mercoledì 30 luglio 2014

ADDIO GIORGIO GASLINI, 40 anni fa concerto a Trieste, manicomio San Giovanni

di Carlo Muscatello Il 4 settembre saranno quarant'anni. Giorgio Gaslini - morto ieri a Borgotaro, Parma - quel giorno fu protagonista nel parco di San Giovanni, a Trieste, di uno dei primi concerti voluti da Franco Basaglia per aprire il manicomio alla città. Tempo fa lo incontrammo nella sua Milano, ricordargli ”quel” concerto gli produsse come un lampo negli occhi... «Un giorno di quell’estate - disse il jazzista, classe 1929, quattromila concerti e quaranta colonne sonore in carriera - mi telefona Basaglia e dice: ho aperto i cancelli, ha già suonato Ornette Coleman, vieni anche tu. Seguivo il suo lavoro, ma non ci eravamo mai incontrati. Per me era un mondo tutto da scoprire. Ricordo l’arrivo a Trieste, il parco, un fiume di gente, giovani e malati assieme, non si capiva quali erano i ”matti”, i medici, gli appassionati. Capii che era una grande rivoluzione civile». «Allora suonavo con Bruno Tommaso al contrabbasso, Gianni Bedori (poi noto come Johnny Sax) al sax, il friulano Andrea Centazzo alla batteria. Eravamo circordati dalla gente anche sul palco, una pedana in un campo sportivo. Fu una delle esperienze che più mi hanno segnato. Avevo appena scritto "Musica totale" attingendo alla mia esperienza, alla storia della mia vita. Ho cominciato a suonare il pianoforte classico a sei anni. La guerra ci portò a sfollare in Brianza, un’orchestrina mi fece conoscere il primo jazz, le musiche di Glenn Miller». «Mio padre era un africanista, la casa era piena di strumenti ma anche di dischi di Josephine Baker portati da Parigi. Una balia emiliana mi cantava le canzoni di lotta e di lavoro della sua terra. La mia "musica totale” nacque mettendo assieme classica e jazz, suoni africani e canti popolari. La Milano del dopoguerra era vitalissima. Tutto sembrava possibile, nonostante le difficoltà. Il primo lavoro lo trovai in un cinema di Porta Vittoria: allora fra un tempo e l’altro un musicista suonava dal vivo. Poi mi chiamarono alla radio, la vecchia Eiar, e poi ancora l’Orchestra nazionale italiana. Alla fine degli anni Cinquanta mi iscrissi al Conservatorio, corso di composizione». «Poi nel ’61 il cinema. Tramite Nicola Arigliano avevo conosciuto Mastroianni, che fece ascoltare le mie musiche a Michelangelo Antonioni, che stava girando ”La notte” a Milano. Negli stessi anni andai per la prima volta in America, invitato da John Lewis del Modern Jazz Quartet. Mi rendevo conto di essere nella patria del jazz, nato per cantare la condizione dei neri d’America. Ebbi il privilegio di assistere alla nascita delle ultime idee-forza del jazz americano: il free. Erano gli anni della fantasia e della creatività al potere. L'impegno nel jazz è sempre stato fondamentale. Ho sempre avuto a cuore l’idea di giustizia sociale. Negli anni Sessanta e Settanta tenni concerti nelle università, nelle fabbriche occupate». «Per questo - concluse Gaslini - l'Italia di oggi mi piace poco. In attesa che prenda piede questo nuovo umanesimo che sta nascendo. Lo colgo fra i giovani. La storia riparte sempre, e lo fa con le nuove generazioni».

martedì 29 luglio 2014

ARISA sabato a Tarvisio, no Borders Music festival

«L’idea di chiedere a Lelio Luttazzi di accompagnarmi al pianoforte fu di Paolo Bonolis. Venni a trovarlo a Trieste pochi giorni prima del Festival del 2009, nella sua casa sulla vostra bellissima piazza dell’Unità. Ricordo che lui suonava il pianoforte e io cantavo...». Arisa arriva sabato nel Friuli Venezia Giulia, per partecipare al No Borders Music Festival di Tarvisio. È l’anno della sua vittoria al Festival di Sanremo con la canzone “Controvento” e ora con questo “Se vedo te tour” che fa tappa nella nostra regione. «Ho deciso di dare al tour lo stesso titolo dell’album, nonchè di quella che reputo la canzone più importante dello stesso, scritta da Cristina Donà che canta con me anche nel disco. Lei è un’artista che stimo molto. Ha scritto anche “Lentamente (il primo che passa)”, l’altra canzone che ho portato al Festival di quest’anno, alla quale il pubblico ha preferito “Controvento”». Rispetto agli esordi “sbarazzini” ora la sua musica è più intimista. «Sicuramente in questi anni credo di aver attraversato un’evoluzione anche musicale. In fondo non sono più una ragazzina, ho trentadue anni, sento di aver acquistato una nuova consapevolezza. Non rinnego comunque l’approccio leggero alla musica, alle canzoni. E rimango convinta dell’azione “medicamentosa” della musica». La sua carriera è legata a Sanremo. «Beh, mi ha portato molta fortuna: quattro partecipazioni, due vittorie e un secondo posto, non mi posso lamentare. Molti ne parlano male, ma è comunque una delle poche occasioni importanti per la musica italiana. Bisognerebbe averne più cura, fare in modo che vi partepino sempre i migliori». Ci tornerà? «Forse sì, perchè no? Se avrò la canzone giusta e se lo riterrò utile. Non comunque l’anno prossimo». Quest’anno ha guardato “X Factor”? «Soltanto una volta, dunque non mi sono fatta un’idea precisa, neanche sui partecipanti, sui quali non posso dare un giudizio. Se rifarei la giurata dopo l’esperienza di tre anni fa? Davvero non lo so, ora sono concentrata sul tour». Nel suo nome d’arte c’è tutta la sua famiglia. «Sì, la A deriva dal nome di mio padre Antonio, la R dal mio, Rosalba, la I e la S dai nomi delle mie sorelle Isabella e Sabrina, la A finale dal nome di mia mamma Assunta. Ho scelto di creare questo acronimo che è diventato il mio nome d’arte, il nome con cui tutti mi conoscono, perchè io sono il frutto di tutta la mia famiglia. Quando sono sul palco immagino che in qualche modo ci andiamo tutti assieme». A casa sua c’era molta musica? «Sì, tutti molto canterini. Sono nata a Genova ma cresciuta a Pignola, il paese d’origine dei miei genitori, a pochi chilometri da Potenza. Da ragazza ricordo tanta musica a casa mia. Mi ci sono appassionata ch’ero ancora bambina». Al cinema com’è arrivata? «Non ci avrei mai pensato. Me l’hanno chiesto la prima volta Simona Izzo e Ricky Tognazzi: una parte in “Tutta colpa della musica”, tre anni fa. Poi ho partecipato ad altri film, sia come attrice che come doppiatrice». Si è trovata a suo agio? «Diciamo che non mi sono posta il problema. Io mi impegno in tutte le cose che faccio, che ho la possibilità di fare e che mi danno l’opportunità di comunicare. Che per me è la cosa più importante». Ha scritto anche due libri. «Sì, “Il paradiso non è granchè” e “Tu eri tutto per me”. Due romanzi. Ripeto: per me la cosa più importante è comunicare, con ogni mezzo. E in fondo ho appena cominciato». Cosa presenta a Tarvisio? «Il nuovo spettacolo è un viaggio attraverso questi cinque anni di carriera. Tutte le canzoni più importanti, da “Sincerità” a quelle dell’ultimo album. Senza scene e senza cerimonie. Una cosa semplice. Buona musica e basta». Cosa farà dopo questo tour? «Prima mi riposo, poi penso a cosa farò da grande. Mi piacerebbe un’esperienza di vita all’estero. In un posto molto caldo o molto freddo. Amo gli estremi, non mi piacciono le vie di mezzo...». Arisa, ancora un ricordo del grande Luttazzi. «Volentieri. Era una persona oltre che un artista meraviglioso. A quel Sanremo Giovani del mio debutto mi portò tanta fortuna. Ricordo bene quelle poche ore a Trieste, con lui, per conoscerci e provare qualcosa assieme. Ho un bellissimo ricordo anche della città. La sera andai a mangiare in un posto caratteristico, carne e crauti, cucina stile austriaco...». Il tour di Arisa è cominciato ai primi di giugno dalla sua Genova. Nello spettacolo l’artista è accompagnata sul palco da Giuseppe Barbera (pianoforte e tastiere), Raffaele Rosati (basso), Francesco Bruni (chitarre) e lo “Gnu Quartet” (archi e flauto).

RAPHAEL GUALAZZI ven a tarvisio , no Borders Music festival

Quando nell’autunno scorso è venuto a suonare al Rossetti, a Trieste, Raphael Gualazzi ci aveva detto: «È successo tutto così in fretta che a volte non me ne rendo ancora conto. A febbraio saranno tre anni dalla mia vittoria a Sanremo Giovani, poi l'Eurofestival, i dischi, i tour, di nuovo Sanremo...». Poi al festivalone Gualazzi - che venerdì alle 21 apre a Tarvisio, in piazza Unità, ingresso libero, l’edizione 2014 del No Borders Music Festival 2014 - ci è tornato un’altra volta quest’anno, e ha festeggiato i tre anni da quel fulminante esordio sul palco del Teatro Ariston con “Follia d’amore” sfiorando la vittoria con “Liberi o no”, duettando con Bloody Beetrots, alias “L’uomo mascherato”... Dice il cantante pianista: «Simone Cogo (questo il vero nome del dj e polistrumentista veneto che si cela dietro lo pseudonimo e la mascherina - ndr) è un grande professionista, per me una grande esperienza professionale e artistica, la fusione del mio linguaggio acustico con il suo “concept” elettronico». Suo padre suonava con Ivan Graziani, è vero che fu lui a incoraggiarla ancora bambino? «Purtroppo mio padre aveva già smesso di suonare da alcuni anni prima che io nascessi ma devo dire di avere sempre avuto grande sostegno morale da parte do tutta la mia famiglia. I vinili che si ascoltavano a casa hanno fatto il resto» Come ha scoperto il blues, il jazz? «Grazie all'ascolto e ad alcuni incontri fondamentali, incontri con musicisti, maestri, e artisti del settore. Ma l'ascolto e l'interesse sulle biografie di grandi del passato sono stati credo la parte più importante». L'incontro con Caterina Caselli? «Settembre 2009, uffici Sugar, quarto piano. Un'audizione piano e voce, bellissima atmosfera di curiosità, interesse e positività verso la musica. Qualche settimana dopo firmai il contratto discografico con Sugar». Lei nasce come jazzista e ha fatto studi classici. «È vero, può sembrare strano. Ho studiato pianoforte al Conservatorio di Pesaro, il jazz e il blues sono sempre stati la mia grande passione. Ho fatto tanta gavetta, ma quando si è presentata l'occasione del Festival non ci ho pensato due volte: Sanremo è una grande vetrina, un'occasione unica per entrare nelle case della gente, soprattutto per un musicista agli inizi» Una vetrina che tre anni fa le ha cambiato la vita: come è arrivato su quel palco? «Contento, emozionato e cosciente che era una opportunità per dare luce non solo alle mie musiche, ma anche indirettamente alla grandissima tradizione jazzistica e, quella grande cultura che è l'origine della società moderna, così volubile e multiforme». La scelta “popolare” le è costata compromessi? «Direi di no. Sanremo mi ha portato visibilità, opportunità di lavoro, l'attenzione del pubblico. Del resto io, pur partendo da basi classiche e dalla passione per il jazz, non ho mai posto barriere, non ho mai rifiutato la musica popolare. E poi non dimentichiamolo: lo stesso jazz nasce come musica popolare». E lei ama le contaminazioni. «Per me sono fondamentali. Fra i vari generi musicali non devono esistere barriere, tutti devono parlare, interagire con tutti. E poi, parlo per il mio caso ma sono convinto che il discorso non vale solo per me, "mischiarsi" ha un effetto benefico per tutti gli stili e anche per i vari tipi di pubblico». Che musica ascolta? «Tantissima di vari generi. Da Curtis Mayfield a Verdi passando per Led Zeppelin e Queen, Art Tatum, Jimmy Witherspoon e Scriabin e tantissimi altri» In questo tour cosa propone? «Un nuovo arrangiamento dei miei tre lavori discografici (2005, 2011, 2013) e omaggi e reinterpretazioni sia di grandissimi temi di musica italiana che di tradizione afroamericana dal soul al reggae al blues/jazz». Prossimo progetto? «Bisogna aspettare il 2015, è prematuro parlarne...». Ha un sogno? «Continuare giorno per giorno - conclude Raphael Gualazzi, nato a Urbino, classe 1981 - a vivere per la mia più grande passione, la musica».

lunedì 28 luglio 2014

CONTRATTO GIORNALISTI, REFERENDUM INUTILE : PERCHÉ PARTECIPARE?

di Carlo Muscatello* Non parteciperò al referendum del 26 e 27 settembre sul contratto di lavoro giornalistico firmato a fine giugno e invito i colleghi - non solo del Friuli Venezia Giulia - a fare altrettanto. Non parteciperò perché ho il massimo rispetto degli strumenti di democrazia diretta, della partecipazione di tutti alla vita sindacale, del parere di ognuno. Ma non sopporto le liturgie sindacali e le cose inutili. E questo referendum è una cosa inutile. Peggio: una presa in giro nei confronti di chi (giustamente) ha lamentato un deficit di comunicazione e partecipazione democratica soprattutto nella fase finale che ha portato alla firma di questo contratto. Il referendum indetto dalla giunta della Fnsi riunita con la consulta delle Associazioni regionali di stampa è un "non referendum". Non è abrogativo per il semplice motivo che non può né vuole abrogare nulla: il contratto è già firmato e vigente, e ha avuto già le sue conseguenze nelle decisioni del Governo per il settore dell'editoria e dell'Inpgi. Non è propositivo perché non propone nulla, nemmeno di stracciare tutto e tornare al tavolo delle trattative con gli editori, cosa peraltro difficilmente praticabile, diciamo pure impossibile. Ma questo referendum non è nemmeno consultivo. Primo perché di solito è buona norma consultare qualcuno prima della decisione e non dopo. Secondo perché non ci aiuterà a sapere cosa pensano i giornalisti italiani di questo contratto: il quorum richiesto del 50% più uno degli aventi diritto al voto (identificati fra l'altro in maniera molto ampia: non soltanto gli iscritti al sindacato ma giustamente tutti i titolari di una posizione Inpgi...) non sarà mai raggiunto, e dunque - secondo il regolamento redatto - non si procederà nemmeno allo spoglio dei voti. Sottolineiamo che il non raggiungimento del quorum richiesto è un'assoluta certezza. Al precedente referendum sul contratto non fu raggiunto nemmeno il 10% degli aventi diritto al voto, e la media dei votanti nelle consultazioni della categoria negli ultimi anni è arrivata al massimo al 20%. Con l'aria che tira fra i colleghi, e a tre mesi dalla firma del contratto, accettansi scommesse sull'entità delle folle che a fine settembre si precipiteranno alle urne... Qualcuno dice che, nel momento in cui alcuni colleghi hanno chiesto il referendum, la Fnsi non poteva esimersi dal convocarlo. Non ci è chiara la ratio. All'ultimo Congresso di Bergamo, gennaio 2011, l'ordine del giorno che proponeva il referendum sui futuri contratti fu sonoramente bocciato. Al pari delle proposte elaborate dopo due anni di lavoro dalla Commissione statuto, volte innanzitutto a creare una struttura federale più snella e meno onerosa per le casse del sindacato. Dunque, bocciata quella proposta, rimangono le vecchie regole. E il contratto firmato a fine giugno dalla giunta è stato approvato nelle scorse settimane dalla Consulta delle Associazioni regionali, dal Consiglio nazionale, dalla Commissione contratto, dalla Conferenza dei Cdr. Altri dicono che il referendum sarà un'occasione per "spiegare" il contratto. E dei sindacalisti hanno bisogno del referendum per "spiegare" il contratto? Il segretario Franco Siddi - che avrà sicuramente fatto i suoi errori ma al quale va riconosciuto il merito principale di aver portato a casa il risultato - e tutti noi, Fnsi, Associazioni regionali, Cdr, stiamo da settimane spiegando il contratto. Stiamo tentando di far capire ai colleghi che nell'Italia del 2014, e con una Fieg che il contratto nazionale non lo voleva proprio più, aver rinnovato un accordo collettivo di lavoro somiglia a un miracolo. Stiamo spiegando che il nuovo contratto conferma a grandi linee quello precedente, non toglie diritti a nessuno, semmai aggiunge qualcosa. Non tanto, certo, ma questi sono i tempi che viviamo. Ma non vogliamo tornare al merito del contratto, alla scelta obbligata di riformare un'ex fissa altrimenti destinata a un veloce default, a un equo o non equo compenso, alle polemiche delle settimane scorse. Restiamo a questo referendum inutile e dannoso. Sì, perché i colleghi che protestano volevano essere informati e consultati prima, non a cose fatte, tre mesi dopo, senza possibilità di cambiare un fico secco e con un quorum irraggiungibile che impedirà lo stesso spoglio dei voti. I colleghi che protestano, ma non solo loro, davanti a questo referendum si sentiranno presi in giro. E ciò allontanerà ulteriormente la Fnsi dalla sua base che nel corso degli ultimi anni è mutata profondamente. Per questo referendum si sprecheranno soldi, energie, lavoro gratuito di tanti colleghi impegnati nel sindacato. E ciò fra l'altro alla vigilia di un'altra tornata elettorale - quella sì, importante - per il prossimo congresso. Entro il 20 dicembre dovranno infatti essere eletti i delegati, nei primi mesi dell'anno si svolgerà l'assise che esprimerà il nuovo segretario e il nuovo gruppo dirigente. Il lavoro da fare è enorme e impegnativo. Dopo il ventennio delle doppie segreterie di Serventi e di Siddi, all'ordine del giorno della Fnsi c'è quasi una rifondazione. La categoria è cambiata. Eravamo il sindacato dei privilegiati (e la doppia liquidazione rappresentata dall'ex fissa ne era uno degli ultimi esempi...), oggi siamo il sindacato di chi nelle redazioni sopporta, fra carta e web, carichi di lavoro sempre maggiori e fuori dalle redazioni non riesce a mettere assieme compensi dignitosi per il proprio lavoro. Potremmo continuare a lungo, consapevoli del fatto che la crisi della rappresentanza ha messo in crisi negli ultimi anni sindacati ben più grandi del nostro. Ma già queste note dovrebbero essere sufficienti a far capire che di tantissime cose, oggi e in futuro, ha bisogno il sindacato dei giornalisti. E un referendum tardivo, inutile, ininfluente e costoso non è nella lista. Vogliamo fare le cose seriamente? Bene, allora impegniamoci tutti a istituire il referendum obbligatorio e vincolante a partire già dal prossimo contratto. Prima e non dopo la sua firma. *presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia

venerdì 25 luglio 2014

RED CANZIAN apre stasera VEN festival Majano, friuli

Prima il libro, ora il tour. Approfittando dell’anno sabbatico dei Pooh. Il titolo è lo stesso: “Ho visto sessanta volte fiorire il calicanto”. Domani a Majano, Red Canzian presenta il libro alle 18 in piazza Italia e lo spettacolo alle 21.30 in apertura del 54.o Festival di Majano. «Ho scelto questo titolo - spiega Bruno in arte Red Canzian, classe 1951, veneto di Quinto di Treviso - non solo perché anagraficamente purtroppo i conti tornano, ma perché il fiore calicanto, che pochi conoscono, viene apprezzato veramente solo quando lo scopri, lo conosci oltre l’apparenza. E io, nel calicanto, riconosco un po’ di me, del mio modo di vivere». Ancora il bassista dei Pooh: «È un fiore coraggioso e pioniere, ed è il primo ad aprirsi a gennaio, spesso sui rami ancora ricoperti di ghiaccio, quando gli altri fiori non sono che una promessa addormentata dentro a piccole gemme chiuse. Il fiore del calicanto non colpisce per la forma o il colore, ma emana un profumo così particolare, intenso e avvolgente che non si può scordare, lascia la sua traccia». «E io - prosegue Red - la mia vita ho sempre cercato di viverla così, a costo di rompermi il naso per stare davanti, in prima linea ma senza velleità, con una gran voglia di fare, di arrivare al cuore delle persone per quello che realmente ero, e con la speranza di riuscire a lasciare la mia piccola impronta. E poi il calicanto ha in sé la parola “canto”, e il canto è un bel modo di interpretare la vita». Canzian, ma non avevate detto che i Pooh si prendevano una pausa? «Sì, ma una pausa l’uno dall’altro, così, per rilassarsi un po’... Scherzi a parte, è un’occasione per ognuno di noi per coltivare progetti personali che magari tenevamo chiusi in un cassetto». Come questo suo spettacolo autobiografico. «Due ore e mezzo di musica, ricordi, mode e modi di vivere, dagli anni Cinquanta a oggi. Mi prendo molto in giro, attraverso mie vecchie foto, i vestiti che indossavo quand’ero ragazzo...». Da dove si parte? «Dal 1951 della mia nascita, con “Grazie dei fior” con cui Nilla Pizzi trionfò quell’anno nel primo Festival di Sanremo. Poi passo a “Tutti Frutti” di Little Richard, “Love me tender” di Elvis, “Yesterday” dei Beatles. Ma anche “Ti ringrazio vita, che mi hai dato tanto...”». Lei che ragazzo era? «Ero abbastanza sveglio, quindi me la cavavo a scuola, meglio nella materie letterarie che in matematica. Famiglia umile, papà faceva il camionista, con un passato giovanile da pugile. Abbiamo sempre vissuto nei dintorni di Treviso». La musica? «A cinque o sei anni guardavo dietro la radio per tentare di capire chi cantava. A dodici anni papà mi regalò una chitarra acustica (quella elettrica costava troppo...) comprata a rate. E cominciò tutto». Chi le piaceva? «All’inizio gli urlatori: Tony Dallara, Joe Sorrenti, Modugno, Buscaglione. Poi scoprii “Love me do” e i Beatles. Ma anche Gino Paoli e “Il cielo in una stanza”». I Capsicum Red? «Fu il mio primo gruppo vero, cantavamo “Ocean”. Ovviamente nello spettacolo ne parlo e li cito. Poi, nel ’73, entrai nei Pooh al posto di Riccardo Fogli. E la mia vita cambiò». Allo spettacolo partecipano Chiara Canzian e Phil Merr. «Quando entra in scena mia figlia c’è un momento di affetto da parte del pubblico molto bello. Phil è il figlio della mia compagna, la prima batteria gliel’ho regalata io...». I Pooh quando tornano? «Nel 2015 ricominciamo assieme, il disco nuovo dovrebbe arrivare entro fine anno, poi partiremo in tour. Facendo tesoro delle rispettive esperienze soliste». Qualcuno dice che quando Stefano D’Orazio è uscito sarebbe stato più giusto chiudere l’avventura... «Certo, poteva anche andare così. Non creda che non ci abbiamo pensato anche noi, a lungo. Ma ricordo la gente che piangeva all’ultimo concerto con Stefano, nel settembre 2009 al Forum di Assago. E anche l’emozione del nostro ritorno in scena, con tanta voglia di ricominciare...».

mercoledì 23 luglio 2014

CRISTIANO DE ANDRE' venerdì a Spilimbergo per Folkest

Dici De Andrè e pensi a Fabrizio. Ma da molti anni c’è anche il figlio Cristiano, a percorrere la sua onesta strada nel mondo della musica. Il suo tour “Via dell’amore vicendevole” fa tappa venerdì a Spilimbergo, per Folkest. Cristiano, chi sono gli “invisibili” nell’Italia del 2014? «Oggi sembra che non succeda niente, come se tutto fosse “silenzioso”, ma forse abbiamo bisogno di un momento di “silenzio” per arrivare a qualcosa di nuovo e bello. L’unica cosa importante deve essere l’arte, l’anima, e quindi ricominciamo, riprendiamo le cose belle e andiamo verso un linguaggio nuovo. Penso che il nostro presente e passato debbano essere ricordati per la cultura e l’arte». Nella canzone portata a Sanremo, invece... «“Invisibili” è una canzone che parlava degli anni ’70, periodo di fermento culturale, di voglia di cambiare, trovare nuove soluzioni, introdurre nuove cose. Nonostante l’assolutismo e la mancanza di libertà, gli anni ’70 si sono tolti la crosta di dosso e attraverso musica, letteratura, grandi pittori c’è stata la rivoluzione culturale. La libertà era scomoda, ci sono state situazioni pericolose». Una canzone che parla di droga. «Molti ragazzi l’hanno usata. Ciò è stato permesso da governi invisibili che volevano sterminare una generazione scomoda, che si auto sterminasse. Un ragazzo di vent’anni che veniva etichettato drogato diventava invisibile per la società perbenista. In molte famiglie c’era una differenza generazionale di linguaggio, ciò creava problemi. Come quella canzone che ho scritto insieme a mio padre “Cose che dimentico” sull’Aids. Anche loro invisibili, come gli omosessuali. Com’è stato tornare al Festival? «Sanremo è sempre particolare, in tre minuti devi riuscire a trasmettere tutto quello che hai dentro». Il nuovo album è arrivato 12 anni dopo Scaramante. «Per molti la musica è una distrazione, per altri un’amplificazione del proprio dolore, dei sentimenti che si provano. È morto mio padre, poi mia madre, mi sono mancate tante sicurezze e ho dovuto ritrovarle. La musica è faticosa, mi creava più nostalgia di quanta non ne avessi già senza di lei». “De Andrè canta De Andrè” ha dimostrato che il pubblico ama sentirla cantare le canzoni di suo padre. «Quando ho deciso di cantare le sue canzoni ho preso 25 suoi brani e con Luciano Luisi li abbiamo riarrangiati, anche con spunti dalla world music e dall’elettronica. Abbiamo portato le sue canzoni in un altro mondo. Poteva essere rischioso per chi è abituato a certe sonorità, invece è stato un successo. Tra il pubblico abbiamo anche ragazzi di 16-17 anni. Dai giovani agli adulti della mia età, sui cinquant’anni, e più grandi. Così ho fatto conoscere le parole di mio padre, che sono medicina per l’anima, a chi ascoltava magari solo rap e rock, ho portato loro una poesia che mancava».  L'influenza della California e di Corrado Rustici nel nuovo disco? «Sono andato in California, che non è più quella di una volta. Stavo quasi sempre in studio, con un italiano, appunto Corrado Rustici, e lui è stato davvero una bella scoperta». In questo tour? «Canzoni del mio passato riarrangiate, pezzi di “Scaramante” e di “Come in cielo così in guerra” e altri miei brani, intrecciati con brani di mio padre. Tutto questo in una scaletta funzionale, molto musicale. Pensavo di fare poche date invece siamo già a più di dieci». La musica di oggi? Cosa ascolta? «Di tutto, amo contaminarmi con ogni stile letterario, artistico. Ascolto world music, musica anni ’70, classica. Il rap è un linguaggio nuovo che deve ancora rinforzarsi con una certa poesia, ma sicuramente ci sarà questo passaggio. Mi piace mischiare di tutto, ma non così, come si mescolano le carte, ma far suonare in maniera migliore, armonica». Prossimi progetti? «Ho scritto la sceneggiatura di un film, e un’opera musicale, ma è presto per parlarne». Cosa le manca di suo padre? «Sono orgoglioso del cognome che porto. Ho fatto la mia strada, ho faticato, ho dimostrato che sono un artista. È stato un processo lungo. La prima volta, mentre studiavo al Conservatorio, mio padre mi fece salire sul palco e mi presentò: “Questo è mio figlio e suonerà il violino...”. Oggi rivisito il suo repertorio».

venerdì 18 luglio 2014

ADDIO A JOHNNY WINTER

La musica era tutta la sua vita. E infatti ha suonato fino all’ultimo, compresa la recentissima apparizione nel Friuli Venezia Giulia, due mesi fa al “Nuovo” di Udine. Johnny Winter è morto a Zurigo, aveva settant’anni, era uno degli ultimi grandissimi chitarristi del blues-rock. Per gli appassionati un’autentica leggenda. «L’incontro con BB King nel 1962 - ci disse a maggio il musicista texano, albino come il fratello minore Edgar, anche lui mucisista - fu incredibile. Avevo diciassette anni, andai in un club frequentato dalla gente di colore. Ho insistito chiedendogli di suonare, fino a quando mi permise di farlo. Ricordo che suonai “Lucille” e il pubblico mi riservò una standing ovation. Ho ancora i brividi quando ci penso». «Muddy Waters invece l’ho incontrato quando aprii un suo concerto al Vulcan Gas Company. Dopo avermi sentito suonare mi disse che secondo lui ero uno dei migliori chitarristi che avesse mai visto. Poi ho prodotto, suonato e vinto tre Grammy Award con lui. Sento molto la sua mancanza. Mi chiamava il suo “figlio adottivo”... Da ragazzo gli altri miei miti erano Chuck Berry, Ray Charles, Robert Johnson. Ho cominciato a studiare la musica di Chet Atkins fin da giovane. Tutti grandi esempi per me». «Cosa ricordo di Woodstock? Che ho volato su un elicottero. Era tarda notte. Stavo dormendo su un sacco di immondizia perché ero molto stanco, ed era l’unico posto dove ho potuto riposare un po’. Sono stato svegliato dal promoter, il quale mi chiese di andare a suonare. Cinque minuti dopo ero sul palco davanti a centinaia di migliaia di persone. Sapevo che sarebbe stato uno spettacolo storico. È stata un’esperienza incredibile». Ancora Winter: «Musicalmente il mio decennio preferito è quello dei Cinquanta, il migliore di sempre per il blues. Oggi suonare blues per me significa divertirmi, così era un tempo e così è ancora. Ho il blues nel sangue, sarà così fino al mio ultimo giorno». Nessuno poteva immaginare che l’ultimo giorno fosse così vicino. A febbraio, il musicista ha festeggiato il settantesimo compleanno con uno show al “BB King”, a New York, con la sua band e un sacco di ospiti e amici. «Ho ricevuto una torta da parte del club ed è stato un grande momento: il fatto di stare su un palco con la mia band e i miei amici mi è sembrato un ottimo modo per festeggiare i settant’anni...». Diceva: «Non ho assolutamente voglia di fermarmi. Il nuovo album si intitola “Step back” e sarà pronto per agosto. Collaboreranno musicisti e amici di assoluto livello come Eric Clapton, Brian Setzer, Joe Perry, Leslie West e molti altri. È un grande album e penso che i miei fan lo ameranno». L’album, che è il seguito di “Roots”, uscito nel 2011, uscirà a settembre. Purtroppo postumo.

NOMADI oggi (VEN) a Nova Gorica

Proprio come per Bob Dylan, anche per i Nomadi si può parlare di un “never ending tour”, una tournèe che prosegue da anni con brevi pause e interruzioni. Stasera alle 22.30 la band di Beppe Carletti arriva al Perla di Nova Gorica, per un concerto a ingresso gratuito. «Con il nostro mezzo secolo e più di storia - dice Carletti, che il 12 agosto compie 68 anni, ed è un po’ il “nonno” della formazione - siamo il gruppo più longevo al mondo dopo i Rolling Stones, che ci battono di pochi mesi. Ma quando suoniamo incontro ancora tanto entusiasmo, i ragazzi che sono entrati in questi anni nel gruppo hanno portato tanta freschezza, tante idee nuove». «Abbiamo cominciato che eravamo ragazzi, c’era Augusto (Daolio, scomparso nel ’92 - ndr), non sapevo nulla del mondo, avevo solo tanto entusiasmo e amore per la musica. Nel bene e nel male quella dei primi anni Sessanta era un’altra Italia. C’era tanta voglia di fare, di stare assieme. Si era felici con poco. Eravamo meno ricchi, ma c’era una ricchezza interiore che era più importante. Oggi abbiamo tutto, ma un cellulare nuovo non potrà mai sostituire un libro, un disco, una chiacchierata». «Due anni fa abbiamo fatto l’album “Terzo tempo”, a indicare il fatto che continuiamo a cantare e suonare dopo tanto tempo. Ma il riferimento era anche il “terzo tempo” che si usa nel rubgy, quello degli abbracci dopo la battaglia. Hanno provato a importarlo nel calcio, ma mi sembra senza successo». «Fra me e il più giovane del gruppo ci sono quasi trent’anni di differenza. Ma viviamo e lavoriamo in buon accordo, come una grande famiglia. Il nostro nuovo disco? È appena uscito, s’intitola “50 più uno”: una manciata di inediti e quei classici che il nostro pubblico ama sempre risentire». Con Carletti, stasera sul palco sloveno ci saranno Cico Falzone, Daniele Campani, Massimo Vecchi, Sergio Reggioli e il nuovo cantante Cristiano Turato. In programma i maggiori successi della loro cinquantennale carriera, da “Io vagabondo” e “Un pugno di sabbia”, da “Crescerai” a “Ho difeso il mio amore”, fino alle più recenti “Io voglio vivere”, “Sangue al cuore” e “Dove si va”.

giovedì 17 luglio 2014

BOMBINO oggi (merc) a Villa Manin, Codroipo

A febbraio ha riempito ed entusiasmato il Teatro Miela, a Trieste. Stasera alle 21.30 il suo “Nomad Tour 2014” fa tappa a Villa Manin di Passariano. Lui è Bombino, il chitarrista originario del Niger, vero nome Omara Moctar, già soprannominato il “Jimi Hendrix del deserto”. «Della mia infanzia ad Agadez - dice l’artista, classe 1980 - ricordo la povertà. Mi ha allevato mia nonna. Avevamo davvero poco. Vivevamo con la paura del governo, la situazione per noi tuareg era molto difficile. Ma ricordo che allora Agadez era un posto florido per il turismo e per la nostra culura. Ho ricordi felici di quand’ero bambino e tentavo di guadagnare qualcosa con i turisti». «La prima musica che ho ascoltato? Quella tradizionale, che la gente suonava al mio paese. Il mio primo strumento è stato un piccolo piano ricevuto in dono da mio zio. Già allora volevo suonare la chitarra, ma ero timido e non avevo il coraggio di dirlo. Finchè un mio amico non me ne ha data una. Ho scoperto il rock verso i dieci o undici anni. Sapevo da sempre di avere un destino da musicista. Avrei anche potuto guidare un tir o fare lo chef o qualcos’altro. Ma nulla sarebbe stato importante per me e per la mia identità come la musica». Bombino è un discendente dei Tuareg Ifoghas, tribù che lotta da secoli contro il colonialismo e l’imposizione dell’Islam più severo. Allievo di Haia Bebe, celebre chitarrista tuareg, ben presto entra a far parte della sua band. È lì che gli danno il soprannome di Bombino, semplice storpiatura dell’italiano “bambino”. “Group Bombino - Guitars from Agadez”, “Agadez” e “Nomad” sono i titoli dei suoi album. «Indossare il turbante - dice - mi mantiene in contatto con le mie radici. Lo tendo sempre al collo, sia in scena che nella vita di tutti i giorni. L’incontro per me più importante? Ron Wyman (il regista che lo ha scoperto mentre girava un documentario - ndr), perchè tramite lui ho poi incontrato le altre persone importanti per la mia vita e la mia carriera. Lui è il mio “papà americano”. Gli devo buona parte del mio successo. Mentre il chitarrista che mi ha più influenzato è ovviamente Jimi Hendrix, il re». Fra gli estimatori di Bombino c’è nientemeno che Keith Richards. «Quando l’ho incontrato e ho suonato con lui non sapevo nemmeno chi fosse. Ed è stato un bene, perchè sarei stato emozionato e nervoso, se avessi saputo che era uno dei Rolling Stones». Un altro folgorato dalle sue doti è Dan Auerbach, dei Black Keys, che ha prodotto “Nomad”, il suo terzo album uscito in tutto il mondo ad aprile 2013 su etichetta Nonesuch/Warner, registrato nello studio di Auerbach a Nashville, poi inserito da Rolling Stone America e Npr Radio nella classifica dei cinquanta migliori album dell’anno. Il “Nomad Tour” prosegue il 20 luglio al Festival Eutropia a Roma, il 3 agosto al Trasimeno Blues di Città della Pieve (Perugia), il 14 agosto a Torino, il 15 agosto a Oristano... Con lui stasera sul palco Avi Salloway (chitarra, djembe, voce), Youba Dia “basso, voce) e Corey Wilhelm (calabash).

lunedì 14 luglio 2014

COMINCIA STASERA TRIESTE LOVES JAZZ, 8.a edizione

Un brasiliano, uno svedese, un croato e due italiani. Sono la Buena Banda, che stasera alle 21 in piazza Verdi apre TriesteLovesJazz, rassegna giunta quest’anno all’ottava edizione che animerà per un mese, con trentatre concerti, tutti a ingresso libero, le serate del centro storico cittadino. I cinque ragazzi hanno avviato un progetto volto a riscoprire e valorizzare la musica e la tradizione delle “brass band” di New Orleans. Marko Solman alla tromba, Karel Eriksson al trombone, Carlo Grandi al sousaphone, Pietro Ricci e Luis Carneiro De Oliveira alle percussioni propongono un repertorio sapientemente equilibrato fra classico e moderno, con tentazioni funky. La serata del debutto verrà completata dal concerto della Big Tartini Band, diretta da Klaus Gesing, a suggello della collaborazione avviata dal festival con il Conservatorio Tartini di Trieste. La formazione trova ispirazione nella grande lezione della musica jazz, da Count Basie a Chick Corea, ma non manca di muoversi fra autori generi diversi. Ma veniamo alle star della rassegna. Innanzitutto il chitarrista John Scofield, atteso con il suo Überjam Trio lunedì 28 luglio. Poi la nuova voce d’Africa Dobet Gnahorè: cantante, danzatrice e percussionista ivoriana nel 2006 ha ricevuto una nomination ai Bcc Award come “miglior rivelazione”, sarà a Trieste domenica 20 luglio (direttamente da Umbria Jazz, dove si esibirà la sera precedente). E giovedì 17 luglio Kyle Eastwood, che oltre a essere il figlio del grande Clint, è un contrabbassista di razza, ha già alle spalle sei dischi e svariate colonne sonore (fra cui quelle degli ultimi film del padre). Da segnare in calendario il concerto del 22 luglio (in collaborazione con il Bohemia Jazz Festival) di Leny Andrade, definita la Ella Fitzgerald del Brasile, fra jazz e suoni carioca. Per “Made in Trieste”, sabato 26 luglio si celebra il decimo anniversario della Maxmaber Orkestar. Martedì 29 luglio il Marco Castelli Quintet propone “Porti di mare”. Mentre giovedì 31 luglio la Jimmy Joe Band di Gianluigi Destradi presenta il nuovo disco “Frame” (fra gli ospiti: la talentuosa cantante triestina Dorina). Dopo il doppio debutto di stasera, domani tocca al vibrafonista sloveno Vid Jammik con il suo quartetto. Mercoledì 16, in collaborazione con Udin&Jazz, il festival ospita “Inner roads” di Enzo Favata (serata dedicata ai giovani musicisti austriaci, nell’ambito di un collaudato rapporto di scambio con Graz). E poi venerdì 18 Veronica & the Red Wine Serenades, sabato 19 il trio Bisiak, Giangaspero, Zullian, lunedì 21 Riccardo Fioravanti con il trombettista Daniele Raimondi, e il progetto Loosebites con ospite Giovanni Falzone (21 luglio). Il programma completo è su www.triestelovesjazz.com. «La nostra vocazione internazionale - spiega il patron Gabriele Centis, direttore della Casa della musica, che organizza il festival per il Comune di Trieste - è rappresentata anche quest’anno dalla presenza di protagonisti d’oltreoceano del jazz mondiale, di gruppi italiani ed europei di primo piano, di numerosi musicisti del nostro territorio». Ancora Centis: «In particolare, questa edizione dà spazio ad alcuni nuovi talenti del jazz che presenteranno i loro progetti o che condivideranno il palco con più conosciuti e “blasonati” colleghi». «Tre concerti - conclude - saranno dedicati a tre anniversari particolarmente significativi per la storia e l’identità culturale di Trieste: la suite di Comisso e Bearzatti ispirata alla Grande Guerra (sabato 19 luglio), la serata dedicata ai 60 anni dal ritorno di Trieste all’Italia nel 1954, l’omaggio del trio “Disorder at the border” a Ornette Coleman nel quarantennale del concerto che ha segnato nel 1974 l’apertura dell’ospedale psichiatrico triestino (venerdì 25 luglio)».

domenica 13 luglio 2014

ADDIO A TOMMY RAMONE, ultimo dei Ramones

Se n’è andato anche Tommy Ramone, era l’ultimo dei Ramones (gli originali...) ancora in vita. Il suo vero nome era Tamas Erdélyi, aveva 62 anni, era nato a Budapest, ma nella New York dove un cancro al fegato se l’è portato via, tanti anni fa, quando i quattro “ragazzacci” cominciarono la loro avventura, tutti adottarono il cognome che era il singolare del nome della band. Tommy era il batterista, innamorato delle bacchette sin da bambino, quasi un metronomo nella macchina musicale di quel “commando” che negli anni Settanta portò la rivoluzione punk nel cuore del rock. Suoni semplici, immediati, diretti come un cazzotto, melodie disegnate su tre accordi, testi infarciti di slogan ribellisti. Ma era quello che il pubblico, prima nei club di New York e poi dappertutto, in mezzo mondo, aveva voglia di sentire in quegli anni. E visto che anche l’occhio vuole sempre la sua parte, il cosiddetto look dei quattro era ovviamente in linea con i suoni irriverenti e sfrontati: jeans sdruciti in tempi non sospetti, scarpe da ginnastica, il classico chiodo di pelle nera, i capelli a caschetto che ricordavano gli educatissimi Beatles degli esordi (e lo stesso nome Ramones era stato lo pseudonimo con cui Paul McCartney prenotava gli hotel ai tempi dei Fab Four...). Tommy fu cofondatore della band e batterista dal ’74 al ’78. All’inizio lo avevano chiamato come manager, ma si impose per le sue doti dietro piatti e tamburi, sostituendo alla batteria Joey Ramone, che passò alla voce. Oltre a usare le bacchette, coprodusse prima tre dischi (“Ramones”, “Leave home” e “Rocket to Russia”) e poi, una volta uscito dal gruppo, altri due. Nel ’78 fu sostituito alla batteria da quel Marky Ramone (Marc Steven Bell), passato da Trieste lo scorso anno in occasione del concerto dei Green Day. La prima formazione, nel ’74, era composta da Jeffrey Hyman, in arte Joey Ramone, cantante e batterista, Johnny Ramone alla chitarra e Dee Dee Ramone al basso. Pochi mesi dopo arriva Tommy Ramone e il 16 agosto ’74 il gruppo debutta al Cbgb’s, club newyorkese frequentato da leggende dell’underground come Andy Warhol, Lou Reed e John Cale, che sarebbe diventato tempio della cosiddetta new wave. E dal quale partirono le avventure anche di Patti Smith, Blondie, Talking Heads, Television e altri. Nell’ultima fase della sua vita, Tommy Ramone suonava con la sua compagna Claudia Tienan negli Uncle Monk, duo country e bluegrass che aveva prodotto un album omonimo nel 2006.

STASERA JIMMY CLIFF A LIGNANO, unica tappa italiana del tour

È uno dei grandissimi della musica reggae. Anche se nella sua Giamaica lo hanno sempre guardato un po’ così, quasi di traverso, innanzitutto per quella sua antica abitudine a flirtare con il pop e il rock, con il soul e la musica elettronica. Ma anche per la sua fede musulmana, in un’isola - e una cultura - dedita completamente al rastafarianesimo. Jimmy Cliff, vero nome James Chambers, classe 1948, arriva questa sera nella nostra regione, a Lignano, nell’unica tappa italiana del suo tour mondiale 2014, a concludere quel “One Love Festival” giunto alla seconda edizione, e che sta prendendo pian piano nel cuore e nelle abitudini degli appassionati del reggae il posto di quel “Sunsplash Festival” emigrato da qualche tempo nell’evidentemente più ospitale terra spagnola. Il concerto, come del resto l’intera rassegna giunta ormai alla sua conclusione, dopo quattro giorni di musica e varie iniziative, si svolge al Camping Girasole, struttura che sorge sulla strada che da Latisana conduce alla località turistica friulana (informazioni più dettagliate sul sito www.onelovefestival.it). Ma torniamo al grande Jimmy Cliff. Per comprendere l’importanza del quale basterebbe forse ricordare che ebbe il merito, negli ormai lontani anni Sessanta, di diffondere la musica in levare (all’epoca lui ha cominciato con lo ska) quando stelle del reggae come Bob Marley e Peter Tosh erano ancora praticamente dei ragazzini. “Reggae night”, “Sittin’ in limbo”, “You can get it if you really want it” e “Many rivers to cross” sono alcuni dei suoi brani più famosi. Assieme a due leggendarie cover: quella di “The lion sleeps tonight”, brano di ispirazione africana già portato al successo nel 1961 da Hank Medress dei Tokens; e quella di “Wild world”, il classico di Cat Stevens che stava nel quarto album del cantautore britannico “Tea for the tillerman”, ma che nella sua versione uscì (era il 1970) prim’ancora che nell’interpretazione dell’autore. “Hard road to travel” fu il suo primo album, pubblicato nel ’68. “Vietnam” era il titolo del suo inno pacifista, giudicato all’epoca da Bob Dylan la miglior canzone di protesta che avesse mai sentito. “The harder they come”, con annessa colonna sonora, il film che ebbe un ruolo importante nella diffusione mondiale della musica reggae. Dopo altri album, e una fase di distacco dal mondo musicale che lo portò a viaggiare a lungo in Africa e riscoprire la sua fede islamica, Jimmy Cliff tornò in scena negli anni Ottanta collaborando con Kool & the Gang e vincendo nell’85 un Grammy Award con l’album “Cliff Hanger”. Un altro Grammy è arrivato due anni fa, per l’album “Rebirth”, realizzato negli studi di Muscle Shoals (leggendarie sale di registrazione dell’Alabama dove ha inciso mezzo mondo del rock, celebrati proprio in queste settimane dall’omonimo film) in collaborazione con Tim Armstrong dei Rancid: una manciata di brani originali e tre cover, fra le quali “Guns of Brixton” dei Clash. «Tim mi era stato segnalato da Joe Strummer dei Clash - ha detto recentemente Jimmy Cliff -, l’incontro con lui è stato importante. Da qualche anno avevo messo da parte il linguaggio del reggae, ma mi era sempre rimasta la voglia di incidere un album che tornasse alle mie origini musicali. Quando ho cominciato a collaborare con Tim mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, e questo mi ha portato a realizzare “Rebirth”...».

LETTERA A PAPA FRANCESCO

Buongiorno, Papa Francesco. Scrivo a nome di (per ora) 51 cittadini di Trieste, laici e cattolici, rimasti sfavorevolmente colpiti da alcune posizioni e comportamenti concreti del vescovo della nostra città. Per – forse inutile – trasparenza, specifico che sono un sindacalista, personalmente agnostico, ovviamente per questo ruolo attento soprattutto ai temi del lavoro, dell’accoglienza, dell’attenzione ai più deboli. Segnaliamo dunque in particolare, (io l’ho già fatto pubblicamente) che qualche mese fa, il vescovo ha chiuso un centro di formazione professionale per tipografi chiamata "Villaggio del Fanciullo" attiva da 70 anni licenziando 20 persone, lamentando carenza di fondi, mentre peraltro il settimanale della Curia, che si sarebbe potuto stampare in quella sede, viene realizzato altrove. Il fatto ha sollevato un dibattito, con commenti non proprio favorevoli, sulla stampa della città. Nei giorni scorsi invece il vescovo ha ritenuto di partecipare ad un avviso pubblico relativo al sito del "Porto Vecchio" per la costruzione di una nuova chiesa a poca distanza da quella storica di S.Antonio Taumaturgo, normalmente non proprio traboccante di folla. Quello che ci chiediamo (e ti chiediamo) è semplice: se la Curia triestina ha i soldi per costruire una nuova chiesa, non avrebbe potuto evitare di chiudere la tipografia e licenziare 20 persone? E se ne ha tanti da poter costruire ex novo un edificio sacro, non potrebbe invece destinarli alla mensa della Caritas o alla Comunità di S.Martino al Campo che svolge un'indispensabile attività di accoglienza in città? Restiamo fiduciosi in attesa di una tua risposta. Franco Belci

BICICLETTE A TRIESTE, VITA MOLTO DURA

La multa di 252 euro comminata al ciclista colpevole di aver percorso pochi metri contromano in via Carducci, fra l'inizio di via San Francesco e quello di via Battisti, ha dato la stura sulle colonne del Piccolo a un nobile quanto degno di miglior causa sollevamento di popolo a favore del rispetto della legge. Il codice della strada vale per tutti, e che diamine, anche per i ciclisti. Sacrosanto. Ma chissà se questi integerrimi fautori dell'osservanza delle norme e dei codici sono gli stessi che la sera sfrecciano a 80 e più all'ora in viale Miramare o in via Locchi. Gli stessi che parcheggiano in seconda fila (cinque minuti, cosa vuole che sia...?) o sui moli e sulle banchine delle nostre Rive. Gli stessi che al semaforo "bruciano" il giallo o passano col rosso. Gli stessi che ignorano il limite dei 50 sulla superstrada. Gli stessi che ogni sera lasciano l'automobile o lo scooter dove capita nel cosiddetto e centralissimo "triangolo delle bevute". Gli stessi che al volante chiacchierano beati al telefono. La lista potrebbe continuare a lungo. E potrebbe essere allargata, volendo, ad altri casi di rispetto o non rispetto della legge. In una città come Trieste, con un centro storico sprovvisto di piste ciclabili, per chi si sposta in bicicletta c'è sempre e innanzitutto in ballo la propria incolumità. E percorrere pochi metri contromano o su un marciapiede, ovviamente a velocità bassissima e stando ben attenti alle auto e ai pedoni, significa evitare la roulette russa del traffico veicolare e a volte salvarsi la vita. Il ciclista multato con 252 euro, per imboccare via Battisti provenendo da via San Francesco, a rigor di codice avrebbe dovuto inserirsi con sprezzo del pericolo sulla superstrada chiamata via Carducci, buttarsi in qualche modo e rapidamente sulla sinistra per imboccare via Valdirivo, poi via Roma, Corso Italia, piazza Goldoni, di nuovo via Carducci... Trieste ha ambizione di essere città civile ed europea. Ma nelle città civili ed europee - per la verità anche in tantissime città non europee - l'incolumità dei ciclisti nonché la sostenibilità del traffico urbano vengono perseguite e ottenute attraverso centri storici a misura anche di chi si sposta sulle due ruote, con piste ciclabili e griglie per parcheggiare. Nella civilissima Reggio Emilia da due anni capita di leggere cartelli segnaletici con la scritta "strada a senso unico, eccetto biciclette". E il via libera all’estensione del “modello Reggio” è arrivato dalla Direzione generale per la sicurezza stradale del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, che ha prodotto un documento al riguardo. A Trieste, anche su questo fronte, assistiamo da anni alla solita e consueta politica degli annunci. E intanto, dagli al ciclista...

venerdì 11 luglio 2014

DISCHI, MARIO CASTELNUOVO (29-6)

MARIO CASTELNUOVO “MUSICA PER UN INCENDIO” (Egea Music) Ve lo ricordate Mario Castelnuovo? Era quel cantautore romano, classe ’55, capello lungo e sguardo ispirato, che fece delle comparsate in alcuni Sanremo degli anni Ottanta. Ora torna con questo disco, a otto anni da “Come erano venute buone le ciliegie nella primavera del '42” e a trenta da “Nina”, il suo brano forse più noto. Dodici brani con la forza visionaria e la ricerca poetica che hanno da sempre contraddistinto la produzione artistica dell’artista. Che dice: «In questo panorama di appiattimento sociale e culturale c’è bisogno di un incendio di passioni. Per questo ho intitolato così il nuovo disco, una sorta di vagabondaggio attraverso i miei stati d’animo, i più normali, ma anche i più segreti». Ancora Castelnuovo: «In quest’Italia piuttosto decaffeinata dobbiamo ricordare in che Paese straordinario viviamo. La bellezza non va data per scontata. Questo è un disco che vorrei diventasse la colonna sonora di questo periodo perchè è l’esatto contrario dell’appiattimento».

DISCHI, LANA DEL REY (29-6-14)

Con "Born to die" ha messo a referto un debutto da sette milioni di copie, innumerevoli visualizzazioni sul web e (quasi) altrettante critiche, da parte di osservatori dubbiosi sull'autenticità del personaggio (della serie: troppo perfetta e patinata per essere vera...). Sono passati due anni. Ora la fascinosa Lana Del Rey tenta il bis con questo "Ultraviolence" (Universal), che chiuderà la bocca a più d'uno. Sì, perchè il disco dimostra innanzitutto che la ragazza non è un personaggio costruito a tavolino. E non è nemmeno la cosiddetta meteora da far suonare una sola estate. Vero nome Elizabeth Woolridge Grant, americana di New York, classe 1986, prima di trovare la sua strada nella musica la ragazza ha fatto anche la modella. Nel 2008 contratto con un'etichetta discografica indipendente, un album di debutto che le serve essenzialmente per muovere i primi passi e farsi conoscere nell'ambiente. Poi, improvviso e fragoroso, il botto con il citato "Born to die", pubblicato nel gennaio 2012, che fra i tanti record sfoggia anche quello di 123 settimane di permanenza nella "top 100" italiana. La ricetta: un abile e sapiente mix fra pop, soul e hip hop, reso particolare e riconoscibile dalle atmosfere in stile colonne sonore cinematografiche, in particolare quelle anni Cinquanta e Sessanta. Dall'album, tre successi che hanno fatto il giro del mondo: "Video games", "Summertime sadness" e ovviamente il brano del titolo. Ora si riparte. E colei che qualcuno aveva definito "la versione gangsta di Nancy Sinatra" (secondo altri: "lolita smarrita nel ghetto"...) sforna una raccolta di canzoni ben scritte e meglio interpretate, potendo contare sulla preziosa collaborazione di Dan Auerbach dei Black Keys. Sparite le influenze hip hop, ma basta anche con i sontuosi arrangiamenti orchestrali e i campionamenti vocali. Buon pop, atmosfere sobrie, sapiente equilibrio fra passato e presente, chitarre psichedeliche e tentazioni swing. «Mi piaceva - ha detto la ragazza riguardo il titolo - l'impatto di una parola seducente come "ultra" vicino al suono della parola "violenza". Negli ultimi due anni ho più volte percepito nell'aria dei segnali di aggressione. E così ho capito che la violenza può anche essere una cosa emotiva. Nelle relazioni a me piace anche avere una forte fisicità. Quindi penso che dipenda dalla situazione, ma per me incarna la parola passione». Album di non immediato impatto, quasi sospeso nel tempo, ma che poi conquista per la sua classicità quasi anacronistica. Fra i brani: "Cruel world", "West coast", "The other woman" e il pezzo del titolo. "Old money" ricalca persino una melodia di Nino Rota dal "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli. "Ultraviolence" è disponibile in edizione standard con undici brani, nella versione deluxe con tre brani aggiuntivi e in un box da collezione.

venerdì 4 luglio 2014

CONTRATTO DA TEMPI DI EMERGENZA - da Giornalista Oggi, bollettino Ordine Fvg

da Giornalista Oggi, Bollettino dell'Ordine Giornalisti Fvg: di Carlo Muscatello* Mentre scriviamo queste righe, il contratto di lavoro non è ancora stato firmato. Mentre le leggete, è possibile che l'accordo fra Fnsi e Fieg sia stato raggiunto. Se ciò è accaduto, va detto che non è, forse non poteva nemmeno essere un buon contratto, ma è l'unico possibile nella situazione data. C'erano molte aspettative, nei mesi scorsi, soprattutto per il lavoro autonomo. Il risultato (forse) portato a casa è lontano dalle attese che si erano sviluppate nella categoria. E' un accordo quasi da tempi di emergenza, che poi sono quelli che viviamo nel mondo del giornalismo e dell'editoria. Un accordo per salvare il sistema, gli enti di categoria, in definitiva la nostra professione. Convinti come siamo che restare senza contratto sarebbe il guaio peggiore. Soprattutto per le realtà più piccole e meno garantite. Vediamo allora le novità più importanti che dovrebbero essere comprese nel nuovo contratto. Mercato del lavoro. Nell’accordo la presa d’atto della normativa di legge sulla acasualità dei contratti a termine per 36 mesi, fermi restando i limiti numerici di utilizzo già previsti dall’art.3 del contratto. Come nuova tipologia contrattuale l’utilizzo del contratto di apprendistato professionalizzante (36 mesi). Il trattamento economico sarebbe quello contrattuale del praticante per i mesi di praticantato, successivamente incrementato, fino a un massimo di 18 mesi, del 10%. Al termine dei 36 mesi si applicherebbe, per l’eventuale periodo residuo, il trattamento minimo del redattore ordinario con meno di 30 mesi di anzianità fino alla maturazione del requisito. Per i giornalisti disoccupati, la possibilità per le aziende di assunzione con applicazione del trattamento economico del redattore ordinario -30 con contratto a tempo determinato o indeterminato. In entrambi i casi ci sarebbe una riduzione contributiva, maggiore se il contratto è a tempo indeterminato. Per i giornalisti inoccupati (mai iscritti alla gestione principale lnpgi), nonché i giornalisti che abbiano in corso un contratto co.co.co., sarebbe prevista, per facilitarne l’assunzione, sempre per 36 mesi, una retribuzione di ingresso inferiore a quella del redattore ordinario -30. Anche in questo caso, le agevolazioni contributive sarebbero maggiori nelle assunzioni a tempo indeterminato. Le risorse all’editoria previste dalla legge di stabilità sarebbero orientate a verifiche periodiche fino al blocco degli incentivi in caso di scarsa utilizzazione da parte delle aziende. Ammortizzatori sociali. Nell’accordo un intervento del Governo per finanziare un limitato sostegno ai prepensionamenti di cui alla legge 416/81, nonché un ulteriore intervento del Governo per il finanziamento parziale degli ammortizzatori sociali. L’aliquota contrattuale a sostegno degli ammortizzatori sociali a carico delle aziende dovrebbe essere incrementata dell’1% per un triennio. L’lnpgi procederà a una razionalizzazione degli ammortizzatori sociali. Lavoro autonomo. Nel nuovo contratto precisi limiti di utilizzazione del lavoro autonomo, nonché il diritto alla firma, la copertura previdenziale integrativa, l’assicurazione infortuni, la richiesta al Governo di portare i co.co.co. nella gestione principale dell’Inpgi. Sul piano remunerativo si riterrebbe “economicamente dipendente”, secondo quanto definito nella delibera di attuazione della legge sull’equo compenso, un reddito annuo minimo di 3mila euro. Su questo livello retributivo sarebbe individuato il numero di prestazioni minime per quotidiani, periodici, agenzie di stampa e testate giornalistiche on line. La Fnsi ha chiesto che anche ai co.co.co. sia riconosciuta la copertura Casagit, la Fieg finora si è dichiarata contraria. Indennità ex fissa. L’eliminazione del fondo ex fissa (che rischia di essere dichiarato insolvente dal Governo) prevederebbe un regime transitorio in base al quale tutti coloro che hanno inoltrato domanda di liquidazione all’Inpgi alla data di sottoscrizione dell’accordo, percepiranno l’indennità rateizzata in 12 annualità, con un tasso di incremento del 2%. Ai giornalisti che al momento della sottoscrizione dell’accordo hanno maturato 15 anni di anzianità aziendale, verrà riconosciuta un’indennità calcolata sulla media retributiva degli ultimi 15 anni e nella misura massima di 65mila euro, erogata al momento del pensionamento con una rateizzazione di 15 anni e un tasso di incremento del 2%. Ai giornalisti che al momento della sottoscrizione dell’accordo hanno maturato almeno 10 anni di anzianità aziendale verrà riconosciuta al momento del pensionamento una indennità variabile a seconda dell’anzianità da un massimo di 10mila a un minimo di 2mila euro. L’accordo prevederebbe un prestito dell’lnpgi al Fondo che le aziende remunererebbero con una percentuale mensile (0,35%) calcolata sul monte retributivo complessivo della popolazione dipendente, allo scopo di poter assicurare la liquidazione delle prestazioni in attesa. Attualmente l'attesa per la liquidazione dell'ex fissa è salita a otto/dieci anni dal momento in cui il giornalista va in pensione. Soltanto i giornalisti Rai ottengono attualmente l'ex fissa entro pochi mesi dal pensionamento. Queste le basi dell'accordo al quale Fnsi e Fieg hanno lavorato in questi mesi. Se la firma non è stata posta, e se non lo sarà in queste settimane, è probabile che i tempi del nuovo contratto si allungheranno di molto. *presidente Assostampa Fvg

SIGNOR TENENTE (1994) - GIORGIO FALETTI (1950-2014)

Forse possiamo cambiarla ma è l'unica che c'è Questa vita di stracci e sorrisi e di mezze parole Forse cent'anni o duecento è un attimo che va Fosse di un attimo appena Sarebbe con me tutti vestiti di vento ad inseguirci nel sole Tutti aggrappati ad un filo e non sappiamo dove . Minchia signor tenente che siamo usciti dalla centrale Ed in costante contatto radio Abbiamo preso la provinciale Ed al chilometro 41 presso la casa cantoniera Nascosto bene la nostra auto c'asse vedesse che non c'era E abbiam montato l'autovelox e fatto multe senza pietà A chi passava sopra i 50 fossero pure i 50 di età E preso uno senza patente Minchia signor tenente faceva un caldo che se bruciava La provinciale sembrava un forno C'era l'asfalto che tremolava e che sbiadivo tutto lo sfondo Ed è così tutti sudati che abbiam saputo di quel fattaccio Di quei ragazzi morti ammazzati Gettati in aria come uno straccio caduti a terra come persone Che han fatto a pezzi con l'esplosivo Che se non serve per cose buone Può diventar così cattivo che dopo quasi non resta niente Minchia signor tenente e siamo qui con queste divise Che tante volte ci vanno strette Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo paese Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese E c'è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù E farla scendere è una parola, se chi ci ammazza prende di più Di quel che prende la brava gente Minchia signor tenente lo so che parlo col comandante Ma quanto tempo dovrà passare per star seduto su una volante La voce in radio ci fa tremare, che di coraggio ne abbiamo tanto Ma qui diventa sempre più dura quanto ci tocca fare i conti Con il coraggio della paura, e questo è quel che succede adesso Che poi se c'è una chiamata urgente se prende su e ci si va lo stesso E scusi tanto se non è niente Minchia signor tenente per cui se pensa che c'ho vent'anni Credo che proprio non mi dà torto Se riesce a mettersi nei miei panni magari non mi farà rapporto E glielo dico sinceramente Minchia signor tenente