giovedì 28 agosto 2008

BAUSTELLE


I Baustelle aprono stasera a Pavia di Udine la 44.a edizione della «Sagre dai Pirus». Con «Amen», il loro quarto album, uscito quest’inverno, il trio di Montepulciano ha firmato uno dei migliori dischi italiani del 2008. Un album finito anche il classifica, in bilico fra pop e canzone d'autore, fra cultura alta e popolare, fra cronaca e citazioni letterarie e cinematografiche, senza dimenticare qualche dichiarazione d'amore per l'elettronica e la new wave.

«La musica pop spesso ha un solo strato - dice il cantante Francesco Bianconi, autore dei brani del gruppo -: facile, lineare, con le melodie orecchiabile. Cose che vanno bene, che piacciono anche a noi. Ma amiamo anche la contaminazione, la possibilità di creare diversi livelli di lettura. Ecco, noi vogliamo fare la musica pop che non si sente in giro».

Lo sa che il liberismo non ha i giorni contati?

«L’ho sempre saputo... Ma anche quel brano («Il liberismo ha i giorni contati», dall’ultimo album - ndr) nasce dalla constatazione della realtà. Da ricordi anche personali, di quando sono stato precario, o disoccupato, e vagavo per Milano guardando la civiltà ricca, tutta lustrini, sperando magari che si autodistruggesse, come spera la protagonista della canzone».

Il cui video ora andate a girare a Berlino.

«Sì, lì terremo anche un concerto, il primo di un piccolo tour tedesco, con una tappa anche a Vienna. Berlino oggi è una città emblematica, c’è un gran fermento, non solo nella musica. Conosco molti che sono andati a viverci, chissà, forse per coltivare l’ultimo sogno, l’ultima speranza, o forse l’illusione. Faremo un sondaggio sulla felicità dei berlinesi...».

Lei faceva il giornalista.

«Sì, dopo l’università ho risposto a un annuncio: a Milano cercavano un redattore per una rivista di giardinaggio. Poi ho lavorato anche per una rivista di vini e gastronomia. E poi mi sono licenziato, diventando un precario della musica».

Montepulciano com’è?

«Un paesotto, dove se vuoi fare musica sul serio, ti guardano come una pecora nera. Ma veniamo tutti e tre da lì: io vivo a Milano da diversi anni, Rachele Bastreghi si è trasferita da poco, Claudio Brasini è rimasto a vivere lì».

Per certe canzoni vi accusano di cinismo.

"Le critiche mi rimbalzano addosso e i moralismi lasciano il tempo che trovano. Io mi identifico nei sedicenni come Charlie (il brano è «Charlie fa surf» - ndr), che prendono pasticche e minacciano ”vi spacco il culo”. Anche se ho molti anni di più».

Ragazzini che sono il segno di che cosa?

«Forse di un mondo che non ha speranza, ma fa finta di non saperlo. Inutile mettersi il paraocchi davanti al fatto che fra i ragazzini c’è un uso della droga fine a se stesso, per lo sballo e il divertimento in quanto tali. È un segnale preoccupante, che fa parte di questa organizzazione sociale...».

La rassegna prosegue domani con la Formula 3, venerdì 5 settembre con Giuliano Palma e sabato 6 settembre con gli Homo Sapiens (inizio ore 21.30, ingresso gratuito).

RON 2


Da una parte la Risiera di San Sabba, dall’altra un supermercato, davanti la bretella della superstrada e i grigi palazzoni di Valmaura. Ma Ron ci ha messo pochi minuti, ieri sera, davanti a un paio di migliaia di persone in piedi, per creare la magia necessaria. La magia senza tempo della grande canzone d’autore.

Ventuno e quaranta. Si presenta sul palco da solo, chitarra a tracolla. Sospesa alle sue spalle una grande luna, che a tratti diventerà schermo per tante immagini. Attacca così: «Il gigante e la bambina, sotto il sole contro il vento, in un giorno senza tempo...». E bastano pochi versi vecchi di tanti anni (trentasette) per ricordarci che si può far poesia partendo anche da temi scabrosi. E sopravvivere agli anni, ai decenni, alle mode, a tutto.

Ron sceglie di cominciare da lì, da quando era ancora e soltanto Rosalino Cellamare. Un ragazzino nato e cresciuto a Garlasco, provincia di Pavia, padre pugliese e un fratello pianista che gli aveva trasmesso l’amore per la musica. Un ragazzino che a sedici anni, nel ’70, si trovò a debuttare a Sanremo cantando con Nada «Pa’ diglielo a ma’». E che l’anno dopo portò al Disco per l’estate quella canzone di Paola Pallottino e Lucio Dalla che parlava dell’amore proibito fra «un gigante e una bambina».

Ma quell’esordio col botto celava un rovescio della medaglia. Gli anni Settanta, con gli eccessi e la politicizzazione anche della musica, relegarono il biondino in seconda linea. Lui che voleva solo cantare i sentimenti, le storie delle persone, le speranze, lasciando perdere politica e impegno e sociale a tutti i costi.

Per riguadagnare un posto sotto i riflettori Rosalino dovette diventare Ron: chiedere ospitalità agli amici Dalla e De Gregori nel tour del ’79 «Banana Republic», nel quale cantò «I ragazzi italiani». Per poi l’anno dopo esplodere finalmente con «Una città per cantare» - il secondo brano presentato ieri sera, con i componenti della band che prendevano via via il loro posto -, versione italiana di «The road» dell’americano Danny O’Keefe, nota soprattutto per la versione di Jackson Browne, bella e attuale oggi come allora.

Con questi due assi calati subito, all’inizio, il concerto decolla facilmente. Grazie a un sapiente alternarsi di cose vecchie e nuove: «Le foglie e il vento» e «Occhi», «Vorrei incontrarti fra cent’anni» (prima a Sanremo ’96) e «Ladri» («Siamo ladri di carezze, lupi a caccia di anime...», dall’ultimo album). Ma soprattutto grazie a un medley acustico che spara cartucce intitolate «Occhi di ragazza» (bocciata a Sanremo, poi portata al successo da Morandi) e «Al centro della musica», «Sei volata via» e «Piazza grande» (scritta con e per Dalla, Sanremo ’71), «Cosa sarà» e «Attenti al lupo» (altre hit affidate al Lucio nazionale).

Ecco, davanti a canzoni di questa bellezza, che hanno punteggiato una carriera che fra un paio d’anni potremo dire quarantennale (...!), l’unico dubbio che rimane riguarda il successo toccato finora in sorta a Ron, che è stato grande ma mai grandissimo. Sempre un gradino più in basso dei numeri uno, sempre leggermente defilato, come fra l’altro è nelle corde di questo sensibile artista.

A Trieste - con Andrea Pistilli e Alessandro Giampieri alle chitarre, Fabio Ganci alle tastiere, Diego Buonanno al basso, Ivan Messere alla batteria e la corista Piera Pizzi, notevole nel duetto di ”Ma quando dici amore” - Ron ha chiuso la partita pescando altre perle dal suo ricco canzoniere: da «Canzone dell’acqua» a «Joe temerario» (una delle sue canzoni più belle), da «Anima» a «Non abbiam bisogno di parole». Senza dimenticare «Quando sarò capace di amare», la toccante canzone di Giorgio Gaber riletta nel nuovo album, al quale dà anche il titolo.

Il concerto a Valmaura rientrava in un progetto di riqualificazione delle periferie urbane. Prima dell’inizio è stato proiettato un video sull’argomento. Fra una canzone e l’altra, Ron trova il tempo per elogiare l’iniziativa, per raccontare e raccontarsi, per ricordare gli esordi ormai lontani e le precedenti volte a Trieste (”non dimenticherò mai quella volta in mezzo al mare, su una chiatta davanti a piazza Unità...”), per parlare della nonna, persino per sensibilizzare il pubblico sui problemi della malattia e della carenza d’acqua nel mondo. Perchè in fondo non è sempre vero che ”sono solo canzonette”. Per fortuna.

Per Ron, accoglienza affettuosa del pubblico triestino. Alla fine vari bis, fra cui una sognante «Anima» di nuovo solo chitarra e voce.

martedì 26 agosto 2008

GIANNA NANNINI


«Quello che porto a Villa Manin è un concerto incentrato soprattutto sulla voce e fortemente caratterizzato dall'uso di tre chitarre, basso e batteria. Lo spazio all’aperto ci regala la possibilità di farci sentire meglio rispetto all'acustica dei palasport, quindi sto approfittando dell'estate per coinvolgere l'orecchio e l'occhio dello spettatore verso una musica da vedere...».

Parla Gianna Nannini, che mercoledì 3 settembre alle 21.30 presenta il suo nuovo spettacolo a Villa Manin di Passariano, che fra l’altro conclude così la sua stagione estiva 2008, quest’anno caratterizzata soprattutto dai concerti di Mark Knopfler e dei Rem (rispettivamente a giugno e a luglio), prima di dar spazio alla grande musica italiana, un mese fa con Antonello Venditti e ora con la rocker toscana.

Che da parte sua è reduce dall’ennesimo grande successo in terra di Germania: 75 mila persone a Monaco, 55 mila ad Amburgo ai concerti di Bon Jovi ai quali la Nannini ha partecipato in qualità di «special guest». Del resto in terra tedesca Gianna è da sempre molto popolare, e anche la sua recente antologia «GiannaBest» è stata accolta molto bene da quel pubblico.

«Per fare dei dischi belli - spiega la Nannini - ci vogliono anni, e molta sperimentazione: bisogna prendersi molti rischi e avere il coraggio di ripartire sempre da zero, mettersi in discussione e diventare consapevoli della propria vocalità per arrivare a fare della buona musica, senza filtri nè mode da seguire...».

Mode che peraltro la cantante e musicista senese in tanti anni non ha mai seguito. Dritta per la sua strada, cominciata discograficamente quando aveva soltanto vent’anni, nel ’76, con quell’album d’esordio che portava soltanto il suo nome e cognome, seguito l’anno successivo da «Una radura». Il successo arrivò quasi subito, con il terzo album, «California», uscito nel ’79. Il rock e la melodia, la melodia e il rock sono sempre stati la sua cifra stilistica. Anche se...

«Il rock - dice oggi la Nannini - è una parola che ultimamente mi è venuta un po’ a noia: viene indossata da chiunque, come fosse un vestito alla moda o fuori moda. Io seguo quello di cui ha bisogno la mia voce, a volte il silenzio fa più rumore del rock. E per prepararmi a un concerto alleno lo spirito. Sapendo che il filo conduttore di ogni concerto sta nel labirinto dei testi: l'emozione è il mio personale filo di Arianna...».

A Villa Manin, per il concerto dell’artista senese sono attesi molti fan anche da oltreconfine (Slovenia, Croazia, Austria, Germania), vista la grande fama acquisita all'estero in trent’anni di carriera, che è stata sin da subito una grande carriera anche internazionale.

La produzione del concerto è di Cose di Musica, la regia di Pepi Morgia. La band è composta da Thomas Lang alla batteria, Hans Maahn al basso, Stephan Ebn alle tastiere e percussioni, Giacomo Castellano, Davide Ferrario e Davide Tagliapietra alle chitarre.

Il tour di Gianna Nannini, che ha già trionfato in primavera nei palasport (120 mila spettatori in diacissette date, fra marzo e aprile), ha debuttato a metà agosto a Montecarlo e si concluderà il 18 settembre a Firenze, al Nelson Mandela Forum. Dopo aver toccato anfiteatri, piazze storiche e siti archelogici.

«A Villa Manin - conclude Gianna Nannini - propongo uno spettacolo che attinge molto dal repertorio dei miei due ultimi cd, ”Grazie” e ”GiannaBest”, ma ci saranno anche altre mie canzoni mai sentite prima nei miei spettacoli. Sono convinta che quel che più conta è non ripetersi mai, cercando di sorprendere se stessi e chi viene a vederci. L'obiettivo è vibrare forte tutti assieme...».

In scaletta ci saranno trent'anni di successi in due ore di spettacolo: da «Fotoromanza» a «Sei nell'anima», da «Profumo» a «I maschi», da «Bello e impossibile» a «Possiamo sempre», da «Io» a «Latin Lover». E ancora «Notti senza cuore» e «America», fino a quella «Meravigliosa creatura» rilanciata alla grande da una pubblicità televisiva. Biglietti ancora disponibili nelle prevendite Azalea Promotion e nei circuiti internet Ticket One (www.ticketone.it) e Biglietto.it (www.biglietto.it).

lunedì 25 agosto 2008

MAX PEZZALI


Restare sempre legati alle proprie origini, raccontare i luoghi e le persone che si conoscono meglio, non rinnegare mai le proprie radici. È questa la ricetta di Max Pezzali - che giovedì alle 21.30 canta all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro - per sopravvivere alla globalizzazione e all’omologazione imperanti. Capaci di trasformarci prima o poi in tanti automi senz’anima.

Prima come 883 (all’inizio sigla del duo con Mauro Repetto, mantenuta per un periodo anche dopo l’uscita dalla ditta del socio) e poi da solista, Pezzali racconta sin dall’album di debutto («Hanno ucciso l’uomo ragno», ’92) la vita dei ragazzi di provincia. I sogni, le inquietudini, le aspettative, i miti, le delusioni adolescenziali.

«Sì, mi hanno un po’ dipinto come il cantore della provincia, e devo dire che la cosa non mi ha mai dato fastidio. Neanche ora che vivo a Roma. Penso che ognuno sia espressione della sua terra, delle sue origini. Che vanno salvaguardate e valorizzate per sopravvivere all’omologazione imperante».

E la provincia italiana si somiglia un po’ tutta...

«È vero. Eccetto Roma e Milano, uniche vere realtà metropolitane, l’Italia è tutta provincia. A Nord come a Sud. L’errore che si fa spesso, soprattutto da parte dei media, è raccontare il Paese partendo dall’osservatorio di quelle che sono di fatto le sue due capitali».

Dai bar della sua Pavia cosa vedeva?

«Ragazze e ragazzi un po’ tutti uguali, malati di un certo senso di perenne inadeguatezza davanti ai modelli televisivi. Sempre in attesa di un qualcosa che non arriva mai, in una sorta di eterna Fortezza Bastiani...».

È il Nord dove è nata la Lega...

«La Lega ha saputo intercettare e interpretare le paure e le istanze della gente del Nord. È forse l’unico partito che oggi ha un radicamento sul territorio, e le sue parole d’ordine contro lo Stato centralista evidentemente continuano a funzionare».

La soluzione è chiudersi?

«Non direi. In questi anni sono arrivati l’Europa, l’euro, una forte immigrazione. Ma la risposta non può stare nel chiudersi, nell’alzare muri e barricate. Anche se è vero che il problema della sicurezza è reale. E andrebbe risolto. Anche se...».

Prosegua.

«Gli anni Settanta che ricordo a Pavia, come in tante altre città, erano quelli del terrorismo e dei tossici. Questo per dire che l’età dell’oro non è mai esistita. Certo, c’è la criminalità dell’Est, ma non può essere solo quello il problema».

Parliamo di musica. Un «live» le mancava...

«Sì, in sedici anni di carriera non l’avevo mai fatto. Avevo voglia di fissare su disco questa mia fase musicale. L’album racchiude anni di tournèe ed è stata anche l’occasione per reinterpretare i miei vecchi brani, da ”Hanno ucciso l’uomo ragno” a ”Come mai”...».

Perchè ha continuato a usare la sigla 883 anche quand’era rimasto solo?

«Perchè alla vecchia sigla che avevo rubato all’Harley Davidson ero rimasto legato, anche dopo la fine del duo. E anche perchè mi piaceva sempre pensare di far parte di un gruppo, con i miei nuovi musicisti. Piacere che comunque non ho abbandonato nemmeno ora, che mi presento con nome e cognome».

Il suo vecchio socio che fine ha fatto?

«Con Mauro Repetto avevamo cominciato sui banchi di scuola. Poi, dopo il successo, lui non si ritrovava in questo mestiere e ha deciso di mollare. Dopo un periodo a Los Angeles, dove ha fatto delle cose nel cinema, ora vive da diversi anni a Parigi ma non si occupa più di spettacolo».

A Lignano cosa canta?

«Tutto. Dai vecchi successi alle cose nuove. Forse anche qualcosa che metterò nel prossimo disco, che uscirà l’anno prossimo».

domenica 24 agosto 2008

RON


Difendere la canzone d’autore, salvaguardare la musica di qualità. Ron torna mercoledì a Trieste (piazzale dello Stadio Rocco, a Valmaura, inizio 21.30), con questo chiodo fisso che lo accompagna da tempo. Anche in questo tour estivo ormai giunto quasi alla conclusione. «Mi sono convinto - spiega Rosalino Cellamare, classe ’54, per tutti da tanti anni semplicemente Ron - che non c’è più rispetto per la musica. Guardi la televisione: tutto deve far parte del gioco. E la discografia, sempre più debole, va al traino. Ormai investe solo su personaggi che vengono fuori dall’ultimo ”X Factor” di turno...».

Non è che i cantautori storici perdono colpi...?

«Non credo. È che si è imposta una cultura della mancanza, del non sapere nemmeno che cosa succede anche nel mondo della musica. Siamo praticamente tagliati fuori dai maggiori network radiofonici. I nostri dischi non vengono trasmessi. E i media...».

Prosegua.

«Le faccio un esempio. Garlasco è il paese dove sono cresciuto e dove continuo a vivere. È da un anno, da quando c’è stato l’omicidio di quella povera ragazza, che tutti i giornali, dal Corriere in giù, mi chiedono un’intervista, una dichiarazione, un parere sull’argomento. Se avessi detto la mia, se mi fossi aggiunto al coro dei tuttologi, degli innocentisti e dei colpevolisti, avrei avuto la mia brava mezza pagina. Preferisco accontentarmi del trafiletto quando esce il mio disco nuovo».

Che fra l’altro sono due, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro: paura di inflazionarsi?

«Assolutamente no, per i motivi appena detti. È un momento difficile per la discografia. Poi si tratta di due dischi molto diversi. Quello dal vivo con l’Orchestra Toscana Jazz è una raccolta di successi riarrangiati con una canzone nuova...».

«La canzone dell’acqua»...

"Sì, con testo di Renzo Zenobi e musica mia. Parlo dell’acqua come di un elemento di vitale importanza. L’acqua è un diritto per tutti, soprattutto per chi non ce l’ha. Sento molto questo problema».

L’altro disco?

«È il vero disco nuovo, con le canzoni che ho scritto negli ultimi tempi. S’intitola ”Quando sarò capace d’amare”, come la canzone di Giorgio Gaber, pubblicata ne “La mia generazione ha perso” del 2001, che ho inserito nell’album».

Ha sempre amato Gaber?

«L’ho visto per la prima volta in concerto al mio paese che avrò avuto dodici anni. Rimasi fulminato dalla sua grande forza interpretativa. Ma poi nel corso degli anni l’avevo un po’ perso. Per riscoprirlo recentemente, grazie a sua figlia Dalia».

Racconti.

«Nel 2004 sono stato invitato alla prima edizione del festival dedicato a Gaber, a Viareggio. Dalia mi fece leggere alcune cose di suo padre, io fui colpito da quel brano. L’ho sentito particolarmente mio e l’ho cantato da solo, al pianoforte, davanti a una platea di ”gaberiani doc”. E devo dire che fui accolto molto bene. Da lì nacque l’idea del disco».

Un disco, lei ha detto, sulla mancanza d’amore.

«Sì, penso sia questo il punto. Canto ”siamo ladri di carezze” e mi riferisco proprio al fatto di quanto oggi sia difficile avere un contatto vero, diretto, sincero. Questo vale per tutti i rapporti fra le persone. Ognuno sta sulle sue, alza muri, non c’è dialogo né disponibilità al confronto».

Lei ha vissuto quattro decenni da protagonista. Cosa ricorda del debutto?

«Alla fine degli anni Sessanta ero un ragazzino, c’erano questi concorsi di voci nuove, la discografia era affamata di nuovi talenti. Ricordo un giorno a scuola: il preside mi chiamò per dirmi che mia madre voleva farmi sapere che c’era un manager interessato a me per Sanremo...».

Dove lei debuttò nel ’70.

«Decennio per me strano. Inizio col botto, ”Pa’ diglielo a ma’” e ”Il gigante e la bambina”, successo immediato. Poi il buio. Nascevano i cantautori e io non scrivevo testi. Ero tagliato fuori. Venivo da Sanremo e dal Disco per l’estate, dunque per il pubblico la mia era musica commerciale. Bisognava scrivere solo sul sociale, io non ero d’accordo. Ricordo i fischi a un concerto per il Cile, nel ’73».

La svolta?

«Musicai una poesia di Neruda, ”I morti della piazza”. E poi partecipai al tour Banana Republic di Dalla e De Gregori, nel ’79. Cantavo ”I ragazzi italiani”, scritta a sei mani con loro due».

Intanto era diventato Ron...

«Sì, e non ero più un ragazzino. Dopo il tour Dalla e De Gregori mi dissero che dovevo camminare con le mia gambe. Lo feci. E arrivò il successo, con ”Una città per cantare”, cover di un successo di Jackson Browne. Era la mia storia, la storia di chi fa questo mestiere».

Siamo negli anni Ottanta.

«Quelli in cui divento autore di testi, ”Joe temerario” e tutte le altre. Fra cui ”Il mondo avrà una grande anima”, ispirata al ragazzo che era atterrato sulla Piazza Rossa a Mosca, portata senza successo a Sanremo ’88».

Per vincere dovrà attendere il ’96.

«Gli anni Novanta sono stati quelli del cambio di casa discografica, di ”Attenti al lupo”, della vittoria a Sanremo con ”Vorrei incontrarti fra cent’anni”, cantata in coppia con Tosca. Fu come la conclusione di un percorso, visto che tutto era cominciato da lì».

Siamo ai giorni nostri.

«Gli anni attuali, come dicevo all’inizio, sono quelli del crollo della canzone d’autore. Ma io non dispero, non mollo. Punto ancor più sui concerti, sul contatto diretto con le persone, che è sempre più importante».

Sa che il concerto triestino è inserito in un progetto sulla riqualificazione delle periferie?

«Non lo sapevo. Mi fa piacere. Penso sia importante vivere le città nella loro interezza, non soltanto i centri storici ma anche le periferie, che se non vengono vissute rischiano di essere abbandonate al degrado».

Cosa ricorda di Trieste?

«È una città dove torno sempre volentieri. Vi ho cantato anche pochi anni fa, sulle Rive, vicino al mare. Ricordo quella volta che mi misero a suonare su una zattera, ancorata davanti a piazza Unità (luglio 2000, a conclusione del Beach City Volley - ndr). Una sensazione davvero particolare».

Stavolta cosa canta?

«Le vecchie e le nuove, da ”Piazza grande” a ”Quando sarò capace di amare”. Ma non ci saranno solo canzoni: fra un brano e l’altro inserirò anche brevi monologhi, piccole cose segrete anche della mia vita privata. Più che un concerto è un recital».


 

mercoledì 20 agosto 2008

TOUR


L’estate sta finendo, cantavano i Righeira e si comincia a dire dopo Ferragosto, anche se non sempre è vero. E non è vero neanche per la musica, che spara nell’ultimo scorcio di stagione gli ultimi botti. Vediamo allora di fare il punto della situazione, almeno per quanto riguarda gli appuntamenti della nostra zona.

Mercoledì 27 agosto, ritorna a Trieste Ron, per un concerto nel piazzale del parcheggio dello Stadio Rocco, che conclude il cartellone di SerEstate. Occasione per risentire i classici e apprezzare le nuove canzoni di un cantautore di razza, che manca da Trieste da qualche anno. I due ultimi dischi sono «Rosalino Cellamare - Ron - In concerto», uscito nell’autunno scorso e registrato dal vivo con l'Orchestra Toscana Jazz, e «Quando sarò capace d'amare», album di inediti (scritti con Neffa, Renzo Zenobi, Kaballà e suonati con Lucio Dalla e Alex Britti) che prende il titolo da una canzone di Giorgio Gaber del ’94, uscito quattro mesi fa.

Giovedì 28 agosto, un’altra conclusione di stagione all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro: di scena Max Pezzali. L’ex 883 ha appena pubblicato un album registrato dal vivo, «Max Pezzali Live 2008», che ha colmato una lacuna all’interno di una discografia - prima in duo, poi da solista - ormai molto ricca. Dal vivo: «La regola dell’amico» e «Come mai», «La dura legge del gol» e «Nord Sud Ovest Est», «Gli anni» e «Sei un mito»...

Discorso a parte per la 44.a edizione della «Sagre dai Pirus», che da tanti anni ha il merito di proporre a Pavia di Udine spettacoli musicali di qualità - e a ingresso gratuito - con un occhio attento anche alle nuove tendenze espresse dalla scena italiana. Quest’anno il menù è il seguente: Baustelle venerdì 29 agosto, Formula 3 sabato 30 agosto (concerto sicuramente dedicato al ricordo di Lucio Battisti, pochi giorni prima del decennale della sua scomparsa), Giuliano Palma venerdì 5 settembre e gli Homo Sapiens sabato 6 settembre.

E se la rassegna friulana permette al pubblico regionale di rivedere dal vivo i grandissimi Baustelle di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi (che con «Amen» hanno forse firmato il miglior disco italiano dell’anno), c’è un altro appuntamento che va messo in calendario per chi è attento alle nuove tendenze di casa nostra. Domenica 31 agosto, allo Shagoo Shagoo Festival di Palmanova, è infatti di scena Vasco Brondi, il ventiquattrenne ferrarese che si nasconde dietro lo pseudonimo Le luci della centrale elettrica, già visto un paio di volte nel vitalissimo circuito off triestino. Brondi - genuino, visionario e ancora arrabbiato al punto giusto - ha firmato un esordio da applauso con il disco «Canzoni da spiaggia deturpata» ed è la miglior novità dell’anno. Non ci credete? Andate a sentirlo su www.myspace.com/lelucidellacentraleelettrica, poi ne riparliamo...

Torniamo ai soliti noti. Mercoledì 3 settembre, a Villa Manin di Passariano, fa tappa la tournèe di Gianna Nannini. Venerdì 12 settembre, allo Stadio Friuli di Udine, dopo tanti tira e molla, finalmente di nuovo Vasco Rossi: che con le sue 30/40 mila presenze sarà ancora una volta il concerto più affollato dell’anno in regione.

Trieste. Novità di fine stagione anche sul fronte delle rassegne, che hanno già sorretto come hanno potuto l’estate musicale cittadina con TriesteLovesJazz, Trieste Summer Rock Festival e Stradasuona nella nuova location musicale in riva al mare dell’Ausonia. Ecco allora la seconda edizione del Festival Muggia Jazz, ideato e organizzato dal bluesman triestino Stefano Franco, che propone il 6 e 7 settembre, in piazza Marconi a Muggia (in caso di maltempo al Teatro Verdi), star italiane e straniere del genere afroamericano: da Gianni Basso a Dado Moroni, da Dino Piana ad Alvin Queen, da Darryl Hall ad Andy J. Forest, da Lluis Coloma a James Thompson.

Ma c’è anche la terza edizione di Electroblog, che risponde dal 18 al 20 settembre, al Molo Quinto del Porto Vecchio e al Bagno Ausonia, con gli inglesi The Orb, l’inglese Benga e lo statunitense di Detroit Carl Craig, considerato dagli appassionati il Miles Davis dell'elettronica.

lunedì 18 agosto 2008

"...e cosa diremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero...?"


LA LOTTA ARMATA AL BAR,


VASCO BRONDI (alias LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA)


(ovvero: la miglior cosa italiana del 2008 assieme ai BAUSTELLE...)


...le luci della centrale elettrica illuminano le periferie delle città. si vedono dalle tangenziali, dalle strade provinciali, dalle nostre finestre a contemplare il panorama delle case popolari tutte uguali. con la scritta COOP rossa che svetta e i camion dei netturbini che investono i nottambuli e passano a pulire quel poco di sporco e di disturbo che siamo riusciti a provocare. canzoni senza stelle, con costellazioni di macchie di sperma sui tuoi vestiti neri, che strillano di carceri speciali e di lavori rari. Siano scivoli per te le occhiaia dei pendolari e le merde dei cani. Portami a bere dalle pozzanghere. a subaffittare i pezzi dei vecchi cantautori, di De Andrè che stava seduto per cantare, ubriaco fradicio, e dei gruppi punk dei primi anni ottanta che si fabbricavano vestiti adatti per combattere le loro guerre stellari. E non si pettinavano abbastanza per vederti. Con canzoni contagiate, siringhe male disinfettate, canzoni con l'epatite e occhi di criptonite. Assaltatori dei cieli e tuffatori dai grattacieli. io e te tre metri sotto terra. Incitamenti a resistere spudoratamente e tanta santa impazienza. ci piscino pure addosso gli angeli e i conoscenti morti negli incidenti stradali. Proteggimi dai lacrimogeni. e proteggimi le sopracciglia...


...a parigi dici che non volano mosche benedirci in chiese chiuse e in farmacie compiacenti sposarci con i cerotti usati in passeggiate su spiagge deturpate le piazze sono vuote le piazze sono mute per combattere l'acne sono tutti in ferie maratone sulle tue arterie sulle diramazioni autostradali sui lavori in corso solo per farti venire e invidiare le ciminiere perché hanno sempre da fumare le notti inutili e le madri che parlano con i ventilatori negli inceneritori le schede elettorali e i tuoi capelli che sono fili scoperti costruiremo delle molotov coi vostri avanzi faremo dei rave sull'enterprise farò rifare l'asfalto per quando tornerai siamo l'esercito del SERT siamo l'esercito del SERT siamo l'esercito del SERT siamo l'esercito del SERT e i tuoi capelli che sono fili scoperti che sono nastro isolante che sono fili scoperti...


vedi:  http://www.youtube.com/watch?v=IUAqZzO7EkU&feature=related

martedì 12 agosto 2008

ZUCCHERO


GRADO Ritorna Zucchero, che avevamo visto nel dicembre scorso nella tappa triestina del Fly World Tour 2007. Gran concerto, quella volta, forse il migliore fra quelli portati in giro dal nostro bluesman da esportazione in tutti questi anni. Ora Sugar ritorna, con due tappe trivenete: domenica scorsa si è esibito sull’Arenile del Faro di Jesolo e domani, alle 21, allo stadio comunale di Grado (Isola della Schiusa). I concerti sono nell’ambito di «All the best world - Tour 2008», cominciato a marzo in Svizzera e proseguito in questi mesi fra Germania e Belgio, Olanda e Austria, Romania e Russia, Irlanda e Inghilterra. A Londra Zucchero ha fatto tappa con un evento alla Royal Albert Hall e con la partecipazione al concerto per i novant’anni di Nelson Mandela ad Hyde Park.

Questa che ora arriva nel Triveneto è la prosecuzione estiva dello Stadium Theatre visto a San Siro due mesi fa: l’idea di allestire allo stadio un parterre con le poltroncine numerate come a teatro, anche se quasi sempre dopo un paio di brani il pubblico si alza in piedi e comincia le danze...

Zucchero, com'è nata l'idea dello «stadio-teatro»?

«L’esempio è quello dell’Arena di Verona, un luogo ideale per comprendere gli artisti, non solo quelli di musica classica. Il parterre e le tribune con i posti numerati privilegiano innanzitutto il mio pubblico, che negli anni si è raffinato e non ha più voglia di fare le file sotto il sole o di arrivare ore prima allo stadio per prendere il posto migliore. Io sono un bluesman e non un rocker, per questo prediligo anche la comodità. Certo che se poi la gente ha voglia di alzarsi e ballare, e lo fanno quasi subito, ben venga...».

Ma quello di San Siro non doveva essere un concerto unico?

«Sì, è vero. L’idea era quella. Mesi fa era così, poi ci sono state tante richieste in molti stadi in agosto e quindi... Perché no? Un’occasione per toccare città e luoghi dove non ho suonato di recente».

Lei è reduce da vari festival europei.

«Dal maggio 2007 non mi sono mai fermato, a oggi ho tenuto circa 250 concerti con due milioni di persone circa. Quasi ovunque sold out, con tanta energia, calore, positività...».

Al Nelson Mandela Day, a Londra, era l’unico italiano.

«Non mi piace salire sul pulpito, ma quando si tratta di argomenti seri come i bambini, la povertà, l’Aids e i problemi della Terra, cerco con la mia presenza di sensibilizzare chi mi ascolta. Questi grandi appuntamenti non fanno altro che amplificare il messaggio di chi si batte quotidianamente contro i mali del mondo moderno. Emozione a mille! Sul fatto di essere stato l’unico italiano della serata, beh, io mi sento un po’ cittadino del mondo, ma certo è stata una soddisfazione ed è sempre un grande onore».

Lei è ambasciatore per l'Italia dell'organizzazione contro l'Aids intitolata a Mandela: com'è nata questa iniziativa?

«Tutto è cominciato a Cape Town, nel 2003, invitato da Brian May e da Dave Stewart a partecipare al mega concerto “46664 give 1 minute of your life to Aids”, organizzato da Dave Stewart con i Queen per sostenere la campagna di Nelson Mandela. Lì ho cantato per la prima volta “Everybody’s got to learn sometime”, accompagnato da Brian May, Roger Taylor, Sharon Corrs. Poi ho partecipato al fantastico medley dei Queen cantando "I want it all" e "We are the champions", con Anastasia. Come si sa, da cosa nasce cosa e mi è stato poi offerto questo importante incarico. L’attività principale è continuare a sensibilizzare il mio pubblico ogni volta che mi è possibile a questo tragico problema mondiale che è l’Aids».

Che differenze trova fra il pubblico italiano e quello straniero?

«Solo il problema della lingua, visto che canto in italiano ovunque. Ma ormai in molti paesi sanno a memoria molte delle mie canzoni e quelli che non capiscono proprio tutto amano comunque la mia musica».

A settembre torna negli States...

«Sì, il 27 settembre sarò di nuovo al Carnegie Hall di New York e poi ancora in giro per il mondo: Australia, Sud America, Canada. E a novembre un giro lungo in Inghilterra, da Glasgow a Oxford, da Manchester a Birminghan...».

Cosa ricorda delle sue estati da ragazzo?

«Tanta nostalgia per il mio paese vicino a Reggio Emilia, ma poi mio padre con tutta la mia famiglia dovette traslocare a Carrara per trovare un lavoro migliore. Io all’inizio mi sentivo un pesce fuor d’acqua. La mia famiglia dovette fare tanti sacrifici».

Quando ha scoperto la musica nera?

«Fin da ragazzino cercavo di ascoltare tutto quello che trovavo. Ma quando andai in America per registrare ”Zucchero & The Randy Jackson Band” capii subito che quella era la mia strada, quello che volevo e che pensavo di fare al meglio. Con me c’erano Corrado Rustici alla chitarra, Randy Jackson al basso, George Perry alla batteria e Walter Afanatieff alle tastiere. Un gran gruppo».

Il prossimo disco?

«A dicembre finisco questi quasi due anni di tour ininterrotto e me ne starò fermo tre o quattro mesi a riflettere. E cominciare a lavorare per un disco che dovrebbe ”nascere” però non prima del 2010».

Arriverà finalmente anche un live?

«Sì, arriva arriva. E anche presto, ma sarà una sorpresa...».

Presto sarà un anno dalla scomparsa di Pavarotti: cosa ricorda di lui? Cosa ha imparato?

«Da Luciano ho imparato tantissimo. Mi manca tutto di lui, e i ricordi sono così tanti, la sua allegria era molto contagiosa. Davvero un grande artista e una grandissima persona».

Con quale canzone comincerà il suo concerto domani a Grado?

«Con ”Iruben me”, dall’album ”Oro Incenso & Birra”, uscito nell’89...».

La scaletta del concerto - suscettibile come sempre di variazioni - prosegue poi con «Occhi» (da «Fly»), «Tutti i colori della mia vita» (il nuovo singolo in vetta alle classifiche), «Bacco perbacco», «Un kilo», «Amen» (uno dei cinque inediti che stavano nel doppio «All the best»), «Cuba libre»... E ancora «Il volo», «Blue», «Diamante», fino ai classici come «Così celeste», «Baila», «Rispetto», «Overdose», «Wonderful life», «Diavolo in me», «Per colpa di chi»»... Insomma, tutto il canzoniere che ha permesso in tutti questi anni a Zucchero - classe 1955, all’anagrafe Adelmo Fornaciari - di diventare un autentico numero uno.

Con lui, sul palco, Polo Jones al basso, Kat Dyson (già con Prince) e Mario Schilirò alle chitarre, Adriano Molinari alla batteria, David Sancious (in passato colonna portante delle band di Bruce Springsteen, Eric Clapton, Carlos Santana, Peter Gabriel...) alle tastiere, James Thompson al sax e al flauto, Massimo Greco alla tromba, Beppe Caruso al trombone.

Per Grado, si tratta di un nuovo grande appuntamento con le star della nostra musica, dopo Vasco Rossi nel 2005, Eros Ramazzotti nel 2006 e Laura Pausini lo scorso anno. Informazioni e prevendite sul sito di Azalea Promotion.

Dopo Grado, seconda tappa italiana del tour giovedì a Cesenatico e una breve pausa, la tournée mondiale ripartirà come detto a fine settembre da New York, poi sbarcherà in Australia, Sud America e, infine, in Inghilterra. Dopo Adelmo Fornaciari inizierà a pensare al nuovo album, che dovrebbe nascere nel 2010.

mercoledì 6 agosto 2008

STRADASUONA / AUSONIA


Ma l’estate musicale triestina quest’anno non è vissuta solo dei concerti e delle rassegne svoltesi in piazza Unità e dintorni. In attesa di ritrovare dall’estate prossima l’antica sede di spettacoli del Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto, un nuovo spazio per la musica e per il tempo libero è infatti nato - quasi a sorpresa - all’Ausonia, storico stabilimento balneare a due passi dal centro, rilanciato quest’anno dalla gestione curata da un consorzio di cooperative e soprattutto dagli spettacoli serali organizzati in collaborazione con la Cooperativa Bonawentura, il Teatro Miela e l’associazione Immaginaria, che hanno trasformato l’antico bagno in un luogo da frequentare anche dopo il tramonto.

Risultato: tante serate musicali in riva al mare, le surreali e a volte strepitose gag del Pupkin Kabarett con la Niente Band «in versione estiva», alcuni appuntamenti settembrini del festival Electroblog (di cui riferiamo qui sotto), e la rassegna «Stradasuona», che si conclude stasera alle 21.30 con i ritmi di Ras Dumisani & Afrikhaya Band.

Per la rassegna organizzata dall'associazione Globogas assieme alla Cooperativa Bonawentura e al Teatro Miela si tratta della quinta edizione, la prima in riva al mare, dopo quelle in piazza Ponterosso e nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni.

E così nelle settimane scorse il pubblico triestino ha potuto apprezzare lo ska degli statunitensi Toasters e i ritmi balcanici di Dj Shantel con la sua Bucovina Club Orkestar, in attesa dell’appuntamento di questa sera con Ras Dumisani

Soprannominato «lo zulù del reggae», è un artista sudafricano che negli ultimi anni si è imposto a livello internazionale, non solo fra gli amanti del reggae e della musica nera. I punti di forza della sua musica sono sicuramente il ritmo ma anche i versi dedicati alla sua terra d’origine e al suo popolo.

Vive e lavora in Europa dal ’92, anno in cui si è stabilito a Parigi e ha cominciato a tenere concerti prima in Francia, poi in Svizzera, in Germania e in Inghilterra. Nel corso degli anni ha collaborato con grandi nomi del reggae, fra cui Alpha Blondie, Israel Vibration, U-Roy, Burning Spear e molti altri.

Con lui i nove musicisti dell’Afrikhaya Band, impegnati assieme al leader a sviluppare le influenze sonore del continente africano mischiate al sound «in levare» tipico della musica reggae. In concerti che quasi sempre si trasformano quasi subito in veri e propri happening che conquistano e coinvolgono il pubblico.

Nello spettacolo che arriva stasera a Trieste, Ras Dumisani presenta il nuovo album intitolato «Resistence» (il primo, «Zululand Reggae», è del ’92; il secondo, «Mister Music», del ’96), un lavoro realizzato assieme a vari musicisti provenienti da Stati Uniti, Francia, Giamaica, Costa d'Avorio, Cambogia, Madagascar, Repubblica Dominicana. Fra loro: Dennis Bovell (bassista e produttore di Linton Kwesi Johnson, ha collaborato anche con gli italiani 99 Posse), Leroy Horsemouth Wallace, Dean Fraser, Nambo Robinson...

Ras Dumisani è attivo anche sul fronte dei diritti civili, partecipando a diversi tour sull’argomento in compagnia dei grandi nomi della musica africana.

«Questa prima esperienza all’Ausonia - spiegano gli organizzatori Francesco De Luca e Giampi Onor - è stata positiva. I dubbi della prima ora rispetto al nuovo spazio si sono dipanati subito dopo l’appuntamento con i Toasters, che hanno avuto il compito di fare da apripista alla rassegna. Il pubblico triestino non è ancora abituato a considerare l’Ausonia come uno spazio in cui potersi incontrare anche al di fuori dell’orario balneare, né tantomeno come location per spettacoli. Ma c’è solo bisogno di tempo...».

RON


L’estate musicale triestina si arricchisce quasi in extremis di un nuovo botto. «SerEstate», la rassegna organizzata dal Comune, si concluderà infatti mercoledì 27 agosto con un concerto di Ron nel piazzale antistante lo Stadio Rocco, a Valmaura. Ciliegina sulla torta: lo spettacolo sarà a ingresso gratuito.

Per l’estate musicale triestina, è già tempo di un bilancio. Che tutto sommato può essere considerato positivo.  Come si ricorderà, l’allestimento del cartellone era partito sotto una cattiva stella. La volontà di portare a Trieste la tappa regionale della ripresa settembrina del tour di Vasco Rossi - a quattro anni giusti dal trionfale concerto dell’11 settembre 2004 - si era scontrata con le megadimensioni del palco (largo settanta metri, profondo ventidue, alto venticinque), che la moderna struttura dello Stadio Rocco, senza pista di atletica, non è letteralmente in grado di contenere.

Da lì la decisione di Azalea Promotion - organizzatore locale del concerto e partner del Comune per SerEstate - di dirottare Vasco a Udine, dove peraltro si è dovuto affrontare il problema della quasi concomitanza della partita della Nazionale. A Trieste è stato invece portato un artista di serie A ma di richiamo nettamente inferiore: Pino Daniele, applaudito una settimana in piazza Unità.

Ora Ron, cantautore di razza, che manca da Trieste da qualche anno. I due ultimi dischi sono «Rosalino Cellamare - Ron - In concerto», uscito nell’autunno scorso e registrato dal vivo con l'Orchestra Toscana Jazz, e «Quando sarò capace d'amare», album di inediti (scritti con Neffa, Renzo Zenobi, Kaballà e suonati con Lucio Dalla e Alex Britti) che prende il titolo da una canzone di Giorgio Gaber del ’94, uscito quattro mesi fa. Lo spettacolo triestino del 27 agosto sarà l’occasione per sentire queste nuove canzoni e ripassare un canzoniere ricco di tanti classici.

Per quanto riguarda la stagione triestina, possiamo dire che il tentativo degli organizzatori di allestire un programma dignitoso, pur non potendo contare su grosse cifre, ha avuto buon esito. Grazie ai concerti citati ma anche a due piccole ma importanti rassegne che stanno diventando col passare degli anni un appuntamento fisso.

Stiamo parlando ovviamente di «TriesteLovesJazz», che la Casa della Musica ha organizzato per il secondo anno con artisti italiani e stranieri di buon livello (basti pensare a Brian Auger, tornato a Trieste per la terza volta nello spazio di trentacinque anni, oppure a Peaches Staten, o agli Yellow Jackets). E ancora di Trieste Summer Rock Festival, organizzato per il quinto anno dell’associazione Libera Musica, che ha portato in città nello scorso fine settimana Glen Hughes, Ray Wilson e soprattutto l’accoppiata inedita fra i napoletani Osanna e l’inglese David Jackson (ex Van der Graaf Generator). Un bilancio - positivo - dell’estate musicale non può prescindere da questi appuntamenti.


 

martedì 5 agosto 2008

SOLGENITSIN


Centinaia di russi hanno dato ieri l’estremo saluto ad Alexander Solgenitsin, la cui camera ardente è stata allestita all'Accademia delle Scienze di Mosca. Fra i primi ad accorrere Vladimir Putin, che aveva insignito con la massima onorificenza statale lo scrittore simbolo dell'anticomunismo.

«Non è un caso - annota Demetrio Volcic, giornalista e scrittore, per tanti anni corrispondente Rai da Mosca -, perchè ci sono delle forti analogie fra Solgenitsin e Putin. Quest’ultimo ha tentato di salvaguardare tutto quello che la cultura russa ha prodotto di buono: la bandiera, il vecchio inno sovietico, il Cremlino. E li accomuna un forte sentimento nazionale unito alla componente religiosa».

Putin, cui Volcic ha dedicato «Il piccolo zar»», volume uscito recentemente per Laterza, vuole una grande Russia. Alla stessa maniera in cui l’ha inseguita per tutta la vita Solgenitsin.

«La dissidenza sovietica - prosegue il giornalista, nato a Lubiana nel ’31, che è stato anche senatore ed europarlamentare - ha avuto tre anime. Quella di Roy Medvedev, di tendenza occidentale, per semplificare possiamo dire eurocomunista. Quella del fisico Sakarov, che era autorevole membro dell’Accademia, e dunque aveva tutti i privilegi dei capi del partito tranne il potere politico. E infine proprio quella di Solgenitsin, legato alla tradizione della Grande Russia».

Il suo primo romanzo breve, ”Una giornata di Ivan Denisovic”, venne pubblicato nel ’62 con l’approvazione di Kruscev». Ma pochi anni dopo, nel ’70, il conferimento del Premio Nobel per la letteratura viene considerato dal governo sovietico ”un atto ostile” e lo scrittore viene privato della cittadinanza e costretto all’esilio. Prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti.

«Al Cremlino nel frattempo è cambiata la maggioranza - spiega Volcic -, non c’è più Kruscev, che aveva creduto di poter estendere la destalinizzazione al campo della cultura, ed è arrivato Breznev. Il che significa chiusura assoluta nei confronti della cultura russa».

Solgenitsin intanto è stato in qualche modo adottato dall’Occidente, sulla base forse di un piccolo grande equivoco: non combatteva il comunismo da posizioni liberali e democratiche, piuttosto faceva parte della corrente del vecchio pensiero russo. Se ne accorsero all’università di Harvard, durante gli anni americani di Solgenitsin, quando quest’ultimo sferrò in un discorso un pesantissimo attacco alla società capitalista statunitense.

«Lui voleva recuperare - prosegue Volcic - la tradizione della Grande Russia. Lo si capisce bene quando rientra in patria nel ’94, e spera di poter influenzare ancora l’opinione pubblica. Ma trova una Russia diversa. Ben presto si rende conto che una vera riforma è impossibile. E che la nuova società russa in quel momento voleva tutto tranne la spiritualità da lui sempre inseguita e proposta».

In soldoni: i russi negli anni Novanta non volevano prediche su come salvarsi l’anima, ma preferivano qualche suggerimento su come riempirsi il portafogli e recuperare il tempo perduto in fatto di consumi. «E va detto che a fronte di una forte miseria, alcuni ci sono riusciti alla grande: si sono fregati la nazione, mettendo le mani su sterminate ricchezze...».

«Lo scrittore invece, al suo rientro in patria, propone democrazia di base, assemblee di contadini partendo dai villaggi. Forse sogna una società che non esiste più. O una Russia che non è mai esistita: democratica, abitata da contadini progressisti, rendendosi presto conto che nelle campagne erano rimasti solo i vecchi e gli ubriaconi...».

Ancora Demetrio Volcic: «Oggi che le fonti energetiche sono la base del nuovo potere russo, proprio come ieri lo è stato l’equilibrio di armi atomiche con gli Stati Uniti, Solgenitsin va giustamente ricordato come un simbolo della lotta contro i totalitarismi del ventesimo secolo. E ovviamente per la sua importante opera letteraria, non dimenticando che le sue cose migliori sono le prime, quelle più sofferte...».

«Intitolargli delle vie, come ora propongono in tanti? Tutto si può fare - conclude Volcic -, ma sono artifici retorici che rientrano nel gioco delle parti...».

I funerali di Aleksandr Solgenitsin si terranno con rito ortodosso nello storico cimitero moscovita di Danskoi. Fra nobili, spie e artisti.

lunedì 4 agosto 2008

OSANNA / DAVID JACKSON


Si è conclusa ieri sera in piazza Unità la quinta edizione del Trieste Rock Summer Festival, che per il gran finale ha schierato lo scozzese Ray Wilson con i suoi Stiltskin e l’inedita accoppiata fra i napoletani Osanna e l’inglese David Jackson.

Apertura con la gran voce di Wilson, che ha proposto il riassunto di una carriera che ha avuto due picchi: il brano «Inside», finito in testa alle classifiche di vendita nel ’94, grazie anche allo spot dei jeans Levi’s, e poi la breve avventura con i Genesis orfani di Phil Collins. Accadde fra il ’97 e il ’98, quando Tony Banks e Mike Rutherford decisero di continuare l’avventura da soli, e dopo varie audizioni scelsero proprio Wilson come sostituto di Collins. Ne vennero fuori un album, alcuni singoli e un tour, non baciati da particolare successo. E infatti l’avventura finì lì, prima delle recenti reunion dei veri Genesis, ovviamente senza Wilson.

Che comunque ha saputo ritrovare una sua strada, richiamando in servizio i vecchi compagni d’avventura, come ha dimostrato anche a Trieste. Dove ha presentato le sue canzoni (”Change”, ”Another day”,”Lemon Yellow sun”, ”Inside”...) e alcune belle cover, fra cui ”Space Oddity” di David Bowie e ”Follow you follow me” proprio dei Genesis.

Ma senza nulla togliere al buon rock intimista e al tempo stesso grintoso del quarantenne cantante di Edimburgo, ieri l’attesa era soprattutto per l’accoppiata fra i vecchi Osanna (protagonisti del pop italiano dei primi anni Settanta) e il sassofonista dei leggendari Van der Graaf Generator (protagonisti del miglior progressive inglese nello stesso periodo).

Attaccano alle 22.35. Ed è subito magia, è subito grande musica. I napoletani Osanna fra il ’71 e il ’74 sfornarono quattro album: «L’uomo», «Preludio tema variazioni canzona», «Palepoli» e «Landscape of life». Di loro colpivano soprattutto i volti dipinti e i fiati di Elio D’Anna (non presente nella formazione attuale, ma ieri sera visto in un filmato d’epoca intervistato da Renzo Arbore). Nel ’71 vinsero anche, con Pfm e Mia Martini, il Festival d’avanguardia e nuove tendenze di Viareggio. Poi si lasciarono, si ripresero, cambiarono formazione, fecero altri dischi («Suddance» nel ’78). Senza toccare più il top.

Oggi tornano con una formazione che ruota attorno all’antico leader e cantante Lino Vairetti (unico superstite del gruppo originario), che ha coinvolto nel nuovo progetto David Jackson: dopo la fine dei Van der Graaf era persino tornato al suo vecchio mestiere di camionista, prima di dedicarsi alla musicoterapia. «L’avevo conosciuto nel ’72 - dice Vairetti -, poi ero rimasto in contatto più con Peter Hammill, e solo recentemente le nostre strade si sono riunite. Ora, più che un ospite, David è uno di noi...».

A Trieste hanno cominciato con «Animale senza respiro» (da «Palepoli»), sullo schermo un vecchio filmato in bianco e nero. Poi «Mirror train» e «L’uomo» (entrambi dall’album del debutto, nel ’71), con «Ce vulesse» e «A zingara» (da «Suddance»), e un medley con «Oro caldo», «My mind flies», «L’amore vincerà di nuovo»... Musiche degli anni Settanta, risciacquate nell’esperienza, nei suoni, nelle contaminazioni folk e jazz passate sotto i ponti in questi anni. Musiche che ritroveremo nell’album «Prog Family», in uscita a ottobre.

L’esperienza di Vairetti (58 anni), l’entusiasmo dei suoi giovani compagni (fra cui il figlio, Irvin Luca Vairetti), ma soprattutto gli immensi e molteplici fiati di David Jackson - camicia viola, aria da tranquillo signore di sessantun’anni, non fosse per il solito, bizzarro berretto nero - sono gli ingredienti di una ricetta vincente. Che il pubblico ieri sera ha dimostrato di gradire. Come ha gradito l’omaggio ai vecchi Van der Graaf, con una «Theme One» quasi meglio dell’originale. Finale in stile tammurriata con ”Fuje e chistu paese”. Bravi, davvero.

venerdì 1 agosto 2008

PINO DANIELE 3


TRIESTE Notte napoletana, ieri in piazza Unità, per duemila spettatori paganti e tantissimi altri, assiepati sulle Rive e nei dintorni della grande piazza transennata. Tutti per Pino Daniele, che appare sul grande palco alle 21.37 e attacca con ”A testa in giù”, uno dei suoi tanti classici. È il brano del 1980 che stava nell’album «Nero a metà», titolo poi diventato, con «Mascalzone latino» e «Un uomo in blues» (altri suoi album, dell’89 e del ’91), fra i soprannomi del nostro. Che oggi, a cinquantatre anni, con i segni del tempo sul volto e fra i capelli, si è trasformato in una sorta di galantuomo mediterraneo, amante della musica e della sua terra, bella e sfortunata come tutto il nostro Sud.

La band di apertura vede schierati Gianluca Podio al piano, Alfredo Golino alla batteria, Matt Garrison al basso, Fabio Colasanti tastiere e computer, Juan Carlos Albelo al violino. Su «Quanno chiove» entra James Senese al sax, ed è la prima accelerazione della serata; dopo «A me me piace o blues» arrivano anche gli altri.

Gli altri sono i protagonisti di quel «neapolitan power» che negli anni Settanta spazzò via l’immagine oleografica, da cartolina, stile «mandolino pizza e ammore», che aveva contraddistinto la Napoli della canzone. Pino li ha rivoluti con sé per questo tour - e per l’album antologico che l’ha preceduto - e gli ex ragazzi non tradiscono, confermandosi musicisti geniali, capaci di spaziare dal blues latino al jazz, senza dimenticare le radici ben affondate nella musicalità partenopea.

Che ha i colori della batteria verace di Tullio De Piscopo, delle percussioni povere di Tony Esposito, del monumentale contrabbasso di Rino Zurzolo, dell’immenso pianoforte di Joe Amoruso. Tutti assieme mettono in scena il trionfo di una musica la cui vitalità si lascia alle spalle le rigide definizioni e mescola influenze arabe, africane, americane, in una festa di suoni e colori.

Pino si alterna fra una nera chitarra acustica e una bianca elettrica. E attacca con quella sua caratteristica voce sottile che un po’ contrasta con la corporatura importante. Dal cilindro escono altre perle: «Yes I know my way», «Ma che ho», «Je so pazzo», «Chi tene ’o mare» («chi tene ’o mare, ’o ssaje, nun tene niente...»), «Io vivo come te». E ancora «Tutta ’nata storia», «Anema e core», «Viento e terra», una struggente e appassionata «Quando» per pianoforte, percussioni e voce.

Piccoli grandi capolavori che i ragazzi degli anni Settanta, napoletani e non, impararono a conoscere e cantare in un’epoca magica e irripetibile in cui tutto sembrava possibile. E non lo era. In quell’epoca in cui volevamo cambiare il mondo e ci siamo limitati a cambiare la musica, forse il costume, liberandoci dai suoni che ci giravano attorno e sapevano di stanze chiuse, vecchie, dall’aria stantia, che avevano bisogno soltanto di qualcuno che spalancasse le finestre.

Pino Daniele è stato uno di questi. Ci ha liberato da una napoletanità retriva e corriva. Se vogliamo poi nel corso degli anni e dei decenni si è un po’ perso per le strade della vita e del mondo. Ha inseguito l’Africa e l’Oriente e a un certo punto persino i canti gregoriani. Per un periodo ha smesso di cantare in quell’anglonapoletano che è stato - ed è - il suo miglior marchio di fabbrica. Ma in fondo è rimasto l’ex scugnizzo nato in un sottoscala di Vico foglie a Santa Chiara, primo di sei figli, cresciuto da due zie per i problemi economici dei suoi genitori. Guaglione cresciuto per strada, in mezzo alla camorra e alla malavita organizzata, cui il grande amore per la musica ha letteralmente salvato la vita.

Ma torniamo alla serata triestina, che prosegue tra blues e echi gitani, tra danze calienti e melodie mediterranee, tra malinconia e ricordi evocati dalle varie canzoni: «Pigro», «Dubbi non ne ho», la superba «Mareluna», «Che male c’è»... In piazza il caldo è sopportabile, a tratti spira anche una brezza leggera, che sul palco probabilmente non si sente. E il rito laico del concerto va avanti, non perde un colpo.

Non perde un colpo il sax esplosivo di James Senese: era lui il primo, vero «nero a metà» napoletano, figlio di un soldato statunitense afroamericano e di una ragazza dei vicoli, leader negli anni Sessanta degli Showmen e nei Settanta di quei Napoli Centrale per i quali un giovanissimo Pino Daniele lavorava come facchino. Non perdono un colpo tutti gli altri.

Vien da pensare che in tempi di reunion a tutti i costi - dai Police ai Led Zeppelin a tutti gli altri, mossi spesso da motivi di portafoglio -, questa dei testimonial del «neapolitan power» sembra l’unica risposta italiana degna di esser seguita e ascoltata.

Per anni l’ex ragazzo dei vicoli era stato pregato dai fan - e probabilmente dai discografici e dagli impresari - di rimettere assieme quella non è esagerato chiamare «una gioiosa macchina da guerra». Lui ha resistito per tanto tempo (diceva: «La nostalgia è un nemico da combattere, ti fa mitizzare il primo amore...»), poi ha ceduto alla forza dell’evidenza e della bontà dell’iniziativa. Cambiare idea non è un peccato. Anzi.

E alla fine, quando Pino attacca «Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chiano chiano...» (primo dei due bis), nelle orecchie entra magia allo stato puro. Brividi per questi versi scritti nel ’77. Che proseguono così: «Napule è nu sole amaro, Napule è addore ’e mare, Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne importa...». Sono passati più di trent’anni, ma sono di un’attualità che fa male al cuore.

Allora tutti assieme cantano di nuovo «Yes I know my way» (secondo e purtroppo ultimo bis): la strada stasera la conosciamo tutti, è quella della grande musica, che parla al cuore e alla testa ma anche alle gambe. Difficile restar fermi. Il ritmo sale, cuore e termometro schizzano a mille, ma nessuno sembra aver voglia di arrendersi, di gettare la spugna, di alzare bandiera bianca.

E vedere quegli ex ragazzi sul palco triestino di piazza Unità, di nuovo tutti assieme, a cantare e suonare i classici di ieri e di oggi, è uno spettacolo che fa bene alla musica. Perchè le strade della nuova musica e canzone napoletana, dagli anni Settanta in poi, portano tutte a lui, al mascalzone latino</IP> chiamato Pino Daniele.

Che Trieste ieri sera ha salutato, fra cori da stadio, «Pi-no-Pi-no...!», con l’affetto che merita un grande protagonista della miglior musica italiana.