del 2004, i miei amici della Cooperativa Bonawentura avrebbero fatto meglio
a costruire il loro teatro abusivamente e poi chiedere un bel condono...».
Vinicio Capossela torna per l’ennesima volta a Trieste, per l’ennesima volta
al Teatro Miela (stasera alle 21.30). Il «suo» Teatro Miela. Stavolta per un
«reading», una di quelle «letture» - nel suo caso sonora - che mezzo secolo
fa vedevano come protagonisti Allen Ginsberg, Jack Kerouac e gli altri
pazzi, genialoidi, idealisti della Beat Generation. Ma prima di entrare nel
merito dello spettacolo, il cantautore e musicista nato ad Hannover non
perde l’occasione per dire la sua sulle recenti vicende del Teatro Miela...
«Sono sbalordito - dice - da quello che mi raccontano. Non si è mai visto un
ente pubblico che sfratta un teatro. Un ente pubblico dovrebbe pensare al
bene della comunità. E non c’è dubbio che il Teatro Miela sia uno degli
spazi più vivi e creativi che si trovano a Trieste e forse non solo a
Trieste».
Lei al Miela ha suonato spesso...
«Sì, con il mio gruppo, la prima volta - mi sembra - nel ’97. Poi con la
brass band macedone Cocani Orkestar, ancora musicando dal vivo il film di
Chaplin ”Tempi moderni”. Ma sono venuto anche come spettatore di una
rassegna cinematografica, come ospite a sorpresa del Pupkin Kabarett... Mi
hanno sempre invitato anche alla maratona su Satie, di cui anch’io sono un
estimatore, ma purtroppo non vi ho mai partecipato...».
Ora torna con un reading.
«Sì, come recita il sottotitolo sono voci, echi, versi e serenate dal mio
libro ”Non si muore tutte le mattine”. È teatro che confina con la musica,
un lavoro sulla voce, il suono, la parola. Una specie di seduta spiritica
che facciamo in teatro - con i musicisti che mi accompagnano, Alessandro
Stefana e Marco Tagliola - per allargare la forma narrativa usata nel
libro».
È il suo primo romanzo...
«Sì, l’ho definito una sorta di romanzo scomponibile: ogni capitolo può
esistere da solo, ma l’insieme - e questo è stato il difficile - risuona
tutto allo stesso modo. Il libro parla di Napoleone, di motel, di strani
animali, di cronache di viaggio a Est e a Ovest, di spurghi e altro ancora.
Deve adeguarsi a quel che si va dicendo, e quindi dà delle indicazioni di
tempo che equivalgono al valzer, al tango, alla rumba...».
Sembra un libro nato per diventare uno spettacolo.
«Ho provato a leggere ogni capitolo a voce alta, per sentire a che ritmo
andava, e ogni volta mi sembrava di stare su un treno diverso: diretto,
rapido, accelerato, locale... E dal treno ti metti a raccontare il
conosciuto prendendolo da angolazioni impreviste, di luoghi, di orari. Così
chi ascolta, o legge, riesce ad accorgersi di ciò che ha già».
Non ci fossero stati Kerouac e gli altri, oggi parleremmo di «reading»?
«Non lo so. Sicuramente i protagonisti della Beat Ge!neration ne hanno
proposto la forma più affascinante. Loro sapevano che la causa delle
scritture sono le letture, meglio se pubbliche. Le parole una volta stampate
coagulano. Fra l’altro nello spettacolo c’è anche un omaggio all’autore di
”On the road”, un frammento intitolato ”Cosa ha ucciso Jack Kerouac”...».
Kerouac allora come punto di partenza?
«C’è molto Keroauc nel senso di bruciare la vita fino a consumarla, proprio
della Beat Generation. La sua opera è immortale per l’approccio che ha con
la vita. Cambiano le condizione storiche, sociali, politiche, ma rimane
quella spinta a muoversi, a fare qualcosa, a cercare risposte...».
«Il mio - conclude Capossela - è un teatro di spettri, in cui l’uso delle
ombre accresce l’evocazione spiritica. I miei fantasmi sono le voci, che
vengono amplificate in vari modi. Voci e rumori presi dai campionatori, ma
anche da Bach, dalle Variazioni di Goldberg...».
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