«Non è mai troppo tardi», ha detto Francesco De Gregori, che a Bob Dylan si è sempre ispirato, dedicandogli anche il recente album “De Gregori canta Bob Dylan. Amore e furto”. Ma tutto il mondo della musica - e non solo quello - festeggia la notizia del Nobel a “His Bobness” (parafrasi di Sua Santità...), come lo chiamano gli inglesi. Una notizia attesa in realtà da anni, visto che il suo nome circolava spesso fra i papabili della vigilia, salvo poi venir scavalcato all’ultimo miglio. Anzi, recentemente le sue quotazioni erano in calo. Nel 2011 gli scommettitori lo davano a 8 a 1, quest’anno era sceso 50 a 1. E invece giustizia è stata finalmente fatta...
Consacrazione dunque più che meritata e forse addirittura tardiva per Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, nato nel 1941 a Duluth, Minnesota, uno dei più grandi poeti e autori e cantanti di tutti i tempi. Secondo molti, il più grande di tutti. Uno di quelli (con Beatles, Rolling Stones, Elvis...) senza i quali la storia della musica popolare del Novecento non sarebbe stata la stessa.
Lui, il ragazzo riccioluto che sbucava dalla copertina di “Highway 61 revisited”, ai tempi del Vietnam aveva levato alto il suo urlo contro i signori della guerra (“Masters of war”, '62), ci aveva detto che i tempi stavano cambiando, ci aveva forse illuso che la risposta stesse effettivamente soffiando nel vento. Sfornava canzoni per una generazione cresciuta a pane ideali e utopia, con quella chitarra sempre appresso, e l’armonica a bocca che gracchiava quasi come quella voce che faceva storcere il naso a puristi del belcanto e benpensanti. Diventando negli anni Sessanta il riferimento di milioni di giovani donne e giovani uomini che, anche attraverso la musica, sognavano di cambiare il mondo.
Amato e da alcuni odiato, spesso discusso, tante volte incoerente. Una volta l’aveva ammesso: «Sì, sono incoerente, anche nei confronti di me stesso. È la natura della mia personalità. Posso essere euforico adesso e pensieroso un momento dopo. E perchè ciò avvenga può bastare una nuvola che passa in cielo...». Incarnava e incarna l’America contraddittoria della chitarra e del fucile, di Barack Obama e della sedia elettrica, patria delle libertà e gendarme del mondo. Bob Dylan, l’interprete delle grandi utopie civili e musicali degli anni Sessanta a cui tutti devono qualcosa, ha sempre coltivato un punto di vista “altro” sulle cose della vita e del mondo rispetto a quello spacciato dal potere. E dunque andava e va sempre premiato.
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