domenica 26 aprile 2009

PIPPO POLLINA A TS


In Svizzera, dove vive ormai da vent’anni, è una star della canzone. In Italia lo conoscono in pochi. Ma quelli che hanno sentito i suoi dischi lo amano e non lo abbandonano più. Lui si chiama Pippo Pollina, domani sera canta per la prima volta a Trieste, alle 21 al Teatro Miela. Nato 46 anni fa a Palermo, da ragazzo studiava legge, suonava con gli Agricantus e faceva il giornalista per ”I Siciliani”, mensile fondato e diretto da Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia nell’84.

«Quella tragedia - spiega Pollina - mi segnò profondamente. Fava era uno che faceva nomi e cognomi. E venne ucciso. Io ero un ragazzo, ma sentii forte il bisogno di scappare dalla Sicilia ma anche da un’Italia che non mi piaceva più. Per tre anni girai per l’Europa: Austria, Ungheria, Scandinavia, Inghilterra, Francia, Olanda... E poi Nord Africa, Stati Uniti, Canada. Suonavo per le strade: chitarra classica, i brani dei cantautori italiani, ma anche canzoni mie».

La Svizzera?

«In questo mio girovagare un giorno conobbi Linard Bardill, che è con me anche in questo tour italiano. Lui era già abbastanza noto in Svizzera, mi sentì cantare per le strade e mi fece incidere il primo disco. Poi tutto il resto è arrivato di conseguenza. E da quella volta mi sono fermato a Zurigo».

Lei è popolare anche in Germania.

«I miei dischi sono sempre usciti anche in Germania e in Austria, dove hanno avuto riscontri spesso maggiori che in Italia. Proprio pochi giorni fa il mio ultimo disco ”Caffè Caflisch” ha vinto in Germania il Premio della critica discografica: un riconoscimento importante, che equivale un po’ al nostro Premio Tenco, ma comprende anche la musica classica e jazz».

Dove nasce questa storia dei Caffè Caflisch, che racconta nel disco e nello spettacolo?

«Ho scoperto che un tempo anche gli svizzeri erano un popolo povero, costretto a emigrare. Alla fine dell’Ottocento migliaia di loro scesero nel nostro Sud. Fra loro i Caflisch, emigranti del Canton Grigione, che aprirono dei caffè fra Napoli e la Sicilia».

Un percorso inverso al suo.

«Sì, e la cosa incredibile è che il Caffè Caflisch più importante esiste ancora nella mia Palermo. Da ragazzo lo frequentavo, senza sapere tutta la storia che ci stava dietro. Si narra che lo stesso Tomasi di Lampedusa scrisse parte del suo ”Gattopardo” seduto a un tavolino di quel caffè, che ora è gestito da palermitani: gli ultimi discendenti dei Caflisch sono infatti tornati in Svizzera ormai da tempo».

E ne ha fatto un disco.

«Più conoscevo le loro vicende, più quella della famiglia Caflisch mi è sembrata la storia simbolo dei migranti di ieri e di oggi. Parliamo di fatti avvenuti fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ma è di tutta evidenza che si tratta di una tematica ancora attualissima...».

Continui.

«Sì, volevo dire che c’è in particolare una canzone del disco, ”Grida no”, nella quale ricordo i parallelismi fra le emigrazioni di ieri e quelle di oggi. Insomma, oggi l’Italia guarda con preoccupazione a questi flussi di migranti, ma c’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui i ”vu cumprà” eravamo noi italiani».

Dunque?

«Dunque i nostri governanti devono capire che è impossibile imporre uno stop violento a questi flussi migratori, a questi popoli che sentono la necessità di spostarsi spesso perchè spinti dalla miseria e dalla fame. La risposta può essere solo in uno spirito di integrazione e di solidarietà: sono fenomeni complessi, che vanno affrontati con intelligenza...».

sabato 25 aprile 2009

PINO DANIELE A UDINE


«Mi considero un uomo fortunato. Faccio da oltre trent’anni quel che mi piace, ottenendo dei buoni risultati. Ma devo dire che quest’Italia proprio non mi va...».

Pino Daniele torna in regione domani alle 21 al palasport di Udine. E ancora ricorda il concerto triestino dell’estate scorsa in piazza Unità. «Serata davvero speciale - dice il musicista napoletano, classe ’55 -, la magia della piazza sul mare, il pubblico, l’atmosfera, la notte d’estate, i vecchi amici sul palco: James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Joe Amoruso... Tutto perfetto, davvero».

Stavolta i vecchi compagni non ci sono.

«No, questo tour è diverso. L’estate scorsa ho festeggiato i trent’anni passati, con l’antologia e il concerto con i vecchi amici. Ora torno al presente, alla realtà. E guardo avanti».

Con questo album appena uscito...

«”Electric Jam” è la prima parte di un unico progetto artistico, la cui seconda parte, ”Acoustic Jam”, verrà pubblicata a novembre. Ci sto lavorando proprio in queste settimane. In realtà è quasi un disco unico, diviso in due parti in vendita a prezzo ridotto».

Una scelta da tempi di crisi?

«Anche, ma non solo. Avevo voglia di avvicinarmi a un pubblico più giovane, quello abituato a scaricare la musica dalla rete. E che puoi intercettare con un cd messo in vendita a nove euro e novanta».

La discografia è in crisi.

«Peggio: sta morendo. Le case discografiche non esistono più. Brancolano nel vuoto. Renato Zero è stato bravo e fortunato: non avendo più obblighi contrattuali si autogestisce, proponendo il suo ultimo disco al pubblico senza intermediazioni».

Lo farà anche lei?

«Il mio contratto dice che devo fare ancora un disco con la mia casa discografica. Poi sono libero. E non escludo di inventarmi qualcosa in quella direzione. Certo, bisogna rischiare, muoversi senza rete. Ma io sono sempre stato convinto nelle mie cose, e rischiare non mi ha mai fatto paura».

È convinto anche di questo disco diviso in due?

«Assolutamente. La prima parte del progetto mette in luce il mio lato elettrico, la seconda il mio lato intimo, acustico e autoriale. Sono trentatre anni che faccio questo lavoro: ho sperimentato, ho percorso più strade ma musicalmente non sono cambiato. Rimango un chitarrista blues. Un musicista innamorato delle note e con un gran rispetto per la chitarra».

Che ne pensa dei talent show?

«Non amo quella parte di ”reality” che c’è dentro questi programmi. E non amo la competizione, quel ”tutto quanto fa spettacolo”. Detto questo, trovo che un programma come ”X Factor”, dove sono andato anche come ospite, sia uno spazio e un’opportunità importante per la musica. Ho anche prodotto Silvia Aprile, partita da ”X Factor” e già approdata a Sanremo».

Ai suoi tempi, invece...

«Si investiva sui nuovi talenti. Le case discografiche sperimentavano, non si arrendevano al primo flop commerciale. Oggi si punta solo sull’immagine. La musica è considerata alla stregua di un nuovo modello di telefonino. E non frega a nessuno cosa c’è in un disco».

Per questo è deluso?

«Ripeto: io mi reputo fortunato. Ma vedo quel che ho attorno. La mia generazione, quella del vinile, poteva contare su una società diversa. Oggi mancano punti di riferimento. È cambiato il mondo e la società in cui viviamo: la cosa che mi preoccupa di più è la troppa importanza che si dà all'apparire. Tutti cercano la visibilità, la popolarità e pochi curano la sostanza».

Tutta colpa della tv?

«Non tutta, ma... Io dico sì ai programmi musicali ma non amo vedere la gara, le liti. La musica non è competizione. Negli ultimi anni la società ha subito una trasformazione violenta, siamo in balia di un consumismo sfrenato, i giovani passano i pomeriggi nei centri commerciali perchè dovunque si è adottato lo stile di vita americano e l'arte interessa sempre di meno, anche in Italia che è un Paese cresciuto sull'arte...».

Come si vede oggi?

«Ero e rimango un chitarrista che canta. Credo di essere invecchiato con dignità. Non mi sono mai venduto, non mi sono reso ridicolo con scelte discutibili. So che di chitarristi e cantanti bravi in giro ce ne sono tanti, ma quel che fa la differenza è la personalità, la capacità di comunicare in un certo qual modo. E lì faccio ancora la mia parte...».

Si sente sempre «portatore sano di napoletanità»?

«Certo, Napoli e tutto il Sud possono e devono rinascere. La malavita può e deve essere sconfitta. Dobbiamo essere consapevoli della storia che abbiamo, della cultura di cui siamo figli. Prendere la parte buona e buttar via quella cattiva. Napoli se vuole può essere tante cose positive: bellezza, pace, serenità. E dove c’è l’arte ci sono tutte queste cose».

A Udine?

«Mi presento in quartetto, con Alfredo Golino alla batteria, Matt Garrison al basso e Gianluca Podio al piano e alle tastiere. Propongo ovviamente i classici, come ”Quando”, ”Napule è”, ”O scarrafone”, ”Yes I know my way”... Ma anche le canzoni del nuovo disco».

giovedì 23 aprile 2009

MARIANNE FAITHFULL


BOLOGNA Ricordate Maggie, la casalinga dimessa ma ”a luci rosse” del film ”Irina Palm”? Bene, dimenticatela. Fuor di finzione cinematografica, e restituita al rock e ai suoi mille interessi artistici, Marianne Faithfull è oggi una bella e carismatica signora di sessantadue anni che mantiene intatti fascino, classe e grinta dei tempi belli. Di quando era musa e compagna di Mick Jagger, icona della swinging London degli anni Sessanta, fidanzata del rock... Testimone e protagonista di un’epoca che ha cambiato le nostre vite.

Bologna le ha appena dedicato un festival di due giorni: concerto, rassegna di film, lettura dei Sonetti d’amore di Shakespeare, incontro con il pubblico. Da domani è a Roma, all’Accademia di Santa Cecilia al Parco della Musica, quale protagonista vocale de ”I sette peccati capitali” di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Niente male, per una che era considerata solo ”una raccomandata dei Rolling Stones”.

«Da ragazza - ricorda la Faithfull - ero molto insicura. Sognavo il cinema, la musica, la letteratura. Non sapevo cosa avrei fatto, ma non avrei mai immaginato di riuscire a fare tante cose e così diverse. Come ci sono riuscita? Con la passione e soprattutto l’aiuto del pubblico».

Una Marianne del 2009 avrebbe le stesse possibilità?

«Temo di no. Io ho avuto una vita meravigliosa, vivendo in un’epoca splendida. Non credo che oggi una ragazza avrebbe tante possibilità di fare tante cose. Oggi tutto è tv, reality, soap opera: difficilmente da lì viene fuori qualcosa di buono. Ragazzi, state alla larga dai talent show: è tutta roba finta...».

Negli anni Sessanta, invece...

«Allora furono rotti tutti i confini: sociali, culturali, sessuali. In giro si respirava un grande eslosione creativa: Allen Ginsberg, Andy Warhol, John Lennon, gli Stones, Mario Schifano... Anche oggi ci sono artisti che fanno buona musica (Antony, Pj Harvey, Nick Cave...), ma quel periodo rimane irripetibile. C’era più fantasia».

Si ricorda di Sanremo?

«Era il ’65. Ero una bambina. Avevo appena inciso il mio primo disco, ”As tears go by”, scritta per me da Mick Jagger e Keith Richards. La casa discografica mi mandò al vostro festival, del quale non ricordo molto, tranne che da allora cominciò il mio rapporto speciale con l’Italia, dove torno sempre volentieri. Mio padre era professore di italiano. E io ho amato moltissimo Mastroianni, Fellini, Bertolucci, De Sica...».

È vero che pensa a un film sulla sua vita?

«Mi piacerebbe. Dopo ”Irina Palm” mi hanno offerto ruoli poco interessanti, solo parti di madre. Vorrei invece trovare un bravo regista, giovane, che potesse raccontare la storia della mia vita. Un film in cui ovviamente non reciterei ma che non dovrebbe essere una semplice biografia. Niente sesso, droga e rock’n’roll, insomma...».

Ha detto un regista giovane?

«Sì, è fondamentale. Voglio uno con un punto di vista diverso da quello delle persone della mia età, libero dai ricordi. Io lavoro bene con i giovani: anche nella musica sono circondata da ragazzi».

Passato e presente che si incontrano?

«A scuola amavo la filosofia e la matematica. Della prima mi piaceva proprio la possibilità di far convivere passato, presente e futuro. Della seconda il concetto delle due linee parallele che viaggiano assieme ma non si incontrano mai. Io provo a fare queste cose. Cerco di vivere in maniera simultanea. Quello che faccio ora indica quel che farò domani. Ciò vale anche per l’ambiente, la terra, l’umanità».

Il nuovo disco?

«Dentro ”Easy come, easy go” ho messo canzoni di Duke Ellington, Brian Eno, Leonard Bernstein... Sono contenta di averlo realizzato con il mio amico Hall Willner, che aveva prodotto già ”Strange weather” e il live ”Blazing away”, ormai vent’anni fa...».

Questi ”Sette peccati capitali”?

«Sono dieci anni che porto in scena le canzoni dell’ultimo spettacolo di Brecht e Weill, scritto durante l’esilio a Parigi dalla Germania nazista. Adoro le musiche di Weill e anche l’approccio di Brecht ai temi sociali. Ma è uno spettacolo che parla all’uomo di oggi, che racconta il nostro presente pieno di avidità e invidia. Forse parla più dei nostri anni che di quelli in cui è stato scritto».

A Vienna le hanno dato un premio alla carriera...

«Preferisco questo festival che mi ha dedicato Bologna. È la prima volta. Ma anche il premio alla carriera è il primo. Va bene, altrimenti sarei preoccupata. Di solito queste cose le danno quando la carriera sta finendo. Ma io ho ancora tanti progetti...».

lunedì 20 aprile 2009

"MAMMA MIA!" A TRIESTE




Quando dieci anni fa, nel marzo ’99, il musical ”Mamma mia!” - da domani al Rossetti di Trieste - debutta a Londra, la storia musicale degli Abba in realtà è già finita da un pezzo. Ma da quel momento, grazie al musical e poi al film dell’anno scorso con Meryl Streep, le loro immortali canzoni vivono una seconda giovinezza.

Che storia, la loro. Il quartetto svedese si costituisce nel ’70, sulle ceneri di precedenti formazioni. Sono due coppie anche nella vita: Björn Ulvaeus e Agnetha Fältskog, Benny Andersson e Anni-Frid (detta Frida) Lyngstad. Ma all’inizio si presentano maschilisticamente come Björn & Benny - Agnetha & Anni-Frid, con le signore in secondo piano, nomi in copertina ma rigorosamente dopo quelli dei maschietti che erano anche gli autori delle canzoni. Nel ’72 il cambio di nome: scelgono di chiamarsi Abba mettendo assieme in un acronimo le iniziali dei loro nomi di battesimo.

È la svolta. E il grande successo. Nel ’74 vincono l’Eurofestival con ”Waterloo”: solo uno dei tanti classici del pop che firmano negli anni Settanta. Poi, al culmine della popolarità, fra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, le due coppie scoppiano: doppio divorzio e conseguente fine anche del gruppo. La cui fama è però sopravvissuta fino a noi, grazie ai dischi ma anche al musical tratto da una delle loro canzoni di maggior successo che l’anno scorso è diventato un premiatissimo film.

Un successo dunque anche ”postumo” che ha avuto il primo rilancio nel ’92, quando in un loro concerto a Stoccolma gli U2 - sì, nientemeno che Bono e compagni - resero omaggio agli Abba interpretando la loro ”Dancing queen” e invitando sul palco Björn Ulvaeus e Benny Andersson a suonare chitarra e piano. Pochi mesi dopo uscì la raccolta ”Abba Gold - Greatest Hits”, che con i suoi 26 milioni di copie vendute divenne il loro album di maggior successo e rimase per anni nelle classifiche internazionali.

Grandi numeri, niente da dire. E oltre 400 milioni di dischi venduti in tutto il mondo fanno degli Abba uno dei gruppi più amati della storia della musica (l’unico non anglosassone di fama planetaria), oltre che ”l’impresa” svedese seconda soltanto alla casa automobilista Volvo nella classifica nazionale dei profitti.

Ma si diceva di ”Mamma mia!”. Il singolo esce nel ’75, ma solo nell’83 - un anno dopo lo scioglimento del quartetto - il produttore Judy Craymer incontra Björn Ulvaeus e Benny Andersson e lancia l’idea del musical. Qualcosa non va per il verso giusto, perchè il progetto resta in un cassetto. Il sì di Björn e Benny arriva soltanto nel ’95, «sempre che la storia raccontata sia di nostro gradimento». La scrittrice Catherine Johnson scrive la trama, Phyllida Lloyd la dirige a teatro e il 23 marzo ’99 il musical debutta al Prince Edward Theatre di Londra. Due anni dopo sbarca a Broadway e da allora non smette di girare per il mondo, davanti a un pubblico calcolato ormai in trenta milioni di persone.

La storia, come quasi tutti ormai sanno, è ambientata in una piccola isola greca dove Donna Sheridan, ex cantante di un qualche successo, vive con la figlia Sophie. La ragazza sta per sposarsi e vuole scoprire chi è suo padre, che non conosce e del quale la madre non le ha mai detto nulla. Fra i vecchi diari di mamma, Sophie trova tre possibili candidati e li invita sull'isola per le nozze. I tre arrivano, assieme a due vecchie amiche di Donna, e comincia una girandola di equivoci, fraintendimenti, situazioni romantiche ma anche grottesche, fino all’immancabile happy end.

Il tutto, nel musical come nel film uscito l’anno scorso (con una strepitosa Meryl Streep), scandito da una ventina di celebri successi degli Abba: da ”Dancing queen” a ”The winner takes it all”, da ”Money, money, money” a ”Take a chance on me”, da ”Gimme gimme gimme (A man after midnight)” a ”S.O.S”, da ”When all is said and done” a ”Voulez-vous”.

Fino ovviamente all’esplosione corale: «Mamma mia, here I go again, my my, how can I resist you? Mamma mia, does it show again? My my, just how much I’ve missed you... Mamma mia...!».

domenica 19 aprile 2009

NEK A UDINE


Stasera a Jesolo, domani al ”Nuovo” di Udine. E il 16 maggio a Trieste, in piazza Unità, per i Trl Music Awards. Il tour di Nek, partito un mese fa da Torino, procede col vento in poppa. E dopo questa prima parte italiana proseguirà anche all’estero: Europa, America Latina, Giappone...

Sì, perchè Filippo Neviani - questo il suo nome all’anagrafe di Sassuolo - fa parte di quel ristretto drappello di cantanti italiani che cantano e hanno successo anche all’estero. La Pausini, Ramazzotti, Tiziano Ferro, Zucchero, Paolo Conte, ma anche lui, il ragazzo nato a Sassuolo nel ’72, che da ragazzo suonava musica country in un duo chiamato Winchester...

«Sì, facevamo pezzi degli America, di Simon & Garfunkel, di John Denver. Poi divenni cantante e bassista di un gruppo rock, i White Lady, che nel ’91 lasciai per tentare la carta solista: Castrocaro, subito dopo Sanremo, e la storia cominciò per davvero».

A Sanremo però le spararono addosso.

«Era il ’93. Avevo scritto una canzone, ”Figli di chi”, ma i miei discografici decisero di affidarla a Mietta. In pochi giorni nacque allora ”In te”, che raccontava la storia vera capitata al mio paroliere: lui voleva tenere il bambino, lei decise di abortire... Col senno di poi, non avrei mai immaginato di trovarmi in mezzo a tutto quel casino».

Polemiche simili a quelle toccate quest’anno a Povia?

«Beh, in effetti un po’ mi ci sono rivisto, in quello che gli è capitato con ”Luca era gay”. La differenza è che lui era vaccinato e ha cavalcato la polemica, mentre io ero un debuttante, e mi ritrovai travolto fra abortisti, femministe, eccetera eccetera...».

Ma arrivò terzo fra i giovani. E da lì partì una carriera coi fiocchi.

«Mi salvò il fatto di avere il pubblico dalla mia parte. La gente capì che ero in buonafede: volevo solo raccontare una storia, non cercavo di certo le polemiche».

All’inizio era un cantante per ragazzine.

«Sì, il mio pubblico era formato da giovanissimi. Ma poi è cresciuto con me. E oggi ai miei concerti lei può trovare spettatori di varie età, anche genitori e figli. Penso di averli convinti innanzitutto con la mia onestà».

All’estero?

«Lì la partita è ancora più emozionante. Ho cominciato in Spagna e nei paesi di lingua latina, dove continuo a cantare in spagnolo. Ma in Francia, in Germania, persino negli Stati Uniti e in Giappone canto in italiano. E alla gente va bene così».

Il nuovo disco s’intitola ”Un’altra direzione”. Quale?

«In quel titolo c’è la mia voglia di ricominciare, di lasciare tutto e andare, cambiare giro e poi trovare un’altra direzione. Vivo una fase compositiva sperimentale: per me è un viaggio pieno di possibili strade e direzioni. Non so dove mi porteranno».

Nel disco c’è un duetto con Craig David.

«Gran bella esperienza. ”Walking away” è nata per caso, mi avevano chiesto di fare qualcosa assieme al cantante inglese, a me piacciono le sfide. E ci siamo trovati perfettamente. Magari faremo qualcosa anche dal vivo».

La discografia è in crisi.

«C’è poco rispetto per la musica e per chi fa musica. Sta passando questa tendenza di massa secondo la quale è legittimo rubare musica. E la scusa che il prezzo dei cd è alto non regge: allora andiamo a rubare tutto quello che costa tanto... No, la verità è che la musica è bistrattata, non viene tratta come la forma di arte che è».

I talent show?

«Sostituiscono i vecchi talent scout. E sono utili se permettono a nuovi talenti di emergere. Ma ci vogliono sempre capacità e fortuna. Prenda Giusy Ferreri: bravissima, con quella voce riconoscibile, ma se non trovava Tiziano Ferro che le produceva il disco...».

giovedì 16 aprile 2009

PFM A PORDENONE


La Pfm (acronimo di Premiata Forneria Marconi) torna in regione per un concerto domenica alle 21 al palasport di Pordenone. Occasione buona per ricordare assieme al batterista e cantante Franz Di Cioccio, componente originario della band, alcuni momenti di una storia lunga ormai quarant’anni.

Sì, perchè quarant’anni fa la band, anzi, il complesso, come si diceva all’epoca, si chiamava Quelli. E con loro - il batterista Di Cioccio, il chitarrista Franco Mussida, il tastierista Flavio Premoli e il bassista Giorgio "Fico" Piazza - c’era anche un certo Teo Teocoli, che poi abbandonò la compagnia musicale per diventare l’attore comico che il pubblico apprezza da tanti anni. I quattro che rimasero, stufi di essere session man di lusso, decisero che dovevano cambiare ingredienti, per poter ambire a una ricetta di successo.

Una parentesi lunga solo un paio di 45 giri come Krel (dal nome di un pianeta presente nel racconto ”Il verdetto”, di Arthur J. Cochran), e poi, complice l’incontro col violinista e flautista Mauro Pagani, la trasformazione in Premiata Forneria Marconi, dal nome di una forneria di Chiari (paesino in provincia di Brescia) frequentata dallo stesso Pagani. È l’alba dei Settanta, il beat è morto ma sta nascendo il pop italiano, grazie anche ai suoni progressive che arrivano da oltremanica.

«Cominciammo - ricorda Di Cioccio - proprio facendo da supporter a gruppi inglesi che venivano a suonare in Italia: Yes, Deep Purple, Procol Harum... Poi nell’estate del ’71 partecipammo al Festival di avanguardia e nuove tendenze di Viareggio, con ”La carrozza di Hans”. Brano fuori dagli schemi, non facile: un mix fra sperimentazione e musica popolare. Ma vincemmo a pari merito con Mia Martini e gli Osanna».

E la Numero Uno vi diede fiducia...

«Sì, allora le case discografiche investivano sui giovani, anche su progetti che non sembravano avere potenzialità commerciali. Pubblicammo prima un 45 giri, con ”La carrozza di Hans” e ”Impressioni di settembre”, brano con testo di Mogol che esprimeva la nostra voglia di libertà, e aveva la particolarità di sfociare in un tema, una sorta di refrain strumentale anzichè cantato. E subito dopo arrivò anche l’album, ”Storia di un minuto”: fu il successo...».

Oggi un gruppo come voi avrebbe possibilità?

«Il mondo è cambiato. Noi venivamo fuori dalle cantine, dai provini, dai festival musicali. Oggi un ragazzo deve affidare le sue speranze a questi talent show televisivi che a me non piacciono granchè, forse perchè sono estraneo al concetto della gara e del ”tutto quanto fa spettacolo”.».

C’è anche internet...

«Sì, quella è una chance in più. Myspace e Youtube offrono in effetti delle opportunità a giovani che hanno qualcosa da dire e vogliono emergere. Ma conta soprattutto la voglia di fare, crederci, raccontare il proprio tempo. Non bisogna ridurre tutto a uno show televisivo».

Torniamo a voi. In questo tour cantate De Andrè.

«Con Fabrizio avevamo collaborato in sala d’incisione ai tempi dei Quelli. Nel ’79 il tour e i dischi con Fabrizio, nati da un incontro casuale in Sardegna, segnarono uno spartiacque nella musica italiana. Prima c’erano i gruppi pop/rock da una parte, i cantautori dall’altra, con quello che io chiamavo ”lo stile pentecostale”: ovvero soffro, sto male e te lo racconto col minimo accompagnamento musicale possibile...».

Voi invece?

«Eravamo reduci dai tour negli Stati Uniti. Dove avevamo visto Bob Dylan con The Band, Jackson Browne con gli Eagles, gli stessi Crosby Stills Nash & Young... Insomma, un modo nuovo di concepire e coniugare la musica d’autore con il rock. Volevamo creare una sorta di carovana. Ed è quello che facemmo con De Andrè. Da quella volta finì l’immagine del cantautore chitarra e voce. E lo stesso Fabrizio curò molto di più le sue musiche».

Perchè rifarlo ora?

«Beh, innanzitutto devo ricordare che già nel 2004, nel venticinquennale del tour e dei dischi dal vivo, abbiamo voluto cantare di nuovo le canzoni di Fabrizio, che nel frattempo ci aveva lasciato. Ora lo rifacciamo, dieci anni dopo la sua morte, per resettare l’hard disk della memoria. Rendendo merito ai tanti ragazzi che all’epoca non erano ancora nati, ma si sono innamorati di quei dischi, dopo aver trovato le vecchie copie in vinile che erano appartenute ai genitori o ai fratelli maggiori».

Fedeli all’originale?

«Fedeli e infedeli al tempo stesso. Il nostro segreto infatti è sempre stato crescere, rappresentare il tempo che viviamo. Poi ci sono canzoni come ”Il pescatore”, che eseguivamo nei nostri concerti anche quando Fabrizio era ancora in vita, e la cui versione originale ormai ricordano in pochi: tutti invece conoscono il riff strumentale iniziale, che è opera nostra...».

Ha citato gli Stati Uniti. Quella volta cosa vi è mancato per un ulteriore salto di qualità?

«Semplicemente il fatto che, a un certo punto, dopo essere entrati nelle classifiche di Billboard, abbiamo capito che la nostra vita era qui in Italia e non laggiù. Il prezzo da pagare era troppo alto, a livello di vita privata, e siamo tornati indietro sapendo di aver comunque compiuto la nostra missione: dimostrare agli americani che l’Italia non era periferia dell’impero, non era solo mandolino e melodia. E questo ci ha appagato».

Ma all’estero ci andate ancora.

«Sì, con uno spirito diverso. L’inverno scorso abbiamo suonato in Canada e in Messico. Nelle prossime settimane siamo a un festival rock in Portogallo, poi negli Stati Uniti, dopo l’estate dovremmo tornare in Giappone. Dove il rock italiano è molto amato».

Prossimo disco?

«Un progetto al quale stiamo lavorando da un po’: ”Pfm in classic”, ovvero scomporre e ricomporre il repertorio classico, da Verdi a Mozart a Beethoven, ma non alla maniera del rock sinfonico degli anni Settanta. Ma sperimentando, come abbiamo sempre fatto. Il disco uscirà entro il 2009, poi ci sarà il tour. Con un’orchestra di sessanta elementi».

A Pordenone domenica la Pfm schiera questa formazione: i membri storici Franz Di Cioccio (voce e batteria), Franco Mussida (chitarre) e Patrick Djivas (il bassista proveniente dagli Area, che sostituì Piazza nel ’73), e poi Lucio Fabbri (violino, chitarra, tastiere; presente nel gruppo più volte, a fasi alterne, negli ultimi tre decenni) e ancora i ”nuovi” Gianluca Tagliavini (tastiere) e Piero Monterisi (batteria).

«Cambia la squadra - chiosa Di Cioccio - ma lo spirito rimane lo stesso. Per suonare la musica del nostro tempo, quella che piace innanzitutto a noi stessi».

sabato 11 aprile 2009

35 ANNI FA ORNETTE COLEMAN ALL'OPP


Torna Ornette Coleman, e il pensiero schizza indietro di trentacinque anni. Una vita, sì. E un mondo diverso. La libertà entrò nel manicomio triestino di San Giovanni il 15 maggio 1974, vestita di una splendida giacca patchwork. Pezzetti di velluto cuciti l'uno con l'altro. Di tutti i colori: rosso, giallo, verde, marrone, blu, viola... Quasi la rappresentazione visiva della musica che usciva a scatti nervosi dal sax di quel signore che vestiva la giacca in questione.

Lui era proprio Ornette Coleman, classe 1930, americano del Texas, nero, uno dei maggiori innovatori della musica jazz degli anni Sessanta e Settanta. Il profeta del "free", quella forma di jazz che era nata fra New York e Chicago, quasi parallelamente alle grandi battaglie razziali di Martin Luther King e di Malcom X. E in quel maggio del '74, in una Trieste che viveva un'altra grande battaglia di libertà e di dignità delle persone, e che negli anni precedenti aveva al massimo assistito ai primi vagiti del nascente pop italiano (la Premiata Forneria Marconi, le Orme, il Banco del Mutuo Soccorso...), il concerto di Coleman fu il primo di una serie abbastanza lunga che contribuì non poco ad abbattere il cancello che separava il vecchio frenocomio aperto nel 1908 dal rione di San Giovanni e dalla città di Trieste. E a dar corpo all'unica rivoluzione, quella basagliana, che la città ha visto nascere e compiersi.

In quella calda sera di maggio il jazzista statunitense propose con il suo quartetto una musica assolutamente libera, fuori dagli schemi conosciuti, basata quasi interamente sull'improvvisazione. Seguiva l'estro del momento. Ispirato da una situazione circostante che vedeva diverse centinaia di giovani appassionati di musica, attirati dal grande nome, mischiati a qualche decina di pazienti. I cosiddetti matti, a tratti divertiti ma forse più spesso spaesati dinanzi a quel che stava accadendo attorno a loro. In quel campetto di calcio che anni dopo lasciò il posto a una brutta costruzione ma quella sera era un luogo di libertà. Dove i presunti normali stavano fianco a fianco ai presunti matti.

Di più. Nei momenti in cui la frammentazione e l'irregolarità del ritmo e della metrica venivano portate alle estreme conseguenze, in una cavalcata musicale condotta da un sax quasi impazzito e supportata da una solida sezione ritmica, alcuni di quei matti ridevano, altri si chiudevano le orecchie con le mani. Rimpiangendo probabilmente il silenzio e la tranquillità che in quel parco, fino a quella sera, l'avevano fatta da padrone.

Sì, perchè dopo quella sera, nel parco e nel piccolo teatrino del grande ospedale psichiatrico, nulla fu più come prima. Poco meno di un mese dopo, il 12 giugno, arrivano gli Area del compianto Demetrio Stratos. Dopo l'album d'esordio,"Arbeit macht frei", ovvero "il lavoro rende liberi" (frase che stava scritta all'ingresso dei campi di sterminio nazisti...), era appena uscito il disco "Caution Radiation Area". Con dentro un brano intitolato "Lobotomia", dedicato a Ulrike Meinhof e caratterizzato da suoni ossessivi e lancinanti. Praticamente l'ideale per un concerto dentro a un manicomio...

Passa l'estate. E a settembre a San Giovanni arrivano prima il quartetto di Giorgio Gaslini (con il friulano Andrea Centazzo alla batteria) e poi Gino Paoli. Il jazzista milanese era l'inventore della "musica totale", l'utopia che diventava realtà di un genere in grado di abbattere barriere, schemi, luoghi comuni. Jazz che flirtava con la musica popolare e contemporanea, che si mischiava con generi "altri" per poi uscirne rigenerato.

Paoli, invece, monfalconese di nascita ma genovese d'adozione, era in quel periodo in una fase di mezzo, stretto fra i grandi successi degli anni Sessanta e la stagione che di lì a poco lo avrebbe riavvicinato al grande pubblico. A Trieste strinse rapporti anche di amicizia, con Peppe Dell'Acqua e altri, che lo avrebbero riportato tante volte, in questi trent'anni, a testimoniare la propria vicinanza alla rivoluzione basagliana.

Ma torniamo a quel 1974. A ottobre, nel teatrino dell'Opp, arrivano i napoletani Saint Just, trio capitanato da Jane Sorrenti, sorella dell'allora più famoso Alan Sorrenti. Nella stessa sera c'è anche Dodi Moscati, ricercatrice e cantante toscana appassionata di musica popolare (scomparsa pochi anni fa). A dicembre, la sera dopo il giorno di Natale, il palco del teatrino viene diviso da Franco Battiato e Juri Camisasca. Il primo non è ancora il cantante pop di successo che sarebbe diventato a partire dal '79 con album come "L'era del cinghiale bianco", "Patriots" e "La voce del padrone". Il secondo non è stato ancora colpito dalla crisi mistica che lo avrebbe poi portato a chiudersi per tanti anni in un monastero. All'epoca sono due artisti di nicchia, quasi d'avanguardia, amati solo da un pubblico di appassionati.

Li ritroviamo assieme, Battiato e Camisasca, nel parco dell'ospedale psichiatrico, poco più di due anni dopo. Nell'aprile del '77, assieme ad Alfredo Cohen e Alberto Camerini, in una "due giorni" che è una sorta di anteprima di quello che a settembre sarebbe stato il grande Reseau internazionale. Due giorni di musica e buone sensazioni, organizzati dai ragazzi di Canale 89, l'emittente radiofonica che in quei mesi era diventata un punto di riferimento per la parte più politicizzata della gioventù triestina.

Tanti altri musicisti, noti e meno noti, hanno suonato in tutti questi anni nel grande comprensorio di quello che poi sarebbe diventato l'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Anche grazie a loro, e ai tanti giovani accorsi per vederli e sentirli, il processo di chiusura del manicomio - e di restituzione della grande area verde alla città - è stato portato a termine. Con la musica, con le parole, con il linguaggio universale dei suoni: forma d'arte popolare dinanzi alla quale siamo tutti uguali, senza distinzioni di alcun tipo.

«Sì, la musica è stata una costante nel nostro lavoro - ammette Peppe Dell’Acqua, direttore del Dipartimento di salute di mentale di Trieste ed erede, assieme a Franco Rotelli, di Basaglia -, quei giovani che negli anni Settanta entravano per la prima volta a San Giovanni per seguire i concerti ci permisero di entrare in contatto con la città. E non a caso quel primo contatto avvenne con la parte più giovane della popolazione, quella priva di pregiudizi, aperta al confronto con l’altro. Ricordo i grandi concerti, ma anche le esperienze dei laboratori teatrali, il cinema...».

La storia della rivoluzione basagliana, trenta e più anni fa, è passata anche da lì. Da quelle serate di musica e di libertà. E di un mondo che non esiste più.

martedì 7 aprile 2009

PINO DANIELE


Pino Daniele ha rivoluzionato trent’anni fa la musica napoletana, mischiando tradizione e suoni arrivati da lontano, dialetto partenopeo e idioma anglosassone. E diventando grazie a quelle canzoni ”meticce” uno dei maggiori esponenti della scena musicale di casa nostra.

Ora la crisi lo porta a emulare... Biagio Antonacci. Non musicalmente, visto che i due viaggiano su binari abbastanza distanti. Ma sul versante della strategia discografica. Che significa prendere un album, dividerlo in due parti e metterle separatamente in vendita, ognuna a metà prezzo. L’aveva fatto il cantautore lombardo fra il 2004 e il 2005 con i due capitoli del fortunatissimo ”Convivendo”. Replica l’operazione - sperando di replicarne il successo - il bluesman partenopeo, che esce ora con ”Electric Jam” (Sony), cui seguirà in autunno ”Acoustic Jam”.

«Si tratta di un nuovo approccio con il mercato - spiega il ”Mascalzone latino” - per aiutare le vendite in un periodo di crisi. Non solo. È una scelta intelligente dal punto di vista artistico: la prima parte del progetto mette in luce il mio lato elettrico, la seconda il mio lato intimo, acustico e autoriale».

Ecco allora questo mini-album con sei brani inediti, tutti in chiave elettrica, fra cui spicca la sorprendente ”Il sole dentro di me”, in duetto con J-Ax: la miglior dimostrazione della capacità del cinquantaquattrenne musicista e cantautore napoletano di rimettersi sempre in discussione e di confrontarsi con altri generi e protagonisti della scena musicale contemporanea, persino l’hip hop di casa nostra. Anche se l’ex Articolo 31, ora solista, non è l’unico ospite importante del disco, nel quale suonano fra gli altri Nathan East e Vinnie Colaiuta.

Sono sei brani «sospesi tra sfumature blues e melodie mediterranee», come dice lo stesso Pino, che prosegue così: «Sono trentatre anni che faccio questo lavoro: ho sperimentato, ho percorso più strade ma musicalmente non sono cambiato. Rimango un chitarrista di blues. Un musicista innamorato delle note e con un gran rispetto per la chitarra».

E poi: «La mia generazione, quella del vinile, poteva contare su una società diversa. Oggi mancano punti di riferimento. È cambiato il mondo e la società in cui viviamo: la cosa che mi preoccupa di più è la troppa importanza che si dà all'apparire. Tutti cercano la visibilità, la popolarità e pochi curano la sostanza. Colpa della tv: io dico sì ai programmi musicali ma non amo vedere la gara, le competizioni, le liti. La musica non è competizione. Negli ultimi anni la società ha subito una trasformazione violenta, siamo in balia di un consumismo sfrenato, i giovani passano i pomeriggi nei centri commerciali perchè dovunque si è adottato lo stile di vita americano e l'arte interessa sempre di meno, anche in Italia che è un Paese cresciuto sull'arte...».

Dopo le anteprime milanesi al Blue Note dei giorni scorsi, Pino Daniele è in partenza per un tour che il 27 aprile sarà a Udine, al palasport.


NOMADI

Ancora Nomadi. Mirabile esempio di longevità artistica, grazie all’intuizione - e all’astuzia - di Beppe Carletti, ormai da tempo unico superstite della formazione originaria, quella del ’63, che ha saputo circondarsi di giovani e appassionati musicisti.

A tre anni di distanza dall'ultimo album di inediti, esce allora il nuovo disco dello storico gruppo italiano. S’intitola ”Allo specchio” (Atlantic): dieci canzoni tutte legate al tema della vita, che nascono ”in collaborazione” con i fan del gruppo. Tre brani sono infatti scritti dal gruppo: ”La vita è mia”, ”Senza nome” e ”Il ballo della sedia”. Gli altri nascono invece in maniera particolare. «Abbiamo riarrangiato - spiega Carletti - testi scritti da ragazzi non professionisti che ci hanno comunicato qualcosa. Il nostro slogan è prendere dalla gente per dare alla gente...».

Il disco comprende anche un duetto latineggiante con Jarabe De Palo, ”Lo specchio ti riflette (El espejo te delata)”, con un adattamento del testo in spagnolo curato dallo stesso Jarabe. ”Il ballo della sedia” è invece una sorta di atto di accusa alla classe politica. «Non potevamo non affrontare l'argomento - dice ancora Carletti, che fondò il gruppo assieme al compianto Augusto Daolio -. Ogni volta che apri il giornale si leggono sempre queste cose». Il brano ha un impianto blues, con un coro quasi gospel, e parla della «incoerenza di tutte le parti politiche» e del loro «attaccamento alla sedia».

Di emozioni del vivere parlano anche gli altri brani: dai tormenti dell'amore ("Qui” e ”Prenditi un po’ di te”) alla rabbia per un amico perso in una guerra inspiegabile (”Senza nome”), dalla ribellione contro chi vuole impedire che tutti siano artefici del proprio destino (”La vita mia”) fino all'indifferenza verso i problemi altrui (”Il nulla”).

Un pizzico di ottimismo innerva gli ultimi brani: ”Non so io ma tu”, ”In questo silenzio” e soprattutto ”La dimensione”, quasi una sorta di poetico inno alla vita.





LEONARD COHEN settantacinque anni. L’estate scorsa, il suo ritorno dal vivo è stato salutato con affetto ed entusiasmo, nel suo Canada come in Europa, dai fan di ieri e di oggi: settecentomila biglietti venduti per un’ottantina di concerti. Ora questo album, registrato dal vivo nel luglio 2008 a Londra, e che arriva a cinque anni dal precedente ”Dear Heather”, permette a tutti di godere delle stesse emozioni regalate dal cantautore, poeta e romanziere canadese a quegli spettatori. Classici come ”Suzanne”, ”Hallelujah” e ”First we take Manhattan”, assieme a tanti altri successi già passati alla storia della musica, ricostruiscono la magia di una carriera unica e ormai quarantennale. Cohen è nato a Montreal nel 1934 da una famiglia ebrea immigrata nel Canada. Suo padre era di origini polacche e sua madre di origini lituane. In Italia alcune sue canzoni sono state cantate da Fabrizio De Andrè. Del disco è disponibile anche una versione su dvd.



MASSIMO PRIVIERO Il titolo rende ovviamente omaggio al celebre romanzo di Jack Kerouac, ma rappresenta anche un po’ l’anima e la storia musicale di questo artista veneto - da anni trapiantato a Milano - che ha debuttato nel lontano ’88 con il brano ”San Valentino”. In questi vent’anni Priviero ha sempre mischiato rock, canzone e poesia, con l’aggiunta di una grinta che ne ha fatto un vero combattente della nostra miglior canzone d’autore, sempre «dalla parte di chi non ha niente». Ora torna con una sorta di ”best of”: tre inediti e una manciata di canzoni tratte dal suo repertorio, tutte integralmente risuonate e reinventate per questo album, che arriva a due anni e mezzo dalla pubblicazione del precedente, intitolato “Dolce Resistenza”. Il suo è un cammino costruito tra umane resistenze, storie di un’Italia che vuole sopravvivere. «Sono stato ragazzo su tante strade - scrive Priviero -. Chitarre, armoniche, voci forti, polevere di marciapiede, occhi di bambini e di ragazze dolci, anima di mare, notti di grandi e piccole città...».