lunedì 28 marzo 2005

Ve la ricordate l’Elisa acustica, intimista, minimalista e quasi new
age di «Lotus»? Bene, ora dimenticatevela. Se avevate ancora negli occhi e

nelle orecchie le atmosfere sognanti, le foto dei fiori e della natura del

precedente tour (passato al Rossetti nel dicembre 2003), il concerto con cui

la ventisettenne popstar - sì, popstar: ormai a tutti gli effetti... -

monfalconese ha chiuso ieri sera al PalaTrieste il suo «Pearl days tour» ha

rischiato di farvi venire un coccolone. Uno show rock, tirato, tiratissimo,

con poche e brevi parentesi soft, giusto il tempo di tirare il fiato e

ripartire.

Cade il sipario argentato, Elisa è già schierata al centro del palco. Si

parte con «Together», brano che apre anche il nuovo album: brillante di

sciabolate rock e lampi bianchi (figli di un «light show» sofisticato,

firmato dal mago del settore Billy Bigliardi). La ragazza parte subito in

quarta, preme sull’acceleratore, è scatenata. Ancora dal nuovo album c’è

«Bitter words» e poi, pescando in un passato recente ma già importante,

torna utile anche «Labyrinth». Per non rischiare l’infarto così, fin da

subito, arrivano - di nuovo dall’ultimo disco - le atmosfere più rilassate

di «Pearl days», di «In the green», di «Life goes on». Quest’ultima in

un’esecuzione vocale assolutamente magistrale, che la dice lunga sullo stato

di forma della cantante.

È passata poco più di mezz’ora ma è già tempo di «Luce (Tramonti a Nord

Est)», con cui Elisa vinse Sanremo nel 2001. Sentirla cantare da queste

parti, vicino casa sua, fa sempre un effetto particolare, e infatti il

pubblico non si fa pregare a cantarla in coro. Ma avevamo detto che il

concerto è tiratissimo. E infatti si riparte con «I know», altra canzone dal

nuovo cd: nera, vibrante, quasi soul. D’un tratto pensi a quanto è cresciuta

la ragazza in pochi anni. Ha presenza scenica, personalità, ormai persino

carisma. E lo spettacolo fila che è un piacere. Grazie anche alla signora

band che Elisa si porta appresso.

Una band più robusta e completa rispetto a quelle che ricordavamo, nella

quale brilla il lavoro alla chitarra di Davide Tagliapietra (figlio di Aldo

Tagliapietra delle Orme) e al basso di Max Gelsi, oltre ovviamente a quello

degli altri quattro musicisti (Andrea Rigonat alla chitarra, Andrea Fontana

alla batteria, Christian Rigano e Giorgio Pacorig tastiere e pianoforte) e

delle tre coriste (Barbara Evans, Julia St. Louis e Bridget Anne Mohammed).

Alcuni di questi ragazzi sono con Elisa dagli inizi, sono anche loro

originari di queste terre, e l’affiatamento di vede tutto.

Ma non c’è tempo per le chiacchiere. Il treno viaggia e chi si ferma rischia

di restare a piedi. «The waves», «Gift», «Dancing», «Joy»... E poi «Heaven

out of hell» che prepara la giusta atmosfera per la popolarissima «Broken»,

per onorare la quale l’artista si siede e imbraccia la chitarra acustica.

Finale tiratissimo, a nervi scoperti, quasi heavy, soprattutto con «Shadow

zone» e «It is what it is», che chiude la scaletta. Per aprire i bis, Elisa

lascia la divisa da ragazzaccio e riappare biancovestita, in mezzo a una

sorta di gabbia di stoffa bianca, per cantare alla sua maniera «Almeno tu

nell’universo», già di Mia Martini, l’altra canzone in italiano del concerto

e del suo repertorio.

Al PalaTrieste duemila spettatori entusiasti per la consacrazione dell’unica

popstar targata Friuli Venezia Giulia. Chissà, forse quel «Mitteleurock»

intuito e coltivato oltre venticinque anni fa dal triestino Gino D’Eliso è

finalmente sbocciato proprio grazie a Elisa. Nasce in quel terreno fertile

che sta fra Isonzo e Timavo. Forse per questo dà buoni frutti.

mercoledì 23 marzo 2005

L’altra sera era a Milano, alla maratona musicale per l’Asia (in diretta tivù). Domani arriva finalmente al PalaTrieste, a concludere questo tour invernale che - già si sa - avrà un’appendice estiva. Elisa aveva previsto di far partire proprio da Trieste, il primo febbraio scorso, questo suo «Pearl Days Tour». Ci si mise di mezzo un’influenza di stagione, le prime date sono state riprogrammate, e per fortuna quella nel capoluogo giuliano è stata recuperata in coda. Nella città a due passi dalla sua Monfalcone si doveva dunque aprire e invece si conclude la tournèe, che peraltro ha già fatto tappa in regione, a Pordenone.

A Trieste Elisa manca dal dicembre del 2003, Politeama Rossetti, tour dell’album «Lotus». «Quel disco e il nuovo ”Pearl days” - dice la ventisettenne popstar - sono due facce della mia personalità, della mia musica. Ho voluto tenerle separate, ognuna in un disco, ma le ritengo complementari. Le canzoni sono più o meno dello stesso periodo, ma tenerle separate mi ha permesso di approfondire i due aspetti. Penso sia stata una scelta giusta, che rifarei».

«Perchè ”giorni di perla”? Perchè forse sto vivendo i giorni migliori. Alla mia età si è un po’ più consapevoli, si tende a costruire qualcosa per la propria vita. Vedo i miei coetanei: chi si laurea, chi trova un lavoro, chi forma una famiglia, chi rincorre i propri sogni... E il disco è un piccolo messaggio di felicità. In cui dico che dopo aver passato il disincanto della fine dell’adolescenza, ed entrando nell’età adulta, dopo un primo momento di paura e disorientamento ci si può ritrovare e riuscire persino a essere un po’ felici...».

Per realizzarlo, Elisa è tornata in quella California dove era stata spedita nel ’95 da Caterina Caselli a partorire il primo album, «Pipes and flowers». «La prima volta che sono andata in California - ricorda l’artista - avevo diciotto anni, vi sono rimasta tre mesi, era la prima volta che vivevo da sola fuori di casa. Aggiungiamo che ero lì per registrare il mio primo disco e possiamo comprendere facilmente il mio entusiasmo di allora. Potei contare sul grande aiuto di Corrado Rustici. Tutto mi sembrava speciale, magico, un sogno che si realizzava...».

«Stavolta mi sono affidata a Glen Ballard. L’ho conosciuto due anni fa, mentre ero in vacanza a San Francisco. Gli avevo mandato i miei dischi per farglieli ascoltare, sperando accettasse di lavorare con me. Quando fece sapere che era disponibile, ho guidato da sola da San Francisco a Los Angeles per andarlo a conoscere. In due giorni abbiamo scritto assieme ”Written in your eyes”, che poi l’anno scorso, quando ci siamo ritrovati in sala d’incisione, abbiamo deciso di inserire nel disco...».

«La California - conclude Elisa - è la mia isola felice: trovo che abbia delle similitudini con il Friuli Venezia Giulia. E poi San Francisco, tutta salite e discese, somiglia un po’ a Trieste. Mentre Berkeley ha il porto ed è grande più o meno come Monfalcone...».

giovedì 10 marzo 2005

L’onda calabra stavolta arriva per davvero. Tre mesi fa, uno «show case» al caffè letterario Knulp. Giusto per sollecitare l’appetito. Ma stasera, con inizio alle 21.30, al Teatro Miela, quelli del Parto delle Nuvole Pesanti arrivano per davvero. Con un concerto in piena regola.

Sul palco saliranno i tre musicisti che hanno ereditato il nome dell’originario collettivo musicale di studenti calabresi a Bologna (all’inizio erano in undici...), e cioè Peppe Voltarelli (voce e chitarra), Salvatore De Siena (percussioni e voce) e Amerigo Sirianni (mandolino e chitarre), affiancati nel tour da Raffaele Brancati (fiati), Gennaro De Rosa (batteria), Mimmo Crudo (basso) e Pasquale Morgante (piano).

Il sesto album, intitolato «Il parto» e pubblicato l’anno scorso, ha imposto questo gruppo - bolognese d'adozione ma profondamente legato alle sue origini calabresi - all’attenzione di un pubblico più ampio rispetto all'ambiente folk-rock nel quale ha mosso i primi passi.

«Ci siamo conosciuti a Bologna nel ’90 - spiega il cantante Peppe Voltarelli - dove tutti ci eravamo trasferiti dalla Calabria per motivi di studio: chi al Dams, chi a Giurisprudenza, chi in altre facoltà... Abbiamo cominciato a fare musica assieme per il gusto di mescolare il rock e la nostra tradizione popolare calabrese. All’inizio, di fronte alla nostra proposta, parlavano di ”taranta-punk”: etichetta usata soprattutto quando nel ’94 è uscito il nostro primo album...».

Prosegue Voltarelli: «Eravamo un collettivo di studenti fuorisede, cresciuti nell’orgoglio del nostro dialetto, delle nostre radici: materiali da trattare sempre con ironia, senza restare legati a un discorso di genere. L’idea era quella di un gruppo e di un progetto aperto, anche con riferimento all’organico che col passare degli anni è mutato».

Un momento importante, per il gruppo calabrese, è stato l’incontro con Claudio Lolli, di cui hanno rifatto lo storico disco del ’77 «Ho visto anche degli zingari felici». «Lavorare con lui - spiega Voltarelli - ci ha fatto scoprire una persona semplice, schietta, solare, che continua a fare il suo lavoro di insegnante in un liceo di Casalecchio. Fra lui e noi c’è quasi una generazione di differenza, ma certi temi cantati dei suoi dischi (la piazza, l’abbondanza, l’idea dei fuorisede nella Bologna del ’77...) li abbiamo ritrovati come nostri, oltre che attualissimi...».

L’anno scorso, il gruppo ha realizzato un documentario sull’emigrazione calabrese in Germania, premiato al Torino Film Festival. «”Doichlanda” è il modo in cui gli emigrati calabresi - spiega ancora Voltarelli - usano chiamare la Germania. Un termine che indica anche un luogo che offre nuove possibilità di lavoro, un luogo divenuto per molti anni meta delle migrazioni calabresi. Noi abbiamo realizzato un viaggio, che alterna le immagini della nostra tournèe in Germania e le interviste ai nostri emigranti lassù. Nelle case, nei ristoranti calabresi di Germania gli emigrati raccontano la loro vita lontano dalla terra di origine, i problemi di inserimento e anche i successi, le soddisfazioni. Raccontano di una Calabria mai dimenticata».

Il concerto di stasera al Teatro Miela apre la rassegna «Ritratti italiani», che proseguirà venerdì 18 marzo con i goriziani Kosovni Odpadki, martedì 29 marzo con un reading dello scrittore vicentino Vitaliano Trevisan con l'attore triestino Fulvio Falzarano (al piano Riccardo Morpurgo) e venerdì 8 aprile con i romani Tetes de Bois. Quelli del «Parto» proseguono invece il loro tour: domani sera suonano all’Auditorium di Pordenone.
La ricerca della verità, certo. Ma forse dall’estremo sacrificio di Nicola Calipari, cui già Giuliana Sgrena deve la vita, un giorno potrebbe nascere qualcosa di ancor più importante, che ha a che fare con la pacificazione del nostro Paese.

Se ne parla da anni, a proposito e a sproposito. L’ultima volta solo poche settimane fa, in occasione delle rivelazioni di Achille Lollo sulla strage di Primavalle, nel 1973. Anni in cui in Italia si sparava per le strade, anni in cui ad alcuni sembrava che la lotta politica avesse fra i suoi strumenti la violenza, anni in cui l’avversario politico era spesso considerato un nemico da eliminare con ogni mezzo. Anni di odio, di slogan truci e funerei, che accomunavano tutto e tutti, da una parte e dall’altra. Rossi contro neri, neri contro rossi, rossi e neri contro le forze dell’ordine.

Sì, perchè in quel «mondo a parte» che era diventata l’Italia degli anni Settanta, il nemico era rappresentato anche dalle forze dell’ordine, dagli apparati dello Stato, servizi segreti in primis. C’era stata la stagione delle stragi (cosiddette per l’appunto «di Stato»), a far fiorire sospetti e pregiudizi e risentimenti nei confronti degli uomini dei servizi, deviati e non.

Tanti anni dopo, i fatti del G8 di Genova non hanno fatto che riproporre e rafforzare quelle antiche diffidenze e quelle contrapposizioni dure a morire. Ma il rapimento di Giuliana Sgrena ha permesso nelle scorse settimane per esempio alla famiglia del «Manifesto» («quotidiano comunista», come si legge ancora sotto la testata) di conoscere un uomo dei servizi, di collaborare con lui, di fidarsi di lui e del suo lavoro. E di scoprirsi basiti e sopraffatti dal dolore dopo il tragico, assurdo, incredibile epilogo della vicenda.

Una vicenda che almeno potrebbe servire – più delle parole e della retorica – a rafforzare in tutti il senso dello Stato, dell’appartenenza alla stessa comunità nazionale, del rispetto nei confronti di chi mette a rischio la propria vita per un lavoro al servizio di una collettività.

Attraverso questo percorso, trenta e più anni dopo la stagione dell’odio politico e dei morti nelle strade, forse si potrebbe arrivare anche a quella pacificazione di cui alcuni, periodicamente, si riempiono la bocca. E per ottenere la quale non bastano le amnistie. Ma serve innanzitutto il rispetto per chi fa il proprio dovere, per chi la pensa in maniera diversa, e magari anche la non demonizzazione dell’avversario.

«Credo che Nicola Calipari debba essere considerato un eroe – ha detto il direttore del ”Manifesto” Gabriele Polo, nato a Monfalcone, figlio di operai dei cantieri navali – come tutte le vittime morte mentre stavano facendo una cosa giusta senza tornaconto personale. Era uno dei servizi? Ho imparato che le persone si giudicano non dalla loro divisa, ma dai loro comportamenti...».
Volendo scherzare, si potrebbe dire che Capodistria ora ci porta via anche Laura Pausini... Ma ovviamente non è così. Vediamo allora di capire che cosa è successo.

Un mese fa l’interprete di Solarolo, provincia di Ravenna, doveva cantare al PalaTrieste, terza tappa di un tour mondiale che toccherà, oltre all’Europa, anche l’America del Nord e quella del Sud. Ma la Pausini l’8 febbraio era influenzata, quello che doveva essere il primo concerto triestino della sua carrierà fu dunque annullato e - stante l’affollamento del calendario della tournèe - non è stato più possibile riprogrammarlo.

In soccorso dei suoi fan triestini giunge ora l’annuncio del concerto che la cantante terrà giovedì 7 aprile al palasport di Capodistria, facilmente raggiungibile da Trieste, anche grazie a un servizio di pullman (da Trieste, ma anche da Monfalcone e da Udine) allestito dagli organizzatori (informazioni e prevendite da Radioattività, 040/304444).

Ma oltre a quello con la Pausini, sono diversi gli appuntamenti da segnalare a Trieste, nel resto della regione e nella vicina Slovenia. Domani, al palasport di Pordenone, suonano gli Europe, il redivivo gruppo di Joey Tempest che è stato una delle band simbolo degli anni Ottanta. E sempre domani, al Teatro Miela di Trieste, suona invece il gruppo calabro-bolognese del Parto delle Nuvole Pesanti, protagonista di uno degli album italiani più interessanti del 2004.

Giovedì 24 marzo, al PalaTrieste, viene invece recuperato a fine tournèe il concerto di Elisa che doveva aprire il primo febbraio il tour della popstar monfalconese (anche lei era influenzata...). Venerdì primo aprile, al Politeama Rossetti, torna la Premiata Forneria Marconi a pochi mesi dal concerto dell’estate scorsa in piazza Unità: stavolta presenta lo spettacolo «La Pfm canta De Andrè», che ricalca lo storico tour che il gruppo di Franz Di Cioccio tenne alla fine degli anni Settanta con l’artista genovese e che fece tappa proprio al Rossetti.

Torniamo a Pordenone, dove sabato 2 aprile fa tappa al Deposito Giordani il tour di Piero Pelù, giovedì 7 aprile (dunque la stessa sera della Pausini a Capodistria) Biagio Antonacci canta al palasport, venerdì 8 i «sanremesi» Velvet suonano al Deposito Giordani, mentre al Palasport di Sacile arrivano i Gemelli Diversi, e sabato 9 i Nomadi tengono un concerto al palasport.

Martedì 12 aprile Francesco Guccini torna a Udine, al palasport Carnera. Sabato 16 aprile arriva invece al PalaTrieste Umberto Tozzi, anche lui reduce dalla bocciatura sanremese. E sabato 14 maggio Gianni Morandi (che il 17 aprile è al Palaverde di Treviso) porta il suo nuovo spettacolo al palasport di Pordenone.

Una manciata di segnalazioni da Lubiana. Martedì 15 marzo arriva Omara Portuondo, cantante del Buena Vista Social Club. Martedì 3 maggio concerto di Mark Knopfler, leggendario chitarrista già dei Dire Straits. E domenica 22 maggio fa tappa il tour europeo di Joe Cocker, l’indomito «negro bianco di Sheffield». Questi tre concerti si svolgono al palasport Tivoli di Lubiana (prevendite a Trieste da Radioattività).

Da segnalare, infine, che oggi pomeriggio sarà presentato il concerto che lo «storico» gruppo dei Duran Duran terrà il 21 giugno a Trieste, mentre è annunciato il ritorno di Vasco Rossi in regione, il 9 luglio allo stadio Friuli.

domenica 6 marzo 2005

 Voglio trovare un senso, canta Vasco Rossi. E l’altra sera è andato a cercarlo sul palco di Sanremo, nello stesso luogo che oltre vent’anni fa l’ha (mal)trattato come un debuttante sbandato qualsiasi, ma che paradossalmente ha rappresentato la svolta della sua incredibile carriera. Per questo ha scelto di tornare, per «chiudere il conto», regalando una breve ma memorabile performance. Difficile cantare dopo Vasco, ha detto giustamente qualcuno. Ma ancor più difficile «trovare un senso» nell’eterna saga del Festival, dove ogni anno cerchiamo e speriamo di riuscire a salvare qualcosa. Di musicale, magari.
Perchè anche in questo 55.o Festival di Sanremo, nonostante i passi avanti fatti dai responsi delle giurie e del televoto, l’anello debole della grande macchina rimangono le canzoni. Si sa: con le canzoni che accettano di andare in gara a Sanremo non si fanno grandi ascolti. E oggi la pessima televisione italiana del 2005 non va da nessuna parte, non accetta nemmeno di partire, senza grandi ascolti. Ecco allora la scelta di affidare il gioiello buono di famiglia a una garanzia - almeno da questo punto di vista - come Paolo Bonolis, attualmente con Fiorello il miglior uomo di spettacolo popolare televisivo italiano. Ecco la scelta di riempire il contenitore di cose e persone che con la canzone c’entrano poco e nulla: Mike Tyson, Hugh Grant, Ale e Franz... Ecco le serate-monstre che durano fino all’una e mezzo di notte, perchè Bonolis è logorroico ma anche per guadagnare un punto in più di share.
Il meccanismo delle cinque sezioni, con i cinque vincitori fra i quali il televoto ha scelto il vincitore assoluto, tutto sommato ha funzionato. Tanto che Bonolis e il suo agente pare ci vogliano mettere il copyright, in modo da incassare diritti anche in futuro, qualora venisse riutilizzato con altri conduttori e altri direttori artistici.
Alle giurie va addebitato la bocciatura di un grande assoluto come Nicola Arigliano, lieve e ironico e amabile come solo un giovane nonnetto di ottantuno primavere, cresciuto ad aglio e jazz, sa essere. Ma non giustificato appare anche l’aver lasciato fuori dal rush finale un buon gruppo come i Velvet, un personaggio del livello di Franco Califano, giovani di qualità assoluta come i Negramaro ed Enrico Boccadoro. A parziale consolazione, va riconosciuto che in passato le giurie hanno saputo lasciare a referto danni ben peggiori.
Al combinato congiunto fra giurie e televoto va riconosciuto il merito di aver fatto vincere un artista come Francesco Renga. Serio, pulito, simpatico, con una bella canzone interpretata con il giusto pathos. Grazie a lui abbiamo cancellato l’incubo di mandare in archivio un Festival con la vittoria - per fortuna solo annunciata - di Gigi D’Alessio... Ma il meccanismo di voto ha portato anche all’incredibile affermazione di Nicky Nicolai con lo Stefano Di Battista Quartet (praticamente sconosciuti al grande pubblico fino a pochi giorni fa) e di Antonella Ruggiero: con loro è stata premiata la qualità. Lavoro meno buono nella categoria Giovani. Già detto dell’assurda eliminazione dei salentini Negramaro (prodotti da Caterina Caselli: dunque possono star tranquilli per il futuro...) e del romano Boccadoro, va anche detto che gli abruzzesi La Differenza avrebbero meritato la vittoria molto più di Laura Bono. Ma non si può avere tutto dalla vita...
La canzone più bella del Sanremo 2005, come il pubblico ha già capito, non è comunque nessuna di quelle premiate né di quelle citate. S’intitola «I bambini fanno ooh...», la canta un ragazzo di nome Povia, trentatre anni, milanese originario dell’Isola d’Elba. Quando Bonolis l’ha sentita, l’ha voluta al Festival, ma essendo già stata eseguita in pubblico non poteva partecipare alla gara. Allora è diventata la sigla di «Avanposto 55», l’operazione umanitaria per aiutare i bambini sudanesi del Darfur, lanciata nei giorni del Festival.
Festival che ora viaggia - dicono - verso un futuro da reality show. La prova generale è stata fatta quest’anno, mandando in onda in diretta la quotidiana conferenza stampa di mezzogiorno. Dall’anno prossimo, per i cinque giorni del Festival, rischiamo di vedere trasmesso tutto: prove, pranzi, cene, passeggiate, cazzeggi, ventiquattr’ore su ventiquattro. È la brutta televisione italiana del 2005, baby...
 
Alla fine l’ha spuntata Francesco Renga. Il trentasettenne cantautore nato a
Udine (ma cresciuto a Brescia) ha vinto con la canzone «Angelo» la 55.a
edizione del Festival di Sanremo. Gigi D’Alessio, indicato come il
favoritissimo della vigilia, si è dovuto inchinare davanti alla bella
canzone e all’interpretazione ricca di pathos dell’ex cantante dei Timoria.
Ieri sera Renga ha prima vinto il Festival nella sua categoria, quella degli
Uomini, grazie al voto delle giurie. E poi, grazie al televoto della grande
platea televisiva, si è aggiudicato anche la vittoria finale, davanti ai
vincitori delle altre quattro categorie: Nicky Nicolai e lo Stefano Di
Battista Quartet fra i Gruppi, Toto Cutugno con Annalisa Minetti fra i
Classic, Antonella Ruggiero fra le Donne e Laura Bono fra i Giovani.
Il successo di Renga, ma anche quello di Nicky Nicolai (pensate: un gruppo
di validi jazzisti sconosciuti alla grande platea televisiva fino a pochi
giorni fa...) e di Antonella Ruggiero, parlano il linguaggio della qualità,
quasi sempre bistrattata nella città dei fiori. E questo è sicuramente un
punto a favore del Festival di quest’anno.
Un Festival a immagine e somiglianza di Paolo Bonolis, conduttore e
direttore artistico premiato dal pubblico con ottimi ascolti che a Sanremo
non si vedevano da diversi anni. Bonolis funziona per la sua ironia, per la
sua velocità, per la sua capacità di sdrammatizzare tutto e tutti con
un’occhiata, una battuta, una citazione. Ma anche per la sua sensibilità al
sociale. Al suo fianco, in fondo in fondo hanno funzionato anche le sue
partner: quell’Antonella Clerici imbarazzante da vedere e quella Federica
Felini imbarazzante da sentire, ma entrambe sufficientemente ironiche e
autoroniche per reggere la parte per le cinque serate del Festival.
Ma ieri la finale è stata, come annunciato e come previsto, una serata
giocata soprattutto sotto il segno di Vasco Rossi. In apertura il
cinquantatreenne rocker di Zocca, che ha scelto di tornare «sul luogo del
delitto» oltre vent’anni dopo (era al Festival nell’82 e nell’83, ultimo e
penultimo con «Vado al massimo» e «Vita spericolata»), ha regalato emozioni
ricordando una strofa proprio dell’antico capolavoro «Vita spericolata» e
cantando la canzone forse più rappresentativa della sua ultima produzione,
«Un senso». Poi ha tentato di filarsela, un po’ alla maniera di Springsteen
nel ’96, richiamato però in scena da Bonolis.
«Una volta scappavo sempre. Ora ho smesso di scappare - ha detto il Blasco
-, sono tornato su questo palco per restituire il microfono che ho portato
via vent’anni fa (riferimento a un mezzo incidente tecnico avvenuto nell’83
- ndr). Vorrei ringraziare questo palcoscenico perchè da qui è cominciata
questa straordinaria avventura e auguro a tutti i cantanti in gara questa
sera di vivere una storia come la mia. In più volevo salutare tutti quelli
che stanno guardando il Festival ma che domani diranno che non è vero...».
Poi una battuta sul fumo («Non voglio rubare altro tempo perchè ho un brutto
vizio, fumo. E come tutti i fumatori fumo fuori. Ricordo però che nei dieci
comandamenti si dice non rubare, ma no non fumare...»), e finalmente via per
davvero. Lasciando spazio alla gara. In una serata più stringata di quelle
precedenti.
Fra le doti di Bonolis non c’è quella della sintesi. E infatti le prime
quattro serate (soprattutto quella di venerdì), per quanto riguarda gli
sforamenti d’orario, hanno quasi fatto rimpiangere Baudo. Che è tutto dire.
Ma ieri sera, poco prima di mezzanotte, le canzonette hanno lasciato lo
spazio alla realtà, quella più dura, più tragica, rappresentata dal rientro
in patria della salma di Nicola Calipari, ucciso dagli americani dopo la
liberazione di Giuliana Sgrena.
Poi, di nuovo linea all’Ariston, per la proclamazione del vincitore. Ma con
la morte nel cuore. «Per l’assurdità di qualunque guerra», come ha detto
Bonolis chiedendo un minuto di silenzio. Difficile parlare di Sanremo, di
questi tempi.
 
Fuori anche Paolo Meneguzzi, Dj Francesco Band, Nicola Arigliano (ebbene
sì...) e Marina Rei. E dopo la serata dei duetti, punteggiata dalle ultime
eliminazioni, ora il 55.o Festival di Sanremo, il festival di Paolo Bonolis,
è pronto per il gran finale. E come in ogni finale che si rispetti, ora
conta solo chi vince.
Va allora detto che l’udinese (ma bresciano d’adozione) Francesco Renga
sembra aver sfilato di mano il ruolo di favoritissimo a Gigi D’Alessio: il
cantante napoletano - che ieri sera si è fatto affiancare da alcuni «Amici»
di Maria De Filippi - sembrava destinato a dover vincere a mani basse, ma si
è trovato sulla strada la concorrenza del fascinoso ex cantante dei Timoria.
E anche le quote degli scommettitori si sono adeguate in questo senso.
La sensazione è che colui che prevarrà fra gli Uomini porrà automaticamente
una seria ipoteca sulla vittoria finale. Col permesso di Toto Cutugno con
Annalisa Minetti, di Nicky Nicolai col Di Battista Quartet e di Alexia. Va
ricordato al proposito il meccanismo delle votazioni di quest’anno. Stasera
le giurie decreteranno un vincitore per ogni sezione, in ognuna delle quali
sono rimasti in lizza tre nomi. Poi, fra i cinque numeri uno (compreso
quello dei Giovani), la sterminata platea del televoto decreterà il
vincitore assoluto.
Aperta dalla notizia della liberazione di Giuliana Sgrena, la serata di ieri
ha sforato qualsiasi previsione di orario. Fra gli opinionisti è arrivata
anche Gigliola Cinquetti, mentre Ezio Vendrame è stato beccato dal pubblico
- e prontamente difeso da Bonolis - dopo le polemiche dell’altra sera con
D’Alessio.
Il gioco dei duetti ha permesso al pubblico di vedere sul palco alcuni
mostri sacri del jazz italiano, da Franco Cerri a Gianni Basso, affiancare
il magnifico Nicola Arigliano. Dopo il brano, per loro anche una breve jam
session. Per festeggiare in anticipo la bocciatura da parte delle giurie,
che hanno preferito l’inutile Marcella...
Altro colpo di teatro, la presenza di un capelluto Elio (senza Storie Tese)
al flauto a fianco delle Vibrazioni. Anche se gli occhi femminili erano
tutti per Alessandro Preziosi e Sergio Muniz, rispettivamente con Nicky
Nicolai e i Matia Bazar. Gli eliminati Meneguzzi e Dj Francesco hanno voluto
al loro fianco l’uno Luca Dirisio e l’altro Max Pezzali (inserendo nel testo
anche un «Giuliana è libera»...). Alexia ha chiamato la Gialappa’s e una
scatenata orchestra di fiati. Rita Pavone è scesa in campo per Cutugno.
Forfait invece di Carla Fracci, che doveva affiancare Peppino Di Capri.
Fra gli ospiti internazionali, decisamente deludente la chiacchierata di
Bonolis con il bel Hugh Grant: tempo e soldi buttati dalla finestra. Da
segnalare infine l’ottimo risultato di ascolti ottenuto anche nella terza
sera: 51.05% di share con 11.560.000 telespettatori (14.390.000 e 49.07%
nella prima parte, 10.533.000 e 57.98% nella seconda, 5.872.000 e 54.47%
nella terza). Insomma, al logorroico e chilometrico Festival di Bonolis
manca di certo la sintesi. Ma non gli ascolti.
Fuori anche i Velvet e Franco Califano. Dopo Umberto Tozzi e Paola e
Chiara, ieri sera le giurie del Festival di Sanremo hanno fatto fuori altri
due «big», uno nella categoria gruppi e un altro in quella dei classici.
E possiamo tranquillamente dire che, almeno per quanto riguarda il gruppo di
«Dovevo dirti molte cose» (non gliene hanno dato il tempo, vien da
azzardare...), ma tutto sommato anche per l’eterno Califfo, la decisione
appare sbagliata assai. Peraltro in linea con quella che, nella serata di
mercoledì, ha bocciato l’ottimo gruppo salentino dei Negramaro. Del resto le
giurie, da che festival è festival, sono destinate a suscitare malcontento.
Anzi, quest’anno stanno limitando i danni allo stretto indispensabile.
Da segnalare al proposito la battuta polemica che un amareggiato Califano ha
riservato nei confronti di Pippo Baudo, commentando con Bonolis la sua
eliminazione: «Dopo tanti anni pensavo di meritarmi un premio. Ma quando me
lo danno ’sto premio? Ringrazio comunque Paolo del quale sono amico. Se sono
stato eliminato vuol dire che questo è un festival pulito: con Baudo non
sarebbe successo...», ha specificato il Califfo, che in passato ha
partecipato a un festival condotto e gestito come direttore artistico da
Baudo.
Bonolis si è salvato dall’imbarazzo così: «Ti ringrazio per le parole di
stima. Non condivido quello che hai detto di Pippo Baudo, che è un
professionista molto serio. Mi dispiace molto del risultato. Il tuo è un
brano veramente bellissimo, non escludo il tuo ritorno...».
Intanto la terza serata è stata segnata soprattutto dalla presenza di Will
Smith, l'attore e cantante americano che ha dimostrato in pochi minuti che
cosa significhi essere un performer completo. Altro che Mike Tyson... E
niente male anche l’argentina Lola Ponce, che il pubblico televisivo di casa
nostra aveva già avuto modo di apprezzare nei sabato sera di Panariello.
Fra i cantanti in gara, ancora una bella esibizione per Le Vibrazioni (in
perfetto stile pop-rock anni Settanta con la loro «Ovunque andrò») e per la
vera sorpresa di questo Festival: Nicky Nicolai e lo Stefano Di Battista
Quartet. Sono arrivati che pochi li conoscevano, hanno messo a tacere tutti
con una canzone («Che mistero è l’amore») e un’esecuzione di gran classe.
Ieri sera ancora splendido l’ottantunenne Nicola Arigliano, con la sua
coppola nera e la sua elegantissima «Colpevole». Un artista senza età,
commovente, che ha incantato la platea dell'Ariston.
Una curiosità: nell’ottobre scorso sia Arigliano che Nicky Nicolai con il
quartetto del marito sassofonista erano stati fra le stelle jazz del
Barcolana Festival, in piazza Unità, a Trieste. Pochi potevano immaginare,
quella sera, di ritrovarseli entrambi protagonisti della kermesse
nazionalpopolare per eccellenza, quella del Festival di Sanremo. Che invece
li ha accolti e li sta apprezzando come meritano.
Meritavano invece di uscire l’inutile Marcella Bella, l’accoppiata Cutugno e
Minetti, lo stesso Peppino Di Capri... Per non parlare di DJ Francesco e dei
Matia Bazar con la loro irritante, ennesima, nuova cantante: sarà anche
brava, ma perennemente e terribilmente sopra le righe.
Il Festival di Bonolis, comunque, ormai vola in alto, come da anni non si
vedeva. Almeno negli ascolti, che mai come questa volta sono il segno
tangibile del suo successo. Sono stati oltre quindici milioni e 101 mila,
infatti, i telespettatori che hanno seguito mercoledì su Raiuno la
trasmissione della diretta dall’Ariston (dalle 21.04 alle 22.56), con uno
share pari al 51,11 per cento; 52,80 la media ponderata tra le tre parti
della serata. Per tornare a questi livelli, bisogna tornare indietro di
dieci anni, al 1995, piena era baudiana. Quella poco amata da Califano...
Per il resto la diretta non si è scostata molto dal copione delle serate
precedenti: apertura con i giovani che cantano «Volare» di Domenico Modugno,
«Aida» di Rino Gaetano e «Fiori rosa fiori di pesco» di Lucio Battisti. Tra
gli opinionisti arrivano Sergio Endrigo (che ha regalato parole di saggezza)
e Marino Bartoletti.
Anche ieri sera, fra le canzoni, i vistosi abiti di Antonella Clerici (ormai
massacrata a forza di perfide battute dal prode Bonolis...), il piglio da
cartone animato di Federica Felini, c’è stato spazio per la beneficenza per
il Darfur e per presentare il progetto «Un sogno per il Gaslini», che vede
come protagonisti cinque atleti azzurri assieme ad altri cinque vincitori
delle paraolimpiadi di Atene 2004.
Yuri Chechi, Igor Cassina, Gianmarco Pozzecco, Antonio Rossi e Alessandra
Sensini hanno parlato dell’impegno preso per la ristrutturazione
dell’abbazia di San Gerolamo di Quarto, adiacente all’Istituto Pediatrico
Gaslini, da destinare a strutture non mediche dove sia possibile rendere più
sereno il periodo di convalescenza degli oltre trentamila bambini ricoverati
ogni anno nella struttura ospedaliera genovese.
Bonolis, nel suo progetto di festival ironico ma attento all’impegno
sociale, ieri sera ha trovato spazio anche per una toccante parentesi
dedicata al grande Tiziano Terzani. Un bel pensiero.
 

giovedì 3 marzo 2005

 Una personale di Serena Sinigaglia, giovane regista di punta della scena teatrale italiana. E un recital di Marta Sebestyén, considerata la maggior interprete di musica folkloristica ungherese.
Sono due delle chicche che Moni Ovadia ha preparato per l’edizione 2005 del Mittelfest, il cui programma è ormai nella sua gran parte definito: infatti verrà presentato domani mattina al consiglio di amministrazione del festival di Cividale, diretto per il secondo anno dal cinquantanovenne artista nato a Plovdiv, in Bulgaria, e milanese d’adozione.
La Sinigaglia è stata già nel 2000 al Mittelfest, con un’edizione delle «Baccanti» realizzata con un gruppo di attrici italiane e albanesi. Ma è stata anche l’anno scorso a Cervignano con la sua «biografia non autorizzata» di Che Guevara e nei mesi scorsi a Udine e a Monfalcone con «1968», riflessione sull’anno della contestazione fatta da chi ne ha solo sentito parlare (la regista è nata nel ’73 a Milano), mentre lunedì e martedì torna a Monfalcone con «Il Grigio» di Giorgio Gaber (ne riferiamo qui sotto). Stavolta Moni Ovadia ha deciso di dedicarle una vera e propria personale, sottolineando così il suo ruolo di spicco sulla scena teatrale italiana, con alcune sue produzioni del passato ma anche con alcune cose nuove, realizzate proprio per il Mittelfest 2005, fra cui uno spettacolo sulle Beatitudini del Vangelo.
Ovadia ieri sera ha presentato «La bottiglia vuota» in una San Daniele del Friuli imbiancata dalla neve. Oggi è atteso nel pomeriggio a Venezia Lido, al congresso di Rifondazione Comunista, dove è stato invitato per una commemorazione dei sessant’anni della Liberazione («leggerò alcuni versi dal ghetto di Varsavia...»), e stasera è a Pordenone, con «L’armata a cavallo» vista recentemente anche a Trieste.
E proprio a Trieste ieri pomeriggio l’artista ha fatto un veloce blitz, per una breve visita a casa di Claudio Magris, che nei prossimi giorni firmerà sul «Corriere della Sera» un’intervista-presentazione del nuovo libro di Moni Ovadia. «S’intitola ”Contro l’idolatria” - spiega il massimo interprete della cultura yiddish in Italia - ed esce per Einaudi nei prossimi giorni: è una raccolta degli articoli che propongo da qualche tempo, ogni sabato, sull’Unità, più alcune cose che ho scritto per l’occasione...».
Oggi di Mittelfest si parlerà anche nella riunione della giunta regionale. Forse potrebbe anche venir fuori il nome del nuovo presidente della rassegna: il terzo in dodici mesi, dopo Paolo Maurensig e Demetrio Volcic.

martedì 1 marzo 2005

 Avvengono strani cortocircuiti, quando la realtà bussa alla porta effimera della finzione. Quando i tanti drammi, piccoli e grandi, le tante tragedie del mondo e della vita si insinuano anche nel programma leggero per antonomasia della nostra (pessima) televisione del 2005. Un po’ come quando qualcuno si alza e svela a tutti la vecchia verità: «il re è nudo».
È successo ieri, durante la serata d’apertura della 55.a edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Quello targato Paolo Bonolis, che - pur affiancato da un’Antonella Clerici imbarazzante da vedere e una Federica Felini imbarazzante da sentire -, con il suo garbo, la sua intelligenza, soprattutto la sua capacità di sdrammatizzare tutto con una battuta, rappresenta l’unica vera novità di un carrozzone altrimenti immutabile quale quello del festivalone.
Dopo due ore e mezzo di solite cose, alle 23.14 Bonolis si è seduto sui gradini della scalinata che sta al centro anche della scenografia di quest’anno e ha cominciato a parlare di cose reali, di un mondo dove spesso accadono cose che non vorremmo, a parlare insomma di guerra, di morti, persino di ossimori come «guerra di religione». Come aveva preannunciato, il conduttore ha anche aggiunto il suo appello ai mille e mille di questi ventisette giorni per la liberazione di Giuliana Sgrena. «Il nostro auspicio - ha detto - è che Giuliana possa tornare presto a casa e ai suoi cari. Il suo rapimento è anche un attentato alla libertà di informazione».
Le immagini di una neonata fortunata perchè nata in Occidente, seguite dalle drammatiche fotografie di una bimba scheletrica nata «nella parte sbagliata del mondo», il collegamento con il Darfur, in Sudan, con l’annuncio di una raccolta di fondi per la costruzione laggiù di un ospedale e di una scuola, hanno fatto il resto.
Tredici minuti di dura realtà incastonati nella finzione. Poteva essere solo «il momento dell’impegno», buono per lavarsi la coscienza e riprendere subito dopo a occuparsi di canzonette, ma dopo l’interruzione pubblicitaria Bonolis ha dato l’annuncio della morte di Alberto Castagna (ne riferiamo nella pagina seguente), e a quel punto emozione si è sommata a emozione. E la serata «leggera» poteva tranquillamente concludersi lì. Come da copione, invece, e forse giustamente, si è andati avanti. Fino a ora tardissima.
Prima, il Festival si era aperto - come annunciato - con l'inno di Mameli suonato dalla chitarra di Paolo Carta: rock ma non troppo, forse per non urtare l’alto e malinteso senso patriottico di qualcuno. L'inconsueta apertura, preceduta da un’astronave in stile «Odissea nello spazio» e da citazioni da Wim Wenders, è stata seguita da un omaggio a Lucio Battisti, Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè cantato da tutti i concorrenti della sezione giovani. Atmosfera fra «Amici» della De Filippi e Sanremo Famosi.
Il resto? La sfilata dei venti «big», divisi quest’anno fra classici, uomini, donne e gruppi: da Umberto Tozzi via via a tutti gli altri, con citazione obbligata per l’ottantunenne Nicola Arigliano, salutato da una standing ovation.
Ma cantanti e canzoni in gara sono, come al solito, l’anello debole della questione. E il paragone diventa impietoso quando sbuca Michael Bublè, il nuovo re dello swing, nonostante un microfono che a un certo punto va in tilt. Fa anche uno spiritoso duetto con Bonolis, che sfocia in un omaggio a Renato Carosone e al suo «Tu vuo fà l’americano». Il resto è noia.
Sarà ovviamente un caso. Ma l’anno scorso ha vinto Marco Masini, da sempre uno dei pochi cantanti a non aver mai nascosto le proprie simpatie per la destra. E quest’anno, chi sarà mai il favoritissimo della 55.a edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo, che fra l’altro comincia domani? Ma ovviamente Gigi D’Alessio, napoletano trasferito a Roma per evitare «pericolose contiguità», nonchè altro buon amico di Alleanza Nazionale e soprattutto del governatore laziale in cerca di riconferma Francesco Storace.
Un caso, certo. Ma solo per chi ancora dubita dell’esistenza di un robusto cordone ombelicale fra Sanremo (cioè la Rai) e quadro politico nazionale. E come cinque anni fa, ai tempi dei governi dell’Ulivo, il Festival era affidato a Fabio Fazio che ospitava Gorbaciov ma anche Jovanotti con i suoi rap «de noantri» (ricordate? «D’Alema, cancella il debito...»), oggi tutta la macchina viene accortamente manovrata da tale Gianmarco Mazzi, condirettore artistico con delega musicale, definito vicino ad An nonchè amicone di Ignazio La Russa.
Detto questo, si comprendono facilmente alcune scelte, tutte dettate dalla necessità della destra oggi di governo di smentire quel luogo comune che vuole il mondo della canzone - e dunque anche la sua massima vetrina nazionale - da sempre egemonizzati dalla sinistra. Ecco allora il ruolo strategico affidato anche quest’anno a Mogol, ecco la vittoria di Masini (che torna l’anno dopo sul luogo della vittoria: un caso quasi unico...) e quella annunciata di D’Alessio, ecco la riscoperta di Marcella (già candidata senza fortuna di An alle ultime europee) e di un altro destro storico come Umberto Tozzi. Per non parlare poi dell’inopinato collante rappresentato dall’Inno di Mameli, pur in chiave rock, che delizierà i telespettatori in apertura di ogni serata...
Casualità. Forse. Comunque si può partire. Non manca nulla. C’è il vincitore annunciato. C’è il superospite che torna a Sanremo dopo oltre vent’anni. C’è il mattatore tivù che si confronta per la prima volta con il moloch festivaliero (e da oggi, alle 20.35, tornerà su Raiuno anche con «Affari tuoi», per tirarsi la volata...). E poi ci sono la bionda e la mora, ci sono i comprimari, c’è la novità delle scommesse... Le polemiche non mancheranno, anzi, sono già cominciate quando è stato annunciato il possibile arrivo come ospite del pugile-stupratore Mike Tyson (che molto probabilmente non ci sarà, mentre è quasi certo Hugh Grant e sono in corso febbrili contatti con George Clooney, Nicole Kidman e Angelina Jolie). Qualcuno pare abbia proposto persino un faccia a faccia fra la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci e il cantautore Cat Stevens che ora si fa chiamare Yusuf Salam: ma forse era solo una battuta...
Parliamo di cantanti e canzoni. La novità di dividere i venti big in quattro categorie (classici, uomini, donne e gruppi) finora ha avuto come unica conseguenza quella di costringere gli organizzatori ad autentiche acrobazie per far quadrare il cerchio. Per accontentare tutti, Dj Francesco è diventato «Dj Francesco Band» ed è stato inserito fra i gruppi. Idem per la cantante Nicky Nicolai, grazie al quartetto jazz del marito sassofonista Stefano Di Battista da cui si fa accompagnare. Paola e Chiara, che in quanto duo potevano tranquillamente figurare fra i gruppi, gareggiano invece fra le donne. Bah...
I dodici giovani (tutti praticamente sconosciuti), che sono sopravvissuti alle selezioni dell’Accademia della canzone, potrebbero inserire un elemento di incertezza nella gara. Tre di loro vanno in finale, e la sera di sabato gareggeranno assieme ai big che avranno passato il turno. Considerato che l’ultima tornata di voti, quella decisiva, sarà affidata al televoto (e non alle giurie demoscopiche come nelle sere precedenti), beh, si può ben capire che solo da lì può venir fuori una sorpresa. Come già accaduto a Sanremo ai tempi delle vittorie di Annalisa Minetti, dei Jalisse, di Tiziana Rivale... Il televoto potrebbe favorire anche Le Vibrazioni. Sarebbe una bella sorpresa.
Ma il colpo gobbo messo a referto dagli organizzatori quest’anno si chiama senz’ombra di dubbio Vasco Rossi. Se per avere il sì di Adriano Celentano l’anno scorso Tony Renis e Flavio Cattaneo dovettero aspettare l’ultimo minuto utile, quest’anno l’okay del Blasco (che l’anno scorso aveva declinato l’invito a ricevere un premio alla carriera) è arrivato con congruo anticipo.
Vasco salì sul palcoscenico dell’Ariston nell’82, cantando «Vado al massimo», e arrivò ultimo. Ci riprovò l’anno successivo, con quel capolavoro che rimane «Vita spericolata», e gli andò di pochissimo meglio: penultimo. Com’è andata dopo, lo sanno tutti: milioni di dischi venduti, tournée con stadi tutti esauriti, un’icona rock ormai per un paio di generazioni. Alla faccia del giornalista Nantas Salvalaggio che proprio in uno di quei due festival lo aveva tacciato di essere «cattivo esempio per i giovani»...
Oggi Vasco Rossi ha deciso di tornare a Sanremo che comunque rappresentò la svolta della sua carriera. Sembra che sabato canterà il suo passato («Vita spericolata») che incontra il suo presente («Un senso»). E possiamo star certi sin da ora che sarà uno dei pochi momenti da ricordare del Festival di quest’anno.