venerdì 30 dicembre 2011

CORRIERE 135


Il “Corriere della Sera” ha cinque anni più del “Piccolo”. Fu fondato nel 1876 da Eugenio Torelli Viollier, e se dunque il quotidiano triestino compie 130 anni, sono ben 135 le annate in archivio del giornale di via Solferino. Attraversando tre secoli di cronaca diventata storia, il “Corrierone” - oggi diretto da Ferruccio De Bortoli - è sempre stato considerato il maggior e più autorevole quotidiano italiano, anche quando altri, arrivati dopo, ne hanno insidiato diffusione e tirature. Per celebrarsi, ma anche per ripercorrere una vicenda che l’ha visto testimone e protagonista, il Corriere - attraverso la sua Fondazione e l’editore Rizzoli - pubblica un’opera monumentale: la “Storia del Corriere della Sera”, a cura di Ernesto Galli della Loggia. Un’opera che era stata concepita e messa in cantiere nel 2001, in occasione del 125° anniversario del giornale.

Quattro volumi, ognuno con due tomi. I primi due - appena usciti - sono dedicati a “Il Corriere e la costruzione dello Stato unitario” e “Il Corriere nell’età liberale”, con profili storici realizzati dagli studiosi Simona Colarizi e Angelo Varni. Ripercorrono i primi 50 anni di vita del giornale, dal 1876 al 1925, dai tempi della Destra storica a quelli del Fascismo.

«Anche in altri Paesi - scrive nell’introduzione Ernesto Galli della Loggia, - esistono giornali che hanno adempiuto, e adempiono, a una funzione analoga a quella del quotidiano di via Solferino. Assai raramente, però, è accaduto che un giornale di questo tipo sia stato sempre lo stesso con l'identica testata da un secolo e mezzo a questa parte. Il “Corriere” era quello che è oggi, infatti, già all'inizio del ’900, quando molti dei giornali che attualmente tengono il campo in Europa erano ancora lontanissimi dal vedere la luce».

Ancora il curatore: «È una singolarità che richiede una spiegazione. La prima e più importante riguarda indubbiamente la società italiana. Una società caratterizzata, pur attraverso le sue tormentate vicende, da una forte continuità non solo nel modo d'essere ma soprattutto dei propri gruppi dirigenti. Lungi dal conoscere rotture significative interne, infatti, l'élite italiana ha conservato un grado assai alto di coesione, frutto della persistenza di modelli di relazione, di atteggiamenti culturali, di legami personali, familiari e di gruppo, che hanno sfidato il tempo dimostrandosi più forti dei mutamenti di regime politico».

La forza del “Corriere”, dunque, come degli altri giornali che hanno alle spalle una storia analoga, sta proprio in questa capacità di sopravvivere alle varie ere storiche e politiche. Dalle pagine dei volumi emerge infatti una vicenda affollata di personaggi storici, di mutamenti sociali, di eventi nazionali e mondiali anche drammatici, che hanno segnato il destino dei popoli. Una ricostruzione storica e documentaria, una sorta di autobiografia che poteva intitolarsi “La storia d’Italia attraverso il Corriere della Sera”.

lunedì 26 dicembre 2011

CARMICHAEL 30


Dici “Georgia on my mind” e tutti pensano, giustamente, all’immenso Ray Charles. Ma non tutti sanno che la celeberrima canzone che dal 1979 è anche l’inno nazionale dello stato americano della Georgia - proprio come la celebre “Stardust”, “Polvere di stelle” - fu scritta da Hoagy Carmichael, pianista, cantante, attore, ma soprattutto uno dei maggiori autori della musica leggera statunitense del secolo scorso. E di cui ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla morte, avvenuta il 27 dicembre del 1981 a Rancho Mirage, in California.

Quando un infarto se lo porta via, il grande Hoagy - che ebbe una carriera di tutto rispetto anche come attore cinematografico - ha ottantadue anni. Nel suo caso si può davvero dire una vita spesa per la musica.

Nato il 22 novembre 1899 a Bloomington, nello stato americano dell’Indiana, Hoagland Howard “Hoagy” Carmichael comincia giovanissimo a studiare pianoforte con la madre e a comporre musica mentre frequenta l’Indiana University, dove comunque porta a compimento gli studi e si laurea in legge nel 1925.

Si sa come vanno queste cose. Da ragazzi molti studiano uno strumento, molti compongono qualcosa. Dunque all'inizio la musica è per il ragazzo americano di belle speranze, e potenziale futuro avvocato, solo una occupazione parallela allo studio. Ma il genio non bacia in fronte chiunque, e se arriva bisogna saperlo riconoscere.

Hoagy Carmichael a un certo punto sente che non può più dividersi fra gli studi, e magari domani un lavoro “normale”, e la musica. Che è sempre più la sua grande passione. Decide allora di dedicarvisi completamente. Nel 1927 realizza le sue prime incisioni per l'etichetta “Gennett”.

Scrive e a volte interpreta lui stesso brani caratterizzati da una forte vena lirica ma anche da espliciti riferimenti alla musica afroamericana: un mix che, sapientemente calibrato, si dimostra subito in grado di evocare le atmosfere più tipiche dell'America negli anni fra le due guerre.

Nel 1927 compone anche “Chimes of Indiana”, che viene regalata alla sua università come dono da parte della sua intera classe e che dal 1978 è l’inno ufficiale dell'Indiana University. Dalla quale l’artista è stato insignito della laurea honoris causa in musica dalla stessa università nel 1972. Nel ’31 si associa alla American Society of Composers, Authors and Publishers.

In quegli anni iniziali, il suo pezzo più famoso è “Stardust”, ma poi non vanno dimenticati “Riverboat shuffle”, “Rockin' chair”, “Washboard blues”, “Heart & soul”, “New Orleans” e ovviamente quella “Georgia on my mind” cui abbiamo già accennato. Collabora con Sidney Arodin per il classico “Up and Lazy River” e con Johnny Mer.

Nel 1945 è in Italia, a Napoli, al seguito delle truppe americane, proprio come organizzatore di spettacoli per i militari. L’atmosfera partenopea gli ispira “Somewhere on via Roma” (in italiano “Io t'ho incontrata a Napoli”), firmata con Deani, Forte e Rivi, e lanciata alla radio dal cantante Armando Broglia. L'anno successivo, prendendo spunto dal grande successo riscosso dalla canzone, viene anche realizzato l'omonimo film “Io t'ho incontrata a Napoli”, diretto da Pietro Francisci.

Già, c’è anche il cinema. Carmichael partecipa come attore ad almeno quattordici film, recitando al fianco di attori del calibro di Humphrey Bogart, Lauren Bacall e Kirk Douglas. E spesso, in questi film, appare cantando una sua composizione accompagnandosi con il pianoforte.

Fra i titoli: il classico “Acque del sud” (“To have and have not”), con la coppia Humphrey Bogart-Lauren Bacall; “Chimere” (“Young man with a horn”), ancora con la Bacall e Kirk Douglas; “I migliori anni della nostra vita” (“The best years of our lives”), con Myrna Loy e Frederic March.

Nel 1951 vince l'Oscar per la migliore canzone originale. Nel 1969 è uno dei primi dieci autori di canzoni introdotti nella Songwriters Hall of Fame. Grazie a brani come “Little old lady”, “Skylark”, “I get along without you very well”, “In the cool cool cool of the evening”, “The nearness of you”, “Come easy go easy love”, oltre a quelli già citati.

Fra le curiosità, una sua parodia doppiata da lui stesso in un episodio dei leggendari “Flinstones”. E Ian Fleming, che nei suoi romanzi “Casino Royale” e “Moonraker” descrisse l'agente segreto britannico James Bond come somigliante proprio a Carmichael, con una cicatrice lungo la guancia.

Hoagy Carmichael - che scrisse anche due autobiografie: “The stardust road” (pubblicata nel 1946) e “Sometimes I wonder” (nel 1965) - a vent’anni dalla morte viene ricordato come un autore che ha attraversato con le sue composizioni tutto il secolo scorso, e che nel suo genere è considerato compositore di musica leggera inventivo e sofisticato, vicino al linguaggio jazzistico.

venerdì 23 dicembre 2011

DISCHI STRENNE


Un disco sotto l’albero. Complice la crisi, che taglia la possibilità di spesa. Vediamo allora di capire come orientarci, fra le tantissime uscite che storicamente si concentrano nelle ultime settimane dell’anno, proprio per essere pronti agli acquisti natalizi. Quest’anno più parsimoniosi che in passato.

Prima segnalazione Amy Winehouse, la cantante inglese morta l’estate scorsa, della quale è appena uscito “Lioness: hidden treasures”, presentato come “il suo unico album postumo”. I “tesori nascosti” sono quelli che il padre dell’artista e i suoi produttori hanno trovato nei cassetti e assemblato in maniera tutto sommato dignitosa. C’è ovviamente “Body and soul”, il duetto con l'ottantacinquenne italoamericano Tony Bennett. E altre chicche, fra cui “Our day will come”, brano del ’63, originariamente previsto nel primo album della cantante, “Frank”, e poi messo da parte.

Altra donna inglese Adele, il cui “Live at the Royal Albert Hall” (cd e dvd, registrati nel settembre scorso) è un monumento alla grandezza di questa giovane star planetaria, reduce dal successo di “21” e da una seria malattia per fortuna superata. Non mancano “Someone like you” e “Rolling in the deep”, due fra i brani favoriti dai fan della ragazza di Tottenham.

Ci spostiamo oltreoceano con i Black keys, ovvero Dan Auerbach e Patrick Carney, due ragazzi di Akron, Ohio, che con l’album “El Camino” si confermano come una delle novità più interessanti della nuova scena rock-blues americana. Dopo il successo di “Brothers”, il duo continua a mischiare suoni contemporanei e tradizione della vecchia America, virando a tratti verso il rock’n’roll. Il singolo “Lonely boy” li ha lanciati, facendo scoprire anche il resto del disco.

Ancora Stati Uniti con il memorabile - e inaspettato - incontro fra Lou Reed e i Metallica. Li hanno ribattezzati LouTallica. E due anni dopo l’esibizione alla R’n’r Hall of Fame del 2009, quando il gruppo californiano accompagnò l’artista di Brooklyn, è arrivato questo “Lulu”: celebrazione dell’umiltà di un supergruppo e della capacità di rimettersi in gioco di un rocker quasi settantenne. Storie e stili diversi, effetto sorprendente.

Altro grande vecchio, Tom Waits. “Bad as me” è il suo 17° album in studio, a sette anni dal precedente disco di inediti “Real gone”. Rock, blues, rumori, da parte di un geniale narratore di storie surreali. Notturno, jazzato, scevro da autocelebrazioni, con l’inizio dedicato a Chicago. “Satisfied” è un omaggio a “Satisfaction” e a Mick Jagger, ospite del disco. La cui perla è proprio “Last leaf”, ballata acustica in duetto fra i due.

Altre cose? “Immortal” di Michael Jackson (con 40 brani originali), “My life II: The journey continues (Act 1)” di Mary J. Blige, “Live from Paris” di Shakira. E ancora la classica strenna “Sinatra: best of the best”, con classici tipo “My way”, “I’ve got you under my skin”, “Strangers in the night”... E persino, a quarant’anni dalla pubblicazione, “Aqualung 40th anniversary edition”, con la magia dei Jethro Tull e del loro leader Ian Anderson.

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STRENNE / ITALIANI

E fra gli italiani? “Decadance” di Ivano Fossati, che con questo disco e l’omonimo tour ha annunciato, a sessant’anni, di ritenere conclusa la sua carriera di cantautore che fa dischi e concerti (ma vedrete che qualcos’altro si inventerà...). “L’amore è una cosa semplice” di Tiziano Ferro e “Inedito” di Laura Pausini (nella foto a destra), ovvero: i due cantanti italiani che attualmente funzionano di più anche all’estero, e soprattutto nell’America Latina. Entrambi, con questi dischi, hanno rapidamente scalato le classifiche di vendita. “Piccolino” dell’eterna Mina, con una canzone scritta da un ottico friulano, e “Facciamo finta che sia vero” di Adriano Celentano. “Unica” di Antonello Venditti e la raccolta “I colori del buio” di Roberto Vecchioni. Fra i nuovi, “Io tra di noi” di Dente e “Il sorprendente album d’esordio dei Cani”, ovviamente dei Cani.

giovedì 22 dicembre 2011

INTERVISTA PAOLO VILLAGGIO

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PAOLO VILLAGGIO

«Perchè due libri a poca distanza l’uno dall’altro? Perchè avevo e ho un bisogno maledetto degli anticipi per sopravvivere, nella speranza di vendere almeno cinquantamila copie. Le case editrici per la verità contano di arrivare a duecentomila, ma loro sono un po’ folli. Lo so, è un’operazione bieca...».

Paolo Villaggio non si smentisce mai. Fra pochi giorni compie 79 anni, essendo nato a Genova il 30 dicembre 1932. Gli è appena stato assegnato il Premia Chiara alla carriera. Ma lui al solito prende in giro innanzitutto se stesso, anche se gli chiedi di parlare dei suoi due nuovi libri: il romanzo “La fortezza sulle nuvole” (Morganti, pagg 157, euro 16) e “La vera storia di Carlo Martello” (Dalai, pagg 222, euro 17).

Maestro, da dove cominciamo?

«Non mi chiami maestro - intima con tono burbero -. Comunque cominciamo dal romanzo. Che cosa vuole sapere?»

La megaditta, il megapresidente, il coglionazzo. Sembra di essere tornati a Fracchia, invece la storia è ambientata nel Medioevo.

«Sì, abbiamo sempre sentito cose terribili sul Medioevo: la divisione in classi, i ricchi con la loro rete di favori, lo sfruttamento, i soprusi. Ma il Medioevo di oggi è peggiore di quello di allora. Viviamo in un mondo pieno di brogli, furti, omicidi per pochi soldi. Le condizioni sono molto peggiorate. E ormai siamo rassegnati a vivere in mezzo alle difficoltà».

Dove abbiamo sbagliato?

«Preferiamo la finzione alla felicità. Guardi i giovani, hanno accettato di essere falsi e infelici. Ci si accontenta di spiare dal buco della serratura i ricchi, i cosiddetti vip».

Villaggio, c’è la crisi.

«Ma il problema non è la mancanza di lavoro, non è il precariato. E’ che abbiamo perso di vista la qualità della vita. Dai quindici ai quarant’anni, a volte oltre, sono tutti vestiti uguali. I ragazzi vogliono fare i calciatori, le ragazze le veline. Viviamo un periodo di involuzione culturale».

Quando scrisse le parole di “Carlo Martello”, invece?

«Negli anni Sessanta, e Cinquanta, l’Italia era davvero un’altra cosa. Non è questione di crisi o di boom, era davvero un altro Paese, pieno di iniziativa, di voglia di risollevarsi dopo gli anni bui, di crescere, di migliorarsi. E poi eravamo quaranta milioni di persone, non settanta come adesso: c’erano spazio e opportunità per tutti. Davvero, non credo di essere mai stato così felice come in quegli anni».

Come nacque quella canzone?

«Era una sera piovosa del novembre del ’62, a casa mia, a Genova. Con Faber (ovviamente Fabrizio De Andrè, ndr) ci conoscevamo da sempre, le nostre famiglie erano amiche, io avevo otto anni più di lui. Si mise a strimpellare con la chitarra quell’aria che gli era venuta in testa: po, poppò, poppò... Quasi un inno da corno inglese. Mi disse: dai, scrivici un testo. Obbedii, il testo fu completato in due settimane. E nacque “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers”».

Di cui ora ha scritto “la vera storia”.

«Parlando ancora di un Medioevo pieno di allusioni alla contemporaneità. Re Carlo che spia i suoi sudditi, li uccide, somiglia a tanti dittatori che hanno insanguinato il Novecento. Tutti circondati da un codazzo di servitori e maggiordomi che danno loro sempre ragione, nella speranza di un personale tornaconto. Esattamente come avviene oggi».

E’ vero che sulle navi ha lavorato con Berlusconi?

«E’ lui che ha lavorato con me, se permette. Eravamo fra il ’52 e il ’54. Io facevo l’entertainer sulle stesse navi da crociera sulle quali lui cantava canzoni francesi accompagnato al pianoforte da Fedele Confalonieri. Di Berlusconi non ho un gran ricordo, la sua forza era la simpatia, faceva di tutto per piacere».

Un episodio lo ricorderà?

«Certo, ma riguarda ancora De Andrè. Eravamo molto amici e alcune volte lo portai con me, presentandolo come una giovane promessa della canzone italiana. Avevo garantito agli organizzatori che Fabrizio avrebbe rallegrato il pubblico di prima classe, si badi bene composto da vegliardi ultraottantenni, gli unici che all’epoca potevano permettersi una crociera».

Ebbene?

«Fu un disastro. Lo presentai con fare allegro, della serie “Ed ecco a voi il grande...”. Cominciò ad arpeggiare la sua chitarra classica, e quando partì con i versi “Quando la morte mi chiamerà...”, feci un balzo e credetti di morire io, ma all’istante...».

Invece sono passati sessant’anni, lei per fortuna è ancora vivo, e alcuni falsi annunci continuano ad allungarle la vita...

«Quando dieci giorni fa l’Ansa mi ha chiamato dopo che era girata su internet la notizia della mia avvenuta dipartita, ho risposto che mi sentivo benissimo, ma a questo punto sarei andato farmi un check up... La verità è che io temo il decadimento mentale. Quello fisico meno. Temo di perdere la memoria, che è parte consistente della creatività».

Da ragazzo com’era?

«Molto timido. Alle feste da ballo, io e il mio fratello gemello stavamo in un angolo, ai lati opposti della stanza. Poi ci si metteva anche mia madre. Quando mi cercava una ragazza al telefono, rispondeva lei, diceva che non c’ero e riattaccava. Ditemi voi...».

Progetti? E’ vero che torna a teatro?

«Devo pur inventarmi qualcosa per sopravvivere. Sì, sto lavorando a una tournée teatrale con Lina Wertmüller per la prossima primavera. Non mi chieda cosa faremo. So solo che sarà qualcosa di divertente».

Un’ultima cosa: ma coi friulani cos’è successo?

«Ma niente. Avevo scritto in un altro libro - scritto per lo stesso motivo degli ultimi due - che ruttano fragorosamente, parlano un rozzo idioma e per giunta hanno l’alito insostenibile. E questi che fanno? Si offendono, non capiscono che era solo una boutade, uno scherzo, una presa in giro. Ma si può? Mi è toccato pure scusarmi...».

Non erano frasi gradevoli.

«Ha ragione, è tutta colpa mia. Io pensavo che esistesse ancora lo humour, il senso critico, la capacità di ridere innanzitutto di se stessi».

E invece?

«E invece - conclude Paolo Villaggio - qui la gente non sa nemmeno prendersi un po’ in giro. L’Italia è un posto strano, il mondo ci invidia, ma noi abbiamo la monnezza a Napoli, il Sud in mano alla malavita, coste e mare deturpati. Davvero, qui non c’è nulla da invidiare. Nel Rinascimento, forse...».

domenica 18 dicembre 2011

CESARIA EVORA +


Non batte più il cuore di Cesaria Evora. Aveva settant’anni. Era ricoverato in un ospedale della sua Capo Verde. Tre mesi fa aveva annunciato il ritiro a causa di una malattia. Veniva chiamata “la diva dai piedi scalzi”, perchè effettivamente aveva l’abitudine di esibirsi senza calzature ai piedi, anche se una diva non lo era mai stata.

Se lo ricordano bene gli spettatori della nostra zona, che l’hanno seguita in concerto qualche anno fa ad Aquileia e ancor prima a Udine. E un po’ della nostra regione stava anche nella sua discografia, nei cd “Capo Verde, Terra d'amore”, che erano anche un progetto culturale e umanitario nato proprio nel Friuli Venezia Giulia.

Cesaria Evora era nata a Mindelo, nella splendida isola vulcanica di Capo Verde, il 27 agosto del ’41. Infanzia difficile, perde il padre a sette anni, la madre cuoca fa i salti mortali per mantenerla ma poi si deve arrendere a la affida alle cure di un orfanotrofio. Una scelta che segna la sua vita ma le offre un jolly per il futuro: è infatti nel coro dell’orfanotrofio che la piccola Cesaria ha cominciato a cantare.

La ragazza cresce, impara gli stili tradizionali della musica della sua isola, la coladeira e la morna. Comincia a cantare nei locali pubblici, diventa la “regina della morna”, musica triste, dal ritmo lento, che coniuga malinconia e desiderio. La sua fama pian piano attraversa il mare.

Dopo un periodo economicamente difficile, durante il quale è anche costretta a interrompere la sua attività musicale, comincia a essere chiamata a cantare prima in Portogallo e poi a Parigi. Dove nell’88, a quarantasette anni, registra il suo primo vero album, “La diva aux pieds nus”, la diva dai piedi nudi, appunto. Il brano “Sodade” - la “saudade” portoghese, che significa nostalgia, struggimento, rimpianto - è il suo primo successo internazionale, ma anche il primo successo per una canzone non francese in Francia, e segna l’inizio della notorietà internazionale.

Il resto, dopo anni di stenti, è finalmente in discesa. Album (“Distino de Belita”, “Mar Azul”, “Miss Perfumado”, “Cesária”, “Cabo Verde”...) e tournèe ne fanno una grande interprete della musica etnica, a una sorta di crocevia fra le musiche della sua isola e il fado portoghese, fra il samba brasiliano e gli echi dal tango argentino. Racconta storie d'amore e di vita, di gente abituata a emigrare per cercare pane e lavoro lontano da casa. Canta melodie struggenti, che sanno parlare al cuore e alla mente.

Qualcuno diceva che le sue canzoni vanno ascoltate a occhi chiusi. Forse per immaginare i paesaggi e il mare di quel minuscolo arcipelago sospeso in mezzo all'Atlantico, per ascoltarne i suoni, gli odori, i colori.

Nei concerti, al pubblico di mezzo mondo si rivolgeva sempre in creolo, la sua lingua. E a metà esibizione quasi sempre chiedeva il permesso di fumare una sigaretta, per concedersi una piccola pausa dedicata magari alla musica della sua band. Come faceva probabilmente tanti anni prima, quando da ragazza cantava nei bar e negli hotel della sua Mindelo.

Fra i suoi brani ricordiamo soprattutto “Tiempo y silencio”, “Sangue de Beirona”, “Angola”, “Africa nossa”, ovviamente “Sodade”, e poi “São Vicente di Longe”, dedicato all'isola natale mai dimenticata, dove non a caso è tornata per vivere il suo ultimo tempo. Davanti all’Atlantico ventoso e insidioso, nella sua terra povera, fra la sua gente abituata a lavorare duro e soffrire. Certo da lì nasceva quella vena dolente sempre presente nella sua grande musica. Che non dimenticheremo.

mercoledì 14 dicembre 2011

TRAGEDIA PALATRIESTE / 2, I PRECEDENTI


Fra i 1100 morti sul lavoro in Italia nel solo 2011, che fanno una drammatica media di tre lutti al giorno, purtroppo anche il mondo della musica e dei concerti fa atto di presenza. Per la verità, gli incidenti sono di solito causati maggiormente da eventi atmosferici, ma esistono dei precedenti della tragedia del PalaTrieste, anche in Italia e persino nella nostra regione.

Nell’agosto del ’92, dopo un concerto di Claudio Baglioni allo stadio di Lignano Sabbiadoro, nella fase di smontaggio del palco il forte vento causò il crollo di un ponteggio e la morte di Peter Kramer, cinquantenne operaio svizzero residente però a Pavia.

Nell’estate di quattro anni fa, al parco San Giuliano di Mestre, l’Heineken Jammin Festival fu funestato da una tromba d’aria che provocò danni e feriti, oltre ovviamente all’annullamento della manifestazione.

Estero. L’estate scorsa, durante un concerto country nello stato dell’Indiana, il forte vento (96 km all’ora, roba che a Trieste non farebbe notizia...) causò il cedimento del palco, quattro morti e una cinquantina di feriti. Praticamente in diretta tv.

Nel luglio 2009, al Velodrome di Marsiglia, durante l’allestimento del palco per un concerto di Madonna, la struttura cedette: due morti e sei feriti. Del palco rimase un groviglio di sessanta tonnellate di tubi e cavi metallici.

Otto persone morirono a un concerto dei Pearl Jam in Danimarca, al Festival di Roskilde, nel 2000. La causa quella volta fu la pressione del pubblico verso le prime file, nonostante i ripetuti appelli del gruppo, affinché i fan indietreggiassero.

E alla lista dei lutti vanno aggiunti anche i venti morti e le centinaia di feriti alla “Love Parade” dell’estate 2010, a Duisburg, in Germania, dove migliaia di ragazzi cercavano di entrare nell’acciaieria dove si svolgeva l’evento e invece rimasero intrappolati nel tunnel che era stato scelto come accesso, ma che si dimostrò troppo stretto e inadeguato.

Eventi atmosferici, cedimento, cattiva organizzazione dei flussi. Queste dunque le cause principali degli incidenti più recenti. Nonostante standard di sicurezza più elevati rispetto a tanti anni fa, con barriere antipanico che non diventano trappole come le transenne rovesciate, controlli sugli impianti elettrici, regolazione di afflussi e deflussi. Strutture e palchi sempre più faraonici, purtroppo, non aiutano una situazione che, come dimostra la tragedia triestina, va tenuta maggiormente sotto controllo. 

TRAGEDIA PALATRIESTE / 1


Nel dicembre ’99, durante uno dei due concerti inaugurali del PalaTrieste (l’altro, pochi giorni prima, lo tenne Ligabue), fu proprio Jovanotti a notare la particolarità dell’allora nuovissima struttura triestina. Qui non si possono appendere al soffitto le strutture che reggono le luci e l’amplificazione, fece notare l’artista, e per i concerti si tratta di un problema.

Un problema che, dodici anni dopo, ha di fatto causato la morte di un ragazzo e il ferimento di otto persone, ma che avrebbe potuto provocare una strage se il cedimento della struttura fosse avvenuto qualche ora dopo, a concerto iniziato.

«Normalmente - spiega infatti Maurizio Salvadori, della Trident Management che produce il tour di Jovanotti - tutti gli apparati vengono appesi mediante motori ai tetti dei palazzi dello sport ma, visto che la configurazione di quello di Trieste non permette quest’operazione, era stata noleggiata per questo concerto una struttura denominata “ground support”, che ha improvvisamente ceduto».

«I motivi del cedimento della struttura - prosegue Salvadori - sono al momento sconosciuti e incomprensibili, dato che il piano di lavoro era stato redatto, come sempre, da un ingegnere abilitato. Spetterà alla magistratura e ai periti nominati stabilire le cause del crollo».

L’altra sera Jovanotti, oltre ovviamente ad annullare il concerto triestino, ha deciso di sospendere l’intero tour, che avrebbe dovuto far tappa a Modena, Ancona, Caserta e Roma, prima di concludersi a Taranto il 30 dicembre.

«Questa tragedia - ha scritto l’artista su Twitter, poche ore dopo i fatti - mi toglie il fiato e mi colpisce profondamente. Il mio dolore è rivolto a Francesco Pinna, studente lavoratore, la cui vita si è fermata nell’incidente che ha travolto la mia squadra. Questa tragedia mi toglie il fiato e mi colpisce profondamente».

Ancora Lorenzo Cherubini: «Un tour è una famiglia e si lavora per portare in scena la vita e la gioia. I ragazzi rimasti feriti sono lavoratori specializzati, che amano quello che fanno restando nell’ombra. Sono con voi, vi voglio bene. Sono con la famiglia di Francesco e con i suoi amici. Il mio cuore è pieno di dolore».

Ieri, dopo le polemiche sulle condizioni di lavoro, il musicista è tornato sull’argomento su Facebook: «Francesco Pinna era un lavoratore a giornata ed era assunto con contratto regolare. Io pretendo sempre che tutti quelli coinvolti anche indirettamente in un lavoro che riguarda la mia musica siano sempre tutelati in ogni forma e anche in questo caso era così. Il mondo dei concerti è un settore serio dove non c’è approssimazione e improvvisazione e nei miei tour c’è totale rispetto delle leggi e delle persone». «I ragazzi come lui - è ancora Jovanotti che parla - non sono in tour con la squadra itinerante, composta di tecnici specializzati, ma lavorano agli allestimenti che passano nella loro città. Aspettano l’arrivo dei camion e fanno la loro parte. Si tratta di lavori di supporto alla squadra itinerante. Questi ragazzi li incontro spesso quando arrivo al palazzetto e capita che ci si scambi due parole, che ci si scatti una foto. Sono migliaia a fare questi lavori in Italia, spesso sono studenti che non hanno un lavoro fisso e che così si guadagnano qualche giornata». «Francesco era uno di loro e aveva tutta la vita davanti a sé, e questa è la tragedia. Io so, e mi è stato confermato anche in questo caso, che in un tour come il mio (e come tutti i grandi e piccoli tour che girano l’Italia) ogni lavoratore locale è assunto con un contratto in regola con le leggi dello Stato. Anche in questo caso era così. La tragedia è amplificata dal fatto che si stava lavorando per allestire “una festa”, un evento effimero che lascia il dolore e la morte fuori dai cancelli per una sera. E invece stavolta tutto si è ribaltato e ora c’è solo dolore sul mio palco distrutto».

Secondo Jovanotti, la morte di Francesco è «una fatalità davvero difficile da prevedere. Stamattina (ieri, ndr) le prime indagini degli ingegneri non sono riuscite ancora a capire le dinamiche dell’incidente. Francesco è morto costruendo una festa».

Già poche ore dopo la tragedia, l’altra sera, sul web sono rimbalzati i messaggi di cordoglio, oltre che della gente comune, di tanti artisti: da Fiorello ai Negramaro, da Celentano con Claudia Mori a Fiorella Mannoia, da Ornella Vanoni a un campione dello sport come Valentino Rossi, a tanti altri.

domenica 11 dicembre 2011

LIBRO LUCIA VISCA SU P2

 
Se è esistita la P2, se è vero che esiste la P3 e perfino la P4, non può che esserci stata anche la P1... Da questa incontestabile, quasi lapalissiana considerazione parte la giornalista e scrittrice romana Lucia Visca nel suo nuovo libro “Propaganda, L’origine della più potente loggia massonica” (Castelvecchi, pagg. 189, euro 14), dedicato a uno dei misteri più insondabili delle vicende nazionali degli ultimi decenni, la loggia P2.

Ne vien fuori una singolare storia d’Italia, come scrive Gian Carlo Caselli nella prefazione, «che si propone di tratteggiare a tinte vivide alcune vicende che hanno attraversato e tuttora sembrano attraversare i palazzi del potere».

Ancora il magistrato: «Quello che emerge è una sorta di network relazionale, caratterizzato dalla capacità (necessità?) di riprodursi e perpetuarsi in una saldatura culturale, politica ed economica sorda a ogni interesse generale, sostenuta invece da pulsioni sovversive...». Insomma, una sorta di “un fiume carsico” che attraversa centocinquant’anni di storia d’Italia.

Visca, trent'anni dopo Gelli e la P2 l'argomento è ancora di stretta attualità. Perchè?

«A noi italiani piacciono i misteri. E quello della P2 resta tale. Le stesse conclusioni dell'inchiesta parlamentare del secolo scorso lasciano aperti dubbi mai risolti. Poi basta osservare gli avvenimenti. Non c'è anno che sodalizi e conventicole tenterebbero di ricostituire quel potente nocciolo duro di deviazioni istituzionali varie».

Lei risale fino al Regno d'Italia. Che cos'era allora la massoneria, c'era già allora una loggia Propaganda?

«Sarei potuta andare oltre ma non sono una storica, non mi permetterei. Da cronista mi è sembrato comunque giusto andare alle origini dell'Unità nazionale e tentare di raccontare, nel bene e nel male che cosa fosse la massoneria. Durante i moti risorgimentali è stata un forte motore del cambiamento. Poi, come in tutte le cose, ci sono costole che si staccano, si ammalano e fanno ammalare».

Lei identifica anche un rapporto prima con lo sbarco dei Mille e poi con quello degli Alleati in Sicilia nel '43.

«Che molti protagonisti del Risorgimento prima e della Resistenza poi fossero anche massoni non è un segreto. Sarebbe stato del resto difficile il contrario. Il rapporto che mi ha inquietato è invece quello che si è stabilito fra mafia e alcuni settori della classe dirigente particolarmente attaccati al potere».

Spadolini teneva a distinguere massoneria e loggia P2. Perchè?

«Ho tentato di spiegarlo nel libro. E' semplice nella sua complessità storica. La massoneria, come qualsiasi altra forma di aggregazione umana e sociale, dalla religione alla politica, nasce con nobili intenti e per servire o raggiungere un interesse superiore. La P2, o secondo me la loggia Propaganda in tutte le sue numerazioni, altro non è stata che una manifestazione patologica, un comitato d'affari costuituito per servire gli interessi di chi ne faceva o fa parte».

Quando quei “nobili intenti” dei primi massoni sono stati traditi?

«A occhio direi quando l'eroe del Risorgimento Francesco Crispi fa reprimere nel sangue i moti dei fasci siciliani».

Lei parla di “una maledizione” di cui il Paese stenta a liberarsi. Ci spieghi.

«Sono sempre stata convinta che i tempi della storia siano un po' più lunghi della percezione legata al tempo della nostra vita. Per la storia lo sbarco dei Mille è l'altro ieri, l'Unità nazionale italiana ancora emette vagiti, siamo lontani dal celebrare un bicentenario. I patti fatti nel Risorgimento e rinnovati con la seconda guerra mondiale ancora valgono in tutta la loro forza».

Che rapporti ha avuto la loggia con la mafia?

«Di utilità reciproca. Se una intuizione ha avuto la loggia è stata quella di capire che il potere istituzionale, nel Sud, non era quello fragile dei Borboni, ma quello solido delle istituzioni criminali, soprattutto in Sicilia».

Di Berlusconi sappiamo, ma gli altri iscritti eccellenti alle liste Propaganda?

«Due nomi? Fabrizio Cicchitto e Luigi Bisignani. Trovo più interessante il primo che il secondo. Bisignani è sub judice e prima o poi sapremo se detiene, o meglio ha detenuto, un vero potere. Cicchitto il potere ce l'ha e la sua azione politica è l'incarnazione del Piano di rinascita democratica di Gelli, quello che prevedeva, e secondo me prevede ancora, di sovvertire lo Stato con una dittatura morbida. E poi una montagna di giornalisti, purtroppo. A cominciare da Maurizio Costanzo».

JOVANOTTI A TS


Torna Jovanotti, ed è già un evento. Da Fiorello si è presentato con tanto di farfallino. In ossequio alle regole del vecchio varietà televisivo, attualizzato e rilanciato dallo showman siciliano, che si è ispirato proprio a una sua canzone (“Il più grande spettacolo dopo il big bang”) per il titolo del suo programma da record. Ma la comparsata su Raiuno, per Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti è stata solo una piccola pausa della tournèe che domani, alle 21, fa tappa al PalaTrieste (disponibili ancora poche decine di biglietti). Il suo “Ora in Tour, Lorenzo Live 2011” - dopo le date di primavera-estate - è ripartito a fine novembre da Forlì, e ha già toccato Torino, Genova, Firenze, Roma e - ieri e venerdì - Milano.

Da pochi giorni il video di “Ora” è sul web e in tv. Si tratta - udite udite - del primo video in 3d, visibile senza bisogno di occhialini o schermi speciali, con ogni tipo di supporto, dal cellulare al grande schermo. Un video semplice, realizzato con un budget basso, per mettere in scena l’idea che il tempo non è una costante invariabile ma una vibrazione viva, una sostanza nella quale la nostra esistenza è immersa.

L’album “Ora” - pubblicato a inizio 2011 - è appena uscito in una nuova versione deluxe con due bonus track - “Regalito” con Juanes e “The sound of sunshine” con Michael Franti - e il doppio dvd con i concerti del tour e il film documentario “La quarta dimensione”, che mostra le prove, il pubblico e il retropalco del tour. E una sezione in cui Lorenzo duetta con gli amici Ben Harper, Michael Franti, Cesare Cremonini, Luca Carboni, Giuliano Sangiorgi.

Tornando al titolo del brano di Jovanotti “riveduto e corretto” da Fiorello per il suo programma tv, non è la prima volta che il quarantacinquenne artista romano vede le sua canzoni usate in altri contesti. E’ stato il caso, nel 2008, di “Mi fido di te”, colonna sonora della (sfortunata) campagna elettorale del Pd.

«Non era una canzone adatta - dice ora Lorenzo - a diventare bandiera per una campagna elettorale. Quando Veltroni me la chiese, io glielo dissi: guarda che in realtà questa canzone parla di perdita, perchè dice “cosa sei disposto a perdere”. Non è proprio un inno per trionfare».

Quella canzone, che stava nell’album “Buon sangue” del 2005, «parla dell’accettare la perdita come unico modo per progredire, per accettare la vita. A Veltroni però piaceva l’inizio, forse non aveva sentito la fine del ritornello... Ma non credo che si perdano le elezioni per via delle canzoni».

E per quanto riguarda ancora “Il più grande spettacolo dopo il big bang”, le ultime due parole del titolo, quelle che Fiorello ha cambiato, sono servite da ispirazione al sindaco di Firenze Matteo Renzi per il suo recente raduno alla Stazione Leopolda. «Che effetto fa vedere una tua canzone al centro di un’iniziativa politica nazionale? Ormai - ha detto Jovanotti - sono abituato a questa cosa, anche se la guardo sempre con un po’ di sospetto».

Nel concerto di domani sera a Trieste, Jovanotti dovrebbe - come nelle tappe precedenti del tour - far convivere i brani dell’ultimo album e i suoi vecchi successi: “Megamix” e “Falla girare”, “La porta è aperta” e “Amami”, “L’elemento umano” e “La notte dei desideri”. E poi ancora - dopo un medley acustico giocato su “Le tasche piene di sassi”, “Come musica”, “A te” - “Tutto l’amore che ho” e “Ora”, “Io danzo” e “Battiti di ali di farfalla”, “L’ombelico del mondo” e “Mi fido di te”. Fino al medley finale con “Bella”, “Ciao mamma”, “Raggio di sole”, “Punto”, “Serenata rap”, “Piove”, “Una storia d’amore”, “Lungomare”...

giovedì 8 dicembre 2011

DISCHI / DENTE + vecchioni


Giovani cantautori crescono. E dimostrano di avere tante cose da dire, a volte più dei loro stanchi maestri. Prendete Giuseppe Peveri, in arte Dente (soprannome che pare si porti dietro dall’infanzia...), parmigiano di Fidenza ma milanese d’adozione, classe ’76, dunque non più di primissimo pelo. Il suo nuovo album s’intitola “Io tra di noi” (Ghost Records/Venus), comprende dodici canzoni che lo confermano voce originale, interessante e mai banale del moderno cantautorato di casa nostra.

Sono passati cinque anni dall’album di debutto, “Anice in bocca”, cui sono seguiti in rapida successione “Non c'è due senza te” (2007), l’ep “Le cose che contano (2008) e “L'amore non è bello”, premio Pimi come miglior album del 2009. E Dente - il cui nome viene collegato soprattutto al brano “Beato me”, con cui due anni fa ha partecipato al progetto collettivo di Manuel Agnelli e degli Afterhours “Il paese è reale” - dimostra di aver imparato a trarre il meglio dalla propria vena creativa.

Le sue canzoni mischiano con sapienza malinconia e ironia, hanno tratti intimisti e a volte surreali, pescano nelle lezioni di De Andrè, De Gregori e Tenco (gli artisti che ricorrono più spesso, quando si parla di lui), ma sanno innervarle di un approccio assolutamente contemporaneo. Il risultato s’insinua al crocevia fra una canzone d’autore di qualità e un pop romantico e a tratti stralunato.

Il titolo del nuovo album - che lo stesso Dente definisce “molto malinconico e per niente allegro” - è una citazione riveduta e corretta del classico di Charles Aznavour “E io tra di voi”, annata 1970.

Anche i titoli delle canzoni sono spesso dei giochi di parole, sospesi fra la citazione e il divertissement. Esempi? “Giudizio universatile”, con il suo ritmo incalzante e il ritornello che rimane incollato quasi subito alle orecchie. Ma anche “Settimana enigmatica” e “Da Varese a quel paese”, oppure “Puntino sulla i” e “Pensiero associativo” (che in effetti ricorda un po’ qualcosa di Lucio Battisti, anche se da qui a parlare del talentuoso emiliano come del “nuovo Battisti”, beh, ce ne corre...).

“Piccolo destino ridicolo” racconta come troppo spesso nascono tutte quelle relazioni che poi quasi sempre proseguono nella noia e nell’infelicità quotidiane. Per concludere con “Rette parallele”, che brilla anche per un’inaspettata coda caraibica.

Oltre mezzo secolo dopo la nascita dei cantautori italiani, Dente si fa ascoltare e apprezzare proprio in quanto un classico cantautore: testi lievemente autobiografici, attenzione alla melodia, canzoni costruite su accordi di chitarra acustica. In effetti, dopo gli anni delle mille band, da un po’ sembra tornato il momento di questa (vecchia?) formula.

DISCHI / VECCHIONI

“I COLORI DEL BUIO”  (Universal) C’è una perla, in questa prima antologia ufficiale del Professore, che arriva a chiudere l’anno del suo trionfo sanremese e del conseguente “sdoganamento” - dopo 40 anni di onorata carriera - dinanzi al grande pubblico. La perla è il duetto con Mina nella classicissima “Luci a San Siro”, uno dei trentatre brani, non tutti famosi, del doppio cd. Scelti, dice il sessantottenne cantautore milanese, «chiudendo gli occhi e trovandomi davanti le cose che sono state fondamentali nella mia vita. Ho scartabellato tutto il mio repertorio e ho scelto le canzoni dal significato trasformante, attinenti a realtà che ho vissuto, all’affetto per i miei cari, alle cose per cui ho combattuto». Ecco allora “Figlia” e “Velasquez”, “Non lasciarmi andare via” e “Ninni”, “Stranamore” e “Canzone per Laura”, “Samarcanda” e “Sogna ragazzo sogna”... Ovviamente “Chiamami ancora amore”. Due inediti: “Un lungo addio” e il brano che dà il titolo al disco.  

LIBRO FALETTI


Silver è il più classico degli antieroi, uno di quelli cui la vita non ha mai fatto sconti. Ex pugile finito in galera per una questione di scommesse, fa da troppi anni il magazziniere in una squadra di calcio che ora è attesa dall’ultima sfida, quella che può valere la promozione in serie A. Di quella squadra, il bomber è il figlio di Silver. E sta per impelagarsi proprio in una di quelle faccende che il padre ha già pagato molto caro...

“Tre atti e due tempi” (Einaudi, pagg 151, euro 12) è il nuovo libro di Giorgio Faletti ed è già - assieme al nuovo Fabio Volo - il best seller del Natale 2011. Tanti anni fa comico televisivo, poi autore e cantante di successo (ha scritto brani per Mina e ha portato la sua “Signor tenente” al secondo posto a Sanremo ’94), a volte attore cinematografico, il sessantunenne astigiano è l’esempio vivente della versatilità a livelli sempre altissimi.

Quando nel 2002 uscì il suo primo thriller, “Io uccido”, più d’uno credette non fosse cosa da prendere sul serio. Quattro milioni di copie vendute, e gli altri libri seguiti in questi anni (“Niente di vero tranne gli occhi”, “Fuori da un evidente destino”, “Io sono Dio”, “Appunti di un venditore di donne”...), tutti premiati da analogo gradimento del pubblico, hanno messo a tacere gli scettici. E la consacrazione è arrivata quando Jeffery Deaver, maestro del thriller, ha speso parole più che lusinghiere nei suoi confronti.

Sì, perchè Faletti sa inventare storie avvincenti, scrive bene ed è un perfezionista. In più, sa rinnovarsi. Stavolta per esempio abbandona il thriller da cinquecento e passa pagine per un romanzo snello, molto diverso da quelli che lo hanno preceduto. Ingredienti della nuova portata: la provincia, il mondo del calcio, il denaro e la corruzione, la mancanza di futuro per un giovane, ma anche i valori della lealtà e della correttezza, nel rapporto difficile tra un padre e un figlio divisi da un passato che non si può dimenticare.

«Mi sento molto vecchio e molto stupido - dice Silver, che in realtà si chiama Silvano, ma in provincia e in certi ambienti è facile vedersi affibbiare un soprannome - per le cose che ho fatto in passato e quelle che devo fare ora. L’esperienza è una cazzata, una cosa che non esiste, un bacio che non sveglia da nessun sonno. È utile per cambiare una lampadina o imbiancare una stanza o prendere un gatto senza farsi graffiare. Per il resto, è sempre la prima volta».

Forse è anche il segreto di Giorgio Faletti: impegnarsi in ogni nuova avventura, in ogni nuova sfida, come se fosse la prima volta. Quale sarà la prossima?

mercoledì 7 dicembre 2011

TRAVAGLIO AL ROSSETTI


«Cosa penso? Che non c’era bisogno di Monti e della sua squadra di fenomeni, per partorire una manovra che alza le tasse e finge di tagliare i costi della politica e di far pagare anche i ricchi...».

Marco Travaglio non le manda mai a dire. Voce e penna caustica, da anni spara a zero sui giornali (attualmente sul Fatto Quotidiano, di cui è vicedirettore), in televisione (ha seguito Santoro anche nell’avventura “multipiattaforma”), nei libri (è appena uscito per Chiarelettere “Silenzio, si ruba”...), a teatro.

E stasera alle 21, proprio a teatro, al Rossetti, presenta il nuovo spettacolo “Anestesia totale”, ovvero: «il primo spettacolo (poco spettacolare) del dopo B, che prova a immaginare ed esorcizzare il futuro dell’Italia senza Berlusconi». Con lui, l’attrice Isabella Ferrari. Sul palco un’edicola, una panchina, due microfoni. E l’aristocratica viola di Valentino Corvino che commenta.

«Quando proponevo di tassare i capitali scudati - prosegue Travaglio - mi dicevano che così si violava un patto sottoscritto con i cittadini. Cosa chiaramente non vera, visto che altri patti sono stati e vengono violati tranquillamente. Comunque ora Monti ha deciso di mettere mano a quella voce, e che fa? Aggiunge un misero 1,5 per cento, al 5 già pagato, a gente che ha portato i soldi all’estero, li ha fatti rientrare pagando un’inezia di tasse e ha evitato pure l’aspetto penale della vicenda. E questa sarebbe equità?»

Timidezza di Monti o paletti dei partiti?

«Credo lui volesse effettivamente fare una patrimoniale, ma Berlusconi lo ha bloccato. Come lo ha bloccato sul tema delle frequenze televisive, che valgono a seconda delle stime fra i sei e i sedici miliardi di euro, a occhio mezza manovra, e che invece vengono regalate a Rai e Mediaset...».

Prosegua.

«Passera ha detto: non abbiamo esaminato il problema. Ma mi faccia il piacere. Si cambino i termini dell’asta e si vada all’incasso. Chi vuole le frequenze, le paghi. Non si capisce perchè se io occupo il suolo pubblico devo giustamente pagare una tassa. Se loro occupano le frequenze, e ci impiantano un ricco business, gliele danno gratis».

Le lacrime della Fornero?

«Armi di distrazione di massa, come direbbe Sabina Guzzanti, o nella migliore delle ipotesi di coccodrillo. Ma insomma, quelle misure le hanno decise loro, se non vanno bene, se fanno piangere, che ne presentino delle altre. Perchè torna l’Ici sulla prima casa mentre il Vaticano continua a non pagare un euro sulle sue proprietà e sulle sue attività commerciali? Ancora nessuno me l’ha spiegato».

Lo spettacolo?

«E’ rimasto praticamente uguale al debutto, avvenuto nell’aprile scorso a Bologna, anche se ovviamente si nutre dell’attualità di questi giorni e mesi. Parto da una frase, una constatazione: finalmente è finita, lui non c’è più. E questa è la buona notizia. Quella cattiva è che le radiazioni restano. Nella primavera scorsa si era già capito tutto, era evidente che Berlusconi era arrivato a fine corsa. Per la verità lo si era capito già quando aveva rotto il patto a destra con Fini. Lì ha perso la partita».

Non c’è più Berlusconi, ma il berlusconismo?

«A parte che io di Berlusconi non voglio più parlare, il nome stesso mi provoca fastidio, e infatti nello spettacolo se ne parla solo al passato. Ma il punto è proprio quello che lei dice: Berlusconi è finito, ma il berlusconismo gli sopravvive, per il semplice motivo che gli preesisteva. L’uomo è arrivato vent’anni fa come caricatura, come esasperazione del conflitto di interessi».

Che è sempre esistito.

«Appunto. Non dimentichiamo che i partiti occupavano la Rai ben prima della sua cosiddetta discesa in campo. E fino a quando la televisione sarà in mano ai partiti e i giornali in mano a banche, imprese, concessionarie pubbliche, palazzinari, fabbricanti di scarpe, proprietari di cliniche private, il berlusconismo non finirà».

Ma un giornalista a teatro che ci fa?

«Dipende da quello che uno ci fa, a teatro. Io faccio le stesse cose che faccio in tivù, ma quello che lì racconto in dieci minuti, a teatro posso raccontarlo con calma, in due ore e mezzo. Il teatro è lo spazio ideale per raccontare, per spiegare con tutto il tempo che occorre, davanti a un pubblico che è venuto per te. La televisione richiede lo slogan, per controbattere e sovrastare le opinioni altrui. Il libro richiede tanto tempo, a chi scrive e a chi legge».

Qualche difetto l’avrà anche il teatro.

«Più che difetti, rischi. Il rischio che la sala sia vuota, cosa che per fortuna ancora non mi è mai successa. Quando avviene, significa che quel che dici non interessa. E poi c’è anche il rischio che ti tirino pomodori, cosa che in tivù è impossibile. Anche questo ancora non mi è accaduto. Ma a teatro, utile per capire quali messaggi passano e che cosa interessa veramente alla gente, si crea quel contatto diretto impossibile altrove. Se uno sospira, lo senti. Se tossisce, te ne accorgi. Come ti accorgi se qualcuno si addormenta mentre parli... Una cura che servirebbe ai nostri giornali»

Isabella Ferrari?

«Realizza in scena una sorta di controcanto, rappresenta la parte della speranza. Mentre io descrivo il virus, lei propone l’antidoto. E per uscire da quella misteriosa epidemia che ha cloroformizzato e lobotomizzato un intero Paese, riducendolo all’anestesia totale del titolo, si affida ai testi di Indro Montanelli».

lunedì 5 dicembre 2011

I GRANDI TOUR A TRIESTE


«Stavamo per portare anche i Radiohead in piazza Unità, l’estate prossima...». Poi la band inglese è stata sistemata a Villa Manin, dove si esibirà il 4 luglio, e tutti contenti lo stesso. Ma la confidenza sfuggita al sindaco springsteeniano Roberto Cosolini è sintomatica di un cambiamento di clima e prospettive.

Sì, perchè un indizio rimane sempre e solo un indizio. Ma quando gli indizi diventano due, tre, quattro, beh, allora potremmo pensare di essere in presenza - se non di una prova - almeno di un’inversione di tendenza.

L’argomento è ovviamente il rapporto fra la musica dal vivo e Trieste, da anni considerata la cenerentola regionale dinanzi alla vitalità e alla ricca offerta di proposte di Udine e degli altri centri regionali, tutti ovviamente più piccoli del capoluogo giuliano.

La novità è che il calendario triestino dei prossimi giorni, settimane e mesi sforna un appuntamento dietro l’altro. Domani al Rossetti ci sono gli intramontabili Nomadi di Beppe Carletti, al PalaTrieste arriva lunedì 12 dicembre l’«Ora Tour» di Jovanotti, giovedì 22 di nuovo al Rossetti c’è Vinicio Capossela. Un tris dicembrino di tutto rispetto, insomma, calato in appena due settimane.

Siamo all’anno nuovo. Il 27 febbraio al Rossetti suona Johnny Winter, leggendario chitarrista blues/rock statunitense. Sempre nel maggior teatro triestino il 18 marzo è la volta di un altro mito del rock: Roger Daltrey, voce degli Who, che riproporrà l’opera rock “Tommy” e altri classici di un repertorio quarantennale.

Maggio è il mese di Biagio Antonacci, il cui nuovo tour fa tappa il giorno 22 al PalaTrieste per quello che si preannuncia come un concerto da “tutto esaurito”, con uno dei nomi di punta della canzone pop italiana.

Dulcis in fundo, il grande appuntamento dell’11 giugno allo Stadio Rocco con Bruce Springsteen: la prima volta in città del Boss, nella tappa del suo breve tour italiano (le altre sono Firenze il 7 e Milano il 10), che sta già attirando nelle prevendite l’attenzione dei fan dell’Europa centro-orientale. A Est di Trieste, il rocker di Freehold suonerà infatti soltanto a Praga e Vienna (rispettivamente l’11 e 12 luglio).

Come si vede, è già di un buon calendario. Al quale con ogni probabilità verranno aggiunti altri appuntamenti fra l’inverno e la primavera, oltre ovviamente a tutta la programmazione estiva, di cui il megaconcerto di Springsteen vogliamo sperare sia solo l’eccellente anteprima.

Da come il pubblico locale risponderà a questa inedita abbondanza (e qualità) di offerte, e da come la città saprà attirare e accogliere tutti quelli che arriveranno da lontano, dipenderà il futuro di quel rapporto con la musica dal vivo di cui si diceva.

Per anni siamo stati tagliati fuori dai circuiti internazionali e tenuti a stecchetto anche in quelli nazionali. Con la scusa che Trieste è decentrata, difficile da raggiungere, non baricentrica rispetto a Udine, demograficamente anziana, e chi più ne aveva più ne metteva.

Ora, complici i lavori previsti l’estata prossima allo Stadio Friuli di Udine e la “sensibilità” sull’argomento del sindaco springsteeniano di Trieste, la città può battere metaforicamente un colpo. Anzi quattro: one, two, three, four... Proprio come comincerà il concerto del Boss.

mercoledì 30 novembre 2011

Trieste, un miliardo per tornare mitteleuropea



di PAOLO POSSAMAI (da REPUBBLICA AFFARI e FINANZA)

S
e l’Italia dispiega un estro formidabile nel mettere i bastoni tra le ruote a chi fa impresa, Trieste manifesta impareggiabili tensioni suicide. A quale altro pezzo di mondo sarebbe riuscito di impiombare a volo Generali, quando a metà anni ’80 voleva realizzare il proprio head quarter all’interno di Porto Vecchio? Tant’è che la maggior compagnia assicurativa italiana, decise di costruire alle porte di Mestre il suo centro direzionale e la fabbrica prodotti. E il copione è stato ripetuto 56 anni fa, quando Porto Vecchio era candidato a sede dell’Expo e i campioni della conservazione sabotarono il progetto. Ebbene, stavolta potrebbero essere delusi quelli che smaniano dal desiderio che caschino definitivamente a pezzi i magnifici magazzini portuali costruiti dagli imperialregi asburgici ingegneri. In palio vi è un investimento superiore al miliardo di euro e una partita immobiliare di scala europea, e con essi il riscatto possibile di Trieste. I protagonisti dell’intervento sono le imprese di costruzioni Maltauro (406 milioni di ricavi, Ebit pari a 8,8 milioni) e RizzaniDe Eccher (ricavi consolidati per 412 milioni, Ebit per 23) con il gruppo Banca Intesa (Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo, Cassa di risparmio del Friuli Venezia Giulia) e Sinloc, tutti insieme riuniti nella società di scopo chiamata Portocittà. «Siamo in presenza di una sfida che non ha pari in Italia. La vinceremo se saremo capaci di riunire Trieste al suo mondo di riferimento naturale e storico, che è davvero la Mitteleuropa. E la vinceremo perché in questo senso ci assistono la nostra esperienza di general contractor internazionali e partners finanziari di prim’ordine. Puntiamo a coinvolgere fondi pensione non speculativi, orientati al lungo periodo, e in questo senso i nostri partners ci saranno di sicuro d’aiuto», dice Enrico Maltauro, presidente del gruppo di famiglia e amministratore delegato di Portocittà. Nelle parole di Maltauro troviamo l’eco della composizione sociale di Sinloc, che è espressione di varie Fondazioni bancarie e della Cassa Depositi e Prestiti.

Portocittà nel 2010 ha ricevuto in concessione dall’allora presidente dell’Autorità portuale, Claudio Boniciolli, per 70 anni un’area di 44 ettari, con fabbricati monumentali da recuperare per una superficie complessiva coperta di 158mila metri quadrati, edifici di nuova edificazione per 84mila metri quadrati, specchi d’acqua per 86mila metri quadrati, spazi verdi per 35mila metri quadrati, un waterfront lungo 3 chilometri e mezzo. Il tutto a trecento metri da piazza Unità d’Italia, perché il Porto Vecchio è la naturale estensione urbanistica verso Nord della città disegnata sulle saline nella prima metà del ‘700 per volere di Maria Teresa d’Austria. «Ci metteremo dieci anni a completare il mosaico. Cominceremo nel 2012 con la prima delle due darsene previste e con il restauro di due Magazzini, che si aggiungeranno al Magazzino 26 già disponibile», spiega Maltauro. Pensiamo che il Magazzino 26 è lungo 244 metri, e sui quattro piani sviluppa una superficie di quasi 30mila metri quadrati. Mattoni a vista, colonne in ghisa guarnite di capitelli corinzi, travi in ferro: il Magazzino 26 è un testo di archeologia industriale che richiama le glorie di un tempo ormai lontano, quando Vienna nell’ultimo quarto del XIX secolo impiantò a Trieste e a Amburgo i due porti dell’impero. Uno sul Mare del Nord e l’altro era l’affaccio più settentrionale del Mediterraneo, quando il Mare Nostrum veniva messo in comunicazione con il Far East tramite il canale di Suez.

Mentre Amburgo il suo porto Vecchio l’ha ampiamente recuperato e i suoi Speicherstadt sono tornati a essere motore dell’economia, Trieste si è perduta nel dedalo dei veti incrociati. E sarà da vedere, dunque, come partiranno i lavori l’anno venturo per il recupero "filologico" dei Magazzini 24 e 25 destinati a accogliere strutture di servizio alla nautica, alberghiere e di commercio. Nell’ambito dello stesso primo lotto, sarà realizzato il porticciolo per 180 approdi, chiuso dal cosiddetto Molo Zero. E forse in pari tempo sarà avviata anche la costruzione della seconda darsena da 200 posti, accanto al Molo III.

Sono importanti le darsene, in questo progetto, perché simbolicamente possono ricongiungere Trieste allo storico suo retroterra naturale, che solo in piccola parte è contenuto nei confini nazionali. La darsena per i megayacht, per esempio, implica la possibilità di offrire al grande industriale bavarese o al super manager viennese o praghese la riscoperta del suo primo affaccio al mare. Che è a Trieste, appunto. In una città che d’estate è di norma porto di servizio per le navi di proprietà dei vari Abramovich di cui la Vecchia Europa è densamente popolata, la scommessa non è configurabile come un mero azzardo. «E se la Mitteleuropa ritrova i fili della storia che la riportano a Trieste, il nostro investimento troverà il suo habitat più appropriato», rimarca Maltauro.
 


LIBRO ZAVOLI


Il fascismo e la guerra, la Liberazione e il dopoguerra, gli anni del boom e il Sessantotto, lo sbarco sulla Luna e la guerra nel Vietnam, la tragedia del terrorismo ma anche il Giro d’Italia, Rimini e Roma, Fellini e Basaglia. E ovviamente la Rai.

Esistono delle storie personali che, rilette a distanza di tanti anni, con il classico senno di poi, somigliano tanto all’autobiografia di una comunità, di una nazione. E diventano una sorta di personalissimo viaggio nella memoria di un Paese. Il Paese è ovviamente l’Italia, l’uomo che si racconta è Sergio Zavoli, il libro s’intitola “Il ragazzo che io fui” (Mondadori, pagg. 261, euro 18,50).

Ravennate, classe 1923, giornalista, alla Rai Zavoli entra giovanissimo ed è storico autore di grandi inchieste televisive negli anni Sessanta e Settanta (Montanelli lo definì “principe del giornalismo televisivo”), condirettore del Tg1, direttore del Gr1 e infine presidente dell’azienda pubblica. Da tre legislature è senatore, dal 2009 presiede la Commissione bicamerale per l’indirizzo e la vigilanza sulla Rai.

Dopo tanti libri scritti, alla vigilia dei novant’anni, era scontato che arrivasse il momento dell’autobiografia. Giunge con la formula della “lezione” a un bambino, il nipote cui lo scrittore si rivolge nella dedica (“Per Andrea, al suo bellissimo immaginare”) e già nelle prime righe che riportano il lettore indietro fino alla Rimini in bianco e nero del 1929, a una mamma che si preoccupa per il figlio, «bisognerà portarlo dal dottore...».

Da quell’episodio lontano e mai rimosso, Zavoli parte per un viaggio nel quale ripercorre il passato ma guardando sempre al futuro, al futuro del Paese e delle giovani generazioni. Attento al domani di ragazzi che pagano «il conto più alto - spiega - a questi anni colmi di recessioni non solo economiche, ma anche civili e morali. Come? Socialmente irrilevanti e politicamente estranei persino a ciò che li condanna a una sorta di supplizio per avere accesso a un elementare diritto, il lavoro, finiscono per essere chiamati “bamboccioni” perchè, disoccupati, vivono ancora tra i muri di casa».

Ma il racconto prosegue. I ricordi portano all’amico Federico Fellini, a Rimini, al cinema Fulgor. Poi Roma, gli anni della radio, l’arrivo a via Asiago 10, gli anni del Giro d’Italia, con Fausto Coppi e la “sua strana, triste bellezza”.

Un salto temporale. Nel viaggio ci sono anche gli anni del terrorismo, delle stragi, le Brigate rosse, la “Notte della Repubblica” in cui gli anni di piombo vengono rivissuti in diciotto puntate, la prima andata in onda il 12 dicembre 1989.

L’autore invita a riflettere sulla mancanza di immaginazione del nostro tempo. «Chi immagina più? Non c’è riuscito il Sessantotto che ha fatto correre per il pianeta, su e giù, la parola “contro”. Che cosa possiamo aspettarci da un tempo che oggi ha in testa solo l’utile, il pratico e il conveniente, cioè le parole dei “quartierini”? Chi parla più con le parole di tutti?».

Non manca un capitolo, intitolato “Tra giardini e boscaglie”, sull’esperienza di Franco Basaglia, che Zavoli seguì negli anni goriziani. Erano gli anni Sessanta, quando il giornalista viene a sapere di quello strano psichiatra che aveva trovato l'ardire di rimettere in libertà i “matti”. Parte con una piccola troupe televisiva e realizza per “Tv7” il reportage “I giardini di Abele”.

«Volevo documentare - spiegò una volta il giornalista - un evento straordinario non solo per il mondo della psichiatria. Aprendo le porte del manicomio, infatti, Basaglia si impegnava a restituire voce a un'umanità dimenticata. Al più debole tra gli ammalati. Cioè a colui che perde il governo della propria mente. Ricordo di avere trovato a Gorizia una grande, gioiosa novità. Per la prima volta, gli ammalati potevano varcare i cancelli di un mondo, come quello del manicomio, chiuso, blindato, esorcizzato. E fare ritorno nelle famiglie, riprendere contatto con la società. Dimenticando, almeno per un po', la loro reclusione».

Una vera e propria rivoluzione, che portò ben presto all'abolizione di metodi curativi terrificanti come i letti di contenzione e l'elettroshock. «I manicomi - scrive Zavoli nel libro, nel quale definisce la 180 “la più umana ma anche la più controversa delle leggi” - sono “ufficialmente” vuoti. Li chiusero il 31 dicembre 1996. Un malato mi aveva detto: “Si aprono le gabbie, ma molti non sanno più volare”...».

Ricordi, storie, riflessioni. Il libro, dice Zavoli, «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare “scriventista”, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall'immaginazione innocente di mia madre».

Già, l’importanza della memoria. Senza ricordo, diceva Borges, ci si avvia verso un’amnesia finale che cancella ogni traccia della nostra vita privata e pubblica: «L’importante è non chiedere alla memoria di sostituire il presente: abbiamo già avuto». E al nipote Andrea, nel commiato dopo il lungo viaggio, Zavoli lascia queste parole: «L’importante è che i ricordi risveglino le cose senza la pretesa di prenderne il posto».

domenica 27 novembre 2011

HARRISON 10


Domani sono dieci anni che se n’è andato George Harrison. E fra dieci giorni ne saranno passati trentuno da quando il folle Chapman uccise John Lennon. Ma la notizia - come dimostra anche il successo di Paul McCartney l’altra sera a Bologna, vedi nota qui a destra - è che nel mondo c’è ancora tantissima voglia di Beatles. Ovvero delle canzoni lasciateci in eredità dalla più bella avventura musicale della seconda metà del Novecento. Quattro ragazzi che sono stati in grado di cambiare musica, ma anche cultura e costume dell’ultimo mezzo secolo.

Dei quattro, George era il più giovane e forse il più defilato. Nato il 25 febbraio del '43, figlio della “working class” di Liverpool, ha solo quindici anni quando, nel ’58, si unisce a John e Paul nei Quarrymen. Nonostante l’età, è già un abile chitarrista.

Si trova in mezzo al mito quasi senza accorgersene. Da quelli che poi sarebbero diventati i Beatles, viene considerato una sorta di fratello minore. Lo chiamano “the quiet Beatle”, o anche “the sad Beatle” (il Beatle tranquillo, o triste), non può competere con il carisma e il genio dei due leader. Ma studia. E ha un suo talento, che lo porta negli anni a comporre alcune tra le più importanti canzoni del gruppo. Come “Something”, che assieme a “Yesterday” (firmata al solito Lennon-McCartney ma scritta dal solo Paul) è il loro brano più reinterpretato.

I suoi fraseggi alla chitarra solista diventano un tratto essenziale della casa. E la sua passione per il sitar caratterizzerà un classico come “Norwegian wood”. Ma il culto per l’India - che contagerà anche John e Paul - non si limita agli strumenti: già dal '65 s'immerge nella lettura nei sacri testi indiani. E poi, in piena era psichedelica, coinvolge i suoi tre compagni e li porta in India in cerca di nuove emozioni.

Dopo lo scioglimento del gruppo nel '70, continua a sfornare titoli di successo. Il più celebre è “My sweet lord”, per il quale viene però condannato per plagio (era uguale a “She's so fine”, successo delle Chiffons del '64). Nel '71 organizza gli storici concerti di beneficenza per aiutare le popolazioni del Bangladesh - antesignani dei vari Live Aid - che diventeranno anche un album di grande successo. Poi alterna momenti di silenzio ad album di buona fattura (vedi “Dark horse”).

Due anni prima di morire a Los Angeles, rischia di fare la stessa fine di Lennon: un ex tossico entra nella sua villa-fortezza inglese, vibrandogli una coltellata al torace. Se la cava. Con il cancro contro cui combatteva da anni, invece, non c’è nulla da fare.

Nel decennale della scomparsa, Martin Scorsese gli ha dedicato il film documentario “Living in the material world”, presentato l’altra sera al Torino Film Festival. Un modo per dire: George, ci manchi.

venerdì 25 novembre 2011

LIBRO BEPPE GRILLO


L’avevano già indicato come “il guastafeste”. Berlusconi non è più al governo, Monti è a Palazzo Chigi, le elezioni politiche non sono più dietro l’angolo. Ma, sempre se il Paese non crolla prima, la sinistra rivede comunque la possibilità di vincere - prima o poi - le elezioni. Si troverà sulla sua strada Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle, che al comico genovese si ispira e che già alle regionali (lo scorso anno in Piemonte, poche settimane fa in Molise) ha fatto mancare al centrosinistra voti poi risultati decisivi.

Edoardo Greblo, docente di filosofia all’Università di Trieste, ha scritto il libro “La filosofia di Beppe Grillo, il movimento 5 stelle” (Mimesis, pagg. 120, euro 12), in uscita il 23 novembre. «Fra i movimenti di opposizione - spiega lo studioso - quello che si ispira a Grillo è il più innovativo perché ha saputo valorizzare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, facendo emergere un fenomeno da noi inedito: un movimento reticolare che si aggrega grazie al web e che, attraverso la partecipazione politica diretta e la cittadinanza informata e consapevole, mira a far uscire partiti e istituzioni dall’autoreferenzialità».

Web decisivo, dunque...

«Assolutamente. La rete si è rivelata capace di creare un’alternativa alla struttura asimmetrica della comunicazione di massa, che impedisce uno scambio di ruoli tra il numero limitato degli attori e il più vasto pubblico degli spettatori muti e passivi. La sua modalità di fruizione interattiva e la sua struttura orizzontale si sono rivelate capaci di promuovere forme di interazione flessibili, aperte e democratiche, in grado di promuovere nuove possibilità di socializzazione, comunicazione, partecipazione, oltre che di creare reti sociali tra soggetti altrimenti isolati e minoritari, dotati di limitate capacità di accesso ai media tradizionali».

I grillini sono in grado di passare dalla protesta alla proposta?

«Direi di sì. Nonostante le infiammate denunce di Grillo nei confronti di partiti e istituzioni, il loro movimento non si nega a rapporti sostanzialmente “costruttivi”, come si dice, con gli amministratori di numerose realtà locali. Né rifiuta la possibilità di accostarsi a sponde politiche, se e quando la politica riscopre la sua funzione, quella di essere attività capace di incorporare esercizio intellettuale, saggezza pratica, competenza tecnica».

Grillo simbolo dell'antipolitica?

«No. L’antipolitica è espressione generica quanto ingannevole, può significare molte cose. Può essere l’espressione di una sfiducia indistinta verso tutto e verso tutti, uno stato d’animo sempre pronto a trasformarsi in una jacquerie scomposta e qualunquista. Ma qui la crisi dei partiti porta ad altro, a cittadini che mettono sotto accusa la gestione del potere piuttosto che la politica democratica e i suoi sistemi di controllo, e che cercano canali alternativi di coordinamento delle azioni collettive».

Politica che parte dal basso?

«Certo. Come nel rinnovato ciclo di mobilitazioni cui stiamo assistendo, non solo in Italia, e che mira a contrastare un’idea di democrazia limitata al gioco periodico dei sì e dei no che si conclude nella mera conta e aggregazione dei voti. Se si vuole evitare la deriva oligarchica della democrazia, il potere di intervento diretto dei cittadini deve essere previsto anche per le situazioni, fasi e contesti che preludono alle decisioni politiche.

Nel libro parla di "rinascita della fenice democratica": cosa intende?

«La reinvenzione dell’attivismo civico, ovvero i segnali sempre più numerosi di risveglio partecipativo. Sino a ieri andava di moda parlare di “postdemocrazia” per definire una situazione di frustrazione e disillusione per le istituzioni rappresentative, considerate al servizio di una minoranza potente capace di orientare il sistema politico a proprio esclusivo vantaggio. Ciò a cui stiamo assistendo sembra suggerire una prospettiva radicalmente diversa, in cui l’azione politica tende a basarsi su una titolarità di cui i protagonisti sono portatori grazie a un insieme di pratiche sociali che valorizzano l’elemento relazionale, associativo e di partecipazione civica, riscoprendo il valore della democrazia grassroots, “dal basso”».

Le accuse di populismo sono giustificate?

«Penso di no. È vero che non pochi sostengono che il Movimento 5 Stelle presenta tutti gli elementi caratteristici del populismo, a cominciare dal suo leader, che contrappone sistematicamente il popolo, inteso come un tutto indistinto e indifferenziato – Grillo si rivolge genericamente agli “italiani” – a una classe politica descritta come una casta consumata dalla corruzione».

Ma...?

«Ma il Movimento 5 Stelle, che non può essere considerato come il braccio politico di un leader carismatico, è invece uno strumento di confronto democratico, uno spazio comune in cui si incrociano esperienze culturali e provenienze politiche diverse, l’esempio forse più vistoso dell’energia e della forza legittima contenuta nella manifestazione libera e civile dell’opinione politica. Al verticismo dei partiti e al paternalismo di chi considera la politica come una forma di “educazione delle masse” oppone una politica riflessiva, reticolare e individualizzata, fatta a immagine e somiglianza della rete, di cui condivide l’orizzontalità democratica e l’assenza di un principio di autorità».

Gli attivisti dei “meet up” hanno fra i 30 e i 45 anni. Che significa?

«Che per una intera generazione i luoghi di incontro e di discussione messi a disposizione da questo movimento sono la sola occasione per far sentire la propria voce e porsi in controtendenza rispetto al potere manipolatorio e parassitario dei media e al simulacro di opinione pubblica prodotto dall’infotainment».

Ritorna l'eterno dilemma fra democrazia diretta e democrazia partecipativa?

«Per certi aspetti, sì. La funzione che si attribuisce al principale degli strumenti della democrazia diretta, il referendum, è tutt’altro che univoca, e oscilla tra interpretazioni radicali, che attribuiscono all’istituto referendario la capacità di produrre un decisivo impatto sistemico sul sistema politico, e interpretazioni più limitate, che affidano alle spinte referendarie il compito di far emergere le istanze delle realtà locali».

La democrazia partecipativa, invece...?

«La funzione che le si attribuisce – come l’ingresso negli organi amministrativi ma anche, in prospettiva, l’intervento sulle condizioni sistemiche e sulle forme istituzionali da cui dipende la vita dei cittadini – sembra essere quella di evitare un ulteriore scivolamento oligarchico della rappresentanza. In generale, l’impressione è che, almeno sul piano delle dichiarazioni di principio, il modello normativo prevalente sia costituito dalla democrazia diretta, e che la democrazia partecipativa venga considerata “concorrenziale”, piuttosto che complementare, rispetto alla democrazia rappresentativa».

Grillo pesca a sinistra, ma rischia di farla perdere. Come se ne esce?

«Difficile a dirsi. La sindrome dello scorpione è un vizio ricorrente in certi settori del mondo politico. Per uscirne non ci sono ricette. Ma sarebbe utile, per esempio, che i partiti di opposizione evitassero di proporre una politica moderata a un elettorato che è ben più radicale dei suoi rappresentanti».



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DISCHI / TIZIANO FERRO

Dieci anni di carriera, un disco nuovo, un tour che partirà ad aprile (tappa in zona: 7 maggio al Palaverde di Treviso), forse addirittura una nuova maturità creativa e interpretativa. Parliamo di Tiziano Ferro, il cantante e autore di Latina che aveva debuttato nel 2001 con “Xdono” e lunedì esce con “L’amore è una cosa semplice” (Emi), quinto album in carriera, composto da quattordici brani registrati a Los Angeles e nati «dopo aver sciolto dei nodi ed essermi liberato da alcuni fantasmi».

A tre anni dal precedente “Alla mia età”, che era rimasto cento settimane in classifica, il nostro non si siede sugli allori (in questi dieci anni è stato capace di imporsi anche a livello internazionale), non sforna la classica raccolta natalizia di successi e invece prosegue nella sua ricerca musicale che parte dal pop ma pesca a piene mani nell’elettronica, nella musica nera (si senta al proposito l’iniziale “Hai delle isole negli occhi”), persino nello swing e nella bossanova.

Album semplice e solare, in bilico fra l’anima italiana dell’artista trentunenne e la fattura americana, grazie anche a musicisti del calibro di Mike Landau (chitarra), Vinnie Colaiuta (batteria) e Reggie Hamilton (basso). C’è pure un duetto con John Legend (“Karma”), a perpetuare la tradizione di collaborazione internazionali di prestigio, come già avvenuto con Kelly Rowland e Mary J. Blige. E a far da contraltare al quale forse non bastano il brano scritto da Irene Grandi (“Paura non ho”) e un altro del rapper tricolore Nesli (“La fine”, lui è il fratello minore di Fabri Fibra). Ed è la prima volta che l’artista sceglie di inserire in un suo album brani scritti da altri.

«E’ il disco - ha detto Ferro - che sognavo di fare da anni, con le canzoni che scrivevo in segreto in un mondo che non avevo ancora affrontato. È un po’ una mia raccolta: avevo troppo materiale nuovo per non pubblicarlo, ma questo album nasce da un compendio di quello che è successo in questi anni, di quello che ho fatto, visto, conosciuto, raccolto, ascoltato».

“L’amore ti salva la vita” - anticipato dal singolo “La differenza tra me e te”, con i ritmi sincopati per lui caratteristici - è una dichiarazione d’amore per la vita e l’amore stesso, quasi un grido di liberazione e di gioia per un artista e un uomo ancora alla ricerca di se stesso ma già in gran parte riconciliato con le sue problematiche esistenziali.

Domani sera Tiziano Ferro sarà ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. Il clima sarà gradevole. Non adatto a parlare della grana riferita dal settimanale “Oggi”, secondo il quale l’Agenzia delle entrate del Lazio avrebbe notificato al cantante un avviso di accertamento fiscale di 5 milioni di euro per imposte evase, più altri 5 milioni di euro tra sanzioni e interessi. Guai che capitano alle popstar.

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DISCHI / MINA

“PICCOLINO” (Sony)

Sulla copertina stavolta sembra un’aliena. Che può permettersi di inserire nel nuovo disco una canzone sketch (contenuta solo nella versione deluxe del cd) scritta vent’anni fa da Stefano Gislon, ottico di Aviano del Friuli, che gliel’aveva mandata e non ne aveva saputo più nulla. Fino a pochi mesi fa, quando è stato chiamato negli studi di Lugano - dopo una ricerca passata anche attraverso gli uffici della Siae di Trieste - a interpretare lui stesso questa “Dottor Roberto”, nella quale la suprema Mina si limita a fare dei vocalizzi quasi di sottofondo.

Le altre canzoni sono “normali”: “L’uomo dell’autunno” di Maurizio Fabrizio, “Brucio di te” e “E così sia” di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, “Canzone maledetta” di Andrea Mingardi, “Fly away” del nipote Alex Pani, “Ainda bem” di Marisa Monte e Arnaldo Antunes, “Compagna di viaggio” di Giorgio Faletti, “Questa canzone” di Paolo Limiti e Mario Nobile (altro brano ritrovato fra le migliaia che le arrivano ogni anno, e di cui ignorava gli autori).

Il resto? La solita, inarrivabile voce di Mina. 



giovedì 17 novembre 2011

LIBRO BEATLES


A ovviamente come Apple, nome della storica casa discografica dei Beatles, ben prima di diventare la premiata “ditta” di Steve Jobs, a cui fra l’altro il libro di cui parliamo è dedicato. B come Beatlemania, fenomeno che da musicale, negli anni Sessanta, divenne ben presto sociologico e si diffuse a livello planetario. C come cinema, a ricordare il fondamentale rapporto dei quattro di Liverpool con la settima arte, da “A hard day’s night” del ’64 fino a “Let it be” del ’70. E poi avanti con tutte le lettere dell’alfabeto, giù giù fino alla Z di zuppa, dal titolo di un ricettario ispirato proprio alle canzoni dei “fab four”.

Fra i mille libri dedicati in tutti questi anni al quartetto inglese, “B come Beatles” dei triestini Eugenio e Viviana Ambrosi - che esce in questi giorni per Mgs Press - si distingue per la mole di notizie e curiosità pubblicate con la formula di questa sorta di dizionario per voci, ma anche per la riproduzione fotografica di tanti oggetti e memorabilia beatlesiani.

Copertine di giornali e ovviamente di dischi, fotografie e locandine, figurine e calendari, accendini e modellini, orologi e persino salvagenti gonfiabili a forma di “Yellow submarine”... Tutte cose che tre anni fa erano state protagoniste della mostra “Here, There, Everywhere”, organizzata a Trieste (quella volta con l’aiuto dell’altra figlia, Valentina) dallo stesso Ambrosi, fan della prima ora e grande appassionato dei quattro, che è riuscito a trasmettere la sua passione anche alla figlia, che firma con lui il libro.

«È passato quasi mezzo secolo - scrive l’autore, classe ’51, nell’introduzione - da quando ne ho sentito parlare la prima volta, quando illustri esperti del settore proclamavano autorevolmente che di lì a pochi anni non se ne sarebbe nemmeno ricordato il nome».

La confessione del primo amore continua così: «Già, il nome: all’inizio non era un problema, quello che colpiva era il sound, diremmo oggi, la vitalità di una musica nuova che sprizzava energia e che faceva passare in secondo piano la pressoché assoluta incomprensione delle parole: chi sapeva allora l’inglese? Oltretutto, io studiavo tedesco, retaggio di una cultura che a Trieste faceva trovare il tedesco sui banchi di scuola e la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” sui tavoli dei suoi caffè mitteleuropei...».

Il libro è dunque la storia di una grande passione adolescenziale, poi mantenuta e sviluppata anche nell’età adulta. Che è poi quello che è successo a tanti ex ragazzi cresciuti fra gli anni Sessanta e Settanta a pane e musica, quella musica - innanzitutto dei Beatles, poi anche di altri artisti e gruppi - che è stata parte integrante nell’evoluzione della cultura e del costume della seconda metà del Novecento. E il merito di Ambrosi è anche quello di essere riuscito a coinvolgere le due figlie, in questa sorta di “Beatlemania di famiglia”.

Fra una lettera e l’altra, ci viene ricordato che il primo a parlare dei “fab four” alla tv italiana fu il goriziano Gianni Bisiach, nel novembre ’63 a “Tv7”, storico rotocalco giornalistico della Rai in bianco e nero e con due soli canali. E poi il loro rapporto con i fumetti, quello ben più controverso con le droghe (compresa ovviamente la leggenda di “Lucy in the sky with diamonds”, in sigla “Lsd”, ma ispirata a Lennon da un disegno del figlio Julian, che aveva immaginato la compagna d’asilo Lucy sospesa in un cielo di diamanti...), le loro tante donne, i rapporti con la regina e la casa reale britannica.

Particolarmente gustosa la I di Italia. Apprendiamo infatti che un tal onorevole Greggi «interrogò il Governo per avere rassicurazioni – anche in relazione alle polemiche esplose in Inghilterra circa l’”idiozia” di certe manifestazioni – che la Rai Tv non avrebbe collaborato alla propaganda e diffusione di certi degradanti fenomeni, in particolare gli spettacoli “dei cosiddetti Beatles”, in alcuni teatri italiani». E che il sottosegretario alle Poste «ne condivise le perplessità e la tv di Stato rifiutò di trasmetterne un concerto».

Era il giugno del ’65. I Beatles arrivarono nel nostro Paese e tennero otto spettacoli a Milano, Genova e Roma. Ogni volta quattordici canzoni, solo mezz’ora in scena. Perchè dovevan esibirsi anche le star locali Peppino di Capri, New Dada e Guidone. Il quattordicenne Ambrosi non c’era, perchè il babbo - apprendiamo dal libro - non gli diede il permesso. Anche questa una storia comune a tanti, tantissimi ragazzi di allora, attirati dalla nuova musica e dai loro nuovissimi protagonisti, ma che dovevano combattere in famiglia per strappare agognati sì che non sempre arrivavano.

“B come Beatles” esce - come ricorda Massimo Polidoro nella prefazione - nel cinquantenario di un evento in qualche modo fondamentale, nella loro leggenda. Era infatti il novembre del 1961 quando Brian Epstein, una sera, a Liverpool, andò a sentirli al Cavern, il locale dove suonavano di ritorno da Amburgo. Ne aveva sentito parlare tanto, voleva verificare di persona, ne fu talmente colpito che divenne il loro manager.

Dopo qualche rifiuto, fra cui quello della Decca passato alla storia, ottenne per loro un contratto discografico con la Emi-Parlophone. Ma al produttore George Martin non piaceva il batterista, il povero Pete Best (il famoso “Beatle mancato”...) venne dunque congedato e fu assoldato Richard Starkey, alias Ringo Starr, vecchio amico di Liverpool, considerato poi alla stregua di uno che aveva trovato la schedina vincente per strada.

Tutto il resto è storia. A partire dalla pubblicazione, il 5 ottobre del ’62, del primo 45 giri “Love me do” (sul retro “I love you”. Fino ai trionfi mondiali, fino allo scioglimento e all’ultimo album, “Let it be”, uscito nel ’70 a gruppo ormai finito. John Lennon seguì la sua Yoko Ono a New York, dove venne assassinato l’8 dicembre di dieci anni dopo. Anche George Harrison è morto, di cancro, a 58 anni, il 29 novembre di dieci anni fa a Los Angeles, nella villa di Ringo Starr. Che oggi è, assieme a Paul McCartney (che apre il suo nuovo tour mondiale il 26 novembre a Bologna, con tappa il giorno dopo a Milano), uno dei due Beatles superstiti. Dicono che suoneranno di nuovo assieme. Ma noi preferiamo ricordarli tutti e quattro com’erano. Forever young.

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Se ne parla domani

al Caffè San Marco

Chi non ha mai canticchiato “All you need is love” oppure “Yellow Submarine”? E chi non ha mai sentito parlare della leggenda della morte di Paul McCartney, che sulla copertina di “Abbey Road” appare, unico dei quattro, a piedi nudi proprio per segnalare in maniera subliminale che non fa più parte del mondo dei viventi?

A questa e ad altre domande danno risposta Eugenio e Viviana Ambrosi nel libro dedicato ai Beatles che presenteranno domani, alle 18, al Caffè San Marco di Trieste. A dialogare con loro sarà il giornalista del “Piccolo” Carlo Muscatello. La prefazione a questo dizionario per voci, pubblicato da MgsPress, è firmata da Massimo Polidoro 



mercoledì 16 novembre 2011

IL GOVERNO MONTI E' REALTA'

IL GOVERNO MONTI E' REALTA'
Che strana (e bella) sensazione, abbiamo un governo di gente normale

domenica 6 novembre 2011

YVES MONTAND 20


A volte ci sono personaggi diversissimi, apparentemente molto lontani, che il caso si diverte ad accomunare. Prendete Yves Montand, scomparso giusto vent’anni fa, il 9 novembre del 1991, e Silvio Berlusconi. Quest’ultimo si vanta spesso di aver avuto nel suo repertorio, da giovane cantante sulle navi da crociera, alcuni classici del primo. Soprattutto “Le feuilles mortes” e “A Paris”, brani che tuttora ama intonare, assieme a “Que reste-t-il de nos amours” di Charles Trenet, quando nelle sue seratine non infligge all’uditorio le composizioni scritte da lui medesimo assieme al fido Apicella.

Ma il filo rosso - in onore alla fede politica del cantante e attore, ma anche all’anticomunismo viscerale del Cavaliere - che congiunge i due va in realtà cercato in una scena del film “Facciamo l’amore”, di George Cukor, con Marilyn Monroe e lo stesso Montand. Contestato da un dipendente reso sincero dall’alcol, il protagonista risponde: «Le barzellette? Lo so che i dipendenti ridono esageratamente perché le racconto io, ma che vuole, mi piace raccontarle». E subito dopo: «I braccialetti di diamanti alle signorine che cenano con me? Ma che vuole, se li aspettano...». Che dite, vi ricorda qualcosa o qualcuno?

Bando alle tristezze. E torniamo al doveroso ricordo di Ivo Livi, classe 1921, toscano di Monsummano, Pistoia. Ultimo di tre fratelli. Babbo Giovanni aveva un negozietto di casalinghi. Socialista, picchiato dalle camicie nere, con l’avvento del fascismo scappa all'estero con tutta la famiglia. Pensavano di andare in America, rimasero in Francia, a Marsiglia.

Lì, il giovane Ivo lascia presto la scuola. Fa tanti mestieri: portuale, fattorino, metalmeccanico, operaio in una fabbrica di pasta, parrucchiere per signore. Ma sogna Fred Astaire, balla e canta per strada, dove mamma Giuseppina dalla finestra lo apostrofa così: «Ivo, monta...!» (qualcosa come: «vieni a casa»). Da cui, di lì a poco, il nome d’arte.

Montand divenne chansonnier e attore, ma era anche un gran seduttore. Si considerava un francese nato in Italia. Comunista, almeno fino al Sessantotto. Insofferente ai soprusi, alle ingiustizie e agli inganni: nella vita, nello spettacolo, nella politica. E la Francia del dopoguerra, da cantante e attore che era, lo trasformò pian piano in eroe nazionale.

Nel ’38, a Marsiglia, fa le imitazioni di Charles Trenet e Maurice Chevalier e canta “scat” proprio come Louis Armstrong. Mimo, cantante, ballerino. A Parigi nel ’44 canta al Moulin Rouge, conosce Edith Piaf, più grande e molto più famosa di lui, e accade il miracolo: la grande cantante s'innamora di lui o gli regala il successo. Prima come interprete con lo show all'Etoile e poi al cinema, sempre accanto a lei, con l'esordio in “Etoile sans lumiére” (’45). Montand raggiunge subito un enorme successo con la musica, che quasi mette in ombra il lavoro di attore. Nel quale l'affermazione completa arriva solo dalla metà degli anni Cinquanta.

Nel 1960 sbarca in America. Gira con Marilyn Monroe il citato “Facciamo l'amore”, diretto da George Cukor: e i due protagonisti - nonostante Montand fosse già sposato dal ’51 con Simone Signoret, con cui formava una coppia simbolo dell’impegno politico - prendono alla lettera il titolo anche nella realtà. È il suo momento d’oro. Lo vogliono registi come Jules Dassin, John Frankenheimer, Costa Gavras, Alain Resnais, Claude Sautet, René Clement, Jules Berry...

Ma Montand non trascura la canzone: recital a Parigi e nelle più importanti capitali del mondo, con i versi di “Les feuilles mortes” e “C'est si bon”, “Barbara” e “J'aime t’embrasser ma anche”, e ancora delle più impegnate “Quand un soldat”, “Le chemin de la libertè”, “Le dormeur du val”.

Per quasi mezzo secolo Montand - amato e stimato come pochi - è il cantante e l'attore della Francia, ma anche l'artista vicino al Partito Comunista. Schierato contro il proliferare nel 1950 delle armi atomiche, contro la guerra in Indocina e in Algeria, e che solo dopo il Sessantotto cecoslovacco si allontanerà deluso dalla sinistra e dalla politica. Ciononostante, molti anni dopo, un sondaggio rivelò che il trenta per cento dei francesi vedeva in lui un buon presidente della repubblica.

Negli ultimi anni di vita, Montand aveva ritrovato la serenità accanto a Carole Amiel, molto più giovane di lui, che nell'88 gli aveva dato il figlio Valentin. Molti anni dopo Catherine, nata dal matrimonio con la Signoret. Non ha avuto invece esito la battaglia legale condotta da Aurore Drossart, una ragazza che sosteneva di essere nata da una relazione di Montand con la madre, l'attrice Anne-Gilberte Drossart, in arte Fleurange.

L'attore aveva ammesso la relazione negando però la paternità, e si era sempre rifiutato di sottoporsi al test del Dna. Che nel ’97, dopo la riesumazione della salma ordinata dal giudice, diede responso negativo. E ciò che resta di Yves Montand è tornato nella tomba del cimitero del Pere Lachaise. Fra i resti di altri grandi come lui.

mercoledì 2 novembre 2011

LUTTAZZI, CD x CINEMA


Lelio Luttazzi, innanzitutto musicista. Sì, perchè quelli di una certa età lo ricordano come presentatore, anzi, come il principe dei presentatori televisivi dell’Italia in bianco e nero degli anni Sessanta. I meno giovani non dimenticano l’Hit Parade radiofonica che conduceva negli anni Settanta sempre con brio, garbo e raffinato humour. E poche sere fa, al Festival del cinema di Roma, è stato svelato anche il Luttazzi regista, con la presentazione del suo film del ’72 “L’illazione”, che prendeva spunto dall’errore giudiziario - con conseguente, ingiusta detenzione subita: ventisette giorni di carcere nel ’70, per questioni di droga cui era estraneo - che ne sconvolse vita e carriera.

Ma il nostro grande Lelio che non c’è più, e che venne a concludere la sua vicenda terrena nella Trieste che non aveva mai dimenticato, era anche e soprattutto un musicista. Un percorso cominciato quando ragazzino andava a prendere lezioni di piano dal burbero don Krizman a Prosecco («ricordo le bacchettate sulle dita...», confessò una volta), proseguito con l’ascolto dei primi dischi di Louis Armstrong, transitato per le serate swing all’Hotel de la Ville sulle Rive triestine che dopo la guerra puppulavano di americani. Poi “Il giovanotto matto”, Milano, Torino, Roma, la Rai... Sempre nel segno della musica.

Musica che torna in due cd, “Le colonne sonore per il cinema di Lelio Luttazzi”, che escono per la Sugar, su iniziativa della fondazione intitolata al musicista, e propongono del materiale quasi interamente inedito, realizzato dall’artista appunto per il cinema.

Lavoro di ricerca e recupero - svolto dalla vedova Rossana Luttazzi, animatrice della fondazione, e dal musicista Paolo Mòsele - doppiamente meritorio, visto che i master originali erano dispersi un po’ qua e un po’ là, in condizioni spesso non buone. In certi casi, segnalano i curatori dell’opera, le condizioni erano talmente deteriorate che non è stato possibile inserire tutte le musiche ritrovate.

Il periodo abbracciato sono i vent’anni che vanno dal ’56 al ’76 (con una pausa forzata proprio fra il ’70 e il ’75, per i motivi citati). Fra i film: “Totò Peppino e la malafemmina” (’56), “Classe di ferro” (’57, con la voce e la chitarra di Fausto Cigliano), “Souvenir d’Italie” (’57, film che prendeva il titolo proprio da una canzone di Luttazzi), “Il marito bello (il nemico di mia moglie)” (’59), “Peccati d’estate” (’62), “L’ombrellone” (’65, con una superlativa Mina che canta “Chi siete?”), “Un sorriso uno schiaffo un bacio in bocca” (’75), giusto per citare solo una parte delle pellicole presenti con le loro musiche nei due cd. Film che hanno in comune il fatto di aver avuto Luttazzi protagonista come attore o come musicista nelle colonne sonore. Con canzoni, musiche, a volte solo con i titoli di testa o di coda.

Dietro le melodie, in mezzo a qualche accenno swing e persino blues, fra tributi alla canzone napoletana e citazioni dei generi alla moda che arrivavano da oltreoceano, da queste musiche emerge soprattutto il buon umore, l’allegria, l’energia, la voglia di vivere che animavano la vena creativa davvero notevole dell’artista triestino. E rispondevano al grande bisogno di leggerezza che gli italiani sentivano soprattutto nei primi dei vent’anni abbracciati dall’opera.

Citazione obbligata per le performance pianistiche del nostro in “Una zebra a pois” (da “Risate di gioia”, con Totò e Anna Magnani, del ’60) e “Come on twist” (nei titoli di testa e di coda di “Peccati d’estate”, del ’62).

In questi come negli altri brani dei cd brilla il talento - come autore, come pianista, come arrangiatore - di quel grande musicista che è stato Lelio Luttazzi. Conduttore radiofonico e televisivo, attore e regista, showman, ma soprattutto artista di quell’universo che sono le sette note.

Universo che il giovanissimo Lelio aveva cominciato a scoprire negli anni difficili della sua infanzia, con le lezioni di piano di don Krizman a Prosecco. E che per tutta la vita non ha mai smesso di esplorare.

venerdì 28 ottobre 2011

DISCHI / COLDPLAY + G Testa


D’accordo, manca un brano come “Viva la vida”. Ma a parte ciò, anche questo “Mylo Xyloto” (Emi) è un ottimo disco pop di quello che può essere considerato uno dei migliori, forse il miglior gruppo pop dell’ultimo decennio.

Arrivati al quinto album in studio, Chris Martin (che ha definito l’ultimo nato come un “concept album”, fatto di brani collegati tra loro) e compagni dimostrano di non aver esaurito la loro vena creativa, il loro tocco magico in grado di trasformare un testo, un riff, una melodia nella prossima “next big thing” della scena musicale planetaria. Magari se ne può parlar male, magari fa molto avanguardia trattarli con sufficienza, ma non si può per davvero far finta di non ascoltarli, di non riconoscerne il marchio di fabbrica dopo pochi accordi.

La ricetta? Grandi melodie e ritmi incalzanti, ma anche ballate lente e malinconiche. Due anime che in questa nuova raccolta sono presenti entrambe, anche perchè squadra che vince non si cambia. Ascoltiamo allora “Hurts like heaven”, “Charlie Brown”, “Every teardrop is a waterfall”, e poi momenti più intimisti come “Us against the world”.

Fra gli altri titoli: “Paradise” (che è stato il singolo apripista), “Major minus”, “Up in flames”, “A hopeful transmission”, “Don’t let it break your heart”, “Up with the birds”. Non si sa a quale anima ascrivere il duetto con Rihanna (molto criticato dai fan della prima ora...) in “Princess of China”: probabilmente all’anima del business, ma questo è il mondo della musica, e possiamo farci davvero poco.

Qualcuno ha anche criticato il titolo dell’album, ma qui siamo meno d’accordo: se togliamo a un artista anche la libertà di giocare con le parole, di divertirsi con un nonsense, beh, allora invece di andare avanti torniamo tristemente indietro.

Disco comunque più semplice e meno sperimentale di “Viva la vida” (pare che Brian Eno stavolta ci abbia messo meno del suo), ma non per questo meno fruibile. Anzi. Previsione facile facile: da qui a Natale, e forse oltre, sarà in testa alle classifiche di vendita. Del resto, sono i Coldplay, mica un gruppetto qualsiasi.

Da ultimo, una voce. Secondo alcuni, questo potrebbe essere l’ultimo disco di Chris Martin, Jonny Buckland, Will Champion e Guy Berryman. Lo ha fatto intendere proprio il leader, affermando che un gruppo non dovrebbe andare avanti oltre i trentatre anni (lui è del ’77).

“Abbiamo messa così tanta energia e tempo in questo disco - ha detto il bel Chris a Mail on Sunday - che non riesco a immaginarne un altro. Questo effettivamente potrebbe essere il nostro ultimo disco. Mylo Xiloto ha richiesto tre anni di lavoro e al momento attuale non abbiamo in programma altri dischi per i prossimi anni”. I fan più fedeli hanno fatto due più due. E sono caduti in depressione.



DISCHI / G. TESTA

“Vitamia”

(Egea Records)

Vive lo strano destino di continuare ad essere più amato in Francia, così vicina al suo Piemonte, che in patria. Lui se ne fa letteralmente un baffo e prosegue per la sua strada. Una strada fatta di classe e eleganza, artigianato musicale e belle canzoni.

Una strada che continua a percorrere in questo suo nuovo album, anticipato alla radio dal singolo “Nuovo” e ricco di altre perle preziose, undici, che vanno ad aggiungersi a una collana ormai lunga.

A cinque anni di distanza dal precedente “Da questa parte del mare”, disco vincitore della Targa Tenco 2007, il nuovo album - suonato tutto in diretta, in una settimana in studio - somiglia a una riflessione personale e sociale, musicalmente molto ricca, lunga mezzo secolo.

Fra i titoli: “Lasciami andare”, “Lele” (con la sorpresa di suoni armeni al violoncello), “Dimestichezze d’amor”, “Cordiali saluti”, “18 mila giorni”...

WEST SIDE STORY 50


“West Side Story” usciva nell’ottobre di cinquant’anni fa nelle sale cinematografiche, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo. Arrivava come un passaggio quasi obbligato, dopo quattro anni di enorme successo dell’omonimo musical, debuttato a Broadway nel 1957. E la risposta del pubblico fu pari e forse superiore alle attese.

Trama ormai nota. Una sorta di “Romeo e Giulietta” americano, ambientato negli anni Cinquanta a New York. Si racconta dell'amore contrastato fra due ragazzi appartenenti a mondi diversi: lei è la sorella del capo di una banda di portoricani, lui ovviamente è un ex componente dell’americanissima banda rivale. S’incontrano durante un ballo, s’innamorano, vogliono fuggire assieme e sposarsi. Ma le due bande rivali...

Tutti gli esterni del film furono girati a New York, dove i registi Robert Wise e Jerome Robbins scelsero gli scorci più decadenti e trascurati, per creare lo sfondo perfetto alle lotte tra immigrati portoricani e ragazzi americani di umili origini.

Memorabili le prime scene del film, nelle quali si vede New York dall'alto, con la macchina da presa che scende su un gruppo di giovani americani intenti a far nulla in un cortile. La noia viene spezzata dall’incontro con un gruppo di coetanei portoricani, basta una scintilla per innescare la rissa, fino all’arrivo della macchina della polizia... Sei minuti d’azione, scanditi dalla grande musica di Leonard Bernstein.

Sì, perchè a teatro come al cinema, la musica ebbe un ruolo importante nell’enorme successo dell’opera. Brani come “America” (il cui testo originale venne cambiato, perchè considerato in certi passaggi razzista nei confronti dei portoricani), “Maria” e “Somewhere” - opera del genio di Bernstein e Stephen Sondheim - sono infatti rimasti nella storia della musica del Novecento.

Una curiosità. Inizialmente, il musical teatrale doveva proporre una differenza etnica ma anche religiosa fra i due ragazzi (lui cattolico, lei ebrea). E il titolo doveva essere “East Side Story”. Ma erano anni di immigrati portoricani, che fra gli anni Quaranta e Cinquanta stavano ridisegnando il volto di New York. E si decise per un impianto - e un titolo - diverso.

Scelta evidentemente azzeccata. Visto lo straordinario successo del film, premiato nel 1962 da dieci Oscar, grazie a una miscela irresistibile: la storia, la fotografia, ma soprattutto le coreografie e la grande, intramontabile musica.