci siamo rimasti quattro mesi..».
Da segnalare che, proprio in occasione del tour, è appena uscita anche la biografia «Antonello Venditti - Che fantastica storia», di Pino Casamassima. Centocinquanta pagine lungo le quali l’autore ripercorre vita, carriera, successi, esperienze del cantautore romano, dai debutti al Folkstudio assieme a De Gregori fino alle cose più recenti.

MORANDI FA 60 ANNI

Compie oggi sessant’anni Gianni Morandi, il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro. Che quando quel ragazzino dalle mani grandi quanto la voce, all’inizio degli anni Sessanta, portò a casa i primi soldi guadagnati con la musica, gli disse di restare con i piedi per terra, che tanto non sarebbe durata, che di lì a poco sarebbe tornato anche lui nella bottega da calzolaio di suo padre, che la domenica mattina andava a fare la diffusione militante dell’Unità...
Non avrebbe potuto immaginare, il babbo di Morandi, che quella di suo figlio sarebbe stata una delle carriere in assoluto più lunghe della musica leggera italiana. Di più: un pezzo di storia del nostro Paese, un monumento della canzone, dietro all’eterno ragazzo sorridente il cui volto rimanda al ricordo del boom economico degli anni Sessanta.
Quarantadue anni son passati, da quel ’62 della sua vittoria al Festival di Bellaria, dai primi 45 giri («Andavo a cento all'ora», «Fatti mandare dalla mamma»...) per la Rca, dalla consacrazione arrivata nel ’64 con la vittoria al Cantagiro con «In ginocchio da te»... Poi i milioni di dischi venduti, le tournèe anche all’estero, i film musicali, il matrimonio con Laura Efrikian, il servizio militare fatto con la partecipazione di mezza Italia, le Canzonissime, le sfide con Claudio Villa...
Da allora, la carriera di Morandi ha avuto solo una breve parentesi negli anni Settanta, quando il gusto musicale giovanile dell’epoca e lo stretto legame fra musica e politica lo fecero apparire di colpo «vecchio» (ad appena trent’anni...), inadeguato alla nuova scena musicale, legato a quella sua faccia da bravo ragazzo che per la prima volta non pagava più.
A differenza di tanti suoi colleghi, piuttosto che diventare patetico tentando di raschiare il fondo del barile, in quegli anni seppe farsi da parte. Ne approfittò per andare a studiare contrabbasso e composizione al Conservatorio, lui che la musica non aveva potuto studiarla da ragazzino perchè in famiglia di soldi non ce n’erano (e con quelli arrivati grazie ai suoi dischi, il primo acquisto importante fu il frigorifero, mentre lui avrebbe voluto la Cinquecento...).
La pausa, per Morandi, durò poco. All’inizio degli anni Ottanta il suo feeling con il pubblico riprese. E non si è ancora interrotto, confermandolo come uno dei protagonisti di primissimo piano della canzone e dello spettacolo italiani del dopoguerra.
Se ne è avuta l’ennesima conferma poche sere fa, con quei sei milioni e mezzo di telespettatori che hanno assistito alla sua serata musicale su Canale 5. Ma anche il successo di vendite che sta premiando «A chi si ama veramente», il suo nuovo disco appena uscito, arrivato a due anni di distanza dal precedente «L’amore ci cambia la vita», la dice lunga sul seguito che Morandi continua ad avere dal pubblico italiano.
«Avevo delle idee che mi piacevano molto - spiega Morandi - così con Marco Falagiani ho scritto ”Cassius Clay”, un omaggio a un mito dello sport che ho incontrato trent’anni fa. Poi con Fortunato Zampaglione ho scritto ”L'allenatore”, omaggio a una figura che fa da parafulmine a tante tensioni diverse...».
Dice ancora il cantante: «Continuo a fare volentieri questo lavoro. In fondo non lo faccio per me, ma per la gente che ascolta la mia musica. Se mi accorgessi che non c'è più un pubblico che ascolta Gianni Morandi, smetterei...».
Insomma, Morandi non molla. Del resto, se il disc-jockey Linus gli ha affidato il ruolo di generatore di energia in «Natale a casa Deejay», il film con cui la sua emittente festeggia gli ottant’anni dell'invenzione della radio, un motivo deve pur esserci...

venerdì 10 dicembre 2004

INTERVISTA CAPOSSELA

«Mi viene da pensare che, di questi tempi, nell’Italia berlusconiana
del 2004, i miei amici della Cooperativa Bonawentura avrebbero fatto meglio

a costruire il loro teatro abusivamente e poi chiedere un bel condono...».

Vinicio Capossela torna per l’ennesima volta a Trieste, per l’ennesima volta

al Teatro Miela (stasera alle 21.30). Il «suo» Teatro Miela. Stavolta per un

«reading», una di quelle «letture» - nel suo caso sonora - che mezzo secolo

fa vedevano come protagonisti Allen Ginsberg, Jack Kerouac e gli altri

pazzi, genialoidi, idealisti della Beat Generation. Ma prima di entrare nel

merito dello spettacolo, il cantautore e musicista nato ad Hannover non

perde l’occasione per dire la sua sulle recenti vicende del Teatro Miela...

«Sono sbalordito - dice - da quello che mi raccontano. Non si è mai visto un

ente pubblico che sfratta un teatro. Un ente pubblico dovrebbe pensare al

bene della comunità. E non c’è dubbio che il Teatro Miela sia uno degli

spazi più vivi e creativi che si trovano a Trieste e forse non solo a

Trieste».

Lei al Miela ha suonato spesso...

«Sì, con il mio gruppo, la prima volta - mi sembra - nel ’97. Poi con la

brass band macedone Cocani Orkestar, ancora musicando dal vivo il film di

Chaplin ”Tempi moderni”. Ma sono venuto anche come spettatore di una

rassegna cinematografica, come ospite a sorpresa del Pupkin Kabarett... Mi

hanno sempre invitato anche alla maratona su Satie, di cui anch’io sono un

estimatore, ma purtroppo non vi ho mai partecipato...».

Ora torna con un reading.

«Sì, come recita il sottotitolo sono voci, echi, versi e serenate dal mio

libro ”Non si muore tutte le mattine”. È teatro che confina con la musica,

un lavoro sulla voce, il suono, la parola. Una specie di seduta spiritica

che facciamo in teatro - con i musicisti che mi accompagnano, Alessandro

Stefana e Marco Tagliola - per allargare la forma narrativa usata nel

libro».

È il suo primo romanzo...

«Sì, l’ho definito una sorta di romanzo scomponibile: ogni capitolo può

esistere da solo, ma l’insieme - e questo è stato il difficile - risuona

tutto allo stesso modo. Il libro parla di Napoleone, di motel, di strani

animali, di cronache di viaggio a Est e a Ovest, di spurghi e altro ancora.

Deve adeguarsi a quel che si va dicendo, e quindi dà delle indicazioni di

tempo che equivalgono al valzer, al tango, alla rumba...».

Sembra un libro nato per diventare uno spettacolo.

«Ho provato a leggere ogni capitolo a voce alta, per sentire a che ritmo

andava, e ogni volta mi sembrava di stare su un treno diverso: diretto,

rapido, accelerato, locale... E dal treno ti metti a raccontare il

conosciuto prendendolo da angolazioni impreviste, di luoghi, di orari. Così

chi ascolta, o legge, riesce ad accorgersi di ciò che ha già».

Non ci fossero stati Kerouac e gli altri, oggi parleremmo di «reading»?

«Non lo so. Sicuramente i protagonisti della Beat Ge!neration ne hanno

proposto la forma più affascinante. Loro sapevano che la causa delle

scritture sono le letture, meglio se pubbliche. Le parole una volta stampate

coagulano. Fra l’altro nello spettacolo c’è anche un omaggio all’autore di

”On the road”, un frammento intitolato ”Cosa ha ucciso Jack Kerouac”...».

Kerouac allora come punto di partenza?

«C’è molto Keroauc nel senso di bruciare la vita fino a consumarla, proprio

della Beat Generation. La sua opera è immortale per l’approccio che ha con

la vita. Cambiano le condizione storiche, sociali, politiche, ma rimane

quella spinta a muoversi, a fare qualcosa, a cercare risposte...».

«Il mio - conclude Capossela - è un teatro di spettri, in cui l’uso delle

ombre accresce l’evocazione spiritica. I miei fantasmi sono le voci, che

vengono amplificate in vari modi. Voci e rumori presi dai campionatori, ma

anche da Bach, dalle Variazioni di Goldberg...».

GRANDE FRATELLO

È stata l’edizione più volgare, più brutta, più inutile. Il regno del

cattivo gusto, dell’ignoranza, delle urla beduine, delle scorregge, dei

ragazzotti e delle fanciulle drammaticamente senz’arte né parte,

nullapensanti e nullafacenti, disposti a qualunque nefandezza pur di

ottenere uno strapuntino nel dorato (?) mondo della televisione e dello

spettacolo. Sapendo che all’uscita dalla cosiddetta casa, se va male si

campa allegramente per un paio d’anni fra comparsate in tivù e ospitate

nelle discoteche, e se va bene si può ambire anche a qualcosa di più. Com’è

successo a Taricone, a Marina La Rosa, a Filippo Nardi...

Quattro anni e tre mesi dopo il debutto, per il quale si spesero fiumi di

inchiostro, il Grande Fratello si conferma uno degli episodi culturalmente -

e forse eticamente - più bassi della storia della televisione. Trash allo

stato puro (altro che l’astuta Lecciso...), che purtroppo ha fatto scuola,

visto che Rai-Mediaset si è «grandefratellizzata». Fra isole dei famosi,

fattorie, campioni e «music farm», quella che si è ormai affermata è la

sindrome del buco della serratura coniugata al quarto d’ora di celebrità che

Andy Warhol garantiva a tutti. Soprattutto a chi si trova a stazionare - in

questo caso per giornate intere - dinanzi a una telecamera.

Ma nella triste Italia berlusconiana del 2004, terra di furbi e mezze

calzette, di dittatura televisiva e degradate periferie urbane, vale sempre

più il detto di quel tale che avvertiva: una volta toccato il fondo, a volte

si risale, ma può capitare anche di dover scavare... Come spiegare,

altrimenti, i personaggi e le scene di questa edizione? Ne basti una. Quando

gli organizzatori decidono di squalificare seduta stante un poveretto che

fino a quel momento aveva brillato soprattutto per le ripetute e disinvolte

flatulenze, perchè aveva pensato bene di infiorettare il suo pensiero

debolissimo con un bel bestemmione in diretta televisiva, nella casa si sono

scatenate scene accettabili solo da parte di chi ha perso un figlio in

guerra: lacrime, singhiozzi, dolore, incredulità, implorazioni a

ripensarci...

Che dire? Forse, al di là delle battute sulle braccia rubate

all’agricoltura, certuni dovrebbero per davvero esser mandati a lavorare nei

campi, o in miniera, o dovunque la realtà non sia quella televisiva.

giovedì 2 dicembre 2004

LOCALI MUSICALI TRIESTE

Seratina musicale in un locale del centro cittadino. Un gruppo che suona, un pubblico più o meno giovane che ascolta. Sono da poco passate le undici quando si presentano i vigili urbani. Solita trafila: i vicini di casa si sono lamentati, il rumore, il disturbo alla quiete pubblica... C’è anche il rischio di una multa al gestore (che per mettersi in regola ha già dovuto pagare Siae ed Enpals, oltre al compenso ai musicisti), ma intanto la serata musicale viene prematuramente interrotta. Lasciando l’amaro in bocca ai presenti.
Quella descritta non è un’eccezione, rischia di diventare una regola delle serate triestine. Fino a che arriveremo al punto - già ci siamo vicini - in cui nessuno si arrischierà a organizzare serate di musica dal vivo. Sì, perchè Trieste, città notoriamente a prevalenza di anziani, è un territorio pensato e gestito a misura di adulti e anziani. I giovani non sono graditi, disturbano, fanno casino. Insomma, se ne devono andare.
E infatti se ne vanno. La vita giovanile di città vicine, come Gorizia, Udine, Pordenone, ma anche Capodistria e Lubiana, non è comparabile con quella (non) offerta dal capoluogo giuliano. Dove il teatrino dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni - baricentro della vita giovanile negli anni Settanta e Ottanta - è perennemente in fase di restauro. E il Teatro Miela rischia lo sfratto.
«A Trieste non esistono centri giovanili - afferma Federico Bonfanti, 24 anni, laureando in economia ma anche chitarrista attivo all’interno del Pag, Progetto Aggregazione Giovanile - e i ragazzi che suonano, o anche che vogliono semplicemente ascoltare musica dal vivo, vanno spesso in trasferta. In Slovenia sono molto più occidentali ed europei di noi. E a Villaco ci sono ben tre centri della gioventù...».
La storia del Pag merita di essere ricordata. Nato nel ’92 dall’esigenza riconosciuta da tutti - Comune in testa - di garantire spazi aggregativi alla popolazione giovanile della città, solo nel 2000 ebbe a disposizione - dopo varie promesse, fra cui quella di Villa Sartorio - uno spazio all’interno del ricreatorio De Amicis, in via Colautti (zona piazzale Rosmini). Sale prova, seminari, zona lettura, piccoli concerti... Fino a che un giorno ospitano un dibattito organizzato dal Gruppo anarchico Germinal dopo la proiezione del film «Fragole e sangue». Risultato: il Comune sposta baracca e burattini a Borgo San Sergio, in periferia, dove l’attività non decolla e si presentano subito vari problemi logistici. Seguono nuovi traslochi prima in un appartamento in via Carducci e poi a Opicina, dove i ragazzi del Pag si trovano tuttora, in via di Monrupino.
«In via Colautti - spiega l’assessore comunale Angela Brandi - c’erano innanzitutto problemi di convivenza coi bambini del ricreatorio. L’entrata era comune, lo spazio esterno anche, e molti genitori si erano lamentati della vicinanza forzata fra ragazzi grandi e bambini. Il dibattito organizzato dal Gruppo Germinal non ha aiutato: la convenzione non prevede la presenza di gruppi politici...».
La mancanza di sale prova è un altro degli aspetti del problema. «Stiamo tentando di sfruttare la rete dei tredici ricreatori comunali - prosegue la Brandi - che in altre città non esistono. Al Toti, a San Giusto, che è stato appena ristrutturato ed è dedicato ai ragazzi più grandi, stiamo cercando le risorse per allestire una sala prove attrezzata. Che già esiste al Pitteri di San Giacomo, al Cobolli di strada vecchia dell’Istria e al Ricceri di Borgo San Sergio, dove presto apriremo un centro di aggregazione giovanile. Al Gentilli, a Servola, stiamo pensando a un progetto serale denominato ”Ricre-rock”...».
«L’esperienza che abbiamo avviato - conferma Antonella Brecel, coordinatrice del ricreatorio Toti - è positiva. Possiamo contare su un bel piazzale panoramico e su un teatrino, che ci permettono di ospitare rassegne e spettacoli d’estate e d’inverno. L’obiettivo è quello di offrire un punto di aggregazione ai ragazzi dai tredici ai diciannove anni».
Molti giovani che suonano gravitano sulla Casa della Musica, la moderna e funzionale struttura comunale di via dei Capitelli (zona piazza Cavana), gestita dalla Scuola di Musica 55. «Le nostre quattro sale prova - spiega il direttore Gabriele Centis - funzionano a pieno regime. Sono tutte attrezzate con gli strumenti e sono disponibili a tariffe agevolate: con gli abbonamenti si pagano otto euro l’ora. Un costo accettabile anche per un’utenza giovanile. A questa attività si aggiunge quella dello studio di registrazione, dove è possibile realizzare un disco con la garanzia di alti livelli di professionalità. E ovviamente l’attività della scuola di musica, che conta su oltre seicento allievi di ogni età...».
Insomma, il Comune offre i ricreatori e la Casa della musica. E la Provincia? «Noi non abbiamo strutture - segnala l’assessore Guido Galetto -; oltre al teatrino (per ora chiuso) dell’ex Opp, abbiamo solo l’edificio che ospita il Teatro Miela. Sul quale, come si sa, è in atto un contenzioso...».
Ma torniamo ai locali dove è sempre più difficile ascoltare musica. «A Trieste mancano posti che garantiscano una continuità - dice ancora Centis -, con veri e propri cartelloni musicali, come esistono in Veneto e in altre regioni, da noi non esistono. Alla base ci sono le difficoltà burocratiche ed economiche che gravano sui gestori. I quali, oltre a pagare i musicisti, devono essere in regola con la Siae, pagando i diritti d’autore sui brani eseguiti, e anche con l’Enpals, l’ente di previdenza dei lavoratori dello spettacolo. Aggiungi l’imprevisto dei vigili urbani che si presentano alle undici o a mezzanotte, chiamati dai vicini, e si comprende perchè sono sempre più rari i gestori che propongono musica dal vivo nei loro locali...».
Fra questi, anche chi era partito con le migliori intenzioni, è costretto ad ammainare la bandiera della musica dal vivo. «Avevamo cominciato nella primavera del 2000 - ricorda Corrado Savio, patron dei Macaki, in viale XX Settembre - e per qualche mese siamo andati avanti con serate di musica dal vivo, con gruppi locali ma anche nazionali, quasi ogni sera. Non abbiamo trovato una risposta di pubblico tale da permetterci di continuare su questa strada. Le lamentele dei vicini, con conseguente intervento delle forze dell’ordine, hanno fatto il resto».
«Allora abbiamo modificato la nostra proposta - prosegue Savio, negli anni Settanta protagonista di primo piano del mondo delle radio private triestine - puntando sulle serate con dj, feste a tema, cene con intrattenimento musicale... Un mese fa, nella notte di Halloween, mi sono fatto ritentare dalla musica dal vivo. Non l’avessi mai fatto: alle undici, puntuali come orologi svizzeri, sono arrivati i vigili...». Proprio come accade alla Corsia Stadion in via Battisti, o al Naima di via Rossetti, o all’Hip Hop a Montebello.
Una storia simile è quella del «Punto G» di via Economo, vicino Campo Marzio, dove la fantasia del gestore Alberto Marra (che già da anni propone musica e cabaret da Spetic, a Cattinara...) ha trasformato un piccolo cantiere navale da anni in disuso in un locale che farebbe la sua figura anche a Roma o a Milano. «Abbiamo aperto due anni fa - spiega Marra - puntando sul discobar con musica e cabaret. Visto che siamo completamente insonorizzati, non avevamo problemi con i decibel emessi. Anche la magistratura aveva verificato che i suoni erano a norma. Ma la nostra clientela aveva il vizio di fermarsi nei pressi nel locale, anche dopo l’orario di chiusura, suscitando le proteste dei vicini e l’intervento dei vigili. Dunque...».
Dunque anche in questo caso si è cambiata tattica. Non più discobar con chiusura alle quattro del mattino, ma pizzeria con musica e cabaret di contorno. E i vicini non si lamentano più. Per ora.

RAF STASERA A PORDENONE

Era il 1984, quando uscì «Self control». Per Raffaele Riefoli, in arte Raf, pugliese di un paese in provincia di Foggia, classe 1959, fu il primo di una lunga serie di successi. Si trattava di un brano dance, inciso per un'etichetta francese, che a sorpresa raggiunse i vertici delle classifiche di mezzo mondo, Stati Uniti compresi, dove la versione di Laura Branigan (quella che aveva sbancato anche con «Gloria», di Umberto Tozzi) arrivò al primo posto della hit parade di Billboard.
Sono passati vent’anni, e Raf - il cui tour fa tappa stasera alle 21 al palasport di Pordenone - è oggi uno degli artisti più stimati della musica pop italiana. Una credibilità confermata dal successo del suo ultimo album, intitolato «Ouch», e dall’interesse suscitato dalla sua prima autobiografia ufficiale, «Cosa resterà» (Mondadori).
Nella quale l’artista pugliese prende nettamente posizione contro la televisione che «ci offre solo "certe" verità, quelle che fanno comodo. Le notizie sono sempre più spesso "velate", pochi raccontano la verità, che va cercata sempre con la propria testa. Però io vedo anche che moltissimi giovani sono distratti, dedicano poco tempo e attenzione a interrogarsi su temi politici. E poi non mi piace la strumentalizzazione politica delle notizie, il costante revisionismo storico, l'equiparare fatti storici lontanissimi per dare legittimazione alle scelte politiche».
Si diceva delle origini pugliesi di Raf. Ma va subito aggiunto che l’artista è cresciuto nell’ambiente musicale fiorentino, nel quale ha debuttato giovanissimo collaborando alla vivacissima scena new wave. Il salto successivo, all'inizio degli anni Ottanta, lo porta a Londra, dove vive e suona per un periodo, alla fine del quale arriva quel singolo - «Self control» - che lo porta dritto dritto al successo italiano e internazionale. Alimentato, nello stesso periodo, da altri due singoli: «Change your mind» e «Hard».
Nell’87 Raf scrive «Si può dare di più», la canzone con cui Morandi, Ruggeri e Tozzi vincono Sanremo. E sempre con Umberto Tozzi, poco dopo, scrive e interpreta «Gente di mare», altro successo di livello europeo. Seguono «Inevitabile follia» (Sanremo ’88, stavolta in prima persona), «Cosa resterà degli anni Ottanta», «Ti pretendo» (vittoria al Festivalbar dell’89)... Brani con i quali l’artista dimostra di saper coniugare perfettamente la tradizione della canzone d'autore italiana con le sonorità più attuali e sofisticate della scena pop internazionale.
Negli anni Novanta, attraverso canzoni come «Oggi un dio non ho» e «Il battito animale», e album come «Manifesto» e «La prova», Raf porta avanti un’ulteriore evoluzione verso suoni e ritmi rock, pur mantenendosi nel territorio proprio delle strutture e delle melodie pop.
Il concerto che arriva oggi in regione fa parte di «Venti anni di canzoni in tour», che dopo un breve assaggio estivo, ha da poco debuttato nei teatri e nei palasport. Uno spettacolo che ripercorre due decenni di carriera - attraverso successi che hanno fatto la storia della musica italiana di questo periodo - e nel quale Raf è affiancato sul palco da una band formata da Alfredo Golino (batteria), Simone Papi (tastiere), Massimo Ghidelli e Giorgio Baldi (chitarre), Cesare Chiodo (basso).