La corruzione, ai piccoli e ai grandi livelli, è uno dei mali apparentemente inestirpabili del nostro tempo. E ovviamente non si tratta di un problema solo italiano, alligna infatti sotto ogni latitudine. John Grisham ne ha fatto il fulcro del suo nuovo romanzo, intitolato “L’informatore” (nell’originale “The whistler”), edito in Italia da Mondadori (pagg. 332, euro 22).
Una giudice intasca mazzette con molti zeri da un’organizzazione mafiosa, proprietaria di un casinò costruito illegalmente su un terreno di proprietà dei nativi americani, gli indiani, insomma. In cambio della paghetta, la donna è abituata a chiudere un occhio sulle illegalità che l’organizzazione regolarmente pratica. E le sue sentenze finiscono sempre con l’avvantaggiare il gruppo criminale che la stipendia.
Ma c’è un avvocato radiato dall’albo che è tornato al lavoro sotto falso nome. Un giorno si presenta nello studio di un’investigatrice di una commissione deputata proprio a controllare la condotta dei giudici. Vuole infatti porre fine alla terribile teoria di corruzione e illegalità, condita quando occorre anche da omicidi, che dura da anni. Vuole farlo con l’aiuto di un informatore che sembra essere a conoscenza di parecchi particolari sulla vita privata della giudice. E visto che c’è, intende anche intascare il premio di legge, come previsto dallo stato della Florida. Ma la faccenda si rivelerà molto più pericolosa del previsto.
L’inventore del legal thriller, che ha costruito la sua fortuna letteraria anche attingendo agli anni ormai lontani trascorsi come avvocato nelle aule di tribunale, torna dunque alla carica con una di quelle storie cariche di adrenalina alle quali ci ha ormai abituati, sin dai tempi dell’esordio nel 1988 con “Il momento di uccidere”. Sono passati ventotto anni e anche il cinema ha pescato negli oltre trenta romanzi che ha scritto (compresi alcuni titoli per ragazzi), venduti in milioni di copie in tutto il mondo.
“L’informatore” s’iscrive nella miglior tradizione della casa. Assieme ai precedenti “I segreti di Gray Mountain” (2014) e “L’avvocato canaglia” (2015), il romanzo riporta Grisham ai livelli che conoscevamo. Niente di più facile che Hollywood stia già pensando a una trasposizione cinematografica.
...sogni e bisogni fra musica e spettacolo, cultura e politica, varie ed eventuali... (blog-archivio di articoli pubblicati + altre cose) (già su splinder da maggio 2003 a gennaio 2012, oltre 11mila visualizzazioni) (altre 86mila visualizzazioni a oggi su blogspot...) (twitter@carlomuscatello)
sabato 31 dicembre 2016
martedì 27 dicembre 2016
ANNUS HORRIBILIS DA BOWIE A GMICHAEL
Quasi un bollettino di guerra, questo 2016, per il mondo del pop e del rock. David Bowie scompare ai primi di gennaio, ha sessantanove anni, è appena uscito il suo album “Blackstar”, con il senno di poi un vero e proprio testamento.
Sempre a gennaio altri due addii importanti: Glenn Frey, chitarrista degli Eagles, sessantotto anni, e Paul Kantner, dei Jefferson Airplane, settantaquattro anni. A febbraio scompare a settantaquattro anni Maurice White, degli Earth Wind & Fire.
Siamo a marzo, a novant’anni se ne va George Martin, produttore dei Beatles, al punto da essere chiamato “il quinto Beatle”. A ruota muore Keith Emerson, suicida a settantuno anni per una depressione seguita a una malattia che non gli permette più di suonare, celebre tastierista del trio con Lake e Palmer. Passano nove mesi e ai primi di dicembre scompare anche Greg Lake, sessantanove anni, un passato anche con i primissimi King Crimson. Ma marzo è anche il mese che si porta via Gianmaria Testa, il cantautore capostazione, piemontese amatissimo - sulle orme di Paolo Conte - soprattutto in Francia. Ha cinquantasette anni.
Aprile è il mese di Prince, genietto di Minneapolis, la cui stella ha brillato soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Ha cinquantotto anni. Un suo splendido (e struggente) brano s’intitolava “Sometimes it snows in april”, a volte nevica ad aprile...
Sempre ad aprile tace il sax di Gato Barbieri, argentino, ottantaquattro anni, celebre fra l’altro per la colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi” e, in Italia, per un sontuoso assolo in “Modena” di Venditti.
A novembre muore Leon Russell, settantaquattro anni, americano dell’Oklahoma, pianista che ha collaborato con mezzo mondo. E in particolare con Joe Cocker nel tour “Mad dogs & englishmen”. E se ne va anche Leonard Cohen, il grande poeta, romanziere e cantautore canadese. Ha ottantadue anni, ha appena pubblicato l’album “You want it darker”, pervaso da presagi di morte. Pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, muore Rick Parfitt, chitarrista degli Status Quo.
Sempre a gennaio altri due addii importanti: Glenn Frey, chitarrista degli Eagles, sessantotto anni, e Paul Kantner, dei Jefferson Airplane, settantaquattro anni. A febbraio scompare a settantaquattro anni Maurice White, degli Earth Wind & Fire.
Siamo a marzo, a novant’anni se ne va George Martin, produttore dei Beatles, al punto da essere chiamato “il quinto Beatle”. A ruota muore Keith Emerson, suicida a settantuno anni per una depressione seguita a una malattia che non gli permette più di suonare, celebre tastierista del trio con Lake e Palmer. Passano nove mesi e ai primi di dicembre scompare anche Greg Lake, sessantanove anni, un passato anche con i primissimi King Crimson. Ma marzo è anche il mese che si porta via Gianmaria Testa, il cantautore capostazione, piemontese amatissimo - sulle orme di Paolo Conte - soprattutto in Francia. Ha cinquantasette anni.
Aprile è il mese di Prince, genietto di Minneapolis, la cui stella ha brillato soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Ha cinquantotto anni. Un suo splendido (e struggente) brano s’intitolava “Sometimes it snows in april”, a volte nevica ad aprile...
Sempre ad aprile tace il sax di Gato Barbieri, argentino, ottantaquattro anni, celebre fra l’altro per la colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi” e, in Italia, per un sontuoso assolo in “Modena” di Venditti.
A novembre muore Leon Russell, settantaquattro anni, americano dell’Oklahoma, pianista che ha collaborato con mezzo mondo. E in particolare con Joe Cocker nel tour “Mad dogs & englishmen”. E se ne va anche Leonard Cohen, il grande poeta, romanziere e cantautore canadese. Ha ottantadue anni, ha appena pubblicato l’album “You want it darker”, pervaso da presagi di morte. Pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, muore Rick Parfitt, chitarrista degli Status Quo.
L'ADDIO A GEORGE MICHAEL
L’annus horribilis della musica si è portato via anche George Michael. La popstar inglese è morta il giorno di Natale. Arresto cardiaco mentre si trovava nella sua dimora londinese. Il suo vero “Last Christmas”, insomma, come il mondo dei social ha subito rilanciato ieri mattina, citando quello che era stato il suo più grande successo ai tempi degli Wham! Erano gli anni Ottanta. La carriera del duo più patinato della storia del pop durò appena cinque anni, dal 1981 al 1986. Sufficienti a lasciare un segno indelebile nella memoria musicale che abbiamo di quel periodo.
George Michael - vero nome Georgios Kyriacos Panayiotou, classe ’63, padre di origine greco cipriota - e il suo sodale Andrew Ridgeley, entrambi eleganti e bellocci, scelgono il nome ispirandosi a quelle tipiche onomatopee utilizzate nei fumetti (bang, slam, slurp...). Per un breve periodo, agli inizi, sono anche costretti a farsi chiamare - perlomeno negli Stati Uniti - “Wham! U.K.”, per non confondersi con un’altra band omonima e di precedente formazione che era abbastanza nota nel continente a stelle e strisce.
In una scena musicale stretta fra retaggi punk, cascami new wave e vecchio sano solido rock’n’roll (dall’altra parte dell’oceano le quotazioni di un certo Bruce Springsteen stavano infatti crescendo a vista d’occhio...), i giovanissimi George e Andrew si impongono come dorati testimonial di una vita spensierata, senza problemi, incline al divertimento. I campioni musicali, insomma, di quell’”edonismo reaganiano” raccontato negli stessi anni in Italia da Roberto D’Agostino a “Quelli della notte”. Ascoltare e vedere per credere i primi singoli con relativi videoclip del duo: “Careless whisper”, la citata “Last Christmas”, “Wake me up before you go-go”...
Nella loro breve carriera gli Wham! realizzano quattro album (“Fantastic”, “Make it big”, “Music from the edge of heaven”, “The final”), cui segue una decina d’anni dopo lo scioglimento “If you were there (The best of Wham!)”. Ma i materiali audio e video anche non ufficiali sono tantissimi. Ne abbiamo avuto testimonianza l’estate scorsa in una mostra al Visionario di Udine.
Fra l’altro, nell’aprile dell’85 gli Wham! sono il primo gruppo pop-rock occidentale a suonare nella Cina comunista. Due concerti, a Pechino e a Canton, in un momento in cui il Paese è ancora molto chiuso all’esterno e i due sono all’apice del successo.
Il megaconcerto “The final”, allo stadio di Wembley, nel giugno ’86 chiude col botto la carriera del duo. Soffocato dall’ego proprio di George Michael, impaziente di abbracciare una carriera solista che gli avrebbe portato altrettanti e forse ancor maggiori trionfi.
Da un lato la sua voce straordinaria, aggressiva e suadente, dall’altro una vita quasi “borderline”, vissuta di eccesso in eccesso, fra droga, guida in stato di ebbrezza, arresti, condanne, omosessualità prima nascosta e poi vissuta in maniera spericolata. Il coming out arriva solo nel ’98, quando viene accusato di atti osceni per delle avance a un poliziotto in borghese in un bagno di Beverly Hills. Per i tabloid è ovviamente un invito a nozze.
Soprattutto prima ma anche durante, i tour e gli album milionari si sprecano. Come “Faith” (’87), “Listen without prejudice Vol. 1” (’90), “Older” (’96), “Songs from the last century” (’99), fino a “Patience” del 2004. E senza contare le raccolte e i “live”.
Gli ultimi anni li trascorre più defilato. Nel 2011 a Vienna rischia la vita per una polmonite, si rimette in tempo per l’ultimo tour e la performance alla chiusura delle Olimpiadi londinesi del 2012. Poi l’addio, il giorno di Natale. Last Christmas, appunto.
George Michael - vero nome Georgios Kyriacos Panayiotou, classe ’63, padre di origine greco cipriota - e il suo sodale Andrew Ridgeley, entrambi eleganti e bellocci, scelgono il nome ispirandosi a quelle tipiche onomatopee utilizzate nei fumetti (bang, slam, slurp...). Per un breve periodo, agli inizi, sono anche costretti a farsi chiamare - perlomeno negli Stati Uniti - “Wham! U.K.”, per non confondersi con un’altra band omonima e di precedente formazione che era abbastanza nota nel continente a stelle e strisce.
In una scena musicale stretta fra retaggi punk, cascami new wave e vecchio sano solido rock’n’roll (dall’altra parte dell’oceano le quotazioni di un certo Bruce Springsteen stavano infatti crescendo a vista d’occhio...), i giovanissimi George e Andrew si impongono come dorati testimonial di una vita spensierata, senza problemi, incline al divertimento. I campioni musicali, insomma, di quell’”edonismo reaganiano” raccontato negli stessi anni in Italia da Roberto D’Agostino a “Quelli della notte”. Ascoltare e vedere per credere i primi singoli con relativi videoclip del duo: “Careless whisper”, la citata “Last Christmas”, “Wake me up before you go-go”...
Nella loro breve carriera gli Wham! realizzano quattro album (“Fantastic”, “Make it big”, “Music from the edge of heaven”, “The final”), cui segue una decina d’anni dopo lo scioglimento “If you were there (The best of Wham!)”. Ma i materiali audio e video anche non ufficiali sono tantissimi. Ne abbiamo avuto testimonianza l’estate scorsa in una mostra al Visionario di Udine.
Fra l’altro, nell’aprile dell’85 gli Wham! sono il primo gruppo pop-rock occidentale a suonare nella Cina comunista. Due concerti, a Pechino e a Canton, in un momento in cui il Paese è ancora molto chiuso all’esterno e i due sono all’apice del successo.
Il megaconcerto “The final”, allo stadio di Wembley, nel giugno ’86 chiude col botto la carriera del duo. Soffocato dall’ego proprio di George Michael, impaziente di abbracciare una carriera solista che gli avrebbe portato altrettanti e forse ancor maggiori trionfi.
Da un lato la sua voce straordinaria, aggressiva e suadente, dall’altro una vita quasi “borderline”, vissuta di eccesso in eccesso, fra droga, guida in stato di ebbrezza, arresti, condanne, omosessualità prima nascosta e poi vissuta in maniera spericolata. Il coming out arriva solo nel ’98, quando viene accusato di atti osceni per delle avance a un poliziotto in borghese in un bagno di Beverly Hills. Per i tabloid è ovviamente un invito a nozze.
Soprattutto prima ma anche durante, i tour e gli album milionari si sprecano. Come “Faith” (’87), “Listen without prejudice Vol. 1” (’90), “Older” (’96), “Songs from the last century” (’99), fino a “Patience” del 2004. E senza contare le raccolte e i “live”.
Gli ultimi anni li trascorre più defilato. Nel 2011 a Vienna rischia la vita per una polmonite, si rimette in tempo per l’ultimo tour e la performance alla chiusura delle Olimpiadi londinesi del 2012. Poi l’addio, il giorno di Natale. Last Christmas, appunto.
giovedì 22 dicembre 2016
FIENGO, NEL "CUORE DEL POTERE"
Dalle “interferenze” - per restare all’eufemismo - della P2 a quelle più sottili del marketing. Con tutto quello che c’è stato prima e ci sarà dopo. È la storia recente del Corriere della Sera, raccontata con gli occhi - e la memoria - di Raffaele Fiengo, che per tanti anni ne è stato giornalista e sindacalista. Sempre dalla parte della redazione e dunque dei lettori, dell’indipendenza della testata, dell’autonomia dai poteri forti e meno forti. Un lungo lavoro di ricerca ha prodotto “Il cuore del potere” (pagg. 393, euro 19, edizioni Chiare Lettere). Sorta di biografia “non autorizzata” dei decenni recenti del Corrierone, nato nel 1876.
De Bortoli diceva che il Corriere è “istituzione di garanzia del Paese”. È d’accordo?
«La definizione ha il suo fascino. Ma ha sempre indicato più un orizzonte che una realtà. Anche se nemmeno la P2 è riuscita a espugnare il giornale. Ha preso addirittura la proprietà, l’amministrazione, la direzione con Franco Di Bella. È riuscita a inquinare, a porre delle basi per un progetto: non un golpe, ma il controllo capillare del Paese. Ma non ha saputo e potuto occupare davvero il giornale».
Quando si accorse che la P2 era entrata in via Solferino?
«Le anomalie crescenti si erano presentate un po’ alla volta, nella proprietà e nel giornale stesso. Ma non c’erano elementi per pensare addirittura a una proprietà occulta organizzata. È stato un processo lento, durato quattro anni. Poi Gelli venne allo scoperto con la famosa intervista di Maurizio Costanzo in terza pagina, nell’ottobre 1980. Ma solo con la pubblicazione della lista del 21 maggio 1981, con i 793 nomi degli iscritti trovata a Castiglion Fibocchi, emerse la verità».
Lei è entrato al Corriere nel ’69. Che giornale era?
«Sono arrivato in terza pagina poco prima delle bombe di piazza Fontana. Redazione imbalsamata in modalità di lavoro autoritarie e fuori dal tempo. Ogni redattore “passava” la notizia che gli veniva affidata senza alzare nemmeno lo sguardo dal tavolone della Sala Albertini, costruito come copia di quello del “Times” di Londra. I redattori apprendevano i fatti che venivano pubblicati il giorno dopo nelle altre pagine soltanto dalla prima copia che arrivava dopo la mezzanotte, fresca di stampa dalla tipografia».
La chiamavano il “Soviet di via Solferino”...
«Ci ridevamo sopra. Guido Azzolini, compagno di stanza, cucì una stella rossa di stoffa sul mio berretto alla Lenin. E Paolo Murialdi, storico del giornalismo, da Mosca mi mandò una cartolina con Lenin scrivendo: “stesso cappello, ma che testa diversa”».
Il miglior direttore che ha avuto?
«Sono tre. Alexander Stille (che firma la prefazione del libro - ndr): “Il Corriere della Sera è un quotidiano indipendente con una chiara vocazione europea, libero da ogni condizionamento politico ed economico, sia esterno che interno”; Piero Ottone: “Informare significa, oltre che riferire gli avvenimenti, esplorarne le cause più profonde, indagare sui retroscena, non nascondere nulla”; Alberto Cavallari: “Dobbiamo deve fare un giornale libero, garantire l’informazione più completa, cercare poi la cosiddetta verità possibile, registrare la dialettica tra molte verità per tentare di raggiungere la verità stessa, o almeno la non-menzogna"».
Il recente arrivo di Urbano Cairo?
«È un editore. Capirà che occorrono più giornalisti, e non meno, per superare la forte tendenza alla gratuità in chi legge? Capirà che una vera indipendenza come quella proposta da Luigi Einaudi è il migliore fattore della qualità, anche sul mercato? Lo vedremo presto»
Il rapporto fra marketing e informazione?
«Un forte marketing ha mantenuto un po’ in piedi molti bilanci. Sono diventate “notiziabili” informazioni che prima non lo erano, soprattutto nel weekend. Anche la pubblicità diventa “nativa” e fa contenuti anzichè propaganda. Tutto bene, a condizione che resti anche su questi terreni #journalismfirst, il giornalismo per prima cosa».
Web: tutto oro quel che brilla?
«Mi piace l’allargamento dell’informazione che non si ferma alle élite, con internet, facebook, twitter e instagram, il giornalismo che arriva a tutti. Ma “l’acqua deve raggiungere anche l’ultimo campo di riso” chiara e pulita. Chiudo il libro proprio con una bella regola dell’isola di Bali».
Ce la ricorda?
«Nei villaggi di montagna, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell’ultimo campo a terrazza raggiunto dall’acqua. Questa organizzazione della comunità (il “Subak”) funziona bene e assicura due raccolti l’anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all’aperto, scolmatoi), perché l’acqua possa compiere l’intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi a irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti».
Che nel giornalismo significa?
«Che questo risultato lo può ottenere solo il giornalismo tutelato e responsabilizzato, dovunque sia. Dunque anche il giornalismo dei blog, dei freelance, dei colleghi precari. La questione è molto urgente. Altrimenti abbiamo Brexit e Trump. Per ora».
De Bortoli diceva che il Corriere è “istituzione di garanzia del Paese”. È d’accordo?
«La definizione ha il suo fascino. Ma ha sempre indicato più un orizzonte che una realtà. Anche se nemmeno la P2 è riuscita a espugnare il giornale. Ha preso addirittura la proprietà, l’amministrazione, la direzione con Franco Di Bella. È riuscita a inquinare, a porre delle basi per un progetto: non un golpe, ma il controllo capillare del Paese. Ma non ha saputo e potuto occupare davvero il giornale».
Quando si accorse che la P2 era entrata in via Solferino?
«Le anomalie crescenti si erano presentate un po’ alla volta, nella proprietà e nel giornale stesso. Ma non c’erano elementi per pensare addirittura a una proprietà occulta organizzata. È stato un processo lento, durato quattro anni. Poi Gelli venne allo scoperto con la famosa intervista di Maurizio Costanzo in terza pagina, nell’ottobre 1980. Ma solo con la pubblicazione della lista del 21 maggio 1981, con i 793 nomi degli iscritti trovata a Castiglion Fibocchi, emerse la verità».
Lei è entrato al Corriere nel ’69. Che giornale era?
«Sono arrivato in terza pagina poco prima delle bombe di piazza Fontana. Redazione imbalsamata in modalità di lavoro autoritarie e fuori dal tempo. Ogni redattore “passava” la notizia che gli veniva affidata senza alzare nemmeno lo sguardo dal tavolone della Sala Albertini, costruito come copia di quello del “Times” di Londra. I redattori apprendevano i fatti che venivano pubblicati il giorno dopo nelle altre pagine soltanto dalla prima copia che arrivava dopo la mezzanotte, fresca di stampa dalla tipografia».
La chiamavano il “Soviet di via Solferino”...
«Ci ridevamo sopra. Guido Azzolini, compagno di stanza, cucì una stella rossa di stoffa sul mio berretto alla Lenin. E Paolo Murialdi, storico del giornalismo, da Mosca mi mandò una cartolina con Lenin scrivendo: “stesso cappello, ma che testa diversa”».
Il miglior direttore che ha avuto?
«Sono tre. Alexander Stille (che firma la prefazione del libro - ndr): “Il Corriere della Sera è un quotidiano indipendente con una chiara vocazione europea, libero da ogni condizionamento politico ed economico, sia esterno che interno”; Piero Ottone: “Informare significa, oltre che riferire gli avvenimenti, esplorarne le cause più profonde, indagare sui retroscena, non nascondere nulla”; Alberto Cavallari: “Dobbiamo deve fare un giornale libero, garantire l’informazione più completa, cercare poi la cosiddetta verità possibile, registrare la dialettica tra molte verità per tentare di raggiungere la verità stessa, o almeno la non-menzogna"».
Il recente arrivo di Urbano Cairo?
«È un editore. Capirà che occorrono più giornalisti, e non meno, per superare la forte tendenza alla gratuità in chi legge? Capirà che una vera indipendenza come quella proposta da Luigi Einaudi è il migliore fattore della qualità, anche sul mercato? Lo vedremo presto»
Il rapporto fra marketing e informazione?
«Un forte marketing ha mantenuto un po’ in piedi molti bilanci. Sono diventate “notiziabili” informazioni che prima non lo erano, soprattutto nel weekend. Anche la pubblicità diventa “nativa” e fa contenuti anzichè propaganda. Tutto bene, a condizione che resti anche su questi terreni #journalismfirst, il giornalismo per prima cosa».
Web: tutto oro quel che brilla?
«Mi piace l’allargamento dell’informazione che non si ferma alle élite, con internet, facebook, twitter e instagram, il giornalismo che arriva a tutti. Ma “l’acqua deve raggiungere anche l’ultimo campo di riso” chiara e pulita. Chiudo il libro proprio con una bella regola dell’isola di Bali».
Ce la ricorda?
«Nei villaggi di montagna, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell’ultimo campo a terrazza raggiunto dall’acqua. Questa organizzazione della comunità (il “Subak”) funziona bene e assicura due raccolti l’anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all’aperto, scolmatoi), perché l’acqua possa compiere l’intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi a irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti».
Che nel giornalismo significa?
«Che questo risultato lo può ottenere solo il giornalismo tutelato e responsabilizzato, dovunque sia. Dunque anche il giornalismo dei blog, dei freelance, dei colleghi precari. La questione è molto urgente. Altrimenti abbiamo Brexit e Trump. Per ora».
lunedì 12 dicembre 2016
CORRADO RUSTICI stasera A UDINE
Quando nel ’75 ha lasciato Napoli aveva diciotto anni. Prima tappa Londra, poi il salto oltreoceano: Colorado, Los Angeles, San Francisco. Dove vive tuttora. E nel frattempo è diventato uno dei più importanti produttori discografici internazionali. Ha lavorato fra gli altri con Herbie Hancock, Whitney Houston, Aretha Franklin, George Benson, Elton John. Fra gli italiani: Zucchero, De Gregori, Baglioni, Ligabue, Bocelli, Elisa, Negramaro...
Corrado Rustici è stasera a Udine, dove alle 21, al Palamostre, fa tappa il tour di presentazione del suo album “Aham”. Con lui sul palco due ex Simple Minds: Peter Vettese alle tastiere (anche con Jethro Tull, Annie Lennox, Carly Simon, Clannad) e Mel Gaynor alla batteria (Elton John, Lou Reed, Tina Turner, Peter Gabriel, Brian May). Apre il concerto un set acustico del giovanissimo talento chitarristico croato, Frano Zivkovic, appena undici anni, pupillo di Tommy Emmanuel.
“Aham” in sanscrito significa “Io sono”: e lei, Rustici, chi è oggi?
«Partendo da questa parola ho cominciato a indagare, seriamente e profondamente, sulla natura del mio essere e, di conseguenza, sull’essenzialità di ciò che percepisco come “musica”. È un percorso complesso, ancora non ultimato, per giungere al senso di tutto».
L’album?
«Ci ho lavorato sei anni. Quando ho cominciato ho deciso di esplorare sonorità e contesti musicali avvalendomi della chitarra come unica fonte sonora e come unico campo di sperimentazione, nel quale scoprire fino a che punto questo strumento, e io stesso, saremmo potuti arrivare. Due brani cantati, gli altri sono strumentali».
Perchè lasciò l’Italia?
«Con il gruppo Il Cervello avevamo fatto un album che non aveva avuto alcun riscontro, c’era il pop italiano, il “neapolitan power”, mio fratello Danilo suonava negli Osanna. Mi rendevo conto che l’Italia era periferia musicale, volevo capire, conoscere. Londra fu il primo passo, ma il vero salto furono gli Stati Uniti: all’epoca era come dire “andiamo su Marte”, mi sentivo un po’ Cristoforo Colombo, c’erano molte difficoltà, non ci si spostava e non si comunicava mica come adesso».
L’incontro fondamentale?
«Quello con Aretha Franklin, mi ha cambiato la vita. Prima di lei la musica era diversa, lavorando con lei ho imparato tantissimo».
Poi vennero a cercarla gli italiani.
«Il primo fu Zucchero. La sua carriera non ingranava. Venne a Los Angeles, gli misi a disposizione quel che avevo imparato, scoprimmo assieme che potevamo proporre un sound internazionale che aveva una marcia in più. Poi col passaparola arrivarono gli altri: diciamo che sono diventato un ponticello di legno fra Italia e Stati Uniti. In tempi di muri non mi sembra male...».
Fra i tanti, anche Elisa.
«Me la mandò Caterina Caselli, era giovanissima, rimase sei mesi in California. Il suo album d’esordio è nato lì, poi è successo tutto il resto. Le sono molto affezionato».
Ora che farà?
«Con le megaproduzioni sono fermo. Viviamo un momento di buio epocale, di riciclaggio continuo, nel quale il copia-incolla vuol diventare creazione. Al punto in cui sono arrivato faccio le cose per affetto o perchè ci credo. Per questo mi sono un po’ fermato, mi dedico a mio figlio che ha quattro anni, a questo album e poi...»
Dica.
«A luglio andiamo a Tokyo con i vecchi ragazzi del Cervello. Come tanto “prog” italiano degli anni Settanta, abbiamo scoperto che il nostro album lì è molto amato. Incredibile, non trova?»
Corrado Rustici è stasera a Udine, dove alle 21, al Palamostre, fa tappa il tour di presentazione del suo album “Aham”. Con lui sul palco due ex Simple Minds: Peter Vettese alle tastiere (anche con Jethro Tull, Annie Lennox, Carly Simon, Clannad) e Mel Gaynor alla batteria (Elton John, Lou Reed, Tina Turner, Peter Gabriel, Brian May). Apre il concerto un set acustico del giovanissimo talento chitarristico croato, Frano Zivkovic, appena undici anni, pupillo di Tommy Emmanuel.
“Aham” in sanscrito significa “Io sono”: e lei, Rustici, chi è oggi?
«Partendo da questa parola ho cominciato a indagare, seriamente e profondamente, sulla natura del mio essere e, di conseguenza, sull’essenzialità di ciò che percepisco come “musica”. È un percorso complesso, ancora non ultimato, per giungere al senso di tutto».
L’album?
«Ci ho lavorato sei anni. Quando ho cominciato ho deciso di esplorare sonorità e contesti musicali avvalendomi della chitarra come unica fonte sonora e come unico campo di sperimentazione, nel quale scoprire fino a che punto questo strumento, e io stesso, saremmo potuti arrivare. Due brani cantati, gli altri sono strumentali».
Perchè lasciò l’Italia?
«Con il gruppo Il Cervello avevamo fatto un album che non aveva avuto alcun riscontro, c’era il pop italiano, il “neapolitan power”, mio fratello Danilo suonava negli Osanna. Mi rendevo conto che l’Italia era periferia musicale, volevo capire, conoscere. Londra fu il primo passo, ma il vero salto furono gli Stati Uniti: all’epoca era come dire “andiamo su Marte”, mi sentivo un po’ Cristoforo Colombo, c’erano molte difficoltà, non ci si spostava e non si comunicava mica come adesso».
L’incontro fondamentale?
«Quello con Aretha Franklin, mi ha cambiato la vita. Prima di lei la musica era diversa, lavorando con lei ho imparato tantissimo».
Poi vennero a cercarla gli italiani.
«Il primo fu Zucchero. La sua carriera non ingranava. Venne a Los Angeles, gli misi a disposizione quel che avevo imparato, scoprimmo assieme che potevamo proporre un sound internazionale che aveva una marcia in più. Poi col passaparola arrivarono gli altri: diciamo che sono diventato un ponticello di legno fra Italia e Stati Uniti. In tempi di muri non mi sembra male...».
Fra i tanti, anche Elisa.
«Me la mandò Caterina Caselli, era giovanissima, rimase sei mesi in California. Il suo album d’esordio è nato lì, poi è successo tutto il resto. Le sono molto affezionato».
Ora che farà?
«Con le megaproduzioni sono fermo. Viviamo un momento di buio epocale, di riciclaggio continuo, nel quale il copia-incolla vuol diventare creazione. Al punto in cui sono arrivato faccio le cose per affetto o perchè ci credo. Per questo mi sono un po’ fermato, mi dedico a mio figlio che ha quattro anni, a questo album e poi...»
Dica.
«A luglio andiamo a Tokyo con i vecchi ragazzi del Cervello. Come tanto “prog” italiano degli anni Settanta, abbiamo scoperto che il nostro album lì è molto amato. Incredibile, non trova?»
sabato 10 dicembre 2016
DON'T STOP THE PRESS, sab 10-12 a TRIESTE
Sabato 10 dicembre si terrà a Trieste "Don’t stop the press", iniziativa organizzata per celebrare la Giornata mondiale dei diritti umani dal gruppo Friuli Venezia Giulia del Comitato Giovani della Commissione nazionale italiana per l'Unesco e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste.
Il dibattito si terrà al Caffè Tommaseo sabato dalle 11 alle 13. I relatori – esperti in materia di libertà di stampa, libertà di espressione e di diritti umani – accompagneranno il pubblico alla scoperta di quanto ancora non si conosce, o si conosce poco, relativamente a questo argomento.
Aprirà la giornata Roberto Vitale, professore dell'Università di Trieste, con una relazione su "Diritti Umani, dalla censura alla nuova frontiera dell’informazione". Seguirà Carlo Muscatello, giornalista del quotidiano Il Piccolo e presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia, che parlerà della "Libertà di informazione oggi in Italia, fra carcere per i giornalisti, leggi bavaglio, querele temerarie e giornalisti sotto scorta". Il terzo intervento sarà a cura di Fiodor Nicola Misuri, responsabile circoscrizionale per Amnesty International Friuli Venezia Giulia, il quale creerà un percorso a partire dagli "Human Rights Defenders", passando per una campagna di Amnesty International e terminerà con i casi della Write for Rights 2016.
"Don’t stop the press" si inquadra nell’ambito dei diversi eventi che, in tutta Italia, il Comitato Giovani Unesco ha organizzato per celebrare la Giornata mondiale dei diritti umani, in modo capillare e coordinato, su tutto il territorio nazionale.
«Crediamo che i valori e gli ideali alla base di questa importante iniziativa internazionale, debbano essere promossi anche e soprattutto tra i giovani. Quest’anno abbiamo deciso di affrontare, all’interno della Giornata, il tema particolarmente attuale della libertà di stampa e di espressione». commenta Paolo Petrocelli, presidente del Comitato Giovani.
«Siamo infatti convinti che attraverso l’educazione al confronto e l’accesso diretto alla cultura e all’informazione, si possano formare giovani responsabili più consapevoli dei propri diritti e di quelli degli altri. In questo senso, la Giornata mondiale rappresenta un’importante occasione per favorire questo dibattito in tutto il Paese».
Unesco Giovani promuove l'evento anche sui canali social ufficiali (pagina Facebook, Twitter e Instagram) tramite gli hashtag #UNESCOgiovani, #HumanRightsDay, #Standup4HumanRights, creati appositamente per la giornata.
Previsto anche un contest fotografico su Instagram: per partecipare basta postare un’immagine che esprima il concetto di libertà di stampa e di espressione seguito dagli hashtag della giornata internazionale e @unescogiovani.
giovedì 1 dicembre 2016
JAMES SENESE E "ROSSINTESTA" A CERVIGNANO
La napoletanità verace del “nero a metà” James Senese, l’arte per canzone del compianto Gianmaria Testa riletta da Paolo Rossi. È davvero un’accoppiata musicale di prim’ordine, quella che il Teatro Pasolini di Cervignano propone nel fine settimana. Domani alle 21 si comincia con il fondatore della storica band Napoli Centrale, riunita attorno al leader per rileggere quarant’anni dopo quella musica nera che seppe animare la scena partenopea con brani come “Campagna”. Senese, a lungo collaboratore di Pino Daniele, fra i padri del “neapolitan power”, ha appena vinto una Targa Tenco con l’album “’O sanghe”. È un sassofonista di prim’ordine, figlio di una donna napoletana e di un soldato americano. Il piemontese delle Langhe Gianmaria Testa è scomparso a marzo. Il monfalconese di nascita Paolo Rossi gli rende omaggio con il concerto spettacolo “RossinTesta”, che arriva a Cervignano sabato alle 21. Con lui, sul palco, Emanuele Dell’Aquila alla chitarra e i Virtuosi del Carso. Info www.teatropasolini.it
domenica 27 novembre 2016
50* SAN GIUSTO D'ORO / 25-11-16
Dalla segregazione dei manicomi alla restituzione della
dignità e dei diritti alle persone con problemi di disagio
mentale. Il cinquantesimo San Giusto d'oro alla psichiatria
triestina passa per la «rivoluzione basagliana» che si è
formata in città, per poi essere seguita in tutto il mondo.
Sala del Consiglio comunale gremita ieri per la cerimonia di
consegna del premio nato nel 1967 e curato dall'Assostampa
Fvg e dal Gruppo Giuliano Cronisti, insieme al Comune di
Trieste e alla Fondazione CrTrieste. In apertura il saluto
delle istituzioni, con il sindaco Roberto Dipiazza che ha
ricordato come «il riconoscimento vada a premiare l'impegno
dei tanti uomini e donne che hanno portato avanti il
pensiero di Franco Basaglia», mentre Lucio Delcaro,
vicepresidente Fondazione CrTrieste si è focalizzato su «un
riconoscimento doveroso per una struttura che ha
rivoluzionato la psichiatria non solo a Trieste ma nel
mondo». Per la prima volta, come ha ricordato Carlo Muscatello, presidente Assostampa Fvg, il premio è stato accompagnato da
una dedica, sottolineata da un lungo applauso, alla memoria
di Giulio Regeni, il giovane ricercatore rapito e
barbaramente ucciso in Egitto, «un figlio di queste terre,
che ha studiato in quella che era la culla della civiltà e
per il quale chiediamo ancora la verità». Come da
tradizione, consegnata anche la targa speciale che è andata
al giornalista e decano dei critici musicali Mario Luzzatto
Fegiz, «un triestino curioso e figura di riferimento e
d'avanguardia nel panorama musicale» ha rimarcato Furio
Baldassi del Guppo Giuliano Cronisti. Curiosamente Luzzatto
Fegiz è stato premiato esattamente 40 anni dopo che suo
padre Pierpaolo, economista e padre della statistica
italiana, nel 1976 aveva ricevuto il San Giusto d'oro.
«Lasciare Trieste da ragazzo è stato straziante, ma al tempo
stesso fondamentale per la mia carriera» - ha affermato -.
«Ma pur essendo lontano non ho mai perso il legame con la
mia città. Trieste per me rappresenta i ricordi, i flash di
vita vissuta, come la piazza Unità gremita per il ritorno di
Trieste all'Italia». Poi il momento centrale della cerimonia
con la consegna del San Giusto d'oro 2016: «un premio
collettivo per il lavoro portato avanti dalla psichiatria
triestina» e ritirato da Roberto Mezzina, direttore del
Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e da Silva Bon,
presidente delle associazioni di salute mentale. «Quando
parliamo di rivoluzione basagliana parliamo di un
cambiamento epocale, non solo scientifico ma anche culturale
e giuridico» - ha dichiarato Mezzina -. «I manicomi sono
stati trasformati in una rete di servizi alla comunità. Una
legge coraggiosa che ha posto l'attenzione sulle persone
attraverso un modello esportato in tutto il mondo. Siamo
onorati per un riconoscimento della città che premia un
lavoro lungo mezzo secolo». Così infine Silva Bon: «Un
premio che rappresenta un grande onore ma anche una grossa
responsabilità. Un percorso di lotta contro il pregiudizio e
l'esclusione che conferma che il cammino verso la guarigione
è possibile e rinnova la speranza».
Pierpaolo Pitich
Pierpaolo Pitich
venerdì 25 novembre 2016
NICCOLÒ FABI 7-12 A UDINE, INTERVISTA
La settimana scorsa a Lugano ha concluso il primo tour europeo. Con concerti a Bruxelles, Amsterdam, Oxford, Londra, Parigi, Berlino, Monaco, Vienna. Mercoledì 7 dicembre alle 21, al “Nuovo” di Udine, riparte invece la tournèe italiana. Dopo la quale, il 16 giugno sarà a Rüsselsheim am Mein, vicino Francoforte, ospite del festival Hessentag, una delle più antiche e importanti rassegne musicali tedesche. Insomma, non si può dire che Niccolò Fabi se ne stia con le mani in mano.
«Nelle date europee - dice il cantautore romano, classe 1968 - il pubblico era prevalentemente italiano. Nostri connazionali che vivono all’estero e hanno dunque un approccio con il concerto di un artista italiano diverso dal nostro. C’è in loro anche un sentimento di nostalgia, un piacere nel sentire cantare all’estero nella loro lingua».
E gli stranieri?
«Attenti, curiosi, attratti dalle parole e da un suono che comunque è internazionale. Questo tour è stato anche un atto di semina, da cui è nato l’invito al festival tedesco di giugno».
Ha appena vinto la seconda Targa Tenco consecutiva.
«Un premio importante, perchè dato da voi giornalisti e critici musicali. Gente che lavora con la musica, insomma, e che ha deciso che i miei ultimi anni sono stati entrambi i migliori delle rispettive annate. Una bella soddisfazione. Una cosa che crea interesse, discussione».
L’ultimo disco, “Una somma di piccole cose”, le somiglia molto.
«Sì, è un distillato delle mie cose, con il mio gusto, il disco più simile a me che abbia mai realizzato. Ho fatto tutto da solo, quasi con lo spirito di un falegname che costruisce un tavolo. Stavolta non posso imputare nulla agli altri. Tutta roba mia».
Si respira aria di folk americano.
«Assolutamente, in maniera esplicita, quasi citazionista, con punti di riferimento della mia storia musicale, da Woody Guthrie a Bob Dylan, fino agli americani più recenti. Da ragazzo ascoltavo di tutto, ma quel filone c'è sempre stato. Poi si sono aggiunte altre cose, oggi prediligo il folk bianco americano e la matrice nera funk».
Il progetto con Daniele Silvestri e Max Gazzè cosa le ha lasciato?
«Nuovo entusiasmo, nuovi stimoli. A me, ma anche ai miei colleghi. Sono stati due anni divertenti, che ci hanno permesso di accrescere la nostra visione di essere professionisti della musica. Personalmente mi sono messo a confronto con un altro modo di lavorare. Dividendo la responsabilità del palco tutto diventa più facile. E la ripartenza da soli, poi, è più stimolante».
Se avesse oggi diciotto anni andrebbe a “X Factor”?
«No, non è casa mia, non saprei cosa fare. Penso che il mio linguaggio musicale non sia adatto a una gara».
Otto album in vent’anni: tiene un buon ritmo.
«Mi sento più a fuoco adesso, pur avendo responsabilità maggiori sulle spalle. Credo che il tempo della maturità mi si addica di più».
Il prossimo viaggio?
«Ora sono in tour, poi non so. E comunque il viaggio è una condizione, uno stato d’animo. Ho la fortuna di muovermi tanto, dunque... Viaggio anche quando lavoro.
Com’è nato e in che cosa consiste il suo impegno in Africa?
«Nasce da curiosità sul viaggio, sulla scoperta di cose che non conosco. Giro per il continente da quasi dieci anni. Poi nel 2009 c’è stato l’incontro con una ong di Padova, il Cuamm, meglio noto come Medici con l’Africa, e ho cominciato a lavorare con loro».
Che mondo ha scoperto?
«Ho viaggiato in Africa in modo ovviamente non turistico, ho fatto sentieri e percorsi significativi, ho aiutato i medici nella loro opera di comunicazione. Ho suonato in situazioni di tutti i tipi, dai presidi ospedalieri alle ambasciate fino ai piccoli teatri. Poi c’è la parte della raccolta di fondi per la ristrutturazione di ospedali in Angola e in Sudan».
Tre anni fa Niccolò Fabi era partito per il Sudan con i compagni d’avventura - in quel caso non solo musicale - dell’epoca, Daniele Silvestri e Max Gazzè. Dovevano portare i 22 mila euro raccolti per il reparto pediatrico di un ospedale dalla fondazione “Parole di Lulù”, creata dal cantautore e dalla moglie in ricordo della loro piccola Olivia, morta di meningite a ventidue mesi, nel 2010. Un dolore immenso, impossibile da dimenticare.
«Nelle date europee - dice il cantautore romano, classe 1968 - il pubblico era prevalentemente italiano. Nostri connazionali che vivono all’estero e hanno dunque un approccio con il concerto di un artista italiano diverso dal nostro. C’è in loro anche un sentimento di nostalgia, un piacere nel sentire cantare all’estero nella loro lingua».
E gli stranieri?
«Attenti, curiosi, attratti dalle parole e da un suono che comunque è internazionale. Questo tour è stato anche un atto di semina, da cui è nato l’invito al festival tedesco di giugno».
Ha appena vinto la seconda Targa Tenco consecutiva.
«Un premio importante, perchè dato da voi giornalisti e critici musicali. Gente che lavora con la musica, insomma, e che ha deciso che i miei ultimi anni sono stati entrambi i migliori delle rispettive annate. Una bella soddisfazione. Una cosa che crea interesse, discussione».
L’ultimo disco, “Una somma di piccole cose”, le somiglia molto.
«Sì, è un distillato delle mie cose, con il mio gusto, il disco più simile a me che abbia mai realizzato. Ho fatto tutto da solo, quasi con lo spirito di un falegname che costruisce un tavolo. Stavolta non posso imputare nulla agli altri. Tutta roba mia».
Si respira aria di folk americano.
«Assolutamente, in maniera esplicita, quasi citazionista, con punti di riferimento della mia storia musicale, da Woody Guthrie a Bob Dylan, fino agli americani più recenti. Da ragazzo ascoltavo di tutto, ma quel filone c'è sempre stato. Poi si sono aggiunte altre cose, oggi prediligo il folk bianco americano e la matrice nera funk».
Il progetto con Daniele Silvestri e Max Gazzè cosa le ha lasciato?
«Nuovo entusiasmo, nuovi stimoli. A me, ma anche ai miei colleghi. Sono stati due anni divertenti, che ci hanno permesso di accrescere la nostra visione di essere professionisti della musica. Personalmente mi sono messo a confronto con un altro modo di lavorare. Dividendo la responsabilità del palco tutto diventa più facile. E la ripartenza da soli, poi, è più stimolante».
Se avesse oggi diciotto anni andrebbe a “X Factor”?
«No, non è casa mia, non saprei cosa fare. Penso che il mio linguaggio musicale non sia adatto a una gara».
Otto album in vent’anni: tiene un buon ritmo.
«Mi sento più a fuoco adesso, pur avendo responsabilità maggiori sulle spalle. Credo che il tempo della maturità mi si addica di più».
Il prossimo viaggio?
«Ora sono in tour, poi non so. E comunque il viaggio è una condizione, uno stato d’animo. Ho la fortuna di muovermi tanto, dunque... Viaggio anche quando lavoro.
Com’è nato e in che cosa consiste il suo impegno in Africa?
«Nasce da curiosità sul viaggio, sulla scoperta di cose che non conosco. Giro per il continente da quasi dieci anni. Poi nel 2009 c’è stato l’incontro con una ong di Padova, il Cuamm, meglio noto come Medici con l’Africa, e ho cominciato a lavorare con loro».
Che mondo ha scoperto?
«Ho viaggiato in Africa in modo ovviamente non turistico, ho fatto sentieri e percorsi significativi, ho aiutato i medici nella loro opera di comunicazione. Ho suonato in situazioni di tutti i tipi, dai presidi ospedalieri alle ambasciate fino ai piccoli teatri. Poi c’è la parte della raccolta di fondi per la ristrutturazione di ospedali in Angola e in Sudan».
Tre anni fa Niccolò Fabi era partito per il Sudan con i compagni d’avventura - in quel caso non solo musicale - dell’epoca, Daniele Silvestri e Max Gazzè. Dovevano portare i 22 mila euro raccolti per il reparto pediatrico di un ospedale dalla fondazione “Parole di Lulù”, creata dal cantautore e dalla moglie in ricordo della loro piccola Olivia, morta di meningite a ventidue mesi, nel 2010. Un dolore immenso, impossibile da dimenticare.
mercoledì 16 novembre 2016
25 ANNI FA I NIRVANA A MUGGIA
Stasera alle 20.30, nello stesso Teatro Verdi di Muggia che li vide esibirsi ancora quasi sconosciuti al grande pubblico, “si celebreranno” i venticinque anni dal concerto dei Nirvana. Era il 16 novembre 1991. Di lì a poco, la band di Seattle sarebbe letteralmente esplosa con l’album “Nevermind”, ormai considerato una pietra miliare della musica rock. Il concerto di Kurt Cobain (morto suicida il 5 aprile ’94), Dave Grohl e Krist Novoselic (genitori originari di Zara, emigrati negli Stati Uniti) si sarebbe dovuto svolgere originariamente in Slovenia, che proprio in quel ’91 aveva combattuto per la sua indipendenza dalla Jugoslavia. Situazione dunque instabile. E le agenzie Rock Alliance e Devon Rex, con la collaborazione dei triestini di Globogas, lo dirottarono su Muggia.
Stasera si ricorda la serata passata alla storia. Prima la parola a chi c’era (organizzatori, giornalisti, fan). Poi musica con un “tributo acustico triestino” affidato al duo Nasty Monroe, alla cantante Dorina Leka e ai Beat on Rotten Pilots (ovvero un mix fra Beat on Rotten Woods e Damned Pilots...). Gran finale con i milanesi “Poottana Play For Money - Nirvana Tribute Band”, in versione unplugged, e una superband triestina creata per l’occasione: Andrea Belgrado, Michele Chiesa e Andrea Zanolla.
.
.
.
Il concerto che i Nirvana tennero al Teatro Verdi di Muggia il 16 novembre 1991, poche settimane prima della loro esplosione mondiale con l’album “Nevermind”, fa ormai parte della storia della musica triestina. Solo un altro (mancato) evento gli tiene testa: il concerto che i Genesis avrebbero dovuto tenere al Dancing Paradiso di via Flavia l’8 aprile del ’72. Peter Gabriel e compagni avevano appena pubblicato “Nursery Crime”. Arrivarono a bordo di due macchinoni neri, trovarono la sala chiusa perchè nei giorni precedenti vi era scomparsa una minorenne. Breve conciliabolo, colloquio con gli organizzatori, e poi dietrofront, con sosta in una vicina pizzeria.
Ma torniamo ai Nirvana. All’epoca la band di Seattle aveva appena pubblicato “Nevermind”, il secondo album uscito nel settembre ’91 e seguito al disco di debutto “Bleach”, pubblicato nell’89. Gruppo di nicchia, ma fino a un certo punto, visto che quel tour europeo che arrivò anche da noi fece registrare quasi ovunque una lunga serie di tutto esaurito. Tempo poche settimane e, fra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, Kurt Cobain e soci fanno il botto, grazie anche al successo del primo singolo estratto dall’album, “Smells like teen spirit”. Basti pensare che a gennaio il disco spodesta “Dangerous” di Michael Jackson dalla vetta delle classifiche di vendita. Oggi “Nevermind”, oltre dieci milioni di copie vendute, è considerato uno degli album fondamentali degli anni Novanta e della storia del rock in generale.
Il caso e un pizzico di fortuna unirono il nome dei Nirvana alla cittadina muggesana. «Il bassista Krist Novoselic - ricorda Fabrizio Comel, all’epoca nell’agenzia Globogas che organizzò il concerto - era di origine croata, i suoi genitori erano emigrati negli Stati Uniti dalla natia Zara. Dunque voleva assolutamente suonare vicino al confine, nel momento in cui i tragici fatti di quel ’91 avevano fatto tramontare la possibilità di suonare in Slovenia. Fu l’agenzia Rock Alliance di Pordenone a proporre al management dei Nirvana l’opzione Muggia. Dove noi di Globogas organivamo in quei mesi vari concerti. Ricordo Working Week, Fleshtones, Mordred, Atom Seed, Maceo Parker, Galliano con Mick Talbot degli Style Council...».
«Per i Nirvana - prosegue Comel, che in occasione dell’anniversario annuncia la pubblicazione di “nuovi materiali recuperati dal baule dei ricordi” - la sala era strapiena, almeno metà erano ragazzi arrivati per l’occasione dalla ex Jugoslavia. Aprirono la serata gli Urge Overkill. I Nirvana suonarono nella penombra, quasi al buio, Cobain tirò fuori di colpo tutta la sua grinta sofferente, Novoselic si muoveva molto e si notava di più per la sua stazza mentre brandiva il basso. Gran “pogo” del pubblico e noi organizzatori entusiasti lavoravamo in un bar improvvisato in galleria. Dopo il concerto ho fatto i complimenti a Dave Grohl che è venuto a bersi una birra su da noi...».
Il concerto della band di Seattle portò fortuna ai triestini di Globogas, che l’estate successiva furono chiamati a organizzare la stagione al Castello di San Giusto. Dove portarono Screaming Trees, Elio e le Storie Tese, Pitura Freska, persino un Ligabue fresco di grande successo. Nel ’93, di nuovo al “Verdi” di Muggia, un altro botto con gli Arrested Development, con pubblico da tutto il nord Italia.
«Per tornare ai Nirvana - conclude Fabrizio Comel - noi di Globogas avemmo poco a che fare con il gruppo. Loro alloggiavano all’Hotel Lido già dalla sera prima, Cobain faceva vita diciamo molto appartata, gli altri due erano più socievoli. Se ne ebbe una dimostrazione anche nella conferenza stampa che fu organizzata in albergo, alla presenza di giornalisti provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia, con Cobain abbastanza assente, quasi appisolato sulla sedia. Dopo il concerto andarono in giro per locali con alcuni di noi...». Il resto è storia.
Stasera si ricorda la serata passata alla storia. Prima la parola a chi c’era (organizzatori, giornalisti, fan). Poi musica con un “tributo acustico triestino” affidato al duo Nasty Monroe, alla cantante Dorina Leka e ai Beat on Rotten Pilots (ovvero un mix fra Beat on Rotten Woods e Damned Pilots...). Gran finale con i milanesi “Poottana Play For Money - Nirvana Tribute Band”, in versione unplugged, e una superband triestina creata per l’occasione: Andrea Belgrado, Michele Chiesa e Andrea Zanolla.
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Il concerto che i Nirvana tennero al Teatro Verdi di Muggia il 16 novembre 1991, poche settimane prima della loro esplosione mondiale con l’album “Nevermind”, fa ormai parte della storia della musica triestina. Solo un altro (mancato) evento gli tiene testa: il concerto che i Genesis avrebbero dovuto tenere al Dancing Paradiso di via Flavia l’8 aprile del ’72. Peter Gabriel e compagni avevano appena pubblicato “Nursery Crime”. Arrivarono a bordo di due macchinoni neri, trovarono la sala chiusa perchè nei giorni precedenti vi era scomparsa una minorenne. Breve conciliabolo, colloquio con gli organizzatori, e poi dietrofront, con sosta in una vicina pizzeria.
Ma torniamo ai Nirvana. All’epoca la band di Seattle aveva appena pubblicato “Nevermind”, il secondo album uscito nel settembre ’91 e seguito al disco di debutto “Bleach”, pubblicato nell’89. Gruppo di nicchia, ma fino a un certo punto, visto che quel tour europeo che arrivò anche da noi fece registrare quasi ovunque una lunga serie di tutto esaurito. Tempo poche settimane e, fra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, Kurt Cobain e soci fanno il botto, grazie anche al successo del primo singolo estratto dall’album, “Smells like teen spirit”. Basti pensare che a gennaio il disco spodesta “Dangerous” di Michael Jackson dalla vetta delle classifiche di vendita. Oggi “Nevermind”, oltre dieci milioni di copie vendute, è considerato uno degli album fondamentali degli anni Novanta e della storia del rock in generale.
Il caso e un pizzico di fortuna unirono il nome dei Nirvana alla cittadina muggesana. «Il bassista Krist Novoselic - ricorda Fabrizio Comel, all’epoca nell’agenzia Globogas che organizzò il concerto - era di origine croata, i suoi genitori erano emigrati negli Stati Uniti dalla natia Zara. Dunque voleva assolutamente suonare vicino al confine, nel momento in cui i tragici fatti di quel ’91 avevano fatto tramontare la possibilità di suonare in Slovenia. Fu l’agenzia Rock Alliance di Pordenone a proporre al management dei Nirvana l’opzione Muggia. Dove noi di Globogas organivamo in quei mesi vari concerti. Ricordo Working Week, Fleshtones, Mordred, Atom Seed, Maceo Parker, Galliano con Mick Talbot degli Style Council...».
«Per i Nirvana - prosegue Comel, che in occasione dell’anniversario annuncia la pubblicazione di “nuovi materiali recuperati dal baule dei ricordi” - la sala era strapiena, almeno metà erano ragazzi arrivati per l’occasione dalla ex Jugoslavia. Aprirono la serata gli Urge Overkill. I Nirvana suonarono nella penombra, quasi al buio, Cobain tirò fuori di colpo tutta la sua grinta sofferente, Novoselic si muoveva molto e si notava di più per la sua stazza mentre brandiva il basso. Gran “pogo” del pubblico e noi organizzatori entusiasti lavoravamo in un bar improvvisato in galleria. Dopo il concerto ho fatto i complimenti a Dave Grohl che è venuto a bersi una birra su da noi...».
Il concerto della band di Seattle portò fortuna ai triestini di Globogas, che l’estate successiva furono chiamati a organizzare la stagione al Castello di San Giusto. Dove portarono Screaming Trees, Elio e le Storie Tese, Pitura Freska, persino un Ligabue fresco di grande successo. Nel ’93, di nuovo al “Verdi” di Muggia, un altro botto con gli Arrested Development, con pubblico da tutto il nord Italia.
«Per tornare ai Nirvana - conclude Fabrizio Comel - noi di Globogas avemmo poco a che fare con il gruppo. Loro alloggiavano all’Hotel Lido già dalla sera prima, Cobain faceva vita diciamo molto appartata, gli altri due erano più socievoli. Se ne ebbe una dimostrazione anche nella conferenza stampa che fu organizzata in albergo, alla presenza di giornalisti provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia, con Cobain abbastanza assente, quasi appisolato sulla sedia. Dopo il concerto andarono in giro per locali con alcuni di noi...». Il resto è storia.
lunedì 14 novembre 2016
ADDIO A LEON RUSSELL
Se n’è andato anche Leon Russell, leggendario pianista rock, aveva 74 anni. Il suo nome va ad aggiungersi a una lista ormai senza fine (Bowie, Prince, Keith Emerson, Gato Barbieri, pochi giorni fa Leonard Cohen...), che ha già trasformato il 2016 nell’annus horribilis del rock. Claude Russell Bridges, questo il suo vero nome, era nato a Tulsa, Oklahoma. Negli anni Cinquanta le collaborazioni con Ronnie Hawkins e Jerry Lee Lewis lo sottraggono a un destino di pianista da night club. Nei Sessanta lavora con Phil Spector e Herb Alpert e partecipa alle registrazioni di “Mr. tambourine man”, dei Byrds. Ma la botta di vita, e di popolarità, arriva nel ’70, con la partecipazione al tour di Joe Cocker “Mad dogs & englishmen”, immortalato anche nell’omonimo film. Suona vari strumenti, mescola rock, rhythm’n’blues, funk. Collabora con Dylan, Clapton, George Harrison, Stones, Sinatra, Ray Charles... Nel 2010 era tornato in pista con l’album “The union”, realizzato con Elton John. Dal 2011 era nella Rock and Roll Hall Of Fame.
LA FIABA DI EMJAY, MICHAEL JACKSON, di MASSIMO BONELLI
Una fiaba per raccontare la storia del re del pop. Michael Jackson non c’è più, se n’è andato il 25 giugno 2009, poco più che cinquantenne. Ma ci ha lasciato la sua musica, i suoi dischi, una lezione artistica che con il passare degli anni viene via via rivalutata.
A Massimo Bonelli, classe 1949, nato a Conegliano, cresciuto a Trieste (le elementari alla Nazario Sauro, le medie ai Campi Elisi, i pomeriggi da ragazzo a Sant’Andrea, le estati all’Ausonia o a Sistiana...) e milanese di adozione, trentacinque anni nel mondo della discografia (è stato fra l’altro direttore generale della Sony Music), Jacko ha lasciato anche dei ricordi personali. Che gli hanno ispirato “La vera fiaba di Emjay” (edizioni Lupetti, pagg. 158, euro 29,90), volume impreziosito dai disegni davvero belli di Gianna Amendola.
Racconta Bonelli: «Ho incontrato Michael Jackson varie volte. Nel 1987 per l’uscita del suo album “Bad”, con la conferenza del lancio internazionale, avvenuta a Roma, alla presenza di Quincy Jones e Frank DiLeo. Successivamente ancora in Italia nell’88, sempre per i suoi concerti. Poi a Monaco per l’anteprima mondiale del “Dangerous Tour” e a Marbella in Spagna per una sua premiazione. Ancora a Milano nel ’97 dove venne premiato da Luciano Pavarotti con un Telegatto, che fu consegnato anche a me per essere riuscito a portare l’artista. E infine a Parigi, in un afoso giorno di giugno del 2001, per la presentazione dell’album “Invincible”. Quella fu l’ultima volta».
Il film dei ricordi si riavvolge. «La prima foto che facemmo insieme, mentre gli consegnavo il disco di platino, fu allo stadio Flaminio di Roma nell’88. Ricordo che mentre parlavamo in camerino, era rilassato e informale, sorridente e curioso. Vestito in modo semplice e casuale. Appena uscì pronto per la foto di rito, aveva indossato il vestito di scena, gli occhiali scuri: dalla sua faccia non traspariva alcuna sensazione. Era un’altra persona, quasi una statua. Mentre a Milano, in occasione della consegna del Telegatto, ci trovammo da soli nel pulmino che ci conduceva all’aereo privato. Portava la celebre mascherina sul viso, sotto la quale vedevo che a tratti sorrideva. Parlammo pochissimo, però era curioso di sapere come lui era seguito nel nostro Paese».
La storia del libro è scritta con un linguaggio molto semplice, tipico delle fiabe. «In realtà - confessa l’autore - non è stata una mia idea. Io avevo scritto un breve racconto intitolato “The Real HiStory of the King of Pop” sulla mia rubrica “Una vita tra Pop & Rock” nel web magazine “Spettakolo”. L’editore Lupetti lo ha letto e si è messo in contatto con me per incitarmi a fare di questa breve fiaba un libro. In un secondo tempo, ha pensato di inserire i disegni della giovane e bravissima Gianna Amendola. Racconto e illustrazioni erano in perfetta sintonia per una classica fiaba. Anche se preferisco definirla una favola moderna, un racconto di fantasia tra rock e psichedelia».
Una fiaba sospesa fra realtà e finzione. «Il libro - prosegue Bonelli, che quest’anno ha anche realizzato la mostra “I colori del rock”, seguita a “Una vita fra rock e pop” del 2014 - è diviso in tre parti: pop, rock e terra. Le prime due parti sono totalmente frutto della fantasia, anche se in “Rock” si citano personaggi reali e alcune gesta realmente accadute. La terza parte, Terra, è un equilibrato miscuglio fra verità e fantasia».
«Usare la fantasia - conclude - mi ha permesso di non essere vincolato a tutte le regole che una biografia impone. Il protagonista della fiaba, il folletto EmJay, mi permette di volare ovunque io desideri. I personaggi ai quali attribuisco ruoli e pensieri fondamentali hanno solo il nome, invece coloro che si trovano sul percorso della fiaba hanno nome e cognome. In fondo penso che la fantasia è una grande libertà, un modo leggero per descrivere la verità».
Quello di Massimo Bonelli è un libro per bambini grandi o adulti piccoli, comunque per amanti della musica. «Durante il breve periodo della sua permanenza sulla Terra - scrive nel prologo - ci siamo incontrati più volte. Solo quando si instaurò una sincera e profonda amicizia, in via confidenziale, mi raccontò tutta la sua fantastica avventura. Ora cercherò di narrarla su due linee parallele: quella favolistica per i più piccoli, per gli adulti ma non troppo quella di un’esperienza pseudo psichedelica...».
A Massimo Bonelli, classe 1949, nato a Conegliano, cresciuto a Trieste (le elementari alla Nazario Sauro, le medie ai Campi Elisi, i pomeriggi da ragazzo a Sant’Andrea, le estati all’Ausonia o a Sistiana...) e milanese di adozione, trentacinque anni nel mondo della discografia (è stato fra l’altro direttore generale della Sony Music), Jacko ha lasciato anche dei ricordi personali. Che gli hanno ispirato “La vera fiaba di Emjay” (edizioni Lupetti, pagg. 158, euro 29,90), volume impreziosito dai disegni davvero belli di Gianna Amendola.
Racconta Bonelli: «Ho incontrato Michael Jackson varie volte. Nel 1987 per l’uscita del suo album “Bad”, con la conferenza del lancio internazionale, avvenuta a Roma, alla presenza di Quincy Jones e Frank DiLeo. Successivamente ancora in Italia nell’88, sempre per i suoi concerti. Poi a Monaco per l’anteprima mondiale del “Dangerous Tour” e a Marbella in Spagna per una sua premiazione. Ancora a Milano nel ’97 dove venne premiato da Luciano Pavarotti con un Telegatto, che fu consegnato anche a me per essere riuscito a portare l’artista. E infine a Parigi, in un afoso giorno di giugno del 2001, per la presentazione dell’album “Invincible”. Quella fu l’ultima volta».
Il film dei ricordi si riavvolge. «La prima foto che facemmo insieme, mentre gli consegnavo il disco di platino, fu allo stadio Flaminio di Roma nell’88. Ricordo che mentre parlavamo in camerino, era rilassato e informale, sorridente e curioso. Vestito in modo semplice e casuale. Appena uscì pronto per la foto di rito, aveva indossato il vestito di scena, gli occhiali scuri: dalla sua faccia non traspariva alcuna sensazione. Era un’altra persona, quasi una statua. Mentre a Milano, in occasione della consegna del Telegatto, ci trovammo da soli nel pulmino che ci conduceva all’aereo privato. Portava la celebre mascherina sul viso, sotto la quale vedevo che a tratti sorrideva. Parlammo pochissimo, però era curioso di sapere come lui era seguito nel nostro Paese».
La storia del libro è scritta con un linguaggio molto semplice, tipico delle fiabe. «In realtà - confessa l’autore - non è stata una mia idea. Io avevo scritto un breve racconto intitolato “The Real HiStory of the King of Pop” sulla mia rubrica “Una vita tra Pop & Rock” nel web magazine “Spettakolo”. L’editore Lupetti lo ha letto e si è messo in contatto con me per incitarmi a fare di questa breve fiaba un libro. In un secondo tempo, ha pensato di inserire i disegni della giovane e bravissima Gianna Amendola. Racconto e illustrazioni erano in perfetta sintonia per una classica fiaba. Anche se preferisco definirla una favola moderna, un racconto di fantasia tra rock e psichedelia».
Una fiaba sospesa fra realtà e finzione. «Il libro - prosegue Bonelli, che quest’anno ha anche realizzato la mostra “I colori del rock”, seguita a “Una vita fra rock e pop” del 2014 - è diviso in tre parti: pop, rock e terra. Le prime due parti sono totalmente frutto della fantasia, anche se in “Rock” si citano personaggi reali e alcune gesta realmente accadute. La terza parte, Terra, è un equilibrato miscuglio fra verità e fantasia».
«Usare la fantasia - conclude - mi ha permesso di non essere vincolato a tutte le regole che una biografia impone. Il protagonista della fiaba, il folletto EmJay, mi permette di volare ovunque io desideri. I personaggi ai quali attribuisco ruoli e pensieri fondamentali hanno solo il nome, invece coloro che si trovano sul percorso della fiaba hanno nome e cognome. In fondo penso che la fantasia è una grande libertà, un modo leggero per descrivere la verità».
Quello di Massimo Bonelli è un libro per bambini grandi o adulti piccoli, comunque per amanti della musica. «Durante il breve periodo della sua permanenza sulla Terra - scrive nel prologo - ci siamo incontrati più volte. Solo quando si instaurò una sincera e profonda amicizia, in via confidenziale, mi raccontò tutta la sua fantastica avventura. Ora cercherò di narrarla su due linee parallele: quella favolistica per i più piccoli, per gli adulti ma non troppo quella di un’esperienza pseudo psichedelica...».
domenica 6 novembre 2016
ELISA, MARTEDÌ DATA ZERO A JESOLO
Elisa vive da giorni reclusa nel suo studio di Cervignano. Pochi contatti con l’esterno. Concentrazione massima per la “data zero” del nuovo tour, che si terrà martedì sera al palasport di Jesolo. In vista del debutto vero e proprio, venerdì 11 a Firenze.
Ogni tanto pubblica qualche foto su Facebook. Dove l’altra notte si è sfogata così, in un idioma “alla Sturmtruppen”: «Voler mettere tutti i miei pezzi preferiti nella scaletta esseren impossibilen... io testona come mulo sardo, parola impossibilen non piacere neeeeein. Ma dubbien amletichen ja volt. Penzaren... gran penzaren... per poi giraren balle per troppo penzaren e poi affliggerzi ancoren. Che faren? Aiuten».
Nel nuovo “On Tour” Elisa porta infatti in scena uno show con tutti i suoi più grandi successi, assieme ad alcuni brani estratti dall’ultimo album “On”, pubblicato a marzo. E visto che i successi della popstar di Monfalcone sono ormai tanti, comprensibile lo scoramento nel rendersi conto che nella scaletta non c’è spazio per tutti...
“No hero” e “Love me forever” sono fra i brani di maggior successo dell’ultimo album. Del secondo brano Elisa ha detto: «Questa canzone è una delle prime che ho scritto, avevo solo 14 anni. Sentivo che questo era il disco giusto per questo brano perché è un album pop dove ho scelto di non avere un unico genere musicale ma di spaziare liberamente. E poi amo da sempre le Ronettes, “Be my baby” è una delle mie canzoni preferite in assoluto. E le produzioni americane anni ’60 di Phil Spector mi rapiscono...».
I concerti del tour verranno aperti dal giovane Lele Esposito, finalista dell'edizione 2015 del talent “Amici”, e dal cantautore albanese Ermal Meta. A febbraio, tour nel Regno Unito e in Irlanda.
Ogni tanto pubblica qualche foto su Facebook. Dove l’altra notte si è sfogata così, in un idioma “alla Sturmtruppen”: «Voler mettere tutti i miei pezzi preferiti nella scaletta esseren impossibilen... io testona come mulo sardo, parola impossibilen non piacere neeeeein. Ma dubbien amletichen ja volt. Penzaren... gran penzaren... per poi giraren balle per troppo penzaren e poi affliggerzi ancoren. Che faren? Aiuten».
Nel nuovo “On Tour” Elisa porta infatti in scena uno show con tutti i suoi più grandi successi, assieme ad alcuni brani estratti dall’ultimo album “On”, pubblicato a marzo. E visto che i successi della popstar di Monfalcone sono ormai tanti, comprensibile lo scoramento nel rendersi conto che nella scaletta non c’è spazio per tutti...
“No hero” e “Love me forever” sono fra i brani di maggior successo dell’ultimo album. Del secondo brano Elisa ha detto: «Questa canzone è una delle prime che ho scritto, avevo solo 14 anni. Sentivo che questo era il disco giusto per questo brano perché è un album pop dove ho scelto di non avere un unico genere musicale ma di spaziare liberamente. E poi amo da sempre le Ronettes, “Be my baby” è una delle mie canzoni preferite in assoluto. E le produzioni americane anni ’60 di Phil Spector mi rapiscono...».
I concerti del tour verranno aperti dal giovane Lele Esposito, finalista dell'edizione 2015 del talent “Amici”, e dal cantautore albanese Ermal Meta. A febbraio, tour nel Regno Unito e in Irlanda.
venerdì 4 novembre 2016
ORNELLA VANONI DOMANI A GORIZIA
«È un progetto che presento al mio pubblico con emozione e molto entusiasmo. Per andare avanti bisogna cambiare sempre, con coraggio e passione. Questo trio fantastico ed eccezionale mi porta dentro l’anima una nuova gioia».
Lei è Ornella Vanoni, eterna signora della canzone italiana, che domani alle 20.45 apre la stagione del Teatro Verdi di Gorizia con il suo nuovo spettacolo “Free soul”. Letteralmente “anima libera”, e lei lo è, lo è sempre stata, da quando nella seconda metà degli anni Cinquanta Giorgio Strehler se l’era inventata al Piccolo Teatro di Milano “cantante della mala”, con brani capolavoro come “Ma mi”, “Le mantellate”, “Hanno ammazzato il Mario”... Ma i richiami del titolo del nuovo spettacolo vanno ovviamente al jazz, al free, al soul, all’improvvisazione, ma anche alla bossa nova, al Brasile di Vinicius de Moraes (la cui voce apre lo spettacolo) e di Toquinho.
Signora, è vero che lo spettacolo nasce da due chiacchiere con il jazzista Paolo Fresu?
«Sì. Avevo voglia di lasciare il pop e di entrare nel jazz, Paolo mi ha dato due musicisti di talento di cui lui ha piena fiducia: Roberto Cipelli al piano e Bebo Ferra alla chitarra. Ho aggiunto il violoncellista Piero Salvatori, che rende il trio molto particolare».
L’incontro con Vinicius?
«Bardotti all’epoca era il mio produttore ma anche il traduttore in italiano di tutte le sue cose. Ebbe questa idea. Siamo andati a San Paolo e a casa di Vinicius ci ha raggiunti Toquinho. È nata così l’idea di fare un disco insieme (“La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria”, 1976 - ndr)».
Cosa ricorda degli “anni brasiliani”?
«È stato un periodo meraviglioso, nel quale abbiamo suonato, riso, pianto, mangiato, bevuto, ci siamo innamorati, lasciati...».
Jazz, bossa nova, soul: cosa significano per lei?
«La bossa nova fa parte del Brasile, l’ha inventata Joao Gilberto, ma non tutto il Brasile è bossa nova. Per quanto riguarda il soul Lucio Dalla diceva che “la cantante più soul d'Italia è Ornella Vanoni. E quando dorme, se russa, russa soul». Tra il soul e il jazz, poi, il passo è breve».
Sul palco gioca e scherza con il pubblico: un tempo non era così.
«Un tempo ero timida. Poi con il tempo sono cambiata e ho preso sicurezza di me. Oggi sul palco mi diverto».
Nello spettacolo canta anche Luigi Tenco, a gennaio saranno cinquant’anni...
«Ho parlato talmente tanto di Tenco che non ho più niente da dire. La sua morte resta qualcosa di quasi incomprensibile e assurdo».
Rilegge anche Sergio Endrigo, nato a Pola. Pensa che in vita sia stato sottovalutato?
«Non credo. Ha vinto Sanremo. No, non è stato affatto sottovalutato».
Quando il pubblico sente “Una lunga storia d’amore” pensa a lei e Gino Paoli. Cosa le ha dato musicalmente?
«Quella canzone non è più nella scaletta di questo spettacolo. Gino Paoli mi ha dato Gino Paoli, tutto intero, per alcuni anni. Eravamo due ragazzi di venticinque anni che scoprivano assieme la musica americana e quella francese».
Recentemente ha cantato a Vienna: com’è il suo rapporto con il pubblico non italiano?
«Buono, nel caso del concerto nella capitale austriaca addirittura straordinario, perché conoscendo il tedesco mi sono potuta permettere di farli ridere».
Una nuova voce femminile, italiana e straniera, che apprezza?
«In Italia sicuramente Malika Ayane. All’estero Lady Gaga. Ma in fondo anche Cher, che non invecchia mai».
Domani a Gorizia dovrebbe cantare “Accendi una luna nel cielo”, “Sorry seems to be the hardest word”, “Mi sono innamorata di te”, “Naufragio”, “Just in time”, “Samba in preludio”, “Vedrai vedrai”, “Senza fine”, “Che cosa c'è”, “Raindrops keep fallin' on my head”, “Caruso”, “Rossetto e cioccolato”, “Tu sì ’na cosa grande”, “Pata pata”. Finale con “Domani è un'altro giorno” e “Io che amo solo te”. Ama Trieste, piazza dell’Unità, ultimamente i libri di Roveredo. Chissà che non si conceda una scappatina in città...
Lei è Ornella Vanoni, eterna signora della canzone italiana, che domani alle 20.45 apre la stagione del Teatro Verdi di Gorizia con il suo nuovo spettacolo “Free soul”. Letteralmente “anima libera”, e lei lo è, lo è sempre stata, da quando nella seconda metà degli anni Cinquanta Giorgio Strehler se l’era inventata al Piccolo Teatro di Milano “cantante della mala”, con brani capolavoro come “Ma mi”, “Le mantellate”, “Hanno ammazzato il Mario”... Ma i richiami del titolo del nuovo spettacolo vanno ovviamente al jazz, al free, al soul, all’improvvisazione, ma anche alla bossa nova, al Brasile di Vinicius de Moraes (la cui voce apre lo spettacolo) e di Toquinho.
Signora, è vero che lo spettacolo nasce da due chiacchiere con il jazzista Paolo Fresu?
«Sì. Avevo voglia di lasciare il pop e di entrare nel jazz, Paolo mi ha dato due musicisti di talento di cui lui ha piena fiducia: Roberto Cipelli al piano e Bebo Ferra alla chitarra. Ho aggiunto il violoncellista Piero Salvatori, che rende il trio molto particolare».
L’incontro con Vinicius?
«Bardotti all’epoca era il mio produttore ma anche il traduttore in italiano di tutte le sue cose. Ebbe questa idea. Siamo andati a San Paolo e a casa di Vinicius ci ha raggiunti Toquinho. È nata così l’idea di fare un disco insieme (“La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria”, 1976 - ndr)».
Cosa ricorda degli “anni brasiliani”?
«È stato un periodo meraviglioso, nel quale abbiamo suonato, riso, pianto, mangiato, bevuto, ci siamo innamorati, lasciati...».
Jazz, bossa nova, soul: cosa significano per lei?
«La bossa nova fa parte del Brasile, l’ha inventata Joao Gilberto, ma non tutto il Brasile è bossa nova. Per quanto riguarda il soul Lucio Dalla diceva che “la cantante più soul d'Italia è Ornella Vanoni. E quando dorme, se russa, russa soul». Tra il soul e il jazz, poi, il passo è breve».
Sul palco gioca e scherza con il pubblico: un tempo non era così.
«Un tempo ero timida. Poi con il tempo sono cambiata e ho preso sicurezza di me. Oggi sul palco mi diverto».
Nello spettacolo canta anche Luigi Tenco, a gennaio saranno cinquant’anni...
«Ho parlato talmente tanto di Tenco che non ho più niente da dire. La sua morte resta qualcosa di quasi incomprensibile e assurdo».
Rilegge anche Sergio Endrigo, nato a Pola. Pensa che in vita sia stato sottovalutato?
«Non credo. Ha vinto Sanremo. No, non è stato affatto sottovalutato».
Quando il pubblico sente “Una lunga storia d’amore” pensa a lei e Gino Paoli. Cosa le ha dato musicalmente?
«Quella canzone non è più nella scaletta di questo spettacolo. Gino Paoli mi ha dato Gino Paoli, tutto intero, per alcuni anni. Eravamo due ragazzi di venticinque anni che scoprivano assieme la musica americana e quella francese».
Recentemente ha cantato a Vienna: com’è il suo rapporto con il pubblico non italiano?
«Buono, nel caso del concerto nella capitale austriaca addirittura straordinario, perché conoscendo il tedesco mi sono potuta permettere di farli ridere».
Una nuova voce femminile, italiana e straniera, che apprezza?
«In Italia sicuramente Malika Ayane. All’estero Lady Gaga. Ma in fondo anche Cher, che non invecchia mai».
Domani a Gorizia dovrebbe cantare “Accendi una luna nel cielo”, “Sorry seems to be the hardest word”, “Mi sono innamorata di te”, “Naufragio”, “Just in time”, “Samba in preludio”, “Vedrai vedrai”, “Senza fine”, “Che cosa c'è”, “Raindrops keep fallin' on my head”, “Caruso”, “Rossetto e cioccolato”, “Tu sì ’na cosa grande”, “Pata pata”. Finale con “Domani è un'altro giorno” e “Io che amo solo te”. Ama Trieste, piazza dell’Unità, ultimamente i libri di Roveredo. Chissà che non si conceda una scappatina in città...
IL GATTO ROSSO, LIBRO DI CESCHIA (su Articolo 21)
Il sindacato dei giornalisti negli anni Settanta aveva un nome e un cognome: Luciano Ceschia. Triestino, classe 1934, è stato infatti segretario generale della Fnsi per dieci anni, firmando ben cinque contratti. La sua storia sindacale, ma anche quella politica (negli anni Sessanta era stato giovanissimo assessore democristiano in una giunta comunale a Trieste, negli anni Ottanta aveva tentato senza successo la corsa al parlamento europeo con il Pci) e professionale, torna ora sulle pagine del libro Il gatto rosso, sottotitolo “Tasi, picio, te prego”, edizioni Mgs Press.
Ceschia racconta sessant’anni di professione, da precario a direttore. Comincia come “abusivo” (come si diceva un tempo…) in quel Piccolo che poi avrebbe diretto per tre anni, come giornalista al Gazzettino e alla Rai del Friuli Venezia Giulia. Dopo il quotidiano triestino dirige anche l’Alto Adige. Memorabile lo scambio di battute, riportato nel libro, con Chino Alessi, all’epoca potente direttore proprietario del quotidiano triestino. Il giovane cronista chiede se non è finalmente arrivato il suo turno per la sospirata assunzione, il direttore dice che ha «altri progetti”, lui prende cappello e sibila «non metterò più piede in questa azienda. O meglio, la informo che tornerò da direttore». Cosa poi puntualmente avvenuta.
Storie, episodi, ricordi, aneddoti. Come lo scambio a distanza con Montanelli, che quando la redazione del Piccolo si divide e sciopera all’arrivo del nuovo direttore Ceschia, che aveva fatto inserire nel contratto nazionale la clausola sul gradimento della redazione al nuovo arrivato, lo fulmina sul Giornale con queste parole: «Chi di contratto ferisce, di contratto perisce».
Ceschia racconta tutto. Professione, sindacato, vita privata. Dice che si è divertito, rispettando sempre le regole. Aveva e mantiene fama di “non affidabile”. Di certo è uomo del sindacato dei giornalisti. Sono rari i casi di giornalisti diventati direttori che mantengono la passione per il sindacato. Per questo i suoi interventi al consiglio nazionale della Fnsi, di cui è componente “a vita” per i suoi trascorsi da segretario generale, sono sempre ascoltati con rispetto e attenzione. Per questo continua a dare il suo contributo di esperienza e saggezza all’Associazione della stampa del Friuli Venezia Giulia. Di cui da qualche mese è presidente onorario.
giovedì 3 novembre 2016
EDOARDO DE ANGELIS PRESENTA ALBUM SABATO A UDINE
«La bellezza che non muta, che brilla nel tempo, è sconosciuta, poco praticata, o dimenticata. Così è anche per le canzoni. Questo album racchiude il desiderio di riportare all’attenzione generale alcune canzoni d’autore che sono state importanti per la nostra storia, la nostra cultura, la nostra vita. Non solo come valori sentimentali, ma anche di formazione».
Parola di Edoardo De Angelis, figura storica della nostra canzone d’autore, dai tempi del Folkstudio e della Schola Cantorum (“Lella”, ’71), che sabato presenta dal vivo il suo nuovo album “Il cantautore necessario” a Udine: alle 18 all’Angolo della musica e alle 21 al Caffè Caucigh.
«Una voce così forte - prosegue l’artista, nato a Roma nel ’45 -, così presente, quella dei cantautori, da diventare necessaria. Probabilmente un gran numero di giovani non conosce queste canzoni, non le ha mai ascoltate. E magari qualcuno tra i meno giovani può averle dimenticate».
Ancora De Angelis: «L’idea di questo lavoro era accesa, sotto la cenere, già da tempo, quando ne parlai con Francesco De Gregori. Il progetto gli sembrò molto interessante, tanto che ne assunse personalmente la direzione artistica, regalandomi consigli preziosi sull’impostazione del lavoro, sulla scelta dei brani e degli artisti da rappresentare».
«La collaborazione con De Gregori - aggiunge - si è spinta fino alla sua presenza nell’album, con l’armonica e una partecipazione in voce. Per la costruzione dell’edificio musicale ho invece chiamato Michele Ascolese, compagno di viaggio per tanti anni di Fabrizio De André».
La presentazione a Udine non è casuale. «All’Angolo della musica - spiega De Angelis, che sarà accompagnato dai chitarristi Giovanni Pelosi e Mario Fales, specialisti nella tecnica del “fingerpicking” - ho già presentato in anteprima altri album. Sono molto legato alla città e al Friuli, che per me una seconda casa: da molti anni faccio parte del direttivo dell’Associazione Canzoni di Confine, e per quattro anni sono stato direttore dei progetti speciali di Folkest».
Fra i brani dell’album: “La canzone dell’amore perduto” (De Andrè), “Amara terra mia” (Modugno), “Santa Lucia” (De Gregori), “Cosa portavi bella ragazza” (Jannacci), “Io e te Maria” (Ciampi), “Io che amo solo te” (Endrigo); “Fratello che guardi il mondo” (Fossati), “Porta romana” (Gaber), “Il mare, il cielo, un uomo” (Paoli), “La casa nel parco” (Lauzi), “La casa in riva al mare” (Dalla), “Se stasera sono qui” (Tenco).
Parola di Edoardo De Angelis, figura storica della nostra canzone d’autore, dai tempi del Folkstudio e della Schola Cantorum (“Lella”, ’71), che sabato presenta dal vivo il suo nuovo album “Il cantautore necessario” a Udine: alle 18 all’Angolo della musica e alle 21 al Caffè Caucigh.
«Una voce così forte - prosegue l’artista, nato a Roma nel ’45 -, così presente, quella dei cantautori, da diventare necessaria. Probabilmente un gran numero di giovani non conosce queste canzoni, non le ha mai ascoltate. E magari qualcuno tra i meno giovani può averle dimenticate».
Ancora De Angelis: «L’idea di questo lavoro era accesa, sotto la cenere, già da tempo, quando ne parlai con Francesco De Gregori. Il progetto gli sembrò molto interessante, tanto che ne assunse personalmente la direzione artistica, regalandomi consigli preziosi sull’impostazione del lavoro, sulla scelta dei brani e degli artisti da rappresentare».
«La collaborazione con De Gregori - aggiunge - si è spinta fino alla sua presenza nell’album, con l’armonica e una partecipazione in voce. Per la costruzione dell’edificio musicale ho invece chiamato Michele Ascolese, compagno di viaggio per tanti anni di Fabrizio De André».
La presentazione a Udine non è casuale. «All’Angolo della musica - spiega De Angelis, che sarà accompagnato dai chitarristi Giovanni Pelosi e Mario Fales, specialisti nella tecnica del “fingerpicking” - ho già presentato in anteprima altri album. Sono molto legato alla città e al Friuli, che per me una seconda casa: da molti anni faccio parte del direttivo dell’Associazione Canzoni di Confine, e per quattro anni sono stato direttore dei progetti speciali di Folkest».
Fra i brani dell’album: “La canzone dell’amore perduto” (De Andrè), “Amara terra mia” (Modugno), “Santa Lucia” (De Gregori), “Cosa portavi bella ragazza” (Jannacci), “Io e te Maria” (Ciampi), “Io che amo solo te” (Endrigo); “Fratello che guardi il mondo” (Fossati), “Porta romana” (Gaber), “Il mare, il cielo, un uomo” (Paoli), “La casa nel parco” (Lauzi), “La casa in riva al mare” (Dalla), “Se stasera sono qui” (Tenco).
SAN GIUSTO D'ORO ALLA PSICHIATRIA TRIESTINA NEL RICORDO DI BASAGLIA, TARGA SPECIALE A MARIO LUZZATTO FEGIZ, EDIZIONE 2016 DEDICATA A GIULIO REGENI
Il
San Giusto d'oro 2016 va alla Psichiatria triestina "nel ricordo di
Franco Basaglia", la targa speciale del San Giusto d'oro al giornalista
Mario Luzzatto Fegiz. L'edizione di quest'anno del premio, nato nel 1967
e organizzato dall'Assostampa Fvg e dal Gruppo Giuliano Cronisti, con
la collaborazione del Comune di Trieste e della Fondazione CrTrieste, è
dedicata alla memoria di Giulio Regeni: figlio di queste terre,
ricercatore universitario ma anche appassionato autore di articoli,
barbaramente assassinato a febbraio in Egitto, sulla cui morte ancora
non si conosce la verità.
"Con
questo premio alla psichiatria triestina - dice Carlo Muscatello,
presidente dell'Assostampa Fvg - abbiamo voluto sottolineare il lavoro
delle tante donne e dei tanti uomini che nei trentasei anni trascorsi
dalla scomparsa di Basaglia hanno portato avanti le sue intuizioni e le
sue idee. La chiusura dei manicomi seguita alla legge 180 del 1978 ha
significato la restituzione della dignità e dei diritti a tutte le
persone, comprese quelle soggette alla malattia e al disagio mentale,
che prima di Basaglia vivevano segregate. La cosiddetta "rivoluzione
basagliana" è nata qui, dopo le prime esperienze a Gorizia e a Parma. E
da anni studiosi, ricercatori e addetti ai lavori arrivano da tutto il
mondo a Trieste proprio per studiare sul campo l'organizzazione del
locale Dipartimento di salute mentale".
"Con la targa speciale a Mario Luzzatto Fegiz - aggiunge Muscatello - diamo invece il giusto riconoscimento a un giornalista nato a Trieste, che da mezzo secolo non vive più qui, ma non ha mai dimenticato la sua città d'origine. Sul Corriere della Sera, alla radio e in televisione è diventato nel corso di una lunga carriera firma, voce e volto molto popolare: il decano dei critici musicali italiani, ma anche uomo di spettacolo, come ha dimostrato il suo show "Io odio i talent show", visto un paio d'anni fa anche in un Rossetti tutto esaurito per l'occasione. Esattamente quarant'anni fa, il San Giusto d'oro 1976 andava a suo padre Pierpaolo Luzzatto Fegiz: economista, padre della statistica italiana, fondatore della Doxa, accademico dei Lincei. Oggi, quarant'anni dopo, la targa speciale al figlio Mario".
.
La psichiatria triestina
Le idee, gli interrogativi, le pratiche che sostennero il lavoro di Franco Basaglia (1924-1980) avviarono una stagione di straordinari cambiamenti. Le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso nel mondo reale animarono la paziente “lunga marcia attraverso le istituzioni” che quella impensabile apertura aveva tumultuosamente avviato.
Quando
Basaglia entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte
alla violenza e all’orrore che scopre, è costretto a chiedersi
angosciato «che cos’è la psichiatria?». Da qui l’irreparabile rottura
del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento
anni, per la prima volta dalla sua nascita il manicomio, le culture e
le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un
capovolgimento irreversibile: “il malato e non la malattia”. "Con la targa speciale a Mario Luzzatto Fegiz - aggiunge Muscatello - diamo invece il giusto riconoscimento a un giornalista nato a Trieste, che da mezzo secolo non vive più qui, ma non ha mai dimenticato la sua città d'origine. Sul Corriere della Sera, alla radio e in televisione è diventato nel corso di una lunga carriera firma, voce e volto molto popolare: il decano dei critici musicali italiani, ma anche uomo di spettacolo, come ha dimostrato il suo show "Io odio i talent show", visto un paio d'anni fa anche in un Rossetti tutto esaurito per l'occasione. Esattamente quarant'anni fa, il San Giusto d'oro 1976 andava a suo padre Pierpaolo Luzzatto Fegiz: economista, padre della statistica italiana, fondatore della Doxa, accademico dei Lincei. Oggi, quarant'anni dopo, la targa speciale al figlio Mario".
.
La psichiatria triestina
Le idee, gli interrogativi, le pratiche che sostennero il lavoro di Franco Basaglia (1924-1980) avviarono una stagione di straordinari cambiamenti. Le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso nel mondo reale animarono la paziente “lunga marcia attraverso le istituzioni” che quella impensabile apertura aveva tumultuosamente avviato.
I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà, intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile.
La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo Stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.
Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire. Una storia di civiltà, una storia soprattutto triestina.
.
Mario Luzzatto Fegiz
E' nato a Trieste nel gennaio 1947. Dopo l’esordio nel 1969 nel programma radiofonico “Per voi giovani”, si è affermato come uno dei critici musicali più noti e apprezzati del paese, come firma del Corriere della Sera, collaborando con altre testate e lavorando alla Rai, dove ha condotto per anni in televisione la trasmissione “Mister Fantasy” e alla radio “Fegiz Files”. Nella sua carriera ha anche lavorato direttamente nel campo musicale, scrivendo testi per la cantante Giuni Russo. Ha fondato una delle prime emittenti radiofoniche private italiane, Radio Milano Centrale (poi diventata Radio Popolare), e lavorato per Radio Capodistria, Radio della Svizzera italiana, Rete 105 e Radio Montecarlo. È stato direttore editoriale della collana musicale edita da Sperling & Kupfer e docente dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Milano. Ha portato a teatro lo spettacolo “Io odio i talent show”, pubblicando anche il libro omonimo. Per i suoi settant'anni, a gennaio pubblicherà l’autobiografia intitolata "Troppe zeta nel cognome".
lunedì 24 ottobre 2016
LACOSEGLIAZ, LE ULTIME MUSICHE
Aveva lavorato fino all’ultimo. Duramente provato dalla malattia, nella casa sul colle di Scorcola dove viveva da tanti anni Alfredo Lacosegliaz - scomparso il 28 settembre e ricordato due settimane fa in una toccante serata all’auditorium del Revoltella, alla quale ha partecipato fra gli altri Moni Ovadia - ha continuato finchè ha potuto a scrivere, a comporre musica, a sistemare il suo archivio, a parlare con gli amici.
Fra le ultime cose, oltre alle installazioni audio per la mostra al Parco della musica di Roma “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” di Paolo Rumiz, anche la colonna sonora del film di Mauro Caputo “Il profumo del tempo delle favole”, documentario tratto dal libro di Giorgio Pressburger “Sulla fede”, presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Un percorso sulla fede, ma anche sul male, sulla sofferenza, che ripercorre la vita e il pensiero dello scrittore e drammaturgo nato a Budapest ma triestino d’adozione. E che restituisce un ritratto vibrante della città che è stata per secoli crocevia di civiltà. La Trieste multietnica, multiculturale, multireligiosa di cui l’interprete musicale per eccellenza è stato in tutti questi anni proprio Lacosegliaz.
Le sue musiche sorreggono le fasi di una ricerca introspettiva ed esistenziale, quasi un pellegrinaggio interiore di un non credente che ammette come «la disperazione della fede sia necessaria al nostro essere uomini».
Alfredo ci mette la sua arte, le sue musiche, echi di lontane suggestioni balcaniche ma anche canti gregoriani, violini struggenti e contaminazioni sonore figlie di culture diverse che ben si sposano alle immagini di repertorio dell’Istituto Luce, che offrono frammenti di un’Italia lontana.
Fra le ultime cose, oltre alle installazioni audio per la mostra al Parco della musica di Roma “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” di Paolo Rumiz, anche la colonna sonora del film di Mauro Caputo “Il profumo del tempo delle favole”, documentario tratto dal libro di Giorgio Pressburger “Sulla fede”, presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Un percorso sulla fede, ma anche sul male, sulla sofferenza, che ripercorre la vita e il pensiero dello scrittore e drammaturgo nato a Budapest ma triestino d’adozione. E che restituisce un ritratto vibrante della città che è stata per secoli crocevia di civiltà. La Trieste multietnica, multiculturale, multireligiosa di cui l’interprete musicale per eccellenza è stato in tutti questi anni proprio Lacosegliaz.
Le sue musiche sorreggono le fasi di una ricerca introspettiva ed esistenziale, quasi un pellegrinaggio interiore di un non credente che ammette come «la disperazione della fede sia necessaria al nostro essere uomini».
Alfredo ci mette la sua arte, le sue musiche, echi di lontane suggestioni balcaniche ma anche canti gregoriani, violini struggenti e contaminazioni sonore figlie di culture diverse che ben si sposano alle immagini di repertorio dell’Istituto Luce, che offrono frammenti di un’Italia lontana.
venerdì 21 ottobre 2016
EZIO MAURO: CONIUGARE SOLIDARIETA' E SICUREZZA
Da un lato milioni di poveri, in fuga da guerre e miseria, che chiedono soltanto di essere aiutati a vivere. Dall’altro cittadini che esprimono sempre più forte una domanda di sicurezza. Sullo sfondo di un’Europa che non fa la sua parte fino in fondo, attraversata da nuovi nazionalismi, dalla tentazione di erigere muri, barriere, recinzioni.
Ne hanno parlato ieri sera a Trieste, al Salone degli incanti, nell’ambito di “Confini. Parole senza frontiere”, l’ex direttore e ora editorialista di “Repubblica” Ezio Mauro e la docente universitaria Marina Calculli, stimolati dalle domande e dalle riflessioni del direttore del “Piccolo” Enzo D’Antona. Dopo il saluto del sindaco Dipiazza e della governatrice Serracchiani - che ha fatto un forte richiamo ai valori europei -, la domanda delle domande è stata posta da D’Antona: «Le democrazie possono conciliare queste spinte contrapposte?». Soprattutto ora che la fase dell’emergenza sembra lasciare il posto a un fatto strutturale.
Mauro: «Le democrazie hanno un obbligo in più, rispetto ad altri regimi. Dobbiamo farci carico di questa domanda disperata di accoglienza, di solidarietà, di sopravvivenza. Voltarsi dall’altra parte sarebbe sacrilego. Ma dobbiamo chiedere il rispetto delle nostre leggi. E nel contempo dobbiamo rispondere all’inquietudine, alla domanda di sicurezza degli “indigeni”, soprattutto di quelli più anziani, delle popolazioni dei piccoli centri. Sapendo che c’è chi vuole incrementare questa paura, spesso per meri calcoli elettorali. Una democrazia che non garantisce la sicurezza tradisce la sua funzione».
Canculli: «Mettere assieme immigrazione e terrorismo è la cosa più sbagliata che possiamo fare. Sono fenomeni distinti. Anche se la presenza del terrorismo di matrice islamica in Europa ha fatto nascere l’equazione immigrazione uguale terrorismo. Dobbiamo riportare tutto sul piano della responsabilità politica. Rispettare il diritto internazionale significa anche dare accoglienza ai rifugiati. Le emigrazioni sono fenomeni normali, che non si possono fermare con frontiere e fili spinati».
«Troppo facile emozionarsi per la foto del bimbo morto sulla spiaggia - ha concluso Ezio Mauro -, salvo poi dimenticarla subito: è la stessa differenza che c’è fra compassione e condivisione, manca l’assunzione di responsabilità. Stiamo riducendo l’immigrato al suo corpo, vogliamo tenerlo fuori dal nostro spazio fisico. Tutto il sistema occidentale sta andando in crisi, non è più in grado di gestire fenomeni complessi. Lasceremo ai nostri figli un mondo molto più insicuro di quello che i nostri padri, che pure uscivano dalla guerra, hanno lasciato a noi. Chi perde o non trova lavoro dice che la democrazia non funziona. Ma la democrazia è un sistema che vale per tutti oppure non funziona».
Ne hanno parlato ieri sera a Trieste, al Salone degli incanti, nell’ambito di “Confini. Parole senza frontiere”, l’ex direttore e ora editorialista di “Repubblica” Ezio Mauro e la docente universitaria Marina Calculli, stimolati dalle domande e dalle riflessioni del direttore del “Piccolo” Enzo D’Antona. Dopo il saluto del sindaco Dipiazza e della governatrice Serracchiani - che ha fatto un forte richiamo ai valori europei -, la domanda delle domande è stata posta da D’Antona: «Le democrazie possono conciliare queste spinte contrapposte?». Soprattutto ora che la fase dell’emergenza sembra lasciare il posto a un fatto strutturale.
Mauro: «Le democrazie hanno un obbligo in più, rispetto ad altri regimi. Dobbiamo farci carico di questa domanda disperata di accoglienza, di solidarietà, di sopravvivenza. Voltarsi dall’altra parte sarebbe sacrilego. Ma dobbiamo chiedere il rispetto delle nostre leggi. E nel contempo dobbiamo rispondere all’inquietudine, alla domanda di sicurezza degli “indigeni”, soprattutto di quelli più anziani, delle popolazioni dei piccoli centri. Sapendo che c’è chi vuole incrementare questa paura, spesso per meri calcoli elettorali. Una democrazia che non garantisce la sicurezza tradisce la sua funzione».
Canculli: «Mettere assieme immigrazione e terrorismo è la cosa più sbagliata che possiamo fare. Sono fenomeni distinti. Anche se la presenza del terrorismo di matrice islamica in Europa ha fatto nascere l’equazione immigrazione uguale terrorismo. Dobbiamo riportare tutto sul piano della responsabilità politica. Rispettare il diritto internazionale significa anche dare accoglienza ai rifugiati. Le emigrazioni sono fenomeni normali, che non si possono fermare con frontiere e fili spinati».
«Troppo facile emozionarsi per la foto del bimbo morto sulla spiaggia - ha concluso Ezio Mauro -, salvo poi dimenticarla subito: è la stessa differenza che c’è fra compassione e condivisione, manca l’assunzione di responsabilità. Stiamo riducendo l’immigrato al suo corpo, vogliamo tenerlo fuori dal nostro spazio fisico. Tutto il sistema occidentale sta andando in crisi, non è più in grado di gestire fenomeni complessi. Lasceremo ai nostri figli un mondo molto più insicuro di quello che i nostri padri, che pure uscivano dalla guerra, hanno lasciato a noi. Chi perde o non trova lavoro dice che la democrazia non funziona. Ma la democrazia è un sistema che vale per tutti oppure non funziona».
martedì 18 ottobre 2016
TIZIANO FERRO 11-6 LIGNANO APRE TOUR
Nuovo botto per Lignano Sabbiadoro. L’estate appena conclusa è stata quella della data zero del “Live Kom 016” di Vasco Rossi, che nella località balneare friulana ha tenuto anche le prove dei concerti allo Stadio Olimpico di Roma. L’estate prossima l’operazione si ripeterà con Tiziano Ferro, che aprirà il suo prossimo tour da Lignano l’11 giugno. E anche lui terrà allo stadio comunale Teghil dieci giorni di prove prima del debutto ufficiale (nel suo caso dunque non si tratterà di una data zero, ma di un battesimo vero e proprio del tour 2017).
Ben prima dell’appuntamento estivo, c’è però un’altra data che i fan del cantante di Latina (famiglia di origine veneta, per la precisione del paese di Cavarzere, provincia di Venezia) hanno già segnato sul calendario. Il 2 dicembre uscirà infatti “Il mestiere della vita” (Universal Music), nuovo album di inediti di cui è stata appena diffusa la copertina. Nella quale il trentaseienne artista, sorridente in un elegante completo blu, si sistema la cravatta sullo sfondo di quella è stata definita “una ricostruzione urbana surreale, liberamente ispirata alla città di Los Angeles”, dove in effetti è stato registrato l'album.
Album che arriva a due anni dalla pubblicazione di “TZN - The Best of Tiziano Ferro”, sette dischi di platino per oltre 350 mila copie vendute, ovvero il disco più venduto in Italia negli ultimi tre anni. All’epoca lui stesso lo aveva definito “un viaggio nella scatola della memoria”, una sorta di viaggio lineare nel tempo. Il risultato fu una raccolta ricca, con tutti i grandi successi ma anche tanti inediti: otto nell’edizione da due cd e ben sedici in quella deluxe con quattro dischi (in più c’era anche la versione con dvd e quella con quattro lp). «Mi avevano chiesto - disse l’artista in quell’occasione - di fare una raccolta già nel 2011, alla Emi, la mia vecchia casa discografica a cui devo tutto. Ma all’epoca non vedevo ancora chiara la mia storia...».
Con ogni probabilità il nuovo album segnerà un ulteriore capitolo di una storia di successi che parla di oltre dieci milioni di dischi in Italia e nel mondo. Non dimentichiamo infatti che Tiziano Ferro è uno dei nostri artisti - assieme a Eros Ramazzotti, Laura Pausini e Zucchero, per non parlare ovviamente del fenomeno planetario chiamato Andrea Bocelli - più conosciuti e amati nel mondo.
Basti pensare che in carriera ha ottenuto molti riconoscimenti italiani e internazionali: dal Billboard Latin Music Award all’European Border Breakers Award, dall’Mtv Europe Music Award all’Mtv Italia Award e a tanti altri (Nickelodeon Kids’ Choice Award, Onstage Award, Premios Cadena Dial, Premios Oye!, Premio Lunezia, Rockol Award...).
Proprio sull’onda di questo successo sono stati recentemente ripubblicati dalla Carosello Records (su licenza Nisa) i primi tre album dell’artista. Stiamo parlando di “Rosso relativo” (uscito nel 2001, pochi mesi dopo il primo singolo “Xdono”), “111 Centoundici” e “Nessuno è solo”: rimessi sul mercato delle piattaforme streaming e download, oltre che in cd e in vinile, in una versione da collezione.
Ma torniamo al #TZNtour2017 (questo è l’hashtag ufficiale della tournée, pubblicato in un tweet dallo stesso Ferro), il primo dopo i concerti negli stadi italiani e nei palasport europei dell’anno scorso: “Lo Stadio Tour 2015”, oltre 300mila spettatori in otto concerti nel nostro paese, e una bella serie di “tutto esaurito” nelle venti date disseminate in giro per il continente fra novembre e dicembre 2015.
Dopo l’esordio a Lignano Sabbiadoro l’11 giugno, un vero giro d’Italia: 16 giugno Milano (Stadio San Siro), 21 giugno Torino (Stadio Olimpico), 24 giugno Bologna (Stadio Dall’Ara), 28 giugno Roma (Stadio Olimpico), 5 luglioBari (Stadio Arena della Vittoria), 8 luglio Messina (Stadio San Filippo), 12 luglio Salerno (Stadio Arechi), 15 luglio Firenze (Stadio Franchi).
Le prevendite dei biglietti sono già cominciate su www.livenation.it e su www.ticketone.it. E visto gli strategici “buchi” sistemati fra una data e l’altra, come spesso accade in questi casi è possibile qualche raddoppio in caso di “sold out” già in prevendita.
Ben prima dell’appuntamento estivo, c’è però un’altra data che i fan del cantante di Latina (famiglia di origine veneta, per la precisione del paese di Cavarzere, provincia di Venezia) hanno già segnato sul calendario. Il 2 dicembre uscirà infatti “Il mestiere della vita” (Universal Music), nuovo album di inediti di cui è stata appena diffusa la copertina. Nella quale il trentaseienne artista, sorridente in un elegante completo blu, si sistema la cravatta sullo sfondo di quella è stata definita “una ricostruzione urbana surreale, liberamente ispirata alla città di Los Angeles”, dove in effetti è stato registrato l'album.
Album che arriva a due anni dalla pubblicazione di “TZN - The Best of Tiziano Ferro”, sette dischi di platino per oltre 350 mila copie vendute, ovvero il disco più venduto in Italia negli ultimi tre anni. All’epoca lui stesso lo aveva definito “un viaggio nella scatola della memoria”, una sorta di viaggio lineare nel tempo. Il risultato fu una raccolta ricca, con tutti i grandi successi ma anche tanti inediti: otto nell’edizione da due cd e ben sedici in quella deluxe con quattro dischi (in più c’era anche la versione con dvd e quella con quattro lp). «Mi avevano chiesto - disse l’artista in quell’occasione - di fare una raccolta già nel 2011, alla Emi, la mia vecchia casa discografica a cui devo tutto. Ma all’epoca non vedevo ancora chiara la mia storia...».
Con ogni probabilità il nuovo album segnerà un ulteriore capitolo di una storia di successi che parla di oltre dieci milioni di dischi in Italia e nel mondo. Non dimentichiamo infatti che Tiziano Ferro è uno dei nostri artisti - assieme a Eros Ramazzotti, Laura Pausini e Zucchero, per non parlare ovviamente del fenomeno planetario chiamato Andrea Bocelli - più conosciuti e amati nel mondo.
Basti pensare che in carriera ha ottenuto molti riconoscimenti italiani e internazionali: dal Billboard Latin Music Award all’European Border Breakers Award, dall’Mtv Europe Music Award all’Mtv Italia Award e a tanti altri (Nickelodeon Kids’ Choice Award, Onstage Award, Premios Cadena Dial, Premios Oye!, Premio Lunezia, Rockol Award...).
Proprio sull’onda di questo successo sono stati recentemente ripubblicati dalla Carosello Records (su licenza Nisa) i primi tre album dell’artista. Stiamo parlando di “Rosso relativo” (uscito nel 2001, pochi mesi dopo il primo singolo “Xdono”), “111 Centoundici” e “Nessuno è solo”: rimessi sul mercato delle piattaforme streaming e download, oltre che in cd e in vinile, in una versione da collezione.
Ma torniamo al #TZNtour2017 (questo è l’hashtag ufficiale della tournée, pubblicato in un tweet dallo stesso Ferro), il primo dopo i concerti negli stadi italiani e nei palasport europei dell’anno scorso: “Lo Stadio Tour 2015”, oltre 300mila spettatori in otto concerti nel nostro paese, e una bella serie di “tutto esaurito” nelle venti date disseminate in giro per il continente fra novembre e dicembre 2015.
Dopo l’esordio a Lignano Sabbiadoro l’11 giugno, un vero giro d’Italia: 16 giugno Milano (Stadio San Siro), 21 giugno Torino (Stadio Olimpico), 24 giugno Bologna (Stadio Dall’Ara), 28 giugno Roma (Stadio Olimpico), 5 luglioBari (Stadio Arena della Vittoria), 8 luglio Messina (Stadio San Filippo), 12 luglio Salerno (Stadio Arechi), 15 luglio Firenze (Stadio Franchi).
Le prevendite dei biglietti sono già cominciate su www.livenation.it e su www.ticketone.it. E visto gli strategici “buchi” sistemati fra una data e l’altra, come spesso accade in questi casi è possibile qualche raddoppio in caso di “sold out” già in prevendita.
venerdì 14 ottobre 2016
NOBEL LETTERATURA A BOB DYLAN
«Non è mai troppo tardi», ha detto Francesco De Gregori, che a Bob Dylan si è sempre ispirato, dedicandogli anche il recente album “De Gregori canta Bob Dylan. Amore e furto”. Ma tutto il mondo della musica - e non solo quello - festeggia la notizia del Nobel a “His Bobness” (parafrasi di Sua Santità...), come lo chiamano gli inglesi. Una notizia attesa in realtà da anni, visto che il suo nome circolava spesso fra i papabili della vigilia, salvo poi venir scavalcato all’ultimo miglio. Anzi, recentemente le sue quotazioni erano in calo. Nel 2011 gli scommettitori lo davano a 8 a 1, quest’anno era sceso 50 a 1. E invece giustizia è stata finalmente fatta...
Consacrazione dunque più che meritata e forse addirittura tardiva per Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, nato nel 1941 a Duluth, Minnesota, uno dei più grandi poeti e autori e cantanti di tutti i tempi. Secondo molti, il più grande di tutti. Uno di quelli (con Beatles, Rolling Stones, Elvis...) senza i quali la storia della musica popolare del Novecento non sarebbe stata la stessa.
Lui, il ragazzo riccioluto che sbucava dalla copertina di “Highway 61 revisited”, ai tempi del Vietnam aveva levato alto il suo urlo contro i signori della guerra (“Masters of war”, '62), ci aveva detto che i tempi stavano cambiando, ci aveva forse illuso che la risposta stesse effettivamente soffiando nel vento. Sfornava canzoni per una generazione cresciuta a pane ideali e utopia, con quella chitarra sempre appresso, e l’armonica a bocca che gracchiava quasi come quella voce che faceva storcere il naso a puristi del belcanto e benpensanti. Diventando negli anni Sessanta il riferimento di milioni di giovani donne e giovani uomini che, anche attraverso la musica, sognavano di cambiare il mondo.
Amato e da alcuni odiato, spesso discusso, tante volte incoerente. Una volta l’aveva ammesso: «Sì, sono incoerente, anche nei confronti di me stesso. È la natura della mia personalità. Posso essere euforico adesso e pensieroso un momento dopo. E perchè ciò avvenga può bastare una nuvola che passa in cielo...». Incarnava e incarna l’America contraddittoria della chitarra e del fucile, di Barack Obama e della sedia elettrica, patria delle libertà e gendarme del mondo. Bob Dylan, l’interprete delle grandi utopie civili e musicali degli anni Sessanta a cui tutti devono qualcosa, ha sempre coltivato un punto di vista “altro” sulle cose della vita e del mondo rispetto a quello spacciato dal potere. E dunque andava e va sempre premiato.
Consacrazione dunque più che meritata e forse addirittura tardiva per Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, nato nel 1941 a Duluth, Minnesota, uno dei più grandi poeti e autori e cantanti di tutti i tempi. Secondo molti, il più grande di tutti. Uno di quelli (con Beatles, Rolling Stones, Elvis...) senza i quali la storia della musica popolare del Novecento non sarebbe stata la stessa.
Lui, il ragazzo riccioluto che sbucava dalla copertina di “Highway 61 revisited”, ai tempi del Vietnam aveva levato alto il suo urlo contro i signori della guerra (“Masters of war”, '62), ci aveva detto che i tempi stavano cambiando, ci aveva forse illuso che la risposta stesse effettivamente soffiando nel vento. Sfornava canzoni per una generazione cresciuta a pane ideali e utopia, con quella chitarra sempre appresso, e l’armonica a bocca che gracchiava quasi come quella voce che faceva storcere il naso a puristi del belcanto e benpensanti. Diventando negli anni Sessanta il riferimento di milioni di giovani donne e giovani uomini che, anche attraverso la musica, sognavano di cambiare il mondo.
Amato e da alcuni odiato, spesso discusso, tante volte incoerente. Una volta l’aveva ammesso: «Sì, sono incoerente, anche nei confronti di me stesso. È la natura della mia personalità. Posso essere euforico adesso e pensieroso un momento dopo. E perchè ciò avvenga può bastare una nuvola che passa in cielo...». Incarnava e incarna l’America contraddittoria della chitarra e del fucile, di Barack Obama e della sedia elettrica, patria delle libertà e gendarme del mondo. Bob Dylan, l’interprete delle grandi utopie civili e musicali degli anni Sessanta a cui tutti devono qualcosa, ha sempre coltivato un punto di vista “altro” sulle cose della vita e del mondo rispetto a quello spacciato dal potere. E dunque andava e va sempre premiato.
sabato 8 ottobre 2016
STRISCIONE REGENI / su ARTICOLO 21
Prima una “mozione urgente” di quattro consiglieri comunali per rimuovere lo striscione “Verità per Giulio Regeni” dalla facciata del municipio di Trieste, in piazza dell’Unità. Poi la mobilitazione di tanti triestini e del quotidiano “Il Piccolo”, che ha trasformato tutta la prima pagina in un enorme striscione giallo. Infine la decisione del sindaco Dipiazza, che – indispettito dal clamore suscitato dalla vicenda – non ha nemmeno aspettato la discussione in consiglio comunale della “mozione urgente” e ha fatto togliere lo striscione. Perché “é passato tanto tempo e si rischia l’assuefazione visiva”, perché “il turista che arriva a Trieste ha diritto di vedere le facciate dei palazzi in piazza Unità senza scritte e striscioni”, perché “il Pd ha organizzato questa gazzarra”.
«Una scelta che non comprendo – ha detto al “Piccolo” il filosofo Massimo Cacciari -, anche se sappiamo che uno striscione purtroppo non cambia le cose. Sarebbe stato serio parlarne con la famiglia del giovane, chiedere innanzitutto a loro se ritengono ancora utile che quello striscione rimanga lì. Assuefazione? Questo è vero, ma ormai siamo assuefatti anche alle centinaia di morti in mare, che stentano a trovare spazio persino sui giornali».
«Una scelta che non comprendo – ha detto al “Piccolo” il filosofo Massimo Cacciari -, anche se sappiamo che uno striscione purtroppo non cambia le cose. Sarebbe stato serio parlarne con la famiglia del giovane, chiedere innanzitutto a loro se ritengono ancora utile che quello striscione rimanga lì. Assuefazione? Questo è vero, ma ormai siamo assuefatti anche alle centinaia di morti in mare, che stentano a trovare spazio persino sui giornali».
Lapidario Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano e volto televisivo: «Una scelta assolutamente vergognosa, soprattutto per una città storicamente così importante per i valori della libertà, della democrazia e della tutela del dissenso».
«Ma cosa sta succedendo a Trieste?», chiede e si chiede Massimo Cirri, scrittore e conduttore radiofonico di “Caterpillar”. «Prima il tentativo di negare piazza Unità per il ricordo dell’annuncio delle leggi razziali. Ora questa storia. Cos’è, voglia di far vedere la propria cattiveria?».
«Trovo – prosegue Cirri – ci sia anche una componente di ipocrisia, nel dire che si crea un effetto di assuefazione: queste persone non hanno nemmeno il coraggio di fare una battaglia diretta. La verità è che la ferita è ancora aperta. È una scelta infelice come i nostri tempi, fra l’altro nella città dove Giulio ha studiato. Il turista che vede lo striscione? Vede che c’è una comunità unita nel chiedere verità…».
Moni Ovadia: «Ma io mi domando: questo sindaco e questa amministrazione, che si sono insediati da poco, non hanno cose più urgenti da fare? Che so, l’economia, la qualità della vita, la cultura…».
«Ma cosa sta succedendo a Trieste?», chiede e si chiede Massimo Cirri, scrittore e conduttore radiofonico di “Caterpillar”. «Prima il tentativo di negare piazza Unità per il ricordo dell’annuncio delle leggi razziali. Ora questa storia. Cos’è, voglia di far vedere la propria cattiveria?».
«Trovo – prosegue Cirri – ci sia anche una componente di ipocrisia, nel dire che si crea un effetto di assuefazione: queste persone non hanno nemmeno il coraggio di fare una battaglia diretta. La verità è che la ferita è ancora aperta. È una scelta infelice come i nostri tempi, fra l’altro nella città dove Giulio ha studiato. Il turista che vede lo striscione? Vede che c’è una comunità unita nel chiedere verità…».
Moni Ovadia: «Ma io mi domando: questo sindaco e questa amministrazione, che si sono insediati da poco, non hanno cose più urgenti da fare? Che so, l’economia, la qualità della vita, la cultura…».
«La argomentazioni, poi, mi sembrano risibili. Cosa vuol dire che dopo tanti mesi c’è l’effetto assuefazione? Allora con questo criterio rimuoviamo tutti i monumenti e i memoriali che ricordano fatti tragici. Non disturbare il turista? Allora non parliamo più di guerre, di Siria, delle migliaia di morti in mare. La verità è che questa scelta del Comune è un boomerang, scatena polemiche, divide i cittadini in maniera trasversale, non è una questione di destra e di sinistra, ma un fatto di civiltà».
Ezio Mauro, per vent’anni direttore e ora editorialista di “Repubblica”, sottolinea il ruolo dell’opinione pubblica in questa vicenda. Che «è stato ed è importantissimo – dice – nel richiedere verità e rifiutare spiegazioni di comodo. La memoria di una comunità è fondamentale. Non solo lo Stato e le istituzioni devono fare la loro parte».
«Anche le motivazioni addotte – aggiunge – mi sembrano deboli. C’è una sorta di galateo estetico, non bisogna parlare dei guai perchè ciò danneggia il Paese. Ma il bene di un Paese si fa chiedendo verità e trasparenza, e rimanendo al fianco della famiglia. Trovo dunque importante che Trieste continui a tenere un’attenzione speciale su questa dolorosa vicenda».
Gian Antonio Stella, scrittore e firma di punta del Corriere della Sera: «Capisco le ragioni del sindaco, capisco che ci sia un’assuefazione che a un certo momento può pesare sulla memoria delle persone. Capisco che se uno arriva a Trieste avrebbe piacere di vedere piazza dell’Unità nel suo splendore, senza striscioni che ricordino tragedie e cause peraltro nobilissime. Però togliere lo striscione in questo momento è come voler rimuovere l’effetto memoria su Regeni. E siccome la verità non è ancora arrivata, forse sarebbe stato il caso di lasciare lo striscione al suo posto. La storia ha i suoi tempi. E forse questo non era il momento adatto».
L’eco della vicenda ha raggiunto anche la giornalista triestina Giovanna Botteri, corrispondente Rai da New York: «Non possiamo camminare da soli. E una volta che abbiamo cominciato, dobbiamo prendere l’impegno solenne che andremo avanti, fino in fondo. Non possiamo tornare indietro. Queste cose Martin Luther King le diceva più di cinquant’anni fa. Ma valgono sempre, in tutte le battaglie per la verità. E la giustizia».
Ezio Mauro, per vent’anni direttore e ora editorialista di “Repubblica”, sottolinea il ruolo dell’opinione pubblica in questa vicenda. Che «è stato ed è importantissimo – dice – nel richiedere verità e rifiutare spiegazioni di comodo. La memoria di una comunità è fondamentale. Non solo lo Stato e le istituzioni devono fare la loro parte».
«Anche le motivazioni addotte – aggiunge – mi sembrano deboli. C’è una sorta di galateo estetico, non bisogna parlare dei guai perchè ciò danneggia il Paese. Ma il bene di un Paese si fa chiedendo verità e trasparenza, e rimanendo al fianco della famiglia. Trovo dunque importante che Trieste continui a tenere un’attenzione speciale su questa dolorosa vicenda».
Gian Antonio Stella, scrittore e firma di punta del Corriere della Sera: «Capisco le ragioni del sindaco, capisco che ci sia un’assuefazione che a un certo momento può pesare sulla memoria delle persone. Capisco che se uno arriva a Trieste avrebbe piacere di vedere piazza dell’Unità nel suo splendore, senza striscioni che ricordino tragedie e cause peraltro nobilissime. Però togliere lo striscione in questo momento è come voler rimuovere l’effetto memoria su Regeni. E siccome la verità non è ancora arrivata, forse sarebbe stato il caso di lasciare lo striscione al suo posto. La storia ha i suoi tempi. E forse questo non era il momento adatto».
L’eco della vicenda ha raggiunto anche la giornalista triestina Giovanna Botteri, corrispondente Rai da New York: «Non possiamo camminare da soli. E una volta che abbiamo cominciato, dobbiamo prendere l’impegno solenne che andremo avanti, fino in fondo. Non possiamo tornare indietro. Queste cose Martin Luther King le diceva più di cinquant’anni fa. Ma valgono sempre, in tutte le battaglie per la verità. E la giustizia».
STRISCIONE GIULIO REGENI / 2
Se il solo annuncio della “mozione urgente” aveva scatenato tutta una serie di commenti negativi e inviti a ripensarci, con la rimozione dello striscione giallo dalla facciata del municipio lo stupore e il disappunto hanno virato sui toni dell’indignazione. Anche nel mondo della cultura, dello spettacolo, del giornalismo, fra i cosiddetti intellettuali. Sul giornale di ieri avevamo già registrato le prese di posizione e la mobilitazione dell’attore Alessandro Gassmann, del filosofo Massimo Cacciari, di Massimo Cirri (anche dai microfoni di “Caterpillar”, su RadioDue), del “turista per caso” Patrizio Roversi, del giornalista sotto scorta dell’Espresso Giovanni Tizian, della storica voce Rai da Mosca Demetrio Volcic.
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«Ma io mi domando: questo sindaco e questa amministrazione, che si sono insediati da poco, non hanno cose più urgenti da fare? Che so, l’economia, la qualità della vita, la cultura...». Se lo chiede Moni Ovadia, uomo di teatro, massimo divulgatore della cultura yiddish in Italia, particolarmente legato a Trieste.
Che prosegue: «La argomentazioni, poi, mi sembrano risibili. Cosa vuol dire che dopo tanti mesi c’è l’effetto assuefazione? Allora con questo criterio rimuoviamo tutti i monumenti e i memoriali che ricordano fatti tragici. Non disturbare il turista? Allora non parliamo più di guerre, di Siria, delle migliaia di morti in mare. La verità è che questa scelta del Comune è un boomerang, scatena polemiche, divide i cittadini in maniera trasversale, non è una questione di destra e di sinistra, ma un fatto di civiltà».
Ezio Mauro, per vent’anni direttore e ora editorialista di “Repubblica”, sottolinea il ruolo dell’opinione pubblica in questa vicenda. Che «è stato ed è importantissimo - dice - nel richiedere verità e rifiutare spiegazioni di comodo. La memoria di una comunità è fondamentale. Non solo lo Stato e le istituzioni devono fare la loro parte».
«Anche le motivazioni addotte - aggiunge - mi sembrano deboli. C’è una sorta di galateo estetico, non bisogna parlare dei guai perchè ciò danneggia il Paese. Ma il bene di un Paese si fa chiedendo verità e trasparenza, e rimanendo al fianco della famiglia. Trovo dunque importante che Trieste continui a tenere un’attenzione speciale su questa dolorosa vicenda».
Gian Antonio Stella, scrittore e firma di punta del Corriere della Sera: «Capisco le ragioni del sindaco, capisco che ci sia un’assuefazione che a un certo momento può pesare sulla memoria delle persone. Capisco che se uno arriva a Trieste avrebbe piacere di vedere piazza dell’Unità nel suo splendore, senza striscioni che ricordino tragedie e cause peraltro nobilissime. Però togliere lo striscione in questo momento è come voler rimuovere l’effetto memoria su Regeni. E siccome la verità non è ancora arrivata, forse sarebbe stato il caso di lasciare lo striscione al suo posto. La storia ha i suoi tempi. E forse questo non era il momento adatto».
L’eco della vicenda ha raggiunto anche la giornalista triestina Giovanna Botteri, corrispondente Rai da New York: «Non possiamo camminare da soli. E una volta che abbiamo cominciato, dobbiamo prendere l’impegno solenne che andremo avanti, fino in fondo. Non possiamo tornare indietro. Queste cose Martin Luther King le diceva più di cinquant’anni fa. Ma valgono sempre, in tutte le battaglie per la verità. E la giustizia».
Tranchant l’inviato di guerra triestino Fausto Biloslavo, che fa un distinguo. «Togliere lo striscione - scrive su Facebook - è una boiata. Piuttosto sarebbe il caso di aggiungere una semplice parolina: “tutta” la verità per Regeni. Non solo quella a senso unico contro l’Egitto, che ha sicuramente le mani sporche di sangue, ma pure sul ruolo più che ambiguo dell’Università di Cambridge e in particolare dei tutor che lo hanno mandato allo sbaraglio».
La giornalista Sandra Bonsanti, presidente emerito di “Libertà e Giustizia”, già parlamentare: «Inorridisco soprattutto per le motivazioni. Penso che, una volta presa la decisione di esporlo, lo striscione non vada tolto finchè non c’è ancora chiarezza sulla dolorosa vicenda. Qui invece sembra prevalere la decisione di lasciar perdere, di arrendersi alle ragioni degli affari. E la scelta del Comune di Trieste rispecchia proprio questa tendenza».
«La storia di Giulio Regeni - conclude Bonsanti - non può e non deve aggiungersi a quelle di tante persone che vengono abbondanate alla dimenticanza della storia, non è giusto. È passato tanto tempo? Beh, è proprio il motivo per cui quello striscione deve restare esposto...».
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«Ma io mi domando: questo sindaco e questa amministrazione, che si sono insediati da poco, non hanno cose più urgenti da fare? Che so, l’economia, la qualità della vita, la cultura...». Se lo chiede Moni Ovadia, uomo di teatro, massimo divulgatore della cultura yiddish in Italia, particolarmente legato a Trieste.
Che prosegue: «La argomentazioni, poi, mi sembrano risibili. Cosa vuol dire che dopo tanti mesi c’è l’effetto assuefazione? Allora con questo criterio rimuoviamo tutti i monumenti e i memoriali che ricordano fatti tragici. Non disturbare il turista? Allora non parliamo più di guerre, di Siria, delle migliaia di morti in mare. La verità è che questa scelta del Comune è un boomerang, scatena polemiche, divide i cittadini in maniera trasversale, non è una questione di destra e di sinistra, ma un fatto di civiltà».
Ezio Mauro, per vent’anni direttore e ora editorialista di “Repubblica”, sottolinea il ruolo dell’opinione pubblica in questa vicenda. Che «è stato ed è importantissimo - dice - nel richiedere verità e rifiutare spiegazioni di comodo. La memoria di una comunità è fondamentale. Non solo lo Stato e le istituzioni devono fare la loro parte».
«Anche le motivazioni addotte - aggiunge - mi sembrano deboli. C’è una sorta di galateo estetico, non bisogna parlare dei guai perchè ciò danneggia il Paese. Ma il bene di un Paese si fa chiedendo verità e trasparenza, e rimanendo al fianco della famiglia. Trovo dunque importante che Trieste continui a tenere un’attenzione speciale su questa dolorosa vicenda».
Gian Antonio Stella, scrittore e firma di punta del Corriere della Sera: «Capisco le ragioni del sindaco, capisco che ci sia un’assuefazione che a un certo momento può pesare sulla memoria delle persone. Capisco che se uno arriva a Trieste avrebbe piacere di vedere piazza dell’Unità nel suo splendore, senza striscioni che ricordino tragedie e cause peraltro nobilissime. Però togliere lo striscione in questo momento è come voler rimuovere l’effetto memoria su Regeni. E siccome la verità non è ancora arrivata, forse sarebbe stato il caso di lasciare lo striscione al suo posto. La storia ha i suoi tempi. E forse questo non era il momento adatto».
L’eco della vicenda ha raggiunto anche la giornalista triestina Giovanna Botteri, corrispondente Rai da New York: «Non possiamo camminare da soli. E una volta che abbiamo cominciato, dobbiamo prendere l’impegno solenne che andremo avanti, fino in fondo. Non possiamo tornare indietro. Queste cose Martin Luther King le diceva più di cinquant’anni fa. Ma valgono sempre, in tutte le battaglie per la verità. E la giustizia».
Tranchant l’inviato di guerra triestino Fausto Biloslavo, che fa un distinguo. «Togliere lo striscione - scrive su Facebook - è una boiata. Piuttosto sarebbe il caso di aggiungere una semplice parolina: “tutta” la verità per Regeni. Non solo quella a senso unico contro l’Egitto, che ha sicuramente le mani sporche di sangue, ma pure sul ruolo più che ambiguo dell’Università di Cambridge e in particolare dei tutor che lo hanno mandato allo sbaraglio».
La giornalista Sandra Bonsanti, presidente emerito di “Libertà e Giustizia”, già parlamentare: «Inorridisco soprattutto per le motivazioni. Penso che, una volta presa la decisione di esporlo, lo striscione non vada tolto finchè non c’è ancora chiarezza sulla dolorosa vicenda. Qui invece sembra prevalere la decisione di lasciar perdere, di arrendersi alle ragioni degli affari. E la scelta del Comune di Trieste rispecchia proprio questa tendenza».
«La storia di Giulio Regeni - conclude Bonsanti - non può e non deve aggiungersi a quelle di tante persone che vengono abbondanate alla dimenticanza della storia, non è giusto. È passato tanto tempo? Beh, è proprio il motivo per cui quello striscione deve restare esposto...».
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