giovedì 30 dicembre 2010

GRISHAM / IO CONFESSSO

Si può essere uno scrittore miliardario, che vende in tutto il mondo da oltre vent’anni svariati milioni di copie dei propri romanzi, alcuni dei quali diventati film di successo, ed essere al tempo stesso protagonista di primo piano della sacrosanta battaglia di civiltà contro la pena capitale? Si possono coniugare fiction e impegno civile, libri gialli popolari fra la gente e appassionata battaglia contro la pena di morte? Yes, ...”he” can. Sì, è possibile.

Lui è John Grisham, l’inventore del legal thriller, che dopo un paio di prove perlomeno incerte (il precedente ”Ritorno a Ford County” sembrava l’opera di uno stanco autore di successo intento a raschiare il fondo del barile...), torna con questo buon ”Io confesso” (Mondadori, pagg. 437, euro 20): ovvero di nuovo un avvincente legal thriller di quelli che ti incollano alla pagina, ma anche uno spietato e documentato atto d’accusa contro quella pena di morte ancora in vigore in tanta parte del ”democraticissimo” continente a stelle e strisce.

La trama. Travis Boyette, malato di tumore al cervello, in libertà vigilata dopo varie condanne per reati sessuali, rivela al reverendo Keith Schroeder di aver violentato e ucciso anni prima una giovane studentessa bianca, Nicole Yarber. Per quell’omicidio, in una piccola città del Texas, è stato accusato e incredibilmente condannato a morte un coetaneo della ragazza, il nero Donté Drumm. Che si è sempre proclamato innocente, mentre la sua famiglia e Robbie Flak, il suo avvocato, si sono battuti per nove anni con ogni mezzo per dimostrarlo.

Ora la condanna sta per essere eseguita, ci sono solo pochi giorni per ottenere una sospensione, per riesumare il cadavere nel bosco dove l’assassino dice di averlo sepolto, per dimostrare così che Travis non è il solito mitomane che salta fuori alla vigilia di un’esecuzione. Una spasmodica lotta contro il tempo, che vede il reverendo e l’avvocato tentarle tutte per ottenere un rinvio...

Per 289 delle 437 pagine dell’edizione italiana del libro - titolo originale ”The confession”, sottotitolo ”Un innocente sta per essere giustiziato, solo un criminale può salvarlo” - il lettore aspetta l’happy end. E il cinquantacinquenne scrittore americano riesce a tenerlo incollato al racconto, proprio come aveva fatto in passato con le sue opere migliori: ”Il momento di uccidere” (il debutto dell’89), ”Il socio”, ”Il cliente”, ”L’uomo della pioggia”, ”Il rapporto Pelikan”, ”La giuria”... E in questo sta la sua arte, il suo grande mestiere affinato con gli anni e l’esperienza.

Stavolta c’è qualcosa di più. Prima del successo come scrittore, Grisham ha esercitato la professione di avvocato ed è stato eletto per i Democratici alla Camera dei Rappresentanti del Mississippi. Sviluppando una posizione molto critica nei confronti del sistema giudiziario americano. Ora, con una (piccola) parte dei proventi delle sue opere, ha fondato l’associazione ”Innocence Project”, che ha già al suo attivo la scarcerazione di oltre duecento persone ingiustamente detenute e liberate grazie alla prova del Dna.

Ma la sua battaglia più grande è quella per l’abolizione della pena di morte. Ci sta lavorando almeno dal ’94, quando si scontrò contro questa vera e propria vergogna americana mentre si documentava per la stesura del romanzo ”L’appello”. Una vergogna che appare come una contraddizione interna al sistema penale Usa, dovuta a quello scontro tra una cultura garantista, ancorata ai principi del giusto processo, e un approccio che considera la pena di morte come la sanzione estrema, confermata dalle ultime sentenze della Corte Suprema federale.

Sono soltanto sedici su cinquanta gli stati americani nei quali la pena di morte è stata abolita, oppure la sua esecuzione è stata sospesa. In ciò gli Stati Uniti si pongono in controtendenza rispetto alla Moratoria universale della pena di morte sostenuta dall'Onu ma anche rispetto all’indirizzo abolizionista ormai prevalente a livello internazionale. Negli ultimi decenni l’estremo atto punitivo dello Stato si è via via riempito di un contenuto diverso: il rimedio diretto ad arrecare conforto alle vittime del reato, una sorta di "programma di sollievo" per i parenti delle vittime, al fine di rendere l'idea della pena di morte più accettabile da parte dell'opinione pubblica.

Grisham si batte contro tutto questo. E lo fa con l’arma dei suoi romanzi, non preoccupandosi del fatto che milioni di americani - e non solo di americani - sono tuttora favorevoli alla pena di morte. Di fronte ai suoi pesanti e appassionati atti d’accusa il pubblico yankee spesso si irrita e ciò ha una conseguenza negativa anche sull’andamento delle vendite dei suoi libri. L’Italia e l’Europa, per ora, vanno in una direzione opposta. E gli restituiscono quanto gli viene sottratto - a livello di successo e di copie vendute - in patria. Sapendo comunque che una battaglia come la sua non ha prezzo.

lunedì 27 dicembre 2010

EMBRYO

I tedeschi Embryo - che suonano questa sera alle 21 al Knulp (via Madonna del Mare 7), in un concerto organizzato dal Circolo del Jazz Thelonious - fanno parte a pieno titolo della storia del rock europeo.

Formatisi nel 1969 a Monaco di Baviera su iniziativa di Christian Burchard (già batterista degli Amon Düül, altro gruppo storico del rock tedesco), sono sempre stati la punta di diamante della scena alternativa tedesca, e hanno alle spalle una produzione discografica ormai sterminata, rigorosamente autoprodotta, con migliaia di concerti per davvero in giro per il mondo. Anche a Trieste hanno suonato già diverse volte, l’ultima due anni e mezzo fa alla Casa del Popolo di Ponziana.

Nata nel creativo ambiente jazz-rock della fine degli anni Sessanta, con le jazz-session con musicisti del calibro di Mal Waldron e Charlie Mariano, la band si è via via caratterizzata per una ricerca musicale senza confini, con un organico attento a tutte le sperimentazioni. Al punto da venir considerata la prima, vera formazione europea di world music: una sorta di ethno band aperta alle collaborazioni e alle contaminazioni più disparate.

Una vocazione che ha radici antiche: dalle scorribande in Marocco agli inizi degli anni Settanta, all'incredibile viaggio via terra da Monaco di Baviera all’India e ritorno, in perfetto stile ”on the road” (con esibizioni di strada con molti musicisti tradizionali locali, fra cui il Karnataka College of Percussion di Bangalore), a quelli in Iran e Afghanistan, fino ai più recenti viaggi in Nigeria, in Cina, in Giappone, nell’Africa del Nord, nell’area balcanica. Tutti forieri di collaborazioni con virtuosi musicisti cinesi, vocalist delle sperdute regioni di Tuva, maestri di danze e riti magici Yoruba.

Nell'attuale formazione di quello che loro chiamano l’Embryo Musik Kollective, Christian Burchard ha saputo trasmettere anche ai più giovani colleghi una filosofia di vita prim’ancora che musicale, che privilegia l’attenzione per i linguaggi musicali non convenzionali e può mettere in comunicazione le più disparate forme culturali del pianeta.

Con il leader - che suona marimba, vibrafono, xantur e percussioni varie -, troviamo attualmente in scena sua figlia Marja Burchard (tastiere, trombone, percussioni, voce, marimba), ma anche Valentin Altenberger (oud, chitarra, basso), Johannes Schleiermacher (sax, flicorno) e Carlo Mascolo (trombone, basso, percussioni).

Come si diceva, il concerto triestino di stasera degli Embryo è organizzato dal Circolo del Jazz Thelonius. I prossimi appuntamenti della stagione sono martedì 11 gennaio con il Trio Nigredo, lunedì 24 gennaio con Yuri Goloubev “Yg-Lite” (ospite Klaus Gesing), martedì 8 febbraio con l’Arrigo Cappelletti Trio, martedì 22 febbraio con il Fiorenzo Bodrato Trio.

E poi ancora l’8 marzo il Nicoletta Manzini Trio, il 22 marzo Jaruzelski’s Dream, il 5 aprile *Tranepainting, il 19 aprile il Matteo Sacilotto Quartet, il 3 maggio il Tommaso Genovesi Quartet (con U.T. Gandhi alla batteria e Nevio Zaninotto al sax).

domenica 19 dicembre 2010


DISCHI / MARIO BIONDI

Ve lo ricordate il concerto di Mario Biondi nel maggio scorso al Rossetti di Trieste? Quello con le due orchestre, una acustica e una elettrica, che si dividevano il palco, al centro del quale troneggiava e si muoveva perfettamente a suo agio il crooner catanese? Bene. L’idea di quel tour è diventata ora un disco, anzi un doppio: ”Yes you live” (Indipendente Mente), due cd registrati nell’agosto scorso proprio nella sua Sicilia, uno al Teatro Antico di Taormina e l’altro al Teatro di Verdura di Palermo.

A distanza di un anno dal precedente ”If” (che aveva venduto oltre 200 mila copie: niente male di questi tempi...), il cantante siciliano batte dunque il ferro finchè è caldo con un lavoro che non mancherà di affascinare quanti lo hanno già apprezzato nei dischi precedenti e dal vivo.

Venti brani in tutto, fra i quali brillano l'inedito ”Yes you” (un mix perfetto di voce, fiati, archi e orchestra) e le rivisitazioni di ”Nature boy” (canzone resa celebre da Nat King Cole), “Winter in America” di Gil Scott-Heron, “I know it's over” (versione inglese di “E se domani”, classico di Mina scritto da Carlo Alberto Rossi, già presente nell'ultimo lavoro).

Ma ci sono anche "Something that was beautiful" (scritta per Biondi nientemeno che da Burt Bacharach) e riletture di brani passati alla storia nell’interpretazione di mostri sacri come Charlie Parker, Weather Report, Gino Vannelli, Earth Wind & Fire. Altra chicca: la presenza della storica band ”acid jazz” degli Incognito, ospite in ”No more trouble”, ”Low down” e ”I can get enough”.

Biondi si conferma con questo disco il più internazionale degli artisti italiani. Questo ragazzone alto quasi due metri, classe ’71, che canta come un Barry White cresciuto alle pendici dell’Etna, sa ispirarsi alla grande tradizione della musica nera senza scimmiottare nessuno.

I tre album precedenti - ”Handful of soul” del 2006, il live ”I love you more” del 2007, ”If” del 2009 - erano stati sufficienti per trasformare Mario Ranno (il cognome d’arte l’ha preso dal padre, il cantautore Stefano Biondi) in una star. Che prima di essere amata in patria, aveva già lavorato con successo a New York, a Londra e persino in Giappone.

L’Italia l’ha scoperto quattro anni fa, quando la sua ”This is what you are”, originariamente pensata per il mercato giapponese, aveva già conquistato Radio Bbc1 prima di essere adottata come jingle natalizio da Radio Montecarlo. Ma ora, a giudicare dai dischi venduti e dalle presenze ai suoi concerti quasi sempre tutti esauriti, sembra proprio non volerlo mollare più.

E questo disco, elegante e raffinato proprio come i suoi concerti, potrebbe trasformarsi in una strenna natalizia coi fiocchi.



COFANETTI CAROSELLO

La Carosello Records, storica etichetta discografica italiana, festeggia i suoi cinquant’anni pubblicando la collana ”Ritratto”, ovvero sei tripli box dedicati ai più importanti artisti del suo catalogo: Ivan Graziani, Mina, Domenico Modugno, Toto Cutugno e Astor Piazzolla.

Tutta la collana è stata rimasterizzata in digitale. Il cofanetto di Graziani contiene anche materiale esclusivo, tra cui cartoline, dipinti e testi autografi e alcune assolute rarità, mai pubblicate precedentemente: un inedito, ”L'orchestrale bastardo”, scritto oltre vent’anni fa che sorprende per l'attualità del testo e delle sonorità; due provini,”Emily” (1991) e ”Con le mie lacrime” (”As tears go by” - 1994), unica canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards e mai incisa in italiano.

La collana dedicata a Mina (che proprio in questi giorni esce con un mini-cd con i brani cantati nel nuovo film di Aldo Giovanni e Giacomo) raccoglie il meglio del suo repertorio tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Per la prima volta si possono ascoltare su cd tutti i singoli del periodo Italdisc. Il ”Ritratto” di Mina comprende dalle canzoni degli esordi (da ”Malatia” a ”Proteggimii”, ma anche il periodo in cui si faceva chiamare Baby Gate), alle canzoni che l'hanno resa celebre, come ”Le mille bolle blu” e ”Tintarella di luna”, ”Renato” e ”Il cielo in una stanza”, ”Non sei felice” e ”Briciole di baci”. In tutto sono 120 canzoni contenute in sei cd, che contengono, oltre a immagini inedite, anche le copertine originali dei 45 giri dell'epoca.

Nel triplo box di Modugno, oltre ai classici ”Nel blu dipinto di blu”, ”Piove”, ”Vecchio frack”, anche rarità come due brani del ”Cyrano” e due duetti con Catherine Spaak.

La raccolta di Cutugno comprende una sezione dedicata ai suoi esordi con gli Albatros, nonchè i successi che l'hanno reso famoso oltre i confini nazionali, tra cui ”L'italiano”, mentre il ”Ritratto” di Astor Piazzolla racchiude infine il meglio dell'opera del grande rivoluzionario del tango, compresa una rarissima sezione dedicata alle colonne sonore.



OLEG CESARI

A un mese dalla pubblicazione, il primo album del violinista Olen Cesari è al primo posto della classifica di I-Tunes. Niente male per questo esordio a cui hanno collaborato fra gli altri Lucio Dalla e Sergio Cammariere (in una bella versione di ”Anema e core”). Nove classici e quattro brani inediti per un percorso musicale che emoziona, in un melting pot di suoni, voci e colori che profuma di terre lontane. Ascoltiamo allora ”Sweet Georgia Brown”, con Fabrizio Bosso alla tromba. Ma anche l'affascinante voce di Rosalia de Souza in ”Aguas de Marco” e quella di Massimo Di Cataldo in ”Om Namah Shivaya”. E c’è anche il basso di Tony Levin in ”Dreamtime”. Tutti duettano con il violino di Olen Cesari. Che è nato a Durazzo, Albania, e con Elsa Lila, ambasciatrice della canzone albanese che nel 2003 e nel 2007 fece una comparsa anche al Festival di Sanremo, rende un emozionato omaggio anche alla sua terra di origine.



P.CARONE

Nel 2010 Pierdavide Carone ha vinto come autore Sanremo (con ”Per tutte le volte che”, cantata da Valerio Scanu), è arrivato terzo alla nona edizione del talent show ”Amici” e ha pubblicato il suo primo album ”Una canzone pop”. Ma il giovane cantautore pugliese non è uno che si ferma, ed ecco dunque arrivare già il suo secondo album. ”Distrattamente” propone dieci nuove canzoni, da lui scritte e cantate, con l’assistenza di Beppe Vessicchio e Claudio Guidetti. Nel disco il ragazzo suona le chitarre, ma anche il basso e persino il bouzouki. Le canzoni sono tutte basate su melodie pop, alternando momenti di ironia e leggerezza come ”Dammela... la mano” e ”Distrattamente fan”, a episodi più intimi ed introspettivi come ”Un clown che piange”, ”Ti vorrei” (dedicata al suo amore per la musica) e canzoni scritte durante l'adolescenza e rivisitate per l'occasione come ”Viole” e ”Hey baby”. Alla fidanzata, conosciuta proprio durante ”Amici”, dove anche lei gareggiava come ballerina, ha dedicato il brano ”Quello che mi dai”.


venerdì 17 dicembre 2010

LIGA LIVE

Ma allora è proprio vero che i sogni di rock’n’roll non tramontano mai. Nemmeno a cinquant’anni. La prova l'abbiamo avuta ieri sera, in un PalaTrieste tutto esaurito già da un mese (oltre seimila i biglietti venduti, potevano essere molti di più), che ha celebrato l'ennesimo trionfo annunciato del rocker di Correggio, provincia di Reggio Emilia.

Quest'anno il nostro ha girato la boa del mezzo secolo, ma dimostra di avere ancora energia e adrenalina da vendere. Palco sobrio ed essenziale. Il fondale è un enorme maxischermo. Due orologi scandiscono il conto alla rovescia. Ma il via lo dà Claudio Maioli, manager dell'artista, cappellaccio da cowboy e filastrocca introduttiva per dare il "Taca banda". Un boato saluta l'ingresso della star. «Ciao Trieste!». Si parte con tre canzoni del nuovo album "Arrivederci, mostro!", che il pubblico conosce già a memoria: "Quando canterai la tua canzone", "La linea sottile" e "Nel tempo". Ma è quando arrivano "Balliamo sul mondo" e "Bambolina e barracuda" che il palasport esplode.

Quelle due canzoni ci riportano indietro di vent'anni, quando l'allora trentenne Luciano Ligabue debuttò con un album, intitolato semplicemente con il suo cognome, che mise subito le cose in chiaro: il futuro del rock italiano, l'unica seria alternativa a Vasco, era quel ragazzone con i tratti somatici da indio padano, con una "vita da mediano" alle spalle, cresciuto alla scuola dei migliori cantautori ma con dentro un'urgenza di comunicare a suon di rock che non lasciava - e non lascia - spazio alle repliche.

All'inizio del '91 venne a tenere il suo primo concerto nel Friuli Venezia Giulia, in una balera friulana, conquistando i pochi fortunati richiamati dal passaparola. Da quella volta sono passati appunto vent'anni. Il Liga ha realizzato quindici album, venduto sei milioni di dischi, tenuto oltre seicento concerti. Molti anche nella nostra regione, riempiendo stadi, palasport e teatri. A Trieste è venuto tante volte, la prima in una magica serata al Castello di San Giusto (poco dopo il debutto nella balera friulana), nel '99 a inaugurare proprio il PalaTrieste, l'ultima quattro anni fa, per due sere di fila al Rossetti. Ma il suo rapporto con la città è per sua stessa ammissione speciale, visto che nel 2001 l'ha scelta per girare il video di "Eri bellissima".

E quest'anno è apparsa anche in "Niente paura", il documentario di Piergiorgio Gay ispirato alla sua canzone omonima. Il concerto di questo tour (una dozzina di date nei palasport per recuperare le città non toccate da quello estivo) alterna i vecchi classici con i brani del nuovo album. Da un lato dunque "Certe notti", "Il giorno di dolore che uno ha"; "Piccola stella senza cielo", "Le donne lo sanno", "Questa è la mia vita", "Ho perso le parole", "Urlando contro il cielo", ma anche una "Ti chiamerò Sam (se suoni bene)", solo acustica, che stava in "Lambrusco coltelli rose e popcorn", il secondo album uscito nel '91. Dall'altro le tre già citate, "Un colpo all'anima", "Atto di fede", "Ci sei sempre stata"... Canzoni che hanno velocemente affiancato quelle più antiche nell'affetto dei fan.

Come dimostrano l'accoglienza del pubblico triestino ma anche la scelta dell'artista di ripubblicare due settimane fa l'album in un cofanetto, che oltre al cd originale, uscito nel maggio scorso e ancora ai vertici delle classifiche, propone un dvd registrato dal vivo nel tour estivo e un secondo cd con le stesse canzoni rifatte in chiave acustica. «Ognuno di noi ha i propri fantasmi - dice Ligabue per spiegare quello strano titolo, "Arrivederci, mostro!" -, le ossessioni, le cose che conosce anche bene e se non le conosce bene sono comunque lì che lavorano costantemente. Io ho fatto cinquant’anni da poco: ci frequentiamo da tanto, io e i miei fantasmi, per cui riuscire a riconoscerli mi dà la sensazione di poterli salutare anche affettuosamente. Non è un addio perchè non ho la presunzione di pensare che se ne vadano per sempre. È come la sensazione di essermi un po’ liberato...».

Parole di un uomo e un artista intelligente, sensibile, mai banale. Che ha debuttato a trent'anni, ha raggiunto il successo subito, e continua a distanza di un ventennio a essere uno dei migliori protagonisti della musica italiana. Versatile al punto da aver dato in questi anni ottima prova di sé anche come regista e scrittore. Con lui, ieri sera sul palco del PalaTrieste, una bella band di sei elementi, capitanati dal fido chitarrista Federico Poggipollini, con lui praticamente dai lontani esordi.

Pubblico di tutte le età, a dimostrazione della capacità dell'artista di comunicare anche con i giovani e i giovanissimi. Sul maxischermo, immagini in presa diretta dal concerto, ma anche filmati, citazioni, facce: Pasolini e Calvino, De Andrè e Lennon, Kennedy e Dylan. Una passerella permette al rocker di avvicinarsi più volte al pubblico. Che puntualmente va in delirio. Mille telefonini lo inquadrano. Per fermare un sogno di rock'n'roll che dura, con lui, da vent'anni. Ma non sembra intenzionato a interrompersi. Alla fine, fra i bis, una dolente ed emozionata "Buonanotte all'Italia" sembra cantata col pensiero a questo nostro povero paese scassato.

giovedì 16 dicembre 2010

LIGABUE

Ligabue torna giovedì al PalaTrieste, unica tappa regionale del tour partito il 4 dicembre da Livorno (stasera è a Bolzano, chiusura il 21 e 22 a Genova). Concerto triestino tutto esaurito già da un mese, seimila biglietti venduti, dunque l’artista non concede interviste. Sì, perchè nel mondo del rock, ormai da tempo, funziona così: se ci sono teatri o palasport o stadi da riempire, disponibilità assoluta a fare quattro amabili chiacchiere al telefono anche con i giornali locali (a volte persino oltreoceano, per gli stranieri...); se invece l’incasso è già al sicuro, niente da fare. Niente domande e niente risposte.

Peccato. Ma ce ne faremo una ragione. E vorrà dire che presenteremo il concerto al pubblico triestino e regionale riportando qualche estratto di quanto detto dal rocker di Correggio giorni fa a ”Repubblica” e l’altra sera a Fazio su Raitre.

DISCO: «Ho deciso di re-incidere l’ultimo album, ”Arrivederci, mostro!”, in chiave acustica perchè mi piaceva farlo ascoltare sotto un’altra luce, con maggiore attenzione ai testi. Poi io scrivo le canzoni sempre alla chitarra, quindi mi piaceva far sentire come nascono. Ne è venuto fuori questo cofanetto con dentro il cd originale uscito a maggio, il cd con le dodici canzoni riarrangiate e risuonate e il dvd...».

DVD: «Durante l’ultimo tour estivo abbiamo ripreso, per la prima volta, tutti i concerti che abbiamo fatto: uno sforzo produttivo importante. Ora esce il dvd con le dodici canzoni del disco, ognuna dal vivo e ognuna da una città differente. Sono proprio dodici le città che abbiamo toccato col tour, per cui per ognuna di loro ci sarà la testimonianza di un pezzo dell’album. Inoltre nel dvd c’è parecchio materiale che racconta il dietro le quinte di quest'anno di lavoro».

MUSICA: «Uno dei mali della musica è che ce n’è tanta, fin troppa, e tutta sempre disponibile. La ascoltiamo distrattamente, mentre facciamo altro. E questo mi disturba. C’è la musica di sottofondo, ma in generale la musica ha priorità alte, che possono produrre emozioni diverse».

ITALIA: «Ho partecipato al programma di Fazio e Saviano e sono molto orgoglioso che quel programma sia stato in parte ispirato dal film ”Niente paura”, il documentario sulla storia d’Italia costruito attorno alle mie canzoni. Fazio mi ha detto: anche noi vogliamo raccontare che amiamo il nostro Paese, e raccontarlo non solo con i fatti ma anche con i sentimenti».

SINISTRA: «Questo è stato ed è un problema della sinistra: non stare attenti ai sentimenti, come se il cuore e la pancia fossero poco importanti, da trascurare. Quel programma ha avuto successo perchè non ha avuto vergogna di questi sentimenti. Mi pare un segnale importante».

STUDENTI: «Trovo normale che gli studenti facciano sentire la propria voce. Ho trovato anormale il silenzio che c'è stato prima. Questo a prescindere dal giudizio su questa o altre leggi. Quando si sente parlare del proprio presente o del proprio futuro, bisogna far sentire la propria voce».

POLITICI: «Un Paese non è di proprietà di chi è chiamato a dirigerne le sorti. Anzi, dovrebbe essere lui alle nostre dipendenze. Ma oggi i politici, che di solito sono bravi a promettere sogni di futuro, in questo momento sembrano anche loro incapaci di farlo».

COSTITUZIONE (agli studenti di Livorno, incontrati prima del concerto di apertura del tour): «È un documento modernissimo e attualissimo, è la Carta che dovrebbe regolare il rapporto tra noi e lo Stato. È nata dopo la guerra e si sente l'entusiasmo di chi l'ha scritta, leggendo soprattutto i primi articoli».

L’album ”Arrivederci, mostro!”, pubblicato nel maggio scorso, a vent’anni esatti dal disco d’esordio, è il quindicesimo della carriera di Ligabue ed è ancora in testa alle classifiche di vendita. Il cofanetto ”Arrivederci, mostro! (Tutte le facce del mostro)” è nei negozi da due settimane. In vent'anni di carriera il rocker di Correggio, provincia di Reggio Emilia, ha venduto oltre sei milioni di dischi e ha tenuto più di seicento concerti.

Da Fazio, l’altra sera, nello studio di ”Che tempo che fa”, accompagnato dalla sua band, ha cantato ”Ci sei sempre stata”, in versione elettrica, e ”Atto di fede”, in versione acustica.

Nel tour che giovedì arriva a Trieste (cancelli aperti alle 19, nessun biglietto in vendita alle casse, inizio alle 21), di solito il concerto comincia con le prime tre canzoni di ”Arrivederci, mostro!” (”Un colpo all’anima”, ”La linea sottile” e ”Taca banda”), subito seguite da due classici come ”Balliamo sul mondo” e ”Bambolina e barracuda”.

Stavano entrambe nell’album d’esordio, intitolato semplicemente ”Ligabue” e uscito nel ’90. Ma sono ancora due ottimi brani da far cantare al popolo dei palasport. Con effetti incendiari.

lunedì 13 dicembre 2010

PASOLINI / VISCA

E' stata la prima giornalista ad accorrere sulla scena del delitto. Era la mattina del 2 novembre 1975. Quel corpo straziato all’idroscalo di Ostia era quello di Pier Paolo Pasolini, il poeta e regista di Casarsa. Lucia Visca allora era una giovanissima cronista agli esordi. Oggi, dopo tanti anni trascorsi nei giornali, ha trovato il tempo e la voglia di scrivere quella storia. Ne è venuto fuori un libro: ”Pier Paolo Pasolini, una morte violenta - In diretta dalla scena del delitto, le verità nascoste su uno degli episodi più oscuri della storia italiana” (Castelvecchi Editore - pagg 149, euro 15). Verrà presentato oggi alle 11, a San Vito al Tagliamento, alla presenza dell’autrice.

Visca, qual è il primo ricordo di quel 2 novembre '75?

«Quel cartellino di lavanderia sulla camicia di Pier Paolo Pasolini. Un minuscolo rettangolo di carta gialla. Spiccava sulla stoffa intrisa di sangue. Con l'inchiostro indelebile c'era scritto ”Pasolini”. Una letta veloce e quel cadavere massacrato cambiò la storia del Novecento».

Da chi fu avvertita?

«Da un brigadiere, lo stesso che di solito mi aggiornava su ogni avvenimento di nera, anche minimo, che avveniva sul litorale romano».

Che immagine si presentò ai suoi occhi?

«Un massacro. Un cadavere bocconi nel fango, del quale restava poco di forma umana. Al momento della scoperta lo avevano scambiato per un sacco di immondizia, Quando girarono il corpo, se possibile, l'immagine era peggiore. Il volto sfigurato, senza lineamenti. Un grumo di sangue che raccontava la sofferenza di un uomo. Non era stata una morte improvvisa: il corpo testimoniava una lenta e dolorosa agonia sotto i colpi degli assassini».

Chi c'era all'inizio sul posto? Chi arrivò dopo di lei?

«Qualche poliziotto, la famiglia che aveva trovato il corpo, i Lollobrigida, molti curiosi e due squadrette di calcio in attesa di giocare la partita della domenica. Che dopo, purtroppo, giocarono, distruggendo ogni traccia sul terreno dove non erano stati fatti rilievi accurati. Dopo l'identificazione arrivarono tutti: la mitica squadra mobile di Fernando Masone, i giornalisti di grido, gli amici di Pasolini. Arrivò Ninetto Davoli e fu il momento peggiore, quando l'identificazione del cadavere divenne ufficiale e, come disse Moravia qualche giorno dopo alla commemorazione, il mondo pianse un poeta».

Ci dica degli indizi che furono trascurati.

«Vicino al corpo c'erano tracce che vennero distrutte, come dicevo. C'era stata e non fu colta la possibilità di calcolare quante auto erano state su quel terreno quella notte. Si sarebbe potuto capire, come poi si sospettò, se era passato anche qualcuno in moto, la misteriosa moto che compare in quasi tutti i grandi delitti dell'epoca a Roma».

Cosa accadde dopo il ritrovamento?

«Una gran confusione perché ci volle tempo prima che polizia e carabinieri cominciassero a parlarsi. Prima che si sapesse che nella notte i carabinieri avevano arrestato Pino Pelosi, immediatamente reo confesso dell'assassinio, alla guida dell'auto del poeta. Furono perfino trascurati, allora e per anni, alcuni oggetti ritrovati nella macchina».

A distanza di 35 anni che idea si è fatta dell'omicidio?

«Qualcuno doveva far pagare a Pasolini qualcosa. Doveva dargli una lezione. Non sono certa che l'obiettivo fosse la morte, potrebbe anche essere stata l'esito di un violento pestaggio. Certo è che Pasolini non è stato ucciso da una sola persona. Un ragazzino allora gracile e sottopeso non avrebbe potuto sopraffare da solo un uomo in forma e allenato. Forse Pelosi fu solo l'esca. Forse lì c'era qualcuno che aveva organizzato l'agguato».

Nel libro lei parla di tre ipotesi.

«Non sono ipotesi mie. Ero e resto una cronista. Credo nel giornalismo che riporta i fatti e semmai ci ragiona sopra. Nel caso di Pasolini ho riportato le ipotesi che si sono accreditate negli anni: un complotto di Stato o quantomeno dei servizi segreti deviati, una vendetta della malavita compromessa con ambienti neofascisti, una vendetta di piccoli balordi di quartiere decisi a punire Pasolini ritenendolo corruttore di ragazzini».

Chi aveva interesse a far tacere Pasolini?

«Purtroppo molti, e molti sono gli indizi. Pasolini era un intellettuale di grande impegno civile. In forza del suo anticonformismo, basta rileggere gli ”Scritti corsari” che pubblicava sul Corriere della Sera, aveva intuito tutti i complotti e tutte le insidie degli anni Settanta del secolo scorso. Stava lavorando sull'Eni di Eugenio Cefis, ritenuto il vero fondatore della Loggia P2. Approfondiva i legami fra il terrorismo nero e la Banda della Magliana, ai primi vagiti, che si finanziavano con il traffico di droga».

La pista omofoba?

«C'è anche quella. C’era un interesse, diciamo così, ”basso” di piccola malavita, che aveva in odio gli omosessuali già allora. Rileggendo le ultime settimane precedenti alla morte gli indizi sono molti. Basti pensare al furto delle ”pizze” di ”Salò e le 120 giornate di Sodoma” e all'ossessione di Pasolini di poterle ritrovare».

Perchè il libro arriva solo adesso?

«Perché adesso ho avuto il tempo di scrivere il pezzo che non scrissi allora. E anche perché dopo non ci sarebbe stato più tempo per il lavoro di cronista. Sono ormai convinta che i misteri dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini siano materia per gli storici».

martedì 7 dicembre 2010

JOHN LENNON 30

Oggi sono trent’anni che John Lennon è stato ucciso. Ma a pensarci bene, in tutto questo tempo, il mondo non si è mai sentito orfano della musica, delle idee, delle speranze che il più geniale dei quattro Beatles ha saputo esprimere nella sua breve vita.

Perchè se Elvis Presley - distrutto a quarantadue anni, nel ’77, da cibo, farmaci, droghe ed eccessi vari - è stato l’inventore e il re del rock, Lennon con i ”Fab Four” (nel 2001 è morto anche George Harrison, dunque oggi sono in vita solo Paul McCartney e Ringo Starr) ha cambiato musica e costume del Novecento.

Aveva appena quarant’anni, quella sera dell’8 dicembre 1980 quando il destino gli mise davanti la follia omicida di Mark David Chapman. C’era stato un prologo. Poche ore prima dei cinque colpi di pistola, il suo assassino gli strinse la mano e si fece autografare una copia del suo album ”Double Fantasy”, appena uscito. Davanti al Dakota Palace, l’abitazione newyorkese di Lennon affacciata su Central Park, c’era anche un fotografo, tale Paul Goresh, che immortalò la scena in uno scatto rimasto storico: l’assassino e la sua vittima.

Chapman - che in tutti questi anni ha chiesto più volte la libertà provvisoria, ma è ancora in galera - quella sera rimase in attesa per quattro ore. Aveva con sé una copia del ”Giovane Holden”. Poco prima delle 23, quando vide l’ex Beatle rientrare assieme a Yoko Ono, lo chiamò e gli disse: «Ehi, mister Lennon. Sta per entrare nella storia...».

Quattro dei cinque proiettili calibro 38 colpirono l’artista, uno trapassò l’aorta. Lennon fece qualche passo, prima di cadere. Poi l’inutile corsa al Roosevelt Hospital, dove fu dichiarato morto alle 23.09. Non erano ancora tempi di internet, facebook e twitter e compagnia delirante, ma la notizia fece il giro del mondo in pochissimo tempo, suscitando ovunque autentica commozione. I primi flash d’agenzia, i notiziari radio e tv, i raduni spontanei di giovani e meno giovani nelle strade di mezzo mondo...

C’era forse la consapevolezza, fra milioni di persone, che quella morte segnasse per davvero la fine di un’epoca. L’epoca della musica che aveva l’illusione di poter cambiare il mondo, incrociandosi con i movimenti giovanili nati negli anni Sessanta e Settanta. Se Woodstock, nell’agosto del ’69, aveva chiuso la stagione della controcultura giovanile, il sogno della ”nazione alternativa”, di un mondo diverso e migliore grazie anche alla musica, la morte di Lennon (che nel ’70 aveva cantato ”The dream is over”, il sogno è finito, verso riferito solo in prima battuta allo scioglimento dei Beatles...) chiude la saracinesca ai sogni, agli ideali e se vogliamo alle utopie dei due decenni precedenti. E milioni di persone in tutto il mondo lo capirono perfettamente.

Perchè John Lennon non fu soltanto il protagonista - soprattutto assieme al suo alter ego creativo McCartney - di quella straordinaria avventura chiamata Beatles, che in soli otto anni di produzione discografica, dal ’62 di ”Love me do” al ’70 di ”Let it be”, ha cambiato dalle fondamenta la musica, il costume e se vogliamo anche la cultura della seconda metà del cosiddetto secolo breve.

Soprattutto dopo lo scioglimento del gruppo, il suo sincero impegno civile e politico, non solo con i ”bed in” e le manifestazioni per la pace, ne fecero anche un protagonista della vita pubblica. E l’essersene andato così presto lo ha reso ”forever young”, per sempre giovane, quasi immortale. Risparmiandogli i rischi di una sicura decadenza fisica e di un possibile (nel suo caso, forse improbabile...) tramonto creativo.

Non a caso ieri il Corriere della Sera proponeva in prima pagina una (triste) elaborazione fotografica al computer di un ”Lennon settantenne”: stempiato, grigio, con le rughe. E in questi giorni si è diffuso l’esercizio di immaginare (”Imagine”...) questo ”Lennon settantenne” ancora capace di scrivere musica immortale e nel contempo mobilitato contro l'impegno bellico in Afghanistan e in Iraq, nella migliore delle ipotesi, oppure ridotto a fare l’ospite speciale o persino il giudice di un ”talent show”, nella peggiore di queste ipotesi.

Chissà come sarebbero andate le cose. Di certo, allora, di quei quattro, Lennon era forse il più creativo e geniale, di certo il più carismatico e trasgressivo e politico, in anni in cui il mondo sembrava dovesse cambiare radicalmente di lì a poco. Sappiamo che non è andata così. O meglio: il cambiamento non è andato nella direzione allora sperata.

Ma la grande importanza del poeta di ”Imagine” e dei quattro ragazzi di Liverpool non è mai stata in discussione. E in questa fine 2010 del doppio anniversario (oggi il trentennale della morte e due mesi fa, il 9 ottobre, i settant’anni dalla nascita), una discografia perennemente in crisi ha tratto ossigeno dall’ennesima ristampa di tutto il catalogo rimasterizzato dei Beatles e di John Lennon da solista. I milioni di copie vendute e quei dischi di nuovo ai vertici delle classifiche di vendita, tanti anni dopo, sono la prova migliore di quel che stiamo scrivendo.

Oggi John Lennon verrà ricordato in tutto il mondo. A Londra (dove un canale tv trasmetterà ”The day John Lennon died”, documentario sulle sue ultime ore, girato dal filmaker britannico Michael Waldman), nella sua Liverpool, nella sua New York. Dove dal 9 ottobre 1985, giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, quel pezzetto di Central Park dinanzi al Dakota Palace - nell’Upper West Side - si chiama ”Strawberry Fields”, proprio come una delle tante, inarrivabili canzoni dei Beatles.

Lì, ogni giorno, c’è qualcuno che si ferma attorno al grande mosaico circolare di pietre grigie e nere che formano per terra la parola ”Imagine”. E qualche giovane o vecchio ragazzo con la chitarra strimpella le canzoni dei Beatles - ormai musica classica - con un cappello appoggiato per terra. Oggi quell’area sarà piena di fiori e di candele accese. Per ricordare un grande del Novecento.

MARIA LUISA BUSI

Nell'Italia in cui una poltrona non si molla neanche sotto le cannonate, Maria Luisa Busi è un’eccezione: sei mesi fa si è dimessa da conduttrice del Tg1 delle 20, «non condivedendo più la linea editoriale del telegiornale». Prendendo spunto da quell’episodio, ha scritto un libro: ”Brutte notizie - Come l’Italia vera è scomparsa dalla tv” (Rizzoli, pagg. 269, euro 18).

Busi, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

«La contestazione che ho subito all’Aquila, quando sono andata a fare un servizio sul dopo terremoto. Dopo quasi vent’anni di conduzione, la gente mi identificava con il Tg1. Non erano pericolosi sovversivi. Ma uomini di mezza età con il cappotto e la sciarpa. Signore con la collana di perle. Donne e ragazzi. Tanti. Il nostro pubblico che contestava quello che era stato il ”suo” telegiornale».

Ma il Tg1 è sempre stato filogovernativo.

«Certo. Ho conosciuto per tre volte l’influenza del berlusconismo sul Tg1 fin dal ’94. Carlo Rossella, poi Clemente Mimun, oggi Augusto Minzolini. Negli anni la comunicazione politica è cambiata, in peggio. Il leaderismo ha preso lo spazio delle idee. Il maggioritario imperfetto che viviamo ha preteso cambi di rotta più drastici, strappi improvvisi. E il grande veliero che ha sempre saputo correggere la rotta - il Tg1 - senza perdere la bussola, stavolta ha subito un arrembaggio. Ne ha subito le conseguenze non solo l’informazione politica ma anche il racconto del paese».

Lei scrive che dopo le dimissioni tanta gente per strada le ha detto "grazie". Di che?

«Credo che per il pubblico sia stato il segno che c’è chi sa rinunciare a qualcosa per un principio. E la gente onesta ha bisogno di riflettersi in altra gente onesta, per riuscire ad andare avanti tra mille difficoltà, in un momento storico di grande disgregazione sociale, che la crisi economica fa sentire ancora più forte. La gente si sente sola, priva di rappresentanza, priva di riferimenti etici, priva di difesa».

Poi vede il Tg1 e...

«Le abbiamo raccontato che tutto va bene, che deve avere paura solo dello straniero, del diverso. Sono stati additati i responsabili, non sono state trovate soluzioni. Ma tanta gente a questo trucco non crede più. E ha capito che in un paese in cui l’immagine è tutto, una che rinuncia all’immagine perché dice basta con questa falsa rappresentazione è degna di rispetto».

Perché siamo arrivati a questo punto?

«Perché il nostro paese da 16 anni è condizionato dal conflitto d’interessi del capo del governo. Non l’unico, per carità. Ma il più pervasivo. Essere proprietari dell’immagine televisiva, avere le mani sull’informazione televisiva in un paese che legge poco e forma coscienza e consenso all’86 per cento attraverso i tg, dà a uno solo un potere immenso. L’informazione televisiva - ma anche la gran parte dei programmi - in questi anni ha raccontato agli italiani chi sono, come sono, di cosa avere paura. Il paese è stato diviso tra amici e nemici. Questo è il danno più grave».

Oggi il giornalismo è ancora - come scrive - l’unico mestiere che "coniuga creatività e impegno civile"?

«Lo è per me».

Lei racconta di un antico incontro con Berlusconi. Pensava sarebbe diventato il protagonista di 20 anni di storia del Paese?

«Era il ’92 e lui era "il nuovo" in ambito televisivo. Gianni Letta mi aveva parlato di ”un’offerta professionale”. Fu un incontro formativo, come racconto nel libro credo in modo divertente, quando mi definisce "un bel bocconcino". Ma non avevo intenzione di andare alla concorrenza. Credevo nel servizio pubblico, ci credo ancora».

Non mi ha risposto.

«No, non potevo intuire che sarebbe diventato il dominus della politica per 16 anni, al governo ma anche dall’opposizione. Certo è che un grande contributo alla sua ascesa e alla sua affermazione politica l’hanno dato le sue televisioni, plasmando quell’humus culturale che ha contribuito alla situazione in cui ci troviamo. Il populismo mediatico è questo».

Nel libro racconta storie di persone senza lavoro. Interessano alla tv italiana?

«Alla gente di sicuro. Sono le storie di chi ha perso il lavoro, di chi non lo trova, di chi non può fare un figlio perché non saprebbe come mantenerlo, di chi a 50 anni con il lavoro perde dignità, relazioni e posto nel mondo. Sono bottiglie al largo, e sono migliaia oggi le bottiglie al largo, nascoste tra i flussi delle sei, sette notizie a cui andiamo dietro da anni: dalla giustizia alle leggi ad personam, dal malcostume alle escort. Quelle bottiglie contengono messaggi che qualcuno deve raccogliere: la politica, ma anche l’informazione».

L’arrivo di Mentana a La7 ha riaperto i giochi dell’informazione tv?

«Sì, perchè c’è un’alternativa che prima non c’era. Un’alternativa credibile. Purtroppo per il Tg1, che perde ascolti anche per questo».

Striscia e le Iene hanno riempito un vuoto di informazione tv?

«Sì. E lo dico con rammarico».

Lei scrive che l’Italia non è un paese per giovani, né per donne. Ma che paese è l’Italia?

«Un paese sfiduciato, un po’ infelice, depresso. Un paese che sta perdendo le sue qualità migliori. Ha mai visto come la gente guida per strada? Come la gente si saluta poco e male? Come le persone siano mediamente più aggressive, più sospettose? C’è la sensazione diffusa, magari eccessiva, che non funzioni nulla, che non ci si possa fidare di nessuno, che non esista meritocrazia, che nessuno faccia più quel che deve fare».

Invece...

«Invece è un paese dove c’è tanta gente che fa fatica, che fa il proprio dovere, penso all’enorme fatica che facciamo noi donne. In un paese che celebra il ”family day” e per sostenere le famiglie non fa nulla. Un paese che non ha rispetto per le donne, che deve ritrovare speranza e rotta».

Il suo programma "Articolotre" è stato sospeso.

«In altri momenti gli sarebbe stato dato più tempo per crescere. Ma in una Raitre sotto costante pressione aziendale oggi questo non è possibile. Volevamo parlare di uguaglianza e diritti. Abbiamo pagato gli alti ascolti del programma concorrente, ”Quarto potere” su Retequattro, costruito sulle morbosità attorno all’omicidio di una ragazzina di 15 anni. Una televisione che non mi piace... ».

venerdì 3 dicembre 2010

SIVINI / BAGLIONI

E' ancora triestino ”l’occhio” che segue Claudio Baglioni nei suoi concerti e nei suoi tour, in Italia e all’estero. Portano infatti la firma di Andrea Sivini le immagini del dvd ”Per il mondo - Live at the Royal Albert Hall, Londra”, appena pubblicato dalla Sony Music.

«Baglioni mi ha chiamato a documentare anche il suo World Tour 2010 - spiega il regista triestino -, per confezionare con le immagini dei concerti, dei viaggi, dei backstage, una sorta di diario visivo della tournèe. Ho cominciato con Bruxelles (dove ho anche diretto la regia delle riprese del concerto su due megaschermi) e con Parigi, all’Olympia, per proseguire con Monaco, Stoccarda, Zurigo e poi finalmente Londra, il 29 maggio scorso».

Ancora Sivini: «Quello alla Royal Albert Hall, da cui è tratto il dvd, è stato ovviamente l’appuntamento più importante. Un po’ per il luogo, mitico per il rock. Un po’ perchè, per quanto mi riguarda, in un’unica serata di tre ore c’era da organizzare tutto: la fotografia per le riprese, le postazioni delle camere, il mixer video, la tipologia delle ottiche, i rapporti con i responsabili tecnici del teatro. Tutti inglesi, ovviamente, con i quali bisogna parlare nella loro lingua...».

Il risultato è qualitativamente di prima grandezza, tutto in HD, in linea dunque con le tecnologie più all’avanguardia. I brani proposti abbracciano tutta la lunga carriera del cantautore romano: da ”Questo piccolo grande amore” a ”Strada facendo”, da ”Poster” a ”Io me ne andrei”, da ”Avrai” a ”Mille giorni di te e di me”, da ”Amore bello” a ”La vita è adesso”...

«A Londra - prosegue il regista triestino - abbiamo lavorato in tutto tre giorni. Ma sono stati tre giorni molto intensi, ai quali è seguito il lavoro di post-produzione, che ho seguito personalmente. Ora che il dvd è uscito, posso dire di essere molto soddisfatto. Come soddisfatto è anche Claudio. E fra gli addetti ai lavori che hanno già visto il dvd ho raccolto solo commenti positivi...».

Il tour mondiale di Baglioni è partito il 6 marzo da Atlantic City. Dopo Londra, è proseguito in America Latina, Australia, Giappone e Cina. Un vero e proprio giro del mondo, insomma, per un artista italiano molto apprezzato anche all’estero. Poi il ritorno in Europa, con la pausa settembrina di O’Scià, il festival organizzato dallo stesso artista ogni a Lampedusa, ma anche le tappe in Austria e Spagna. Conclusione di nuovo negli States, a New York e Miami.

A Capodanno gran finale a Roma con il concerto ai Fori Imperiali, quello nel quale Venditti l’anno scorso ha fatto 150 mila presenze. Sivini vi sta già lavorando, montando un filmato richiestogli per l’occasione dal cantautore romano, che dopo i successi all’estero ovviamente non vuole sfigurare a casa sua...

«Lavoro con Baglioni ormai da diversi anni - conclude il regista triestino - e con lui è nato anche un bel rapporto di amicizia. Oltre alla stima per l’artista, gli sarò sempre grato per le esperienze professionali che ho fatto e sto facendo al suo fianco».

Negli anni, Sivini è riuscito anche a ”infilare” un po’ di Trieste in un dvd di Baglioni. Si tratta del triplo ”Crescendo e cercando”, uscito ormai sei anni fa, con tante immagini del nostro - purtroppo abbandonato - Porto Vecchio, dove il cantautore romano aveva tenuto un concerto, dal titolo ”Spazi nuovi per uomini nuovi”, nel settembre 2004. Da allora, Baglioni e Sivini hanno fatto ancora un bel tratto di strada assieme. Il Porto Vecchio, invece, aspetta sempre un destino diverso dall’abbandono.

mercoledì 24 novembre 2010

PAOLA MILETICH

C'è una triestina che lavora con Bruno Vespa sin dalla prima puntata di ”Porta a porta”, dunque dal gennaio ’96. E che da cinque anni collabora con il giornalista anche alla stesura dei suoi vendutissimi libri, compreso il recente ”Il cuore e la spada”.</DC> Lei si chiama Paola Miletich, da vent’anni vive a Roma (ma ha ancora casa a Trieste, dove torna spesso d’estate) e lavora alla Rai con contratti di collaborazione.

«Ho cominciato nel ’91 - spiega la giornalista, madre romana e padre lussignano, liceo classico e facoltà di legge frequentati a Trieste -, con il programma ”Il coraggio di vivere”, che veniva realizzato a Napoli per il pomeriggio di Raidue ed era dedicato al disagio sociale. Sono partita come assistente ai programmi, una sorta di factotum. Ora il contratto dice ”programmista regista”, mi sono specializzata negli approfondimenti».

Vespa?

«Mi offrirono di lavorare per quello che doveva essere un esperimento: incrementare la seconda serata di Raiuno (su Raidue andava già in onda Carmen Lasorella) con un programma di approfondimento giornalistico. Il direttore di Raiuno era Brando Giordani. All’inizio eravamo in pochi e avevamo solo due serate per settimana. I mezzi erano talmente ridotti che noi stessi facevamo anche il pubblico in sala. Poi il programma è cresciuto, e siamo ancora qua».

La prima impressione di Vespa?

«Persona di grande cortesia. Veniva dalla direzione del Tg1, all’inizio non riuscivo nemmeno a dargli del tu. Mi rendevo conto che chiedeva cose normali per il Tg1, ma che all’inizio erano fuori dalla nostra portata».

Il suo lavoro in che cosa consiste?

«Preparare dossier e approfondimenti, schede sugli ospiti, interviste, servizi in esterna. E poi le cosiddette sorprese, i servizi sul privato che sono rimasti storici: Amato che gioca a tennis con Panatta, il risotto di D’Alema, il cane di Buttiglione, la canzone della Vanoni che commuove Dini perchè gli ricorda l’incontro con sua moglie...».

Insomma, li ha incrociati tutti.

«Diciamo tanti protagonisti della nostra vita politica e pubblica. Da Prodi (protagonista di quella storica prima puntata del ’96) a Berlusconi, da Andreotti ad Agnelli, da Pavarotti a Valentino, da Terzani al cardinal Martini».

Un aneddoto?

«Mi torna sempre in mente Oriana Fallaci, nel programma ”Il coraggio di vivere”. Ero agli inizi, intimidita dalla fama e dal carattere del personaggio. Dovevo farle firmare una liberatoria, lei chiese una coppa di champagne, si perse del tempo, alla fine lei non firmò».

Come finì?

«Che quando ci trovammo in mano un suo lungo monologo sul Vietnam, che andava per forza di cose tagliato (il programma era registrato), fu intavolata una lunga e complicata trattativa. Nella quale, non avendo firmato ancora nulla, lei ebbe l’ultima parola».

Le pesa il fatto di lavorare dietro le quinte, di non apparire?

«Anzi. Per carattere preferisco così. Fra l’altro all’inizio noi non dovevamo mai apparire nei servizi, né in video né in voce. Era ”lo stile” del programma. La cosa si è un po’ attenuata col tempo. Molti ora appaiono in video. Io sono rimasta forse la sola a non apparire. Ho ceduto solo sulla voce: un tempo io scrivevo testi che altri leggevano. Ora qualche volta me li leggo da sola».

E ora lavora anche ai libri di Vespa.

«È accaduto che nel 2005, ai tempi della malattia e poi della morte di Papa Wojtyla, seguimmo l’evento con varie puntate. Avevo ormai un mio dossier sull’argomento, che fu molto apprezzato da Vespa. Stava lavorando anche a ”Vincitori e vinti”: fu il primo libro a cui ho collaborato».

Nell’ultimo, ”Il cuore e la spada”, c’è molta Trieste.

«Sì, Vespa ha una particolare sensibilità per la storia delle nostre terre. Mi è capitato di intervistare Andreotti sull’argomento: anche lui è convinto che Trieste, alla fine della guerra, non fosse in cima ai pensieri di De Gasperi...».

Molti non amano Vespa.

«È un grande professionista. Ha inventato un genere: a fine anno i suoi libri sono un riassunto della cronaca politica di dodici mesi, con retroscena che altri non hanno. In una contaminazione fra storia e cronaca politica».

domenica 21 novembre 2010


GIORGIO BOCCA

"Ma lei lo sa per chi sono oggi maggiormente in pena?»

Dica.

«Per i giovani. Per questi giovani che hanno una grande scalogna: crescere in questi anni e in questo Paese, il che non promette nulla di buono. Io sono stato fortunato. Ai tempi della guerra partigiana avevamo grandi speranze. Con il senno di poi, e a guardare i risultati, forse si trattava di illusioni. Ecco, posso dire che ho vissuto di illusioni per gran parte della mia vita. Ma almeno mi hanno aiutato ad andare avanti. Oggi, invece, questi ragazzi...».

Giorgio Bocca riflette dal telefono (fisso) della sua casa milanese. Lo spunto è la pubblicazione del suo nuovo libro ”Fratelli coltelli, 1943-2010 l’Italia che ho conosciuto” (Feltrinelli, pagg.332, euro 19): una raccolta di suoi scritti, pubblicati su libri e giornali, che abbracciano la bellezza di 67 anni di storia. Si parte infatti dalla caduta del fascismo e si arriva ai giorni nostri, dunque alla vigilia - forse - della caduta di Berlusconi. Materiale già edito, dunque, tranne l’ultimo capitolo, intitolato ”Il berlusconismo”.

«Quelle pagine finali - spiega Bocca, novant’anni compiuti l’estate scorsa, lucidissimo decano del giornalismo italiano - le ho scritte per l’occasione. Non perchè non avessi qualcosa di già pronto. Sul ”piccolo Cesare” ho già scritto libri e tantissimi articoli. È che, trattandosi di argomenti di stretta attualità, ho dovuto fare una sintesi».

Nella quale non ci dice se siamo o no a fine impero.

«Penso che Berlusconi se la caverà anche stavolta, supererà questa crisi. Ma i suoi difetti sono talmente grandi che prima o poi sarà costretto ad andarsene. Lo scrivo nelle righe finali: fra Berlusconi e la democrazia parlamentare nata dalla guerra di Liberazione c’è incompatibilità di carattere. E ora di certo una fase è terminata».

Lei ha lavorato nelle sue tv. Poi cos’è successo?

«Ho capito l’uomo. Lui è uno che non perdona chi si mette sulla sua strada. È un bugiardo nato, che crede di risolvere tutto con le promesse, con la menzogna. Ricorda per davvero Mussolini, che almeno era colto. Per lui invece esiste solo il denaro, e col denaro pensa di poter comprare tutto e chiunque. Ma non è così».

L’evoluzione di Fini è sincera?

«Non credo. Tutto è possibile, ma mi sembra strano che l’ex pupillo di Almirante ed ex segretario del Msi diventi di colpo democratico. Stiamo parlando di un signore che, a distanza di pochi anni, prima ha detto che Mussolini è stato un grande statista e poi si è accorto che il fascismo era il male assoluto. C’è qualcosa che non quadra».

E allora cos’è successo?

«Fini è intelligente, ambizioso e arrivista. Ha capito, tardi, che stando dietro Berlusconi il suo turno non sarebbe mai arrivato. Ha capito che la vecchia compagnia non gli avrebbe permesso di fare carriera e... si è messo di traverso. Cosa che l’altro, come si diceva, non sopporta».

Lei all’inizio aveva visto di buon occhio la Lega.

«Perchè avevano eliminato il vecchio Pci e la vecchia Dc, che stavano soffocando la politica italiana. Ai suoi esordi la Lega sembrava quasi una ”nuova sinistra”, e infatti molti del vecchio elettorato del Pci continuano a votarla. Anche ora che si sono dimostrati per quel che sono: modesti e opportunisti. Bossi è uno di mezza tacca, si riempie la bocca di federalismo, ma dietro c’è il nulla. E i suoi puntano ai soldi, alle cariche, alle auto blu. Come tutti gli altri».

Al centrosinistra cosa manca?

«Beh, con tutto il rispetto per Bersani, innanzitutto un leader. Ma forse anche un’intera classe dirigente. Nuova e credibile. Quelli che ci sono adesso stanno lì da troppi anni, e a forza di rincorrere il centro sono diventati simili al berlusconismo. Fra l’altro non capiscono che così continueranno a perdere. Siamo l’unico caso al mondo in cui chi sta al governo è in crisi e il maggior partito dell’opposizione non se ne avvantaggia, anzi. E poi, su ’sta storia di guardare sempre al centro: se uno deve scegliere fra l’originale e la copia, si sa chi sceglie».

Pisapia?

«Ha vinto le primarie milanesi perchè è un politico di sinistra. Una persona autentica. Gli altri concorrevano per arrivismo politico, o perchè gliel’aveva chiesto qualcuno. Lui ha fatto arrivare alla gente un messaggio di sincerità. Per questo Pisapia e Vendola risultano oggi più credibili, perchè Bersani e i vertici del Pd sono troppo accondiscendenti nei confronti della destra. Hanno solo il senso della convenienza».

Il Paese intanto ha perso il treno della modernizzazione.

«Colpa di una classe dirigente che non è solo quella politica. La destra italiana è priva di etica e di senso dello Stato. Ma pensiamo un attimo a personaggi come Marchionne. Per lui e quelli come lui l’unica cosa che conta è la produzione, il profitto. Nulla per la crescita democratica e civile del Paese. La vicenda Fiat è illuminante: è diventata grande ed è sopravvissuta alle tante crisi con i soldi di tutti gli italiani, e ora che gli fa comodo prende baracca e burattini e se ne va in Serbia o in Polonia. Ma si può?»

Collettivizzare le perdite, privatizzare i guadagni: vecchia storia.

«Certo, ma è singolare che io debba aspettare le parole di Benedetto XVI per sentire che serve una revisione profonda del modello di sviluppo globale, che servono politiche contro la disoccupazione, che la crisi va insomma presa molto sul serio».

Lo stato dell’informazione?

«Pessimo. Abbiamo editori che pensano solo a tagliare. E giornalisti che hanno perso il gusto di questo lavoro. Il risultato sono giornali che, invece di informare il Paese sullo stato dell’economia, della scienza, della ricerca, sono pieni di gossip, spiate dal buco della serratura, scambi di accuse. Con alcuni giornali che sono ormai veri e propri organi di diffamazione, usati per trame di governo e di potere».

Bocca, diceva che da ragazzo aveva grandi speranze...

«Certo, il cammino sembrava in salita, il 25 aprile era per noi l’inizio della nuova democrazia e di un futuro luminoso. Oggi penso davvero che la democrazia sia in pericolo, non perchè rischiamo di tornare al regime, ma perchè questa democrazia non funziona. Abbiamo un ceto politico che si occupa di affari, di sistemarsi, di spendere i soldi della collettività, dello Stato».

Qualche responsabilità l’avremo anche noi che li votiamo.

«Certo. Gli italiani sono pessimi protagonisti da un punto di vista sociale. Silone diceva: gli inglesi possono essere democratici, gli svizzeri anche, gli italiani no. Forse abbiamo alle spalle troppa storia, troppi cambiamenti che ci hanno sempre costretti ad arrangiarci. Siamo scettici sulle cose nuove. Chissà, forse il virus di cui soffre l’Italia è la vecchiaia».

Siamo un paese per vecchi.

«Già. E torniamo alla pena che mi fanno oggi i giovani...».

lunedì 15 novembre 2010

DISCHI  - VASCO BRONDI

E' tornato Vasco Brondi, quello che si cela dietro la sigla Le Luci della Centrale Elettrica. Due anni fa ha sconvolto molti con l’album d’esordio ”Canzoni da spiaggia deturpata” (Premio Tenco per la miglior opera prima). Il suo secondo album - tradizionalmente il più difficile - s’intitola ”Per ora noi la chiameremo felicità” (La Tempesta/Venus) e nasce da un verso di Leo Ferrè: «C'è una sua frase - spiega il ventiseienne cantautore ferrarese - che mi ha colpito. La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità. Ecco... il titolo arriva da lì».

Chi ha amato il primo disco, apprezzerà anche queste dieci nuove canzoni. Sempre visionarie e indignate, ispirate dalla stessa rabbia generazionale, mosse dall’identica urgenza creativa e narrativa. Poesia metropolitana in bilico fra la lezione di Claudio Lolli e quella di Pier Vittorio Tondelli, che Vasco spiega così: «Le canzoni parlano di lavori neri, di licenziamenti di metalmeccanici, di cristi fosforescenti, di tramonti tra le antenne, di guerre fredde, di errori di fabbricazione, dei tuoi miracoli economici, di martedì magri e di lunedì difettosi, di amori e di respingerti in mare, insomma delle solite cose. C'è questa orchestra minima, di quattro persone in una stanza, di archi negli amplificatori, di chitarre distorte, di organi con il delay, di acustiche pesanti e di parole nei megafoni...».

Sono insomma anche stavolta canzoni-non-canzoni dalla scrittura ossessiva, spesso cupe, a tratti apocalittiche, che parlano delle nostre miserie, della realtà che abbiamo attorno: quella vera, devastante, non il racconto edulcorato che ne fa la televisione. Una sorta di frenetico e abrasivo ”reading” musicale sull’Italia in crisi (non solo economica) di questi anni, in un flusso di coscienza animato dalla scommessa ardita di trasformare la disperazione in felicità.

”L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici” è già nel titolo la cosa migliore del disco. Aperto da ”Cara catastrofe” e che prosegue con ”Quando tornerai dall'estero”, ”Una guerra fredda”, ”Fuochi artificiali”, ”Anidride carbonica”, ”I nostri corpi celesti”...

Di quello che l’artista ama chiamare ”il collettivo aperto Le Luci della Centrale Elettrica”, stavolta fanno parte Stefano Pilia (dei Massimo Volume), Rodrigo D'Erasmo (degli Afterhours), Enrico Gabrielli (già con Calibro 35, Vinicio Capossela, Mike Patton) e ovviamente Giorgio Canali (già con Pgr e Csi). Copertina e libretto sono firmati da Andrea Bruno, uno dei migliori disegnatori underground italiani.

«Che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero» era uno dei (tanti) versi cult del primo disco. Ora che gli anni zero sono finiti, e gli anni dieci non promettono di essere migliori, Vasco Brondi conclude il nuovo album così: «E se gli alberghi appena costruiti coprono i tramonti, tu non preoccuparti, tu non preoccuparti...» (”Le ragazze kamikaze”). Un segno di speranza? O di rassegnazione...?

BAUSTELLE

I Baustelle sono il miglior gruppo italiano di questi anni. Lo hanno dimostrato con dischi come ”I mistici dell’Occidente” (uscito quest’anno), ”Amen” (del 2008), ma anche ”La malavita” (2005). Quando hanno cominciato, come spesso accade, non se li filava nessuno. A dieci anni dalla sua pubblicazione, torna quindi assai opportunemente nei negozi il primo e ormai introvabile album del gruppo di Montepulciano, ”Sussidiario illustrato della giovinezza”.

Col disco (seguito nel 2003 da ”La moda del lento”) torna anche quell’originale mix fra canzone d'autore francese e italiana, fra elettronica e new wave, fra colonne sonore degli anni Sessanta/Settanta e bossa nova, che aveva attirato l’attenzione dei critici e fatto guadagnare al gruppo il premio Fuori dal Mucchio (patrocinato dalla rivista Mucchio Selvaggio) come miglior debutto indipendente.

Le canzoni parlano dell’amore adolescente, in maniera a tratti cruda e comunque diversa da come il tema viene affrontato abitualmente. E contengono, seppur in maniera ancora acerba, le intuizioni e le suggestioni che successivamente hanno fatto grandi i Baustelle.

Oltre al cd, esce un ”box deluxe” a edizione limitata (mille copie), intitolato ”Il cofanetto illustrato della giovinezza”, che si può acquistare online (www.baustelle.it), e contiene la ristampa in vinile del primo demo in cassetta del '96, un 45 giri con ”Gomma” e ”La canzone del parco”, reincise per l'occasione, la ristampa rimasterizzata del cd originale e, per la prima volta, l'album in vinile, con una differente sequenza dei brani.

«Se ascolto ”Sussidiario” oggi, trovo tante piccole imperfezioni, ma mi rendo anche conto che facemmo davvero un buon lavoro», dice Francesco Bianconi, leader del gruppo. «Sarà pure un album che oggi faccio fatica ad ascoltare, ma devo ammettere che un disco così, nel rock italiano prima di allora, ragazzi, forse non c'era mai stato...». I Baustelle saranno in concerto a dicembre nei club con ”Il tour del sussidiario 2010”.

BRYAN FERRY

La classe non è acqua. E non invecchia. Era il ’73, quando uscì ”For your pleasure”, primo album dei Roxy Music. Ora Bryan Ferry è tornato in studio con i vecchi soci Phil Manzanera, Andy Mackay e Brian Eno. Il risultato è un album che arriva a tre anni di distanza dall'ultimo lavoro ”Dylanesque” e rappresenta un punto di svolta e una nuova sfida, anche grazie all'apporto di ospiti di grande spessore. Come David Gilmour dei Pink Floyd, Nile Rodgers degli Chic, Oliver Thompson, Marcus Miller, Flea dei Red Hot Chili Peppers, gli Scissor Sisters. L'album contiene otto brani inediti, a cui si aggiungono una commovente rilettura di ”Song to the siren” di Tim Buckley e una versione di ”No face, no name, no number” dei Traffic. Tutte le canzoni sono prodotte da Bryan Ferry e Rhett Davies, già produttore di alcuni album dei Roxy Music (fra cui ”Avalon”, dell’82) e di vari lavori solisti del nostro.

MALGIOGLIO

Ormai è più noto come personaggio televisivo (con ciuffo bicolore e chiacchiere in libertà...) che come cantante e autore, ma Malgioglio ha firmato alcuni capolavori per Mina, come ”L'importante è finire” e ”Ancora ancora ancora”. Lo ricorda nel suo nuovo album, che comprende undici canzoni, più la versione in spagnolo di una di esse, ”Carne viva”, più ancora un successo non suo, che avrebbe voluto scrivere per Mina, ”Sognando”, più infine un brano che gli piacerebbe sentir cantare dalla tigre di Cremona: ”Fragile fortissimo”. «Possiamo dire - scrive Maurizio Costanzo nelle note - che è stato un incontro felice tra un autore sensibile e un’interprete d'eccezione. Da qualche tempo Mina dice che ci consegnerà a breve il suo ultimo disco ma a noi piace pensare che non sarà così. Come sono convinto che Malgioglio scriverà ancora bellissime canzoni che Mina interpreterà». Dal canto suo, Malgioglio rivolge una preghiera ai suoi ammiratori: «Ascoltate, ma per favore non fate confronti...». Perchè di confronti assai impietosi si tratterebbe.











martedì 9 novembre 2010

PARTO DELLE NUVOLE PESANTI

La Calabria povera (e disperata) di oggi, la Magna Grecia ricca e fertilissima di oltre duemila anni fa. E calabresi che girano il mondo, anche per raccontare la storia della loro terra. Stiamo parlando del Parto delle Nuvole Pesanti, il gruppo che ha ereditato il nome dal ”collettivo musicale” formato nei primi anni Novanta a Bologna da una dozzina di studenti calabresi fuorisede, cresciuti nell’orgoglio del loro dialetto e delle loro radici. Mescolando rock e tradizioni musicali popolari.

La settimana scorsa erano in concerto a Budapest, domani alle 18 tengono uno ”showcase” di presentazione dell’album ”Magnagrecia” alla Feltrinelli di Udine, venerdì alle 21 sono in concerto a Trieste, al Teatro Miela. A fine novembre vanno addirittura in Brasile.

Al Miela tornano a cinque anni di distanza dal debutto triestino nello stesso teatro. Quella volta era da poco uscito il loro sesto album, intitolato ”Il parto”, che aveva imposto il gruppo all’attenzione di un pubblico più ampio rispetto all'ambiente folk-rock nel quale aveva mosso i primi passi. Ora, dopo varie esperienze anche teatrali (la piéce ”Slum” nel 2008) e cinematografiche (il film ”I colori dell’abbandono” nel 2009), sono freschi dalla pubblicazione dell’album ”Magnagrecia”, decimo capitolo della loro ormai ricca discografia.

«È un titolo - spiega Salvatore De Siena, componente originario del gruppo - al tempo stesso ironico e triste. Gli dei non ci sono più, cantiamo nel brano, ma sono stati sostituiti indegnamente dagli uomini. La Calabria di oggi è la Magna Grecia di ieri, una civiltà importantissima che è stata spazzata via. Ma ha lasciato un segno nella storia. Per questo speriamo non ci sia rassegnazione ma speranza di riscatto».

Ancora De Siena: «Nei vari brani affrontiamo temi come lo spopolamento dei piccoli centri con la dispersione delle comunità e culture destinate a scomparire. Ma parliamo anche di mafia, ambiente, viaggio, diritto alla terra e alla vita. I testi raccontano storie di paesi abbandonati. Fra suoni elettrici e acustici. Ma soprattutto rovine, gente povera, naufraghi, profughi, emarginati, emigranti e immigrati...».

Attualmente il gruppo è composto da Mimmo Crudo (basso e voce), Manuel Franco (batteria), Salvatore De Siena (grancassa, tamburello, chit elettrica, voce), Amerigo Siriani (mandolino, chitarra elettrica, voce), Antonio Rimedio (fisarmonica e tastiere). E la violinista ungherese Zita Petho, unica componente ”non calabrese” nel gruppo, la cui presenza ha offerto lo spunto per il citato concerto a Budapest.

Nel nuovo album sono ospiti fra gli altri Claudio Lolli (con il quale anni fa il gruppo aveva riletto la storica ”Ho visto anche degli zingari felici” del cantautore bolognese), il trombettista Roy Paci, la cantante iraniana Sepideh Raissadat, la cantautrice statunitense Amy Denio e la Banda di Fiati di Delianuova.

«Anche attraverso queste presenze - conclude De Siena - vogliamo proporre un nuovo modo di guardare il mondo. In un progetto che segna un’evoluzione della band dallo stile che è stato chiamato ”etno-autorale” a quello “rock world music”. Guardiamo alle periferie del mondo con attenzione e interesse, convinti come siamo che la povertà economica non debba assolutamente corrispondere a una povertà culturale. Anzi».

Il concerto triestino è inserito nella rassegna "Spaesati - Eventi sul tema delle migrazioni" e sarà preceduto nel pomeriggio da incontri e proiezioni di documentari, tra cui il ”docuclip” «Magnagrecia».

domenica 7 novembre 2010

STING CLASSICO A ZAGABRIA

Dopo il ”reunion tour” di tre anni fa con i Police, Sting - il cui tour con la Royal Philharmonic Concert Orchestra fa tappa stasera alle 20 all’Arena di Zagabria - ha smesso forse definitivamente i panni della rockstar. Sir Gordon Matthew Thomas Sumner <WC>è oggi un colto e ricchissimo gentiluomo quasi sessantenne (è nato il 2 ottobre ’51 a Newcastle), che a differenza di tanti suoi colleghi rifiuta il restare imprigionato nella gabbia dorata del suo stesso successo. «Non voglio essere condannato a rifare gli stessi brani nella stessa maniera e con lo stesso gruppo per il resto della mia vita», ha detto l’altra settimana su Raitre, intervistato da Fabio Fazio a ”Che tempo che fa”.

Ecco allora l’idea di questo lungo tour con l’orchestra londinese, diretta da quello stesso Steven Mercurio che aveva guidato i Tre Tenori, con il supporto di un quartetto composto da Dominic Miller alle chitarre, David Cossin alle percussioni, Ira Coleman al basso e dalla vocalist australiana Jo Lawry. Tutti assieme, musicisti classici e rock, per rileggere i grandi classici del ”pungiglione”: quelli con i vecchi soci dei Police, Andy Summers e Stewart Copeland, e quelli da solista.

«Reinventare le canzoni - dice Sting, che vive buona parte dell’anno nella sua tenuta a Figline Valdarno, in Toscana - che sono state i cardini della mia carriera musicale, dal vivo e in studio è, stato molto divertente. Il mio desiderio più vero è che quest'esperienza mi porti ora a scrivere nuove canzoni in collaborazione con l'orchestra sinfonica. È la mia ambizione e ci sto già provando».

In occasione di questo tour, cominciato in giugno in Canada e ripartito dopo la pausa estiva da Oslo, e che mercoledì è a Roma, quarta tappa italiana dopo quelle di Firenze, Milano e Torino, quest'estate l'etichetta Deutsche Grammophon ha anche pubblicato il cd ”Symphonicities”. Quasi una celebrazione dell'esperienza del concerto portato in tour lungo tutto il 2010, lanciato dal singolo "Every little thing she does is magic", e con dentro i brani dal suo grande repertorio, con e senza Police: "Roxanne" e "Next to you", "Englishman in New York" e "I burn for you", "Why should I cry for you" e "She's too good for me", ”Every breath you take” e ”Desert rose”, ”Russians” e ”If I ever lose my faith in you”, ”Fields of gold” e ”Fragile”, che di solito chiude il concerto (ventisei brani in scaletta, per quasi tre ore di musica).

«Ho sempre avuto affinità con la musica classica - prosegue l’artista, che due anni fa aveva già incrociato la sua strada con quella della leggendaria Chicago Symphony Orchestra -. Da giovane ho studiato molto del repertorio per chitarra classica e faccio ancora pratica giornaliera, suonando alcuni brani di Johann Sebastian Bach, pezzi dalle suite per violoncello, gli spartiti per violino e, ovviamente, le suite per liuto. Lo faccio solamente per mio divertimento personale. Sedersi ai piedi di un maestro musicale come Bach, leggere a interpretare le sue note sulle pagine, guardare e ascoltare le straordinarie scelte che prese come compositore, è molto vicino alla devozione religiosa».

Ancora Sting: «Per la canzone "Russians", che ho scritto nel 1985 sulla guerra fredda, ho preso in prestito la bellissima melodia sull'amore di "Lieutenant Kije" di Sergei Prokofiev. E oggi mi sento onorato di dividere i diritti per quella canzone con il celebre compositore russo. L'arrangiatore Vince Mendoza andò ancora più lontano, prendendo in prestito l'apertura del balletto di Prokofiev "Romeo e Giulietta", come emozionante preludio alla canzone».

giovedì 4 novembre 2010

SANREMO: BELLA CIAO E GIOVINEZZA / 2

"Bella ciao" e "Giovinezza"? Sono uguali. Dunque va detto no a entrambi. Perlomeno al Festival di Sanremo. Lo ha salomonicamente deciso il consiglio di amministrazione della Rai. L’inno della Resistenza da cui è nata la Repubblica e il canto delle squadracce fasciste vanno messi sullo stesso piano, sono ”canzoni politiche”, e la politica - si sa - deve far finta di restar fuori da Sanremo. È questo l’eccellente risultato della querelle scatenatasi nelle ultime quarantott’ore con la scusa del Festival.

Tutto è partito da uno scambio di battute fra Gianni Morandi e il direttore artistico Gianmarco Mazzi. Il cantante, chiamato a condurre la rassegna (quest’anno dal 15 al 19 febbraio), l’altra mattina in conferenza stampa spiegava che la serata di giovedì 17 sarà dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Ognuno dei 14 big in gara proporrà un brano storico, legato alle vicende di questo secolo e mezzo. In assoluta buona fede, ma con una certa dose di ingenuità, considerati i tempi e l’aria che tira in Rai e nel Paese, da uomo di sinistra ha poi buttato lì: «Mi piacerebbe che venisse cantata anche ”Bella ciao”...».

Mazzi, uomo di destra, in una sorta di folle par condicio ha rilanciato: «Certo, ma allora anche ”Giovinezza”, che in fondo nasceva come inno della goliardia». Lasciando Morandi con un palmo di naso («Ma dai, Gianmarco...») e dando la stura a tutta una serie di reazioni del cosiddetto mondo politico.

Il cantante si è poi detto sorpreso per quanto accaduto: «Non immaginavo - ha sostenuto - che quel mio auspicio, legato al canto delle mondine poi adottato dai partigiani, divenisse elemento di polemica politica».

Ieri, come si diceva, la questione è approdata in cda. Che ha approvato un documento nel quale, oltre a dire no a entrambe le canzoni, vengono mossi rilievi a Mazzi e anche al direttore di Raiuno, Mauro Mazza, che si era detto non contrario all'idea che tra le canzoni proposte ce ne potesse essere qualcuna che rimandava a una fase storica dell'Italia ben definita.

Intervistato un po’ da tutti, il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro ha poi peggiorato - se possibile - la situazione. «Non facciamo e non vogliamo fare politica - ha infatti detto Morandi -. Si devono fidare di noi, perchè le nostre scelte terranno conto della sensibilità di tutti. ”Giovinezza” è stata eseguita in tv svariate volte e non è mai successo qualcosa di così clamoroso».

Ancora: «Non mi aspettavo queste polemiche per canzoni che hanno più di cento anni e sono legate alla storia del Paese. La Rai ci è vicina: abbiamo aperto un sondaggio su internet dove gli stessi telespettatori potranno votare la canzone che vorranno vedere esibita come omaggio alla storia. Noi rivendichiamo la libertà artistica di costruire una serata che ricordi attraverso la musica 150 anni dell'unità d'Italia: ci sono anni meravigliosi e anni bui, ma questa è la nostra storia. La musica dovrebbe unire non dividere».

Concludendo così: «I problemi del Paese sono altri, quelli economici e quelli della disoccupazione. La musica non deve fare paura».

Ma la frittata è fatta. Il revisionismo storico, nell’Italia di fine impero del 2010, ormai passa anche attraverso le canzonette. E apprendere che il Festival verrà aperto - alla faccia di Bossi - dall’esecuzione dell’inno di Mameli non basta a migliorare la situazione. Anzi.

mercoledì 3 novembre 2010

SANREMO: BELLA CIAO e GIOVINEZZA

"Bella ciao" al Festival di Sanremo? E allora, come in una sorta di automatica ma anche un po’ stupida par condicio, sul palco dell’Ariston va cantata anche «Giovinezza». Come se l’antico e nobile canto di lavoro delle mondine, poi diventato inno della Resistenza da cui è nata la Repubblica italiana, potesse essere messo sullo stesso piano dell’indimenticata solfa delle squadracce fasciste.

Sono tempi da fine impero. Sanremo - e la Rai - ovviamente non fanno eccezione. E lo si capisce anche da questi piccoli episodi. Alla presentazione del regolamento della 51.a edizione del Festival, che si svolgerà dal 15 al 19 febbraio, ieri c’era attesa per le norme che dovrebbero ridimensionare il peso preponderante che il televoto - già padre padrone di tanti programmi televisivi che hanno mandato troppi cervelli all’ammasso - ha avuto negli ultimi anni.

Ma è bastata una proposta del conduttore Gianni Morandi («Vorrei che si cantasse ”Bella ciao”, secondo me bisogna farlo e lo faremo»: ha detto riferendosi alla serata evento dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia), per provocare subito una reazione da parte del direttore artistico Gianmarco Mazzi. Che non ha perso occasione per sollecitare l’esecuzione sul palco dell’Ariston anche di ”Giovinezza”, «che è passata alla storia come inno del fascismo ma nacque come canzone della goliardia toscana (in realtà di quella piemontese - ndr) nei primi del '900».

Il parto del Festival di Sanremo, tradizionalmente lungo e difficile, quest’anno è stato ancor più complicato. Tanto che qualche settimana fa Morandi stava per rinunciare all’incarico. Poi le cose si sono messe a posto all’italiana, e fra una Belen Rodriguez che la Rai spera di veder arrivare nella città dei fiori senza l’ingombrante fidanzato Corona e una Elisabetta Canalis che ha già fatto sapere che il suo bel Clooney non ci pensa nemmeno a sedersi in platea, è nata anche quest’idea della serata di giovedì 17 febbraio dedicata ai 150 anni dell’unità del Paese, con le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla storia d’Italia, interpretate dai 14 big in gara.

Morandi, figlio di un ciabattino analfabeta di Monghidoro che la domenica vendeva l’Unità porta a porta, ci ha subito messo dentro una canzone che fa parte del patrimonio della nostra musica popolare e che per un uomo di sinistra è anche parte della storia migliore di questo Paese. Non poteva immaginare che Mazzi, uomo di destra come il direttore di Raiuno Mazza, rilanciasse con l’inno delle camicie nere. Ma tant’è.

Scontate le critiche da sinistra. Bersani è incredulo: «Non ci credo, non è possibile, se fosse vero dovrebbero vedersela con noi». Il ministro La Russa: «Basta con le code di paglia, ”Giovinezza” la cantavano milioni di italiani». Storace: «È così bella, sarebbe un tonificante anche per l’Auditel». Ma persino la Lega Nord prende le distanze, anche se col fine di sponsorizzare ”Va pensiero”. «”Giovinezza” è una canzoncina - ha detto il senatore Giuseppe Leoni, fra i fondatori della Lega - che ricorda un periodo buio della storia di questo Paese. Non entriamo nel merito di ”Bella ciao”, ma con il motivo del ventennio si giustifica un momento che agli italiani ha dato solo sofferenze e sangue. Si canti piuttosto ”Va pensiero”, bello da ascoltare, che trasmette emozione e commozione».

E siamo a quella che doveva essere la notizia, ma che dinanzi a questi colpi d’ingegno viene derubricata. Dopo che nelle ultime due edizioni il Festival era stato vinto da Marco Carta e Valerio Scanu, trionfatori di ”Amici”, che dal ”talent show” di Maria De Filippi si erano portati in dote legioni di giovani e giovanissimi televotanti, gli organizzatori hanno capito che il meccanismo del televoto andava attenuato. Alla richiesta dell’Antitrust di eliminare dal voto le utenze business (non si potranno dunque comprare pacchetti di voti ingaggiando i call center), si aggiunge da quest’anno ”uno strumento correttivo”, una sorta di ”golden share” della sala stampa dell'Ariston, valida solo nella serata finale, che potrà bilanciare il televoto del pubblico a casa. Al Codacons non basta: chiede l’eliminazione totale del televoto.

Il voto della sala stampa (e per la categoria Giovani della giuria radio) sarà dunque la novità di quest’anno. Canti politici a parte. Basterà per dare ossigeno al Festival? Chi può dirlo...

domenica 17 ottobre 2010

DISCHI - PAOLO CONTE

Volgarità e cattivo gusto riempiono ormai talmente il mondo che ci circonda (quello della musica non fa eccezione, anzi), che sembra quasi impossibile prendere metaforicamente il mare e attraccare in un’oasi capace di riconciliarci con valori assoluti quali bellezza, intelligenza, educazione, ironia, cortesia, a tratti genialità.

Le quindici canzoni che compongono ”Nelson” (Universal), il nuovo album di Paolo Conte, che arriva a due anni da ”Psiche”, potrebbero rappresentare quest’oasi. L’avvocato astigiano (74 anni a gennaio) lo dice chiaro e tondo: lui pensa che sia meglio «non parlare della realtà, per non sollecitare brutte abitudini».

Dedicato già nel titolo al suo cane Nelson, che non c’è più e aveva ”orecchie musicali”, ma anche al compianto manager dell’artista Renzo Fantini (che curava anche gli interessi di Francesco Guccini), il disco profuma di nostalgia e non insegue le mode né le innovazioni. Come il pubblico dell’avvocato, che «si somiglia anche all’estero: è abbastanza colto ma non troppo, non è schiavo della moda e libero nei suoi pensieri» (definizione dello stesso Conte alla conferenza stampa di presentazione).

Affreschi musicali che, come per incanto, ci reintroducono nel magico mondo dell’artista tanto amato dai francesi. Colori e aromi forti, melodie d’altri tempi, suoni e storie che hanno nella loro endemica classicità il marchio di fabbrica ma anche l’innegabile marcia in più.

A voler cercare a tutti i costi una novità, questa sta nel variare del lessico. Oltre che ovviamente in italiano, Conte gioca infatti con altre lingue, cantando nel napoletano già amabilmente strapazzato in passato (stavolta il titolo è ”Suonno e' tutt'o suonno”), ma anche in spagnolo, francese e inglese (sempre «chiedendo le circostanze attenuanti - scherza l’artista - al mio pubblico»).

E l’impressione non è che lo faccia per strizzare l’occhio al pubblico internazionale (non dimentichiamo che Conte ha ormai da tempo un suo pubblico fuori dai confini patrii, e non soltanto nella Francia che l’ha adottato più di vent’anni fa, ma anche nell’Europa del Nord e persino negli Stati Uniti...). Si potrebbe dire, ascoltando i vari brani, che la cosa gli venga quasi naturale, che nasca per assecondare l’incedere della musica.

Fra i titoli: ”Tra le tue braccia”, ”Jeeves”, ”Enfant prodige” (pensata inizialmente per un’interprete francese), ”Clown”, ”Nina”, ”Galosce selvagge”, ”Massaggiatrice”, ”Bodyguard for myself”... Piccole elegie malate di malinconica bellezza, che rifuggono l’autobiografia e preferiscono ”raccontare da fuori le persone e il mondo attorno”. E si permettono addirittura il lusso di citare il divertissement e il burlesque.

Tour in partenza il 28 ottobre da Baden Baden, in Germania, e approda a Milano, Teatro degli Arcimboldi, dal 9 al 13 novembre.



LENNON

Meglio godere della ripubblicazione, con la qualità garantita dalle tecnologie di oggi, di autentici capolavori della musica popolare, o crucciarsi per l’eterna speculazione commerciale originata dagli anniversari che il calendario propone?

Sia come sia, accogliamo i dischi ripubblicati per ricordare John Lennon (1940-1980), fra il 9 ottobre di quello che sarebbe stato il suo settantesimo compleanno e il trentennale della sua morte l’8 dicembre. La vedova Yoko Ono - la donna più odiata del rock: a lei viene addebitata la separazione dei Beatles - ha supervisionato tutto e ha messo il timbro. Innanzitutto su ”Gimme some truth”, ristampa di otto album classici della carriera solista di Lennon, rimasterizzati dai mix originali assieme a un team di ingegneri del suono nei leggendari studi londinesi di Abbey Road, ”casa musicale” dei Beatles nonchè titolo di un loro album, e nei newyorkesi Avatar.

«Mi auguro - ha detto Yoko - che questo programma di ripubblicazioni rimasterizzate possa aiutare ad avvicinare un nuovo pubblico più giovane all’incredibile musica di John. Attraverso la rimasterizzazione di 121 tracce che coprono la sua intera carriera solista, spero anche che quelli che hanno già familiarità con le sue opere possano trovare rinnovata ispirazione dalla sua incredibile dote di cantautore, musicista e cantante e dal suo potere di esprimersi sulla condizione umana. I suoi testi sono così importanti oggi, come lo furono allora quando vennero scritti per la prima volta».

L'iniziativa include una compilation di successi (cd e cd+dvd) intitolata ”Power to the people: the hits», che raccoglie quindici delle più popolari canzoni di John. ”John Lennon signature box” è invece un cofanetto di 11 cd in edizione limitata con gli otto album rimasterizzati (venduti anche singolarmente), un disco di brani rari e mai pubblicati e un ”ep” coi singoli mai inclusi su album.

Torna anche ”Double fantasy” in versione remixata. E i dubbi citati all’inizio scompaiono: questa è davvero musica per le orecchie e la mente...



NEIL YOUNG

Il rock deve tornare in cantina, recuperare i valori essenziali. Sembra il messaggio che il grande Neil Young affida al nuovo album. Che è un po’ il ritratto dell'atteggiamento da eroe solitario che da tempo l’artista ha nei confronti della musica e del mondo. Disco registrato in solitudine: otto brani, un paio acustici, tanta chitarra elettrica. La produzione è di Daniel Lanois, che lo ha convinto a rinunciare al progetto di un album acustico e a imbracciare l’elettrica. Ne è nato un distillato dell'idea che Young ha della musica: prima di tutto c'è la sua chitarra che lui suona in modo furibondo ovunque e comunque. Poi c'è la sfida ormai ultradecennale ad ampliare il confine tra suono e rumore (noise, appunto). «Questo disco - ha detto - mi ha dato la possibilità di esprimermi in un modo più diretto e personale rispetto a quando si lavora in modo tradizionale». Non a caso l’artista canadese è da almeno vent’anni un guru della scena alternativa, oltre che uno dei padrini riconosciuti del grunge.



ROBBIE WILLIAMS

Mentre per il 23 novembre è atteso l’album della ”reunion” con i Take That (s’intitolerà ”Progress”), Robbie Williams non si fa mancar nulla ed esce con questo doppio cd - sottotitolo ”Greatest hits 1990-2010” - che celebra vent’anni di carriera. Un piccolo monumento a se stesso, da parte di un interprete che ha venduto oltre 57 milioni di album, a cui vanno aggiunti undici milioni di singoli. Numeri che ne vanno il solista più venduto nella storia della musica inglese. L'uscita del disco è stata anticipata alla radio dal singolo ”Shame”, che vede la partecipazione di Gary Barlow, l'ex Take That con cui Robbie Williams non collaborava dal 1995, presente anche nel video che nella trama e nei luoghi ricorda il film ”Brokeback mountain”: la riconciliazione fra due amici, che è anche una provocazione di un artista che gioca sempre sull'ambiguità. La raccolta è pubblicata in versione standard (due cd), e deluxe (due cd più un cd con ”b-sides” e rarità). Fra i titoli: ”You know me”, ”Bodies”, ”Morning sun”, ”Lovelight”, ”Sin Sin Sin”, ”She’s the one”...

 
DORINA LEKA

Quando nel settembre del ’99 l’allora tredicenne Dorina Leka vinceva a mani basse il concorso ”Saranno famosi”, in piazza dell’Unità, sotto l’ala protettiva del padre Giorgio Argentin, pronosticarle un futuro di successo era esercizio sin troppo facile. La sorpresa, piuttosto, è che la ragazza ci abbia messo tanto tempo per far parlare di sé fuori dall’ambito locale.

L’occasione è arrivata con ”X Factor”, e anche la sua eliminazione, martedì notte, alla sesta puntata del ”talent show” di Raidue, non inficia le possibilità della talentuosa cantante triestina di origine albanese, con una bella famiglia di musicisti alle spalle, di afferrare il pezzo di successo che merita. Anzi.

Dei tre vincitori dell’edizione italiana di ”X Factor” (Aram Quartet, Matteo Beccucci, Marco Mengoni), finora solo quest’ultimo è stato premiato dal pubblico anche fuori dal loft. Ma è andata altrettanto bene anche a Giusy Ferreri, seconda nella prima edizione, e a Noemi, che nella seconda edizione non era arrivata nemmeno in finale. Proprio com’è successo quest’anno a Dorina. Che in sei serate, spaziando fra Tina Turner e Mia Martini, Gossip e Donna Summer, ha dimostrato un’indubbia grinta rock ma anche un’anima di interprete sensibile. Essere affidata ad Anna Tatangelo, personaggio musicalmente ai suoi antipodi, una volta superate le scintille iniziali, forse ha avuto persino un effetto positivo. Facendo tirar fuori alla ragazza l’immagine da interprete completa e la sensibilità nascosta dietro le boccacce rock delle prime puntate.

Dorina poteva tranquillamente vincere ”X Factor”, se i risultati non fossero affidati al meccanismo discutibilissimo ma onnipresente del televoto. Aveva - e ha - la personalità e le doti musicali e canore per mettere in fila i cantanti che sono rimasti in gara ma che fra un anno rischiano di essere dimenticati. Lei, la nostra triestina nata a Tirana, ha oggi tutte le carte in regola per non essere una meteora. E regalare finalmente alla città una protagonista della scena musicale nazionale.