venerdì 10 dicembre 2004

INTERVISTA CAPOSSELA

«Mi viene da pensare che, di questi tempi, nell’Italia berlusconiana
del 2004, i miei amici della Cooperativa Bonawentura avrebbero fatto meglio

a costruire il loro teatro abusivamente e poi chiedere un bel condono...».

Vinicio Capossela torna per l’ennesima volta a Trieste, per l’ennesima volta

al Teatro Miela (stasera alle 21.30). Il «suo» Teatro Miela. Stavolta per un

«reading», una di quelle «letture» - nel suo caso sonora - che mezzo secolo

fa vedevano come protagonisti Allen Ginsberg, Jack Kerouac e gli altri

pazzi, genialoidi, idealisti della Beat Generation. Ma prima di entrare nel

merito dello spettacolo, il cantautore e musicista nato ad Hannover non

perde l’occasione per dire la sua sulle recenti vicende del Teatro Miela...

«Sono sbalordito - dice - da quello che mi raccontano. Non si è mai visto un

ente pubblico che sfratta un teatro. Un ente pubblico dovrebbe pensare al

bene della comunità. E non c’è dubbio che il Teatro Miela sia uno degli

spazi più vivi e creativi che si trovano a Trieste e forse non solo a

Trieste».

Lei al Miela ha suonato spesso...

«Sì, con il mio gruppo, la prima volta - mi sembra - nel ’97. Poi con la

brass band macedone Cocani Orkestar, ancora musicando dal vivo il film di

Chaplin ”Tempi moderni”. Ma sono venuto anche come spettatore di una

rassegna cinematografica, come ospite a sorpresa del Pupkin Kabarett... Mi

hanno sempre invitato anche alla maratona su Satie, di cui anch’io sono un

estimatore, ma purtroppo non vi ho mai partecipato...».

Ora torna con un reading.

«Sì, come recita il sottotitolo sono voci, echi, versi e serenate dal mio

libro ”Non si muore tutte le mattine”. È teatro che confina con la musica,

un lavoro sulla voce, il suono, la parola. Una specie di seduta spiritica

che facciamo in teatro - con i musicisti che mi accompagnano, Alessandro

Stefana e Marco Tagliola - per allargare la forma narrativa usata nel

libro».

È il suo primo romanzo...

«Sì, l’ho definito una sorta di romanzo scomponibile: ogni capitolo può

esistere da solo, ma l’insieme - e questo è stato il difficile - risuona

tutto allo stesso modo. Il libro parla di Napoleone, di motel, di strani

animali, di cronache di viaggio a Est e a Ovest, di spurghi e altro ancora.

Deve adeguarsi a quel che si va dicendo, e quindi dà delle indicazioni di

tempo che equivalgono al valzer, al tango, alla rumba...».

Sembra un libro nato per diventare uno spettacolo.

«Ho provato a leggere ogni capitolo a voce alta, per sentire a che ritmo

andava, e ogni volta mi sembrava di stare su un treno diverso: diretto,

rapido, accelerato, locale... E dal treno ti metti a raccontare il

conosciuto prendendolo da angolazioni impreviste, di luoghi, di orari. Così

chi ascolta, o legge, riesce ad accorgersi di ciò che ha già».

Non ci fossero stati Kerouac e gli altri, oggi parleremmo di «reading»?

«Non lo so. Sicuramente i protagonisti della Beat Ge!neration ne hanno

proposto la forma più affascinante. Loro sapevano che la causa delle

scritture sono le letture, meglio se pubbliche. Le parole una volta stampate

coagulano. Fra l’altro nello spettacolo c’è anche un omaggio all’autore di

”On the road”, un frammento intitolato ”Cosa ha ucciso Jack Kerouac”...».

Kerouac allora come punto di partenza?

«C’è molto Keroauc nel senso di bruciare la vita fino a consumarla, proprio

della Beat Generation. La sua opera è immortale per l’approccio che ha con

la vita. Cambiano le condizione storiche, sociali, politiche, ma rimane

quella spinta a muoversi, a fare qualcosa, a cercare risposte...».

«Il mio - conclude Capossela - è un teatro di spettri, in cui l’uso delle

ombre accresce l’evocazione spiritica. I miei fantasmi sono le voci, che

vengono amplificate in vari modi. Voci e rumori presi dai campionatori, ma

anche da Bach, dalle Variazioni di Goldberg...».

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