mercoledì 23 novembre 2005

TRIESTE S’intitola «Luci a San Siro... di questa sera». È il nuovo tour di Roberto Vecchioni, che dopo la «data zero» della scorsa settimana a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, domani sera ha in programma un’altra anteprima nella nostra zona: al Casino Park di Nova Gorica, in Slovenia, con inizio alle 21. La tournèe debutterà invece ufficialmente lunedì 28 novembre a Verona, al Teatro Filarmonico. E farà tappa nel Friuli Venezia Giulia a febbraio: il 6 al Rossetti di Trieste, il 13 al Nuovo di Udine.
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Vecchioni, ma che fa: si è dato al jazz?
«È un progetto che avevo in testa da un po’ di tempo: fare le mie canzoni (i successi, gli episodi meno noti, alcune cose nuove...) nella maniera più essenziale possibile. Con due musicisti, Patrizio Fariselli <CF31>(ex Area - ndr)</CF> al piano e Paolino Della Porta al contrabbasso, che avessero tutta la libertà possibile e necessaria...».
Ne è venuto fuori uno spettacolo ma anche un disco.
«Sì, il tour è quello che sta partendo. Diversissimo da quelli passati. Il disco, intitolato ”Il contastorie”, è in realtà un cofanetto: cd più un libretto con cinque favole classiche ripensate per gli adulti».
Insomma, ormai mette i libri anche nei dischi...
«No, ho avuto la fortuna di vedere i miei libri pubblicati per Einaudi incontrare un certo interesse fra i lettori. Ma questo libretto è in realtà un’anteprima del libro vero che uscirà ad aprile. S’intitolerà ”Diario di un gatto con gli stivali” e sarà per l’appunto un libro di fiabe».
Fiabe alle quali lei cambia il finale...
«A volte sì. L’intento è rendere le cose più verosimili, togliere pesantezza agli stereotipi, evitare i finali del tipo ”vissero tutti felici e contenti”. Ecco allora che perfino il lupo di Cappuccetto rosso, alla fine, può diventare una vittima...».
Racconti.
«Non mi interessa lo stereotipo secondo cui il lupo dev’essere sempre e comunque cattivo. Fa parte delle menate che le fiabe raccontano per essere rassicuranti, proprio come lo sono i mass media. Ecco, in realtà io penso che le favole sono i mass media del Medioevo...».
Dunque le sue sono fiabe rilette per gli adulti...
«Sì, direi che la lettura è per persone vaccinate e piuttosto adulte. Provo a fare un altro esempio. Il brutto anatroccolo che rimane brutto, ed è felice così, al bambino non dice granchè. Lui vuole che il brutto anatroccolo diventi cigno. Invece noi sappiamo che il brutto anatroccolo può rimanere tale, ma esser felice lo stesso».
Interessante. Ma torniamo al jazz. Lei lo ascoltava da ragazzo?
«No. Io sono nato con la canzone e prim’ancora con la letteratura. Anche se la canzone d’autore italiana, a Genova, è nata col jazz...».
Luigi Tenco...
«Non solo lui. Anche Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, gli altri suonavano jazz, all’inizio. Il jazz è stato importantissimo nella rivoluzione della musica italiana di quarant’anni fa».
Lei però...
«L’ho seguito poco. Sono sempre stato più attratto dalla ballata, dai francesi, da Dylan. La svolta è avvenuta quando ho capito che le melodie possono trasformarsi, seguire il filo della voce, proprio come una recita durante il canto».
Una scelta di libertà.
«Sì, l’unico mezzo per arrivarci era il jazz. Dopo tanti anni ero stufo di dischi e concerti con arrangiamenti sempre uguali: le chitarre, i violini, le batterie... Molto meglio due strumenti essenziali, affidati a due grandi professionisti».
Insomma, dopo «Malindi» la sua piccola rivoluzione continua...
«Quel disco mi ha dato molti stimoli nuovi a livello di composizione, di creatività. Ma l’interpretazione era molto simile a quella dei tanti lavori precedenti. Diciamo che qui continua il lavoro di trasformazione e cambiamento».
Per capire, come dice lei, «la differenza fra silenzio e rumore»...
«Sì, bisogna cantare il meno possibile. Il canto dev’essere un parlato armonico, non bisogna sforzare le note, la voce. Le emozioni non vanno catturate, ma stimolate con la semplicità».
Nel disco si cimenta anche con Brel.
«Sì, ho rifatto ”Le moribond” trasformando la disperazione del capolavoro originale (già il titolo è tutto un programma...) in un inno alla vita, che infatti è diventato ”Stagioni nel sole”. Ho pensato a quest’uomo giovane che muore e che ha una figlia piccola. E allora la sua morte diventa uno sprone, un incentivo a vivere per tutti quelli che restano...».

martedì 22 novembre 2005

INTERVISTA CLAUDIO PASCOLI

TRIESTE Provate a dire «sassofono», nel mondo della musica leggera/pop/rock

italiana. Nove interlocutori su dieci, c’è da scommetterci, risponderanno

«Claudio Pascoli». Il musicista triestino, monfalconese di nascita (a

proposito, l’anagrafe della città dei cantieri ospita da sola più star dello

spettacolo che l’intera regione: Gino Paoli, Paolo Rossi, Elisa, lui...),

trapiantato prima a Milano e poi in Brianza ormai da oltre trent’anni, è

infatti il sassofonista più ricercato e più presente nei dischi, nei tour,

nei programmi tv più importanti degli ultimi venti/venticinque anni. «Se

penso a come tutto ciò è cominciato - dice Pascoli - mi sembra ancor oggi

tutto molto strano...».

Cominciamo dall’inizio?

«Sono nato nel ’47, a Monfalcone. Quando avevo tredici anni la mia famiglia

si trasferì a Trieste. Ho fatto il liceo scientifico, prima Oberdan e poi

Galilei. E mi sono iscritto senza troppa convinzione al primo anno di

medicina...».

Nel frattempo aveva scoperto la musica...

«Ho cominciato a suonare il sax nella banda di Monfalcone. Arrivato a

Trieste, nel ’61 sono passato a un’altra banda, quella del Ricreatorio

Brunner. All’epoca ogni ricreatorio aveva la sua banda, c’era un bel senso

della compagnia, e una sana rivalità fra le varie bande...».

Perchè il sax?

«Ero rimasto colpito dall’estetica dello strumento, oltre che dal suono.

Ricordo che nel ’59 rimasi affascinato da un servizio sul jazz su una

rivista, con splendide foto in bianco e nero di Gerry Mulligan, Stan Getz...

Che poi avrei scoperto alla radio, nei programmi che Sergio Portaleoni

conduceva a Radio Trieste. Ascoltavo gli assoli e li imparavo a memoria,

prima con la voce e poi con lo strumento».

Ma con la banda non suonava jazz...

«No, il repertorio si limitava alle solite Radetzky March con contorno di

canzoni triestine. Tranne il periodo dopo ogni Sanremo: imparavamo tutte le

canzoni e le suonavamo già una settimana dopo il Festival».

Ricorda il primo sax?

«Certo, lo comprai con una borsa di studio. Provavo ore e ore. Andavo a casa

di Portaleoni, che aveva una raccolta immensa, con un vecchio registratore a

bobine: registravo un sacco di roba, tornavo a casa e mi mettevo a studiare.

Poi c’era anche il Circolo triestino del jazz, all’epoca molto attivo».

Erano gli anni del beat...

«E dunque tempi nerissimi per il jazz. Tante chitarre, i primi strumenti

elettronici, tutta roba con cui non andavo d’accordo. Per fortuna alla fine

degli anni ’60 si è diffuso il rhythm’n’blues, la musica nera, con i fiati

in primo piano».

Lei aveva un gruppo?

«Suonavo con tanti complessi, come si chiamavano all’epoca. Poi, nel

’67/’68, con Toni Soranno e Fabio Ursich fondai i Combo. Una bella

formazione, facevamo il repertorio dell’epoca, lavoravamo nei migliori

locali della regione».

Il salto di qualità?

«Arrivò proprio nel momento critico. L’università non era la mia strada. E

cominciavo ad avere un’età in cui uno deve cominciare a capire cosa fare

nella vita. Fossi rimasto a Trieste, avrei dovuto trovarmi un lavoro

”normale” e suonare nel tempo libero...».

Invece...

«Invece, proprio nei giorni in cui avevo fatto un concorso al Lloyd

Triestino, mi chiama Euro Cristiani (batterista triestino che ha lavorato a

lungo con Umberto Tozzi, ndr). Era il ’72. Lui suonava a Torino con Patrick

Samson, quello di ”Soli si muore”. Ed era stato contattato per il tour di

Adriano Pappalardo, all’epoca primo in classifica con «È ancora giorno”...».

Insomma, gli serviva un sassofonista...

«No, magari... Gli serviva un trombonista, ma Euro mi spacciò per tale,

anche se io il trombone lo suonavo pochissimo. Comunque parto col mio sax.

All’inizio erano un po’ perplessi, poi è andato tutto bene...».

Tanto che...

«Arrivai alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti. Claudio Fabi,

vicedirettore artistico, mi propose di lavorare con lui, nell’ufficio

artistico».

Cosa faceva?

«Suonavo nei provini, ascoltavo i dischi che arrivavano dall’America,

scrivevo gli arrangiamenti... Insomma, un po’ di tutto. Ma era un lavoro. E

decisi di trasferirmi a Milano. Due anni in città, e poi dal ’75 in Brianza,

dove si sta più tranquilli. Ora vivo in un paese vicino Lecco».

Lei ha suonato con Lucio Battisti...

«Mi aveva sentito in sala d’incisione, per un 45 giri di Pappalardo. Mi fece

lavorare con lui per ”Anima latina”, l’album del ’74. Per sei mesi ho fatto

l’assistente di studio, dal primo giorno di lavoro a quello del missaggio

finale e della consegna dei nastri».

Che tipo era?

«Ovviamente un fuoriclasse dal punto di vista musicale. Raramente ho

incontrato artisti col suo piglio, la sua intelligenza, il suo istinto, la

sua sicurezza nell’andare in una direzione precisa. Era riservato, sia sul

privato che sulle scelte musicali. Non loquacissimo, anche se sapeva stare

in compagnia, non teneva gli altri a distanza».

Cosa ricorda maggiormente di lui?

«Che in studio aveva un atteggiamento professionale ma anche giocoso, quasi

ludico. Sapeva divertirsi, sperimentava... Era il periodo dei

sintetizzatori, dei processori del suono: era stato a Londra, aveva comprato

queste nuove meraviglie della tecnica, con lui il lavoro era anche

divertimento».

Suonò ancora con Battisti?

«Nel disco successivo, ”La batteria, il contrabbasso, eccetera”, nel ’76. Ma

lì feci solo lo strumentista. E il mio assolo ne ”La compagnia” mi ha fatto

conoscere nel giro. Era moderno per quei tempi, colpì molto nell’ambiente.

La mia carriera cominciò da lì...».

Facciamo un gioco. Io le dico un nome e lei... Franco Battiato.

«Con lui ho fatto ”La voce del padrone”, con cui nell’81 sbancò dopo anni di

sperimentazione. A un certo punto decise di realizzare un disco che avrebbe

venduto molto. E ci riuscì. Personalità forte, con una sicurezza simile a

quella di Battisti».

Eugenio Finardi.

«Con lui ho fatto ”Sugo” e ”Diesel”. Anni ’70, festival di Parco Lambro, le

molotov ai concerti, la musica politica. Era un po’ un casino...».

Il compianto Ivan Graziani.

«Un futurista, un pazzo dalle idee surreali, simpatico. Con lui ho fatto ”La

ballata delle quattro stagioni” e ”Pigro”...».

Il Nobel Dario Fo.

«Due mesi di teatro, nel ’77/’78, alla Palazzina Liberty. Lo spettacolo era

”La signora da buttare”, una satira ambientata al circo. Come tanti uomini

di teatro, piegava la metrica musicale alle sue esigenze».

Gianna Nannini.

«Con lei ho fatto quel disco che aveva in copertina la Statua della libertà

(”California”, del ’79 - ndr). Dopo tanti anni mi ha chiamato perchè voleva

delle lezioni di sax. Dopo tre o quattro incontri ha rinunciato...».

Roberto Vecchioni.

«Tanti tour e dischi, l’ultimo l’anno scorso. Persona di grande cultura,

grande affabulatore. Magari a volte parla un po’ troppo, ma ha scritto

alcune canzoni bellissime».

Un altro che parla tanto: Francesco Guccini.

«Beh, lui - come Fiorello, con cui ho fatto l’ultimo tour - è divertente.

Persona coltissima. Una volta mi ha regalato un libro di Carpinteri &

Faraguna...».

Il grande De Andrè.

«Che dire... Forse solo che ci manca. Una spanna su tutti gli altri. Cultura

micidiale. Se in tour qualcuno faceva la Settimana Enigmistica, era

imbattibile. Un tour con lui, suonando le tastiere».

Vasco.

«Ero con lui nell’84/’85, ai tempi di ”Bollicine”, in un periodo un po’

strano. Visti gli eccessi, nel tour il manager Guido Elmi aveva imposto un

rigido proibizionismo. E la situazione era un po’ tesa...».

De Gregori.

«Prima di cominciare a suonare dice sempre ”vamos trabajar...”, andiamo a

lavorare. Ha questo senso della musica come lavoro, come impegno. Un poeta,

di grande umanità. Non è distaccato: non ha quell’espansività forzata che

oggi va per la maggiore...».

L’azienda Pooh.

«Con loro tutto è perfettamente organizzato. Grande rispetto per le esigenze

dei musicisti, forse perchè hanno fatto una lunga gavetta. Un’azienda,

appunto...».

Ivano Fossati.

«Ho lavorato con lui già nel ’73, nel disco con Oscar Prudente. Poi

nell’87/’88, ai tempi de ”La pianta del te”. Linguaggio alto, colto. Ma i

concerti erano una sorta di work in progress, sempre in evoluzione».

Fiorella Mannoia.

«Persona eccezionale. Sembra altera ma è l’opposto: sarebbe un’ottima

attrice comica. Forse il marito-manager-chitarrista, Piero Fabrizi, è un po’

ingombrante. Ma ha il merito di averla condotta sul binario giusto».

Eros Ramazzotti.

«Con lui ho un ricordo strepitoso di un concerto al Radio City Music Hall di

New York. Ora mi sembra gravato da una sorta di ”pesantezza industriale”.

Nel nuovo disco, la cosa migliore è il suo canto soul in ”La nostra

vita”...».

L’impegno più recente: Celentano.

«Con lui, dal ’79 a oggi, ho fatto dischi, tour italiani ed europei, tutti i

programmi tv tranne il ”Fantastico” dell’86. Lui è sempre uguale. Ha

un’ipervalutazione di se stesso: vuol salvare il mondo. È naif, ha

quell’ingenuità che funziona».

Rockpolitik?

«La bufera era fuori. Dentro eravamo tranquilli. Per me se n’è parlato

troppo, si è fatta troppa dietrologia. Le ultime due settimane sono state un

po’ pesanti: prove saltate, errori... E Celentano non ammette mai gli

errori. Per il resto è un grande».

 

sabato 12 novembre 2005

«Ma quale rock... Adriano Celentano è proprio lento. E quelle pause, quei lunghi silenzi che caratterizzano i suoi programmi sono dovuti al fatto che lui legge il ”gobbo” o aspetta che dall’auricolare gli dicano che cosa dire e che cosa fare. La verità è che lui è un gran furbo, che ha saputo sempre circondarsi di gente valida. Salvo usarli ben bene, e poi passare al prossimo...».
L’attacco a Celentano - grande protagonista di questa stagione televisiva con «Rockpolitik», concluso l’altra sera - arriva da uno che lo conosce bene: il triestino Lorenzo Pilat, che con il Molleggiato ha diviso negli anni Sessanta l’avventura del «Clan di Celentano» (all’epoca si faceva chiamare Pilade), prima di diventare fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta un autore di grande successo. Da solo e soprattutto come socio della premiata ditta «Pace Panzeri Pilat» ha firmato tanti successi della canzone italiana. Uno dei quali, tradotto e ripreso da Tom Jones, ha sfondato anche negli Stati Uniti.
Pilat, ma perchè ce l’ha con Celentano?
«Io non ce l’ho con lui. Anzi. Mi legano a lui tanti bellissimi ricordi. Dico solo che non sa cantare, è stonato, ma ha una grande personalità. È furbo. Si circonda di gente in gamba...».
Da quanto non lo sente?
«Saranno ormai dieci anni. Ero a casa di sua sorella. Me l’ha passato al telefono. Mi ha chiesto: ”uè, come va?”. Gli ho risposto che faccio ancora tante serate e poi per scherzare gli ho chiesto ”allora, quand’è che mi lanci...?”».
Lui non l’ha aiutata?
«Nel Clan all’inizio eravamo un gruppo di amici. Lui ha aiutato Ricky Gianco, Guidone, Don Backy, Gino Santercole... Con me credo temesse il confronto. Io ero molto ingenuo, ma piacevo al pubblico quasi quanto lui...».
Addirittura...
«Sì, ricordo una volta a Imperia. Avevo appena fatto un disco intitolato ”Charlie Brown”: centomila copie con una sola apparizione televisiva. Dovevo aprire la serata, faccio tre canzoni, mi chiedono il bis. Poi me ne chiedono un altro... La faccio breve: alla fine Celentano mi dice ”uè, ma tu non devi mica cantare così, devi cantare un po’ meno, sennò poi io faccio fatica, eh...”».
Com’era arrivato al Clan?
«Tramite Vittorio Salvetti, che avevo conosciuto a un concorso a Udine, al quale avevo partecipato. Quello era il periodo dei concorsi musicali per esordienti. Teddy Reno ne organizzava uno per partecipare al quale bisognava pagare tremila lire, c’erano concorsi in cui dovevi pagare cinquemila lire, io un giorno decisi di iscrivermi a un concorso dove bisognava sganciare trentacinquemila lire, che all’epoca, nel 1958, erano dei bei soldi...».
Continui...
«Ricordo che mia madre quasi piangeva, quando glielo dissi. Delle trentacinquemila lire, intendo. Sono andato a Roma, ovviamente a mie spese, mi hanno fatto registrare con un Revox e mi hanno rispedito a casa col mio bravo acetato sotto il braccio. Era una specie di disco finto, di plastica, che potevi ascoltare solo tre o quattro volte, perchè poi cominciava a gracchiare. Nella mia ingenuità, pensavo che quelli fossero i dischi. Tornai a casa orgoglioso perchè credevo di aver registrato il mio primo disco...
Torniamo a Salvetti.
«L’avevo conosciuto a Udine. E dopo quel concorso a Roma, un po’ deluso, gli scrissi per chiedergli di aiutarmi. Mi disse di andare ad Asiago, dove stava organizzando la prima edizione del Festivalbar. Che poi io fra l’altro vinsi. Fu lì che mi presentò Celentano...».
Feeling a prima vista?
«No, lui era incuriosito perchè io facevo gli stessi brani americani che cantava lui. Io sono uno che non sta mai zitto, e ho cominciato a spiegargli che doveva cantare così e così... L’ho detto: ero giovane e ingenuo».
Facciamo un passo indietro. A Trieste come aveva cominciato?
«Studiavo da elettrotecnico ma sognavo la musica. Cantavo le canzoni americane che avevo conosciuto e imparato tramite i jukebox. Io stavo lì, nei bar, ad ascoltare quei brani rock’n’roll per ore. Non conoscevo né l’inglese nè la musica, ma imparavo tutto a memoria. Imitavo i grandi cantanti americani: Elvis Presley, Little Richard, Chuck Berry... Cercavo sui giornali gli annunci dei concorsi che si svolgevano in giro per l’Italia, partecipavo e devo dire che arrivavo sempre nei primi posti, spesso vincevo».
I locali triestini?
«In ogni bar c’era un jukebox. Gli americani ballavano nei bar, non era mica come adesso, c’era un’atmosfera di allegria ed euforia che contagiava chiunque. Per me andare a cantare alla birreria Dreher, lì dove adesso c’è il centro commerciale, era il massimo. Credevo fosse un trampolino di lancio per uno che voleva fare il cantante».
E ce la fece?
«Sì, ci arrivai nel ’59, quando vinsi uno dei tanti concorsi per dilettanti. Il primo impatto col pubblico fu molto difficile. Alle preselezioni cantai ”Don’t be cruel”, ma non so che parole sono venute fuori dalla mia bocca, so solo che tremavo tutto. Per farmi coraggio mi ero scolato un bicchiere di vino...».
Com’era la Dreher?
«Era una grande birreria impostata sullo stile austriaco: birra, cibo ma anche spettacolo. D’inverno dentro, lì dove ora c’è il negozio di articoli sportivi dentro il centro commerciale, d’estate fuori, nel grande giardino che costeggiava via Giulia».
Poi...?
«Poi, dopo un po’, capii che la birreria Dreher non era proprio il massimo. E che se uno voleva farcela per davvero doveva muoversi, partire, andare a Milano, dove all’epoca si facevano i dischi, si decideva il destino della musica italiana».
Dunque Milano...
«Partii pieno di entusiasmo e di speranze. Per tre mesi lavoravo come elettrotecnico in una ditta. E la sera del sabato e della domenica andavo a cantare nei locali. Era l’inizio degli anni Sessanta. C’era un’atmosfera incredibile. La nuova musica ormai stava arrivando anche nel nostro paese...».
Celentano era già un grande...
«Sì, aveva già fatto vari successi, fra cui ”Il tuo bacio è come un rock” e ”24.000 baci”. La sua forza, più che la voce, era come muoveva il corpo. Ma forse non tutti sanno come ha cominciato...».
Dica...
«Alla fine degli anni Cinquanta suo fratello Sandro faceva il rappresentante dell’Amaro Isolabella. All’epoca i bar, i locali avevano la sala da ballo, proponevano anche musica, piccoli spettacoli. Dunque lui, quando andava a vendere il liquore, in una maniera o nell’altra riusciva a piazzare anche il fratello. E così cominciò la sua carriera».
Claudia Mori?
«All’epoca non esisteva. Lui stava con Milena Cantù, la ”ragazza del Clan”. Fra l’altro lei aveva un ruolo importante, nelle dinamiche del Clan: andava in giro, nelle case discografiche, a cercare i brani americani di cui fare le cover. So che poi si è sposata con Fausto Leali, ci ha fatto due figli, prima di separarsi».
Diceva della Mori...
«Una volpe. Quasi più furba di Adriano. Si capiva subito che era una che voleva mettersi in vista. All’epoca aveva fatto anche un film di quelli piuttosto scollacciati. Senza alcun successo. Prima stava con un calciatore della Roma, Lojacono. Poi ha individuato Adriano. E non l’ha più mollato. Tuttora è lei che decide cosa fare e non fare».
Ma nel Clan i rapporti com’erano?
«Di amicizia. Celentano stesso all’epoca era uno di noi, un amico, andavamo a casa sua, si scherzava... L’amicizia per lui era un valore a cui sacrificare tutto: hai fatto questo, non andrebbe bene, ma sei un amico e allora... Poi a un certo punto le cose son cambiate».
Nel Clan quanto è durata?
«Cinque anni, nei quali feci tantissime serate, un tour con Adriano, un disco all’anno. E nel ’66, nel Trio del Clan, andai a Sanremo a cantare la seconda versione de ”Il ragazzo della via Gluck”. All’inizio Celentano si era inventato un arrangiamento pesante, davvero terribile. Per fortuna accettò i nostri consigli e la fece praticamente solo chitarra e voce...».
A Sanremo ci tornò altre due volte.
«Sì. Ma prima nel ’67 feci il Cantagiro con ”La legge del menga”, canzone che venne censurata dalla Rai per alcuni tormentoni e doppi sensi legati al titolo della canzone. Si sa: erano altri tempi. Bastava un nulla per incorrere nella mannaia della commissione che stabiliva cosa poteva andare in onda e cosa no...».
Ci dica del Festival.
«Sì. Nel ’68 avevo scritto ”La tramontana”, senza poterla firmare. Dovevo portarla a Sanremo, dove invece la cantarono Antoine e Gianni Pettenati per accordi e beghe fra case discografiche. A quel Sanremo, vinto da Endrigo e Roberto Carlos con ”Canzone per te”, ci andai comunque, cantando ”Il re d’Inghilterra” con Nino Ferrer: una canzone che non mi era mai piaciuta, ma per andare a Sanremo (dove poi sarei tornato anche nel ’75, con ”Madonna d’amore”) si fa qualsiasi cosa...».
Nel frattempo era diventato anche autore...
«In fondo fu Celentano a spingermi senza saperlo su quella strada. Lui aveva capito che ci sapevo fare e non mi voleva aiutare. Ma mi ha fatto un piacere, perchè così mi sono dedicato alla composizione e ho avuto fortuna».
Racconti.
«All’inizio non mi facevano firmare le canzoni. Perchè allora si usava così. La gavetta era questa. Io ho scritto ”Nessuno mi può giudicare” (con Beretta) nel ’66 per Caterina Caselli, ”Io tu e le rose” nel ’67 per Orietta Berti, ”Quando m’innamoro” nel ’68 per Anna Identici, ma alla Siae le hanno firmate altri autori già affermati».
Perse un sacco di soldi...
«Sì, ma a quel punto avevo fatto la mia gavetta come autore. Ed era arrivato il mio turno. Prima da solo e poi con Pace e Panzeri firmai molte canzoni: «La rosa nera» e «Alle porte del sole» per Gigliola Cinquetti, «Tipitipitì», «Non illuderti mai» e «Fin che la barca va» per Orietta Berti, ”Quanto è bella lei” per Gianni Nazzaro...».
Pace e Panzeri come li ha conosciuti?
«Pace in un albergo, sempre a Milano. Io giocavo a biliardo, lui veniva a giocare a carte, poi si finiva sempre a suonare la chitarra. Io ero nel Clan, lui era un autore, abbiamo cominciato a lavorare assieme. Con Panzeri la stessa cosa. Le canzoni le scrivevamo assieme, ognuno metteva qualcosa, a volte l’idea arrivava per caso, magari viaggiando in macchina...».
Come cantante aveva guadagnato molto?
«Poco. Come autore sono arrivati molti più soldi. Basti pensare che quando facevo le serate, alla fine degli anni Sessanta, prendevo centomila lire a sera, di cui davo quindicimila a testa ai ragazzi del gruppo: dunque me ne restava la metà. Celentano prendeva un milione a sera, e al complesso dava dodicimila lire a testa. E a me diceva: tu sei matto, non bisogna dargli tanto...».
La svolta economica?
«Quando ho visto i soldi della Siae per ”La rosa nera”: due milioni di lire in un anno per settecentomila copie vendute. Fu allora che capii che le cose stavano cambiando».
Un suo brano finì in America...
«Sì, ”Alla fine della strada”, portata al Sanremo del ’69 da Junior Magli e dai Casuals. Furono eliminati subito, perchè se a Sanremo non paghi non puoi far nulla. Ma il disco fu spedito a una casa discografica inglese. Magli imitava un po’ Tom Jones, aveva fatto anche una cover di ”Delilah”. Fatto sta...».
Fatto sta?
«Fatto sta che il disco arrivò in qualche maniera alle orecchie di Tom Jones e l’ha incisa. Una sera ero fuori con una ragazza, a Trieste, dove tornavo ogni tanto, e la radio dava questa canzone, che in inglese era diventata ”Love me tonight”...».
In America c’è poi andato?
«Quell’anno dovevo andare a Los Angeles per ritirare un premio perchè la canzone aveva avuto un milione di passaggi radiofonici e televisivi. Ma la mia paura dell’aereo mi fece rinunciare. Negli Stati Uniti ci sarei andato qualche anno dopo, per incidere un disco, ma mi ritrovai in mezzo a un giro che non mi piaceva per niente, e la cosa non ebbe un seguito...».
Trieste?
«Per tanti anni sono andato avanti e indietro. Poi sono tornato a vivere qui. Ora sto a Sistiana, vicino al mare. E i miei dischi li faccio ancora...».
Pilat, ma se Celentano la chiamasse?
«Ovvio: ci andrei di corsa. Al suo prossimo programma, a questo punto...».

giovedì 3 novembre 2005

Si conclude con «A hard rain’s a-gonna fall», di Bob Dylan, il nuovo spettacolo di Moni Ovadia «Es iz Amerike!», che ha debuttato l’altra sera al Rossetti. Una «Hard rain» alla maniera di Tom Waits: voce roca, lacerata, grattata, piena di buchi e ragni. Una «Hard rain» più che mai attuale e profetica, oggi che l’America, terra di libertà nell’immaginario collettivo del Novecento, si propone come gendarme del mondo e si scopre stretta fra guerre preventive e rovinosi uragani.
Lo spettacolo dell’ebreo bulgaro/milanese Ovadia, presentato l’estate scorsa al Mittelfest, parte da un dato di fatto: la storia dello spettacolo e della cultura americani non può prescindere dalla linfa portata dagli ebrei. Da Al Johnson ai primi produttori di Hollywood, dai fratelli Marx a George Gershwin (vero nome Jakob Gershowitz), da Leonard Bernstein a Woody Allen, da Fred Astaire (che di cognome faceva Austerlitz) a Irving Berlin, da Allen Ginsberg appunto fino a Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan.
Le scene rilanciano i grattacieli di New York, entra Moni e attacca con piglio swing «Rotchild». Poi il grande affabulatore comincia un altro capitolo del suo eterno racconto. Dice che la storia comincia oltre un secolo fa, quando due milioni di ebrei orientali, cioè russi, polacchi, ucraini, bielorussi, decisero di abbandonare le loro terre. Vita dura sotto lo zar: i ricchi diventavano più ricchi, i poveri sempre più poveri. Metà della popolazione era composta da «luftmench», uomini d'aria, i disoccupati di oggi, e vivevano di elemosina.
Ma le tempeste rivoluzionarie dell'Europa occidentale cominciavano a toccare anche quei territori. Molti giovani lasciavano i villaggi, le casupole di legno, le strade di fango, partivano per Varsavia, Minsk, Bialistok. Operai nelle prime manifatture. Scriveva il pro-pro-pro cugino Moyshele (classico personaggio delle storie di Ovadia) alla mamma: «Si lavora dalle sette di mattina alle undici di sera. A volte tutta la notte. Questo vuole il padrone».
Prime idee rivoluzionarie. Ebrei in prima fila. Repressione durissima. E la decisione: andare oltreoceano, in quel grande e mitico paese che erano gli Stati Uniti. Con la maledizione degli anziani: «Quel paese è una dannazione. Vi faranno mangiare cibi impuri. E dimenticherete lo Shabbat, la nostra festa...».
Il racconto procede alla maniera di Ovadia, fra canzoni e aneddoti e storielle che strappano il sorriso, anche quando è sorriso amaro. Il viaggio, l’arrivo a Ellis Island, le visite mediche, il villaggio che risorge, le prime attività, i piccoli commerci, gli affari: la tradizione ebraica accanto alla modernità di Manhattan. E la sinagoga, dove il canto straziante del cantore accende la nostalgia.
Alcuni di quei cantori diventarono star dell'opera, come Ian Pierce e Richard Tucker. Le avanguardie dei tanti americani ebrei di cui si diceva all’inizio, e che hanno segnato la storia dello spettacolo americano e di tutto il mondo.
«Es iz Amerike!» - che si replica fino a domenica - ha la preziosa capacità, tipica di Moni Ovadia, di raccontare storie e trattare temi serissimi e spesso tragici con leggerezza, col sorriso sulle labbra ma il cervello sempre ben collegato. Sempre più sorprendente lui, attempato ma irresistibile showman. Non perde un colpo la Stage Orchestra diretta con piglio da primus inter pares da Emilio Vallorani. E Lee Colbert (che regala una «Funny girl» da antologia e una «Summertime» che in yiddish diventa «Zummertsait») è la rossa ciliegina su una torta gustosissima e nobilmente meticciata.

martedì 1 novembre 2005

INTERVISTA DONATA HAUSER

Signora, ma è vero che vuol fare il sovrintendente del Teatro Verdi? «Non lo so, non ci ho pensato. Intanto perchè adesso ce n’è già uno, poi perchè a me va benissimo stare nel consiglio di amministrazione e fare il vicepresidente del teatro. Non so neanche se mi piacerebbe. Dovrei verificare se ne sono all’altezza. Ma se mi sentissi all’altezza sì, mi piacerebbe farlo. E comunque nella mia vita succede tutto all’improvviso...». Ed è vero che a primavera potrebbe candidarsi nella lista civica del sindaco Dipiazza? «Questo proprio no. Io non candiderò mai per le amministrative. Se domani volessi far politica, andrei a farla a Roma. Perchè è là che si fa politica: qui si amministra solamente...».
Incredibile Donata Irneri Hauser. Uno va a intervistare l’editore di Telequattro e si ritrova davanti una possibile parlamentare triestina. O la futura sovrintendente del Verdi. Schietta, sincera, molto espansiva, in qualche modo anche entusiasta. Amante del suo lavoro e della sua città, pronta sempre ed evidentemente a nuove sfide. Chissà, forse per quel dna del nonno Ugo, fondatore dell’impero assicurativo che fu di famiglia...
Signora, è vero che Telequattro si chiama così e ha il simbolo che conosciamo perchè c’era la polizza 4R che aveva portato fortuna al Lloyd Adriatico?
«Sono tante le storie, e c’è un pizzico di verità in ognuna. È vero che c’era la famosa polizza 4R che aveva fatto decollare il Lloyd Adriatico, com’è anche vero che il numero quattro, ripetuto quattro volte nel simbolo, voleva richiamare le quattro province del Friuli Venezia Giulia. L’intenzione, insomma, era già alle origini di fare una televisione regionale e non solo triestina».
Com’è stata vissuta in famiglia la scelta di suo padre di cedere il Lloyd Adriatico?
«Lui ha visto che il figlio non voleva continuare la sua attività. Non pensava alla figlia in quest’ottica. Questo forse mi è un po’ dispiaciuto, perchè ho sempre pensato che qualcosa avrei dovuto e voluto fare: non ho mai avuto lo spirito della casalinga, posso fare tutto in casa, mi piace anche cucinare, ma sono una donna molto attiva. Non so stare con le mani in mano...».
Ma suo padre...
«Mio padre a un certo punto ha fatto la scelta di vendere, perchè diceva che il mondo stava cambiando e che la compagnia doveva entrare a far parte di un gruppo che le garantisse il giusto sviluppo. Non era più tempo, insomma, delle società familiari. Forse ha fatto la cosa giusta, o forse no, chi lo sa...».
Perchè ha accettato di guidare l’Orchestra sinfonica regionale?
«Ho sempre amato la musica, ho cominciato anche a studiare pianoforte a trent’anni perchè mi mancava. Quando nel 2000 mi fu chiesto dall’allora presidente della Regione, Antonione, di dare la mia disponibilità, perchè gli accordi politici esistenti volevano un triestino ai vertici dell’orchestra regionale, chiesi consiglio a mio marito, che mi ha sempre appoggiato in tutte le mie cose e anche in quelle che considero le mie pazzie. Ricordo che era un sabato e dovevo dare la risposta entro la mattina dopo. Mio marito mi disse: se ti piace, accetta. E io ho accettato».
Perchè siete finiti in tribunale?
«È finita male perchè il signor Antonaz voleva a tutti i costi buttarmi fuori. Non credo per motivi personali, perchè non lo avevo mai conosciuto né frequentato. Io mi sono sempre comportata bene con lui, anche in questo frangente. Non voglio dire che sia stato per motivi politici. Diciamo che aveva deciso di fare il suo spoils-system, un po’ all’americana...».
C’è rimasta un po’ male...
«Sì, soprattutto per la maniera violenta con cui tutta la vicenda è stata da lui gestita. Ma non voglio dire di più, perchè c’è un procedimento giudiziario in corso. Prima di avviarlo ho aspettato che le acque si calmassero, perchè non volevo nuocere in nessun modo all’orchestra e ai musicisti. Ho aspettato che venisse designato il nuovo presidente, che ora è il mio amico Mario Diego. E poi ho trovato giusto che fosse la magistratura a decidere se tutto è stato fatto nel rispetto della legge».
I politici telefonano all’editore di Telequattro? Chiedono qualcosa?
«I politici hanno un grande rispetto per Telequattro. Comprano gli spazi che possono essere a loro disposizione, i colloqui col sindaco anzichè il filo diretto col presidente della Provincia, ma poi siamo noi a valutare quel che si deve o non si deve fare, quel che si deve o non si deve mandare in onda. Nessun politico viene mai a chiedere favori, magari segnalare qualche iniziativa, qualche avvenimento, qualche problema, quello sì. Ma è un’altra cosa».
La gente dice: «Il Piccolo» è vicino al centrosinistra, Telequattro al centrodestra...
«Che ”Il Piccolo” abbia avuto dei momenti in cui il pubblico lo ha ritenuto vicino al centrosinistra, o a volte su posizioni qualunquiste, questo può anche essere accaduto. Per quanto riguarda Telequattro, non è vicina né al centrodestra né al centrosinistra. Siamo vicini a tutti e a nessuno, ci comportiamo da emittente super partes, con grande fatica, e non ci siamo mai venduti a nessuno».
Quali sono le difficoltà che incontra un televisione privata locale?
«Nella nostra regione abbiamo poche risorse economiche. La pubblicità non riesce a fruttare quello che sarebbe necessario per le esigenze di un’emittente televisiva che ha ambizioni non solo cittadine. È molto più facile vendere pubblicità per i nostri colleghi che lavorano in Veneto, in Emilia Romagna, ovviamente in Lombardia. Il Friuli Venezia Giulia è una regione in cui la piccola e media industria si fa carico di sostenere l’economia, che manda avanti tutto. I grandi gruppi fanno pubblicità a livello nazionale, dunque non interessa loro investire sulla pubblicità nelle nostre emittenti, sempre più strette fra le reti nazionali pubbliche e quelle private».
Il tentativo di uscire da Trieste com’è andato?
«Molto bene. Monfalcone, Gorizia, Grado ci stanno dando delle grandi soddisfazioni. Nel resto della regione è un po’ più difficile. Come per i due quotidiani regionali, anche nell’emittenza c’è una sorta di divisione dei bacini d’utenza fra le due maggiori televisioni regionali. Udine ci vede in parte, ma chi ci vede chiama, telefona, dimostra di gradire la nostra programmazione. Pordenone stesso discorso. Siamo andati anche a Cortina d’Ampezzo, perchè ci sembrava giusto avere lì una presenza, e vogliamo restarci».
Le soddisfazioni maggiori?
«Quelle legate ai grandi eventi che abbiamo seguito in questi anni. Gli Alpini, la Barcolana, ma in particolare l’avventura dell’Expo, che poi purtroppo è finita male. Ma quando siamo arrivati a Parigi, per seguire l’atto finale, tutti pensavano che fossimo una televisione nazionale. Avevamo uno spiegamento di mezzi veramente di prim’ordine, con tanto di collegamento satellitare con piazza dell’Unità...».
Telequattro è stata fucina di tanti giornalisti triestini...
«Penso che sin dai tempi di Chino Alessi, che fu fra i fondatori dell’emittente assieme a mio padre, qui dentro sia sempre stato insegnato qualcosa ai tanti giovani che con coi si sono avvicinati al giornalismo e anche alla televisione. Quando sono usciti da qui, per continuare la loro carriera, si sono sempre trovati preparati e sono stati apprezzati anche in altre realtà».
Attualmente com’è la situazione della redazione?
«Tutti i nostri dipendenti sono professionisti. Abbiamo ovviamente molti collaboratori, che lavorano a gettone, e anche degli stagisti, che vengono qui per imparare il lavoro e poi, alla fine dello stage, spesso rimangono a collaborare. Penso che qui si trovino bene anche perchè l’atmosfera è bella, quasi familiare».
È vero che Telequattro sta per cambiare direttore?
«Quello che succederà al momento non lo so. L’attuale direttore ha da qualche tempo un altro incarico non giornalistico. Vediamo se regge, se ce la fa a seguire tutto, vediamo come si mettono le cose... Per adesso non si è manifestata nessuna volontà di cambiare la situazione attuale».
Lei è per la Trieste turistica, commerciale o industriale?
«Mi dispiace aver un parere diverso dal nostro governatore, ma io la Trieste industriale proprio non la vedo. Non ci sono spazi, non ci sono mai stati, e poi il triestino non ha l’animo dell’imprenditore industriale. Ha l’animo del commerciante, del venditore di servizi, ma non va oltre. Le grandi industrie qui non vengono e qui non possono nascere. Quelle piccole speriamo che crescano, si specializzino e soprattutto che rimangano. Vedo un futuro di piccole e medie realtà tecnologicamente avanzate».
Dunque preferisce l’opzione turistica...
«Mi piace moltissimo l’opzione turistica, come mi piace anche molto l’opzione commerciale. Penso che su quel fronte Trieste sia nata, sia diventata grande e possa tornare tale».
Che sarà dell’area di Campo Marzio di proprietà della sua famiglia?
«Ci sono dei progetti, che saranno parte integrante della riqualificazione e dell’ammodernamento di questa zona. Che sarà una zona molto importante della Trieste del futuro. La vedo come una zona di servizi, dove sarà molto facile arrivare. Il giusto tratto finale delle nostre meravigliose Rive, che attualmente hanno diverse cose che non vanno. Molto è già stato fatto, molto verrà fatto: il fatto che l’ex Pescheria sia quasi finita, il fatto che la questione del magazzino vini sia finalmente sbloccata...».
Nello spazio dell’ex piscina Bianchi?
«Intanto sono molto contenta che sia stata buttata giù. Era terribile. Ora sono d’accordo con tutti quei cittadini che si sono espressi per uno spazio libero, aperto sul mare, con un po’ di verde. Anche se determinate strutture leggere e ben fatte potrebbero essere compatibili con quell’area, che dopo la demolizione del magazzino vini diventerà un’area molto grande e strategica per le nostre Rive. Che devono piacere a tutti, anche se il cento per cento non si avrà mai: quando una decisione è appoggiata dal cinquanta per cento più uno, si può fare. Questa è la democrazia».
Lei frequenta i salotti?
«Poco. Sono una brutta bestia: non so star zitta, dunque mi rendo conto che a volte posso risultare sgradevole. Dunque è meglio che me stia a casa mia e che loro, quelli che frequentano i salotti, intendo, se ne stiano tranquilli. Oltretutto io ho la vita molto piena, ho un sacco di impegni...».
Fa ancora in tempo ad andar per mare con quella sua bella barca...?
«Noi abbiamo avuto per un periodo una barca perchè avevamo tempo. Da quando io sono entrata qui dentro e mio marito è stato maggiormente assorbito dalle cose sue, l’abbiamo venduta. La barca è bella se uno la può godere. E la più bella è sempre quella degli amici...».
Come vede Trieste fra dieci o vent’anni?
«Bellissima. E non è la solita frase di circostanza. Io sono ottimista e volitiva di natura. Mi piace vedere questa città come sta cambiando. Mi piace immaginarmela ancora più bella, come sicuramente presto sarà...».
E poi Donata Hauser parla di Cittavecchia, che quand’era bambina ricorda come un ammasso di catapecchie e di rottami, e che ora è rinata, si cominciano a vedere tante cose belle, Urban è stato un miracolo, «quando passo mi si apre il cuore». E il porto vecchio «speriamo diventi quello che era stato immaginato per l’Expo».
«Triestini - conclude - non piangiamoci addosso. Andiamo avanti. È un momento di cambiamenti, non dobbiamo fermarci, non dobbiamo bloccare questa città. Dobbiamo farla rinascere. Tutti assieme».