venerdì 30 settembre 2011

DISCHI / cofanetto prog + clapton e marsalis


I cantautori da una parte, il “progressive” dall’altra. Una quarantina d’anni fa, nell’irripetibile stagione artistica a cavallo fra la fine dei Sessanta e la prima metà dei Settanta, erano queste le due punte di diamante della nuova musica italiana.

Dei cantautori, della loro influenza sulla cultura di casa nostra che arriva fino ai giorni nostri, abbiamo detto tante volte. Oggi parliamo dell’altra faccia della medaglia, prendendo spunto dalla pubblicazione del cofanetto “Prog Exhibition - 40 anni di musica immaginifica” (Edel, Aerostella), documento prezioso e fedele, sette ore di musica distribuite in sette cd e quattro dvd, dell’omonimo festival svoltosi nel novembre scorso al Tendastrisce di Roma. Direzione artistica: Franz Di Cioccio, una garanzia.

Ritroviamo i maggiori gruppi del “progressive italiano”: dalla Premiata Forneria Marconi (che l’altra sera hanno debuttato a Milano con lo spettacolo “Pfm in classic”, per unire “i linguaggi contemporanei e la classica”) al Banco del Mutuo Soccorso, dalle Orme (che in realtà si presentano come Aldo Tagliapietra, Tony Pagliuca e Tolo Marton, avendo i primi due perso la battaglia legale con Michi Dei Rossi per l’uso del nome...) agli Osanna, dai Trip alla “Nuova” Raccomandata con Ricevuta di Ritorno. Ma il cast è reso ancor più succulento dalla presenza di ospiti italiani e stranieri del calibro di David Cross dei King Crimson, Ian Anderson dei Jethro Tull (che mette al servizio della Pfm il suo flauto senza età, e di suo aggiunge le classicissime “Bourée” e “My god”), Thijs Van Leer dei Focus, David Jackson dei Van der Graaf Generator, Gianni Leone del Balletto di Bronzo, Claudio Simonetti dei Goblin.

A testimoniare il fascino che il “prog” continua ad esercitare sui giovani, oltre al seguito che gruppi e artisti hanno ancora su un pubblico che all’epoca dei fatti non era ancora nato, all’evento romano hanno partecipato - e li ritroviamo nel cofanetto - anche alcuni esponenti del “nuovo prog” italiano: i triestini Sinestesia, Maschera di Cera, Periferia del Mondo, Abash.

Da queste sette ore di musica si ha la conferma dell’importanza che il “progressive” ha avuto - e ha - nella storia della musica popolare prima inglese e poi italiana. Gli elementi distintivi erano - e sono - la dilatazione dei brani musicali (fino alle suite di venti e più minuti), il ruolo centrale delle tastiere (con i sintetizzatori), lo spazio sempre più ampio alle parti strumentali (con i lunghi assoli).

Cominciarono nel ’69 King Crimson e Genesis, con i rispettivi album di debutto, seguiti da Van der Graaf Generator e Gentle Giant (gruppi che all’inizio ebbero più successo in Italia che in patria). Da noi risposero Orme, Pfm, Osanna, Banco... Tutti artisti che ritroviamo in questo cofanetto, che è stato presentato ieri a Trieste, alla Libreria Lovat di viale XX Settembre.

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CLAPTON E MARSALIS

“PLAY THE BLUES”

(cd e dvd, Rhino)

I momenti più intensi del concerto dello scorso aprile, al Lincoln Center di New York, quando si sono esibiti, per la prima volta insieme, Eric Clapton e Wynton Marsalis. Il chitarrista inglese e il trombettista americano sono stati supportati per l’occasione da Dan Nimmer (piano), Carlos Henriquez (basso), Ali Jackson (batteria), Marcus Printup (tromba), Victor Goines (clarinetto), Chris Crenshaw (trombone, voce), Don Vappie (banjo) e Chris Stainton (tastiere). Risultato: il suono del blues anni Venti mischiato al sound del jazz originario di New Orleans, con chitarra e tromba in primo piano. Scaletta del concerto scelta personalmente dai due protagonisti. La sola canzone che Clapton non avrebbe inserito è “Layla”, ma fortemente richiesta dal bassista Henriquez e dal resto della band. Gli altri brani abbracciano diversi generi, dallo swing di “Ice cream” al blues di “Joliet bound”, fino al boogie-woogie di “Kidman blues”. In tre brani, come special guest, anche il bluesman Usa Taj Mahal. 

martedì 27 settembre 2011

BARCOLANA FESTIVAL


Raf per gli amanti della canzone italiana, Dan Black per chi preferisce il pop elettronico inglese, The go! Team per chi è più attento alla scena “indie-dance-funk” d’oltremanica. E ancora una manciata di gruppi e artisti emergenti, capitanati dalla triestina Dorina, reduce dal successo della scorsa edizione (l’ultima targata Rai, dal 20 ottobre si riprende sotto le insegne Sky...) del talent show “X Factor”. Ma soprattutto un’anteprima “lunga” a suon di jazz, che rappresenta la vera novità di quest’anno.

E’ il programma completo del Barcolana Music Festival 2011, che si terrà venerdì 7 e sabato 8 ottobre in piazza Unità, alla vigilia dell’affollatissima regata triestina che trasforma per qualche giorno il capoluogo regionale in una grande festa di mare, vento, colori, gente, ma anche musica.

E musicalmente, va detto, da qualche anno il cast della manifestazione - fra l’altro passata dai tre giorni delle origini alle due serate attuali - non brilla più come un tempo. Problemi di soldi, dicono. Ma anche di scelte, aggiungiamo noi. E con le scelte di quest’anno, anche stavolta il rischio è che, nonostante l’ingresso gratuito, la sera di venerdì non sia molto affollata, mentre quella di sabato viva più che altro il grande affollamento (gente che passa e va...) della vigilia. Con tanta gente in arrivo da altre regioni, oltre che da Slovenia e Croazia, per la quale “l’importante è esserci”. Ma poco attenta alla proposta musicale della serata.

Vediamo il programma nel dettaglio. Venerdì 7 si comincia con i MiG-29 Over Disneyland, gruppo di Tolmezzo che mescola punk, dance e reggae. Chi li ha ascoltati dal vivo garantisce che sono l’ideale per far ballare il pubblico e “scaldare” l’apertura di serata. Serata che prosegue con il cantante inglese Dan Black, già visto anni fa proprio in piazza Unità e proprio a un Barcolana Festival quando collaborava con gli italianissimi Planet Funk, e già frontman dei britannici The Servant.

Venerdì il compito di chiudere le danze è affidato al gruppo The Go! Team: inglesi di Brighton, maestri dei campionamenti, questi ragazzi - capitanati da Ian Parton - fecero il botto nel 2004 con l’album “Thunder lightning strike”. Dopo quella che di solito viene chiamata una pausa di riflessione, il gruppo è tornato in pista con il terzo album, intitolato “Rolling blackouts””, riuscito tentativo di mischiare funk e hip hop, dance ed elettronica.

Siamo a sabato. Apre il gruppo pop melodico Bivio H, prosegue la grinta rock della nostra Dorina (che torna così in piazza Unità a poche settimane dall’apertura del concerto di Dana Fuchs...), chiude nel segno della grande musica italiana il pugliese Raffaele Riefoli in arte Raf. In programma una manciata di classici (“Ti pretendo”, “Battito animale”, “Gente di mare”, “Infinito”, “Self control”...), ma anche i brani del nuovo album “Numeri”, uscito nel maggio scorso.

Ma come si diceva, quest’anno la vera novità è “Barcolana Jazz”. Si comincia già venerdì 30 e sabato 1 ottobre. In un percorso parallelo alle Rive (da via San Nicolò a piazza Cavana, passando per piazza Hortis e via Torino), in una piccola rassegna organizzata in collaborazione con la Casa della Musica, cantano e suonano l’afrocubana Jayla Brown, Trieste Early Jazz Orchestra, Imagens 4tet, Shipyard Town Jazz Orchestra, Trieste Ragtime Band, Bandorkestra, Gipsy Remake 4tet, Piloti, B.F.Dixieland Jazz band.

Domenica 2 ottobre la Barcolana Brass Marching Band sfilerà per le strade, spargendo coriandoli di swing. Gran finale nel pomeriggio di domenica 9 ottobre, dunque a regata appena conclusa, con il raffinato repertorio dei Musique Boutique: sono un gruppo di Cervignano, specializzato in cover di brani altrui in chiave bossanova. Fra questi hanno appena riletto “L’amore che ho”, di Jovanotti. Che ha fatto sapere di aver apprezzato la loro versione.

domenica 25 settembre 2011

MILES DAVIS 20 +


Disse una volta di lui Max Roach: «Miles Davis aveva la capacità di trasformare qualsiasi musica in qualcosa di eccezionale». Già, qualsiasi musica. Jazz, rock, classica, persino motivetti di musica pop, come “Time after time” di Cindy Lauper o “Dune mosse” di Zucchero, di cui regalò versioni già passate alla storia.

Sono già trascorsi vent’anni, da quel 28 settembre del 1991 quando la sua tromba tacque. Un silenzio solo momentaneo, e comunque illusorio, se è vero com’è vero che la musica del grande artista non è mai stata spenta in questi anni, e che la sua influenza su jazzisti giovani e meno giovani è sempre rimasta fortissima.

Qualcuno una volta l'ha ammesso: Miles è stato il Beethoven del Novecento. Nonostante le esagerazioni, nonostante i senili capricci da rockstar, nonostante i vezzi da divo vanitoso. Perchè nessuno ha impresso alla musica del ventesimo - e forse ventunesimo - secolo una svolta paragonabile alla sua.

«Il bebop era un cambiamento, un'evoluzione. Non era certo stare immobili, al sicuro», disse una volta. Aggiungendo: «Se uno vuole continuare a creare, deve essere aperto al cambiamento: la vita è un'avventura e una sfida. Quando qualcuno viene da me e mi chiede di suonare una cosa tipo "My funny Valentine", perchè gli ricorda quando ha fatto l'amore con quella meravigliosa ragazza e le splendide emozioni di quel momento, io lo capisco. Ma gli rispondo di andarsi a comprare il disco».

Cambiamento e apertura al nuovo quasi alla stregua di un manifesto programmatico. Già nel '49 di quel suo memorabile “Birth of the cool”, e poi negli anni Cinquanta, il suo verbo era: abbattere gli steccati. Spazzar via ogni divisione fra generi musicali. Coniugare citazioni colte e motivetti leggeri, stilemi afroamericani e arrangiamenti rock.

Era nato ad Alton, Illinois, nel '26. Infanzia a Saint Louis, all'epoca fra i maggiori serbatoi jazz, con New York e New Orleans. A tredici anni il padre, dentista, buona borghesia di colore, gli regala una tromba. Il primo insegnante gli consiglia di suonare senza vibrato: «Tanto, da vecchio comincerai a tremare comunque...».

Nel '41 debutta con il complesso di Eddie Randall. Nel '44 entra nell'orchestra di Billy Eckstine, che all'epoca schierava i migliori giovani rivoluzionari del bop: Charlie Parker (il suo favorito), Dizzy Gillespie, Dexter Gordon... Va a New York, alla Juilliard School of Music, per studiare seriamente, ma passa gran parte del tempo a inseguire Parker nei locali notturni della Cinquantaduesima. Arriva il momento in cui i due salgono sul palco assieme. E la tromba del maestro trova in lui un prezioso contraltare. È solo il primo capitolo di una carriera quarantennale, che troverà Miles Dewey Davis III (questo il nome completo per l'anagrafe) sempre al centro dei cambiamenti della musica.

Ha sempre dialogato e collaborato con tutti: Gil Evans e Gerry Mulligan, Thelonius Monk e Sonny Rollins, mille altri. Lasciando dischi che somigliano a pietre miliari. Fra i tanti: “Miles ahead”, in cui suona solo il flicorno, e “Kind of blue”, considerato uno dei suoi capolavori. Ma anche “In a silent way” e il leggendario “Bitches brew”, che lo allontanarono dal jazz ortodosso.

Nell'aprile dell'89, due anni e mezzo prima di morire, Miles Davis suonò al palasport di Udine. Quando si spensero le luci l'impressione fu quella di essere ammessi al cospetto di un principe guerriero. Una di quelle figure ieratiche che ancor oggi popolano il continente africano. Fra le mani la tromba, dalla quale sgorgava autentico magma incandescente, con cui costruiva percorsi onirici: fraseggi inquieti e quasi nevrotici, che brillavano su intricati tappeti ritmici. Fu una grande serata, ricca di magia e genialità, ma anche dei residui di una rabbia che si poteva ancora intuire dietro quella faccia che avrebbe fatto felice l'arte fotografica di Mapplethorpe.

Quella sera di ventidue anni fa, il palasport friulano era zeppo di giovani e giovanissimi. Accorsi per vedere da vicino il santone del jazz che flirtava con il rock, per ammirare il padre della nuova musica, per rendere omaggio al riconosciuto maestro della metamorfosi.

Si erano trovati dinanzi una splendida faccia enigmatica, uno sguardo malinconico nascosto dai soliti occhialoni scuri, una (triste) parrucca di riccioli neri che tentava senza successo di barare nella partita con il tempo e con l'età.

Pochi anni prima di morire disse: «Gente, io non sarò ancora qui molto a lungo. E devo vivere secondo il mio meglio, non il loro». I suoi resti riposano nel Woodlawn Cemetery nel Bronx di Manhattan.

martedì 20 settembre 2011

TEATRO VALLE OCCUPATO

TEATRO VALLE OCCUPATO

di Carlo Muscatello

ROMA Da oltre tre mesi, dietro il Senato della Repubblica, a due passi dai palazzi romani del potere, c’è un teatro occupato giorno e notte da attori e tecnici. E’ lo storico Teatro Valle, il più antico della capitale, inaugurato nel lontano 1727, che ha concluso la sua attività “ufficiale” a maggio, con la chiusura dell’Eti, Ente teatrale italiano. Nell’incertezza sul suo futuro (qualcuno dice che ne vogliono fare un ristorante...), il 14 giugno un gruppo di lavoratori dello spettacolo è entrato e ha dato il via a una maratona teatrale e musicale che non si è ancora interrotta.

«La questione - spiega Tullia Alborghetti, attrice triestina che da anni vive e lavora a Roma, fra le animatrici della protesta - non è soltanto quella di salvare un teatro. In un Paese dove alcuni ministri non perdono occasione per affermare che “con la cultura non si mangia”, vogliamo riaffermare il principio secondo il quale la cultura e i teatri sono beni pubblici. Come l’aria, come l’acqua...».

Nella caldissima estate romana, al Valle - ovviamente senza aria condizionata - sono arrivati in tantissimi. Nomi noti e debuttanti, in un’ideale staffetta che ha visto alternarsi sull’antico palcoscenico (immortalato da Monicelli in una scena del “Marchese del grillo”, con Alberto Sordi) centinaia di attori, musicisti, scrittori, intellettuali.

Da Andrea Camilleri a Nanni Moretti, da Jovanotti a Fiorella Mannoia, da Elio Germano a Edoardo Bennato, da Franca Valeri a Silvio Orlando. E ancora Moni Ovadia, Paola Turci, Fabrizio Gifuni, Giovanna Marini, Alessandro Bergonzoni, Renzo Arbore... Chi per recitare un brano, chi per cantare una canzone, chi semplicemente per portare la propria solidarietà al popolo del Valle. Fra un’assemblea e un seminario, in un clima creativo e tutto sommato gioioso che ricorda certe esperienze di autogestione sessantottina che sembravano morte e sepolte.

Nei mesi in cui all’estero si parla dell’Italia quasi unicamente per lo stile di vita del nostro presidente del Consiglio, il caso del teatro occupato romano è arrivato anche sui media internazionali, dal New York Times a Liberation a El Pais.

Francis Ford Coppola ha inviato un messaggio di solidarietà e vicinanza agli occupanti. E venerdì è in programma una lezione aperta sul teatro e il lavoro dell’attore con il regista tedesco Peter Stein, affiancato per l’occasione dall’attrice Maddalena Crippa.

Nei giorni della Mostra del cinema di Venezia, una delegazione di attori e tecnici ha portato la protesta del Valle anche al Lido, a due passi dal “red carpet” e dalle stelle hollywoodiane, intrecciando la vicenda del teatro romano con quella del veneziano Teatro Marinoni, “ennesimo spazio artistico abbandonato”.

La nostra scommessa, dicono gli occupanti che da tre mesi dormono nei sacchi a pelo, sistemati alla meno peggio nei palchi settecenteschi del teatro, consiste nel «trasformare la rabbia sociale in pensiero, protesta, creatività. Siamo i precari dello spettacolo e in fondo chiediamo solo di lavorare».

Già, il lavoro. Problema comune per tantissimi, in questa Italia del 2011. L’industria dello spettacolo non vive solo dei grandi nomi, dà lavoro a 250 mila addetti, molti dei quali non se la passano bene. Eppure il cinema italiano è la terza industria del Paese. Eppure nel 2010 sono stati staccati 23 milioni di biglietti per prosa, musica, lirica e balletto. La prosa da sola ne ha garantiti oltre 14 milioni.

«La gente che ogni sera riempie il teatro - dice Alborghetti - non è fatta soltanto di addetti ai lavori. C’è anche molta gente del quartiere, un quartiere che ha letteralmente adottato gli occupanti e ha fatto propria la protesta. Il Valle è diventato in questi tre mesi luogo di scambio, di socializzazione, non solo di spettacolo».

Ancora l’attrice triestina: «Oggi la situazione del teatro italiano è fortemente degenerata, sembra che il mercato chieda solo commedie che fanno ridere, ci si è convinti che la formula televisiva sia l’unica che possa resistere. E invece questa esperienza dimostra che c’è richiesta anche d’altro. Dobbiamo ripartire dalla scuola, dai giovani. Dobbiamo abituarci a considerare la cultura e il teatro per quello che sono sempre stati: un bene comune».

Come l’aria, come l’acqua...

lunedì 12 settembre 2011

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Corriere della Sera, 10-9-11



Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo. Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese.

Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.

Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino - con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire - mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.

Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.

Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.

In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.

Ernesto Galli della Loggia