domenica 22 giugno 2014

PEARL JAM A TRIESTE, IL ROCK CHE NON MUORE...

Alla faccia di chi periodicamente sentenzia che il rock è morto. Ore 20.51, una manciata di minuti in anticipo, c'è ancora luce, lo Stadio Rocco è un catino fiammeggiante. Escono i Pearl Jam, i primi accordi di chitarra riempiono la sera, la grande festa può aver avvio. Si parte con "Small town", roba di vent'anni fa. Poi "Low light" e "Black", sempre dagli anni Novanta, ma subito arriva "Sirens", uno dei brani più amati dal recentissimo "Lightining bolt". È la festa della musica, la festa dell’estate che comincia, la festa del grande rock che in realtà non muore mai. Funerale e necrologi possono attendere, fino a che in giro ci sono certi gruppi. L’attestato di esistenza e resistenza in vita è firmato in contemporanea dagli arzilli settantenni dei Rolling Stones che a seicento chilometri di distanza, a Roma, infiammano i sessantamila e rotti del Circo Massimo, ma anche dai nostri eroi di Seattle arrivati fino a Trieste: cinque ex ragazzi ormai anche loro attorno ai cinquanta (Eddie Vedder li compie a dicembre), che in quasi cinque lustri di carriera hanno scalato posizioni fino a insediarsi ormai da tempo in quell’olimpo del rock che accoglie solo i grandissimi. I trentamila del “Rocco”, di cui almeno 26mila arrivati da ogni dove (Slovenia, Croazia, Austria, Germania, Serbia, ma anche Ungheria, Grecia, Repubblica Ceca, persino Irlanda e Emirati Arabi, oltre ovviamente che dal resto d’Italia, visto che l’unica altra tappa era Milano), ne sono la prova vivente e rispondono all’appello. Palco spartano, quasi spoglio. Una specie di grande scatola aperta verso il pubblico, con dentro strumenti e amplificazione. Due maxi schermi rilanciano immagini in bianco e nero. Roba quasi da poveretti, se messa a confronto con certe megaproduzioni da guerre stellari che vengono portate in giro per il pianeta da artisti e gruppi che badano più alla forma che alla sostanza. Qui, con i ragazzacci che tanti anni fa hanno preso il nome dalla marmellata (jam) allucinogena a base di peyote amorevolmente confezionata dalla nonna (Pearl) di uno di loro, la sostanza c’è tutta. Si vede e si sente. Odora di sano e solido rock degli anni Settanta, trasgressivo al punto giusto, sapientemente innervato sulle radici grunge del loro debutto. E quando c’è la sostanza, non c’è bisogno di stupire il pubblico con effetti speciali. Basta la musica, basta il rock. Vedder, capelli corti e barbetta e camicia a quadrettoni, non è “solo” il cantante e chitarrista della band. Prima di incontrare i suoi soci era un piccolo benzinaio di provincia, con la passionaccia per la musica. Ora è l’anima, il deus ex machina, quasi una sorta di sciamano che dirige e conduce le danze. Un ruolo centrale, adeguatamente sorretto e supportato da quella gioiosa macchina da guerra musicale formata da Stone Gossard e Mike McCready alle chitarre, Jeff Ament al basso e Matt Cameron alla batteria, con il supporto di Boom Gaspar (sorta di “membro aggiunto”) all’organo Hammond. Nelle prime file un fan sventola una bandiera cilena. Eddie legge da un foglietto che a Milano ha bevuto troppo vino, che stasera non berrà (ha scelto il posto giusto), i "buuuh" del pubblico lo convincono almeno a un brindisi: alza la bottiglia e grida "Salute Trieste!". Poco dopo ricorderà il suo miglior amico scomparso da poco, e ad alzarsi verso il cielo sarà un collettivo "Hallo, John...". La notte è scesa sullo stadio, lo show prosegue. Ed è quello della maturità conquistata e difesa sul campo. Pesca altri brani dall’ultimo album “Lightning bolt” ("Infallible", "Mind your manners", "Getaway"...) già mandati a memoria dai fan, ma anche perle ormai d’annata, da un repertorio ultraventennale: album come “Ten” ("Why go" e "Even flow") e “Vs”, “Vitalogy” ("Corduroy") e “No code”, “Riot act” e “Backspacer” ("Got some") fanno ormai parte della miglior storia del rock. La loro miscela unisce i riff che infiammano gli stadi (per tanto tempo “evitati” dalla band, che preferiva spazi più raccolti) e quella rabbia, quella durezza, quella dolce incazzatura che ha marchiato i primi vagiti del grunge, dando la stura a quell’ondata musicale che partendo da Seattle ha rivitalizzato il rock a cavallo fra anni Ottanta e Novanta. In più, loro ci mettono sensibilità e impegno: impegno politico e a difesa dell’ambiente, un messaggio di speranza per il popolo del rock, tradizionalmente vicino a questi temi. Alcuni in questi ultimi anni hanno chiamato quei cinque ragazzi sul palco “i sopravvissuti”, o anche “quelli che non sono morti”, per rimarcare la differenza con quanti invece non ce l’hanno fatta, a partire da Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, suicida nel ’94, giusto vent’anni fa. In questi vent’anni e con sessanta milioni di dischi venduti, Vedder e compagni sono invece diventati delle superstar mondiali. Ha ragione Bruce Springsteen, che due anni fa infiammò questo stadio come e più dei Pearl Jam: «Sono uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di una musica essenziale. E di se stesso». Chiudiamo queste note prima della conclusione del concerto. Che a giudicare dai precedenti (le due date d’esordio di Amsterdam e la tappa milanese di venerdì sera), dovrebbe durare tre ore e superare dunque la mezzanotte. Oltre trenta brani in scaletta, per saziare la fame di musica e rock e buone vibrazioni del popolo dei trentamila che ha pacificamente invaso lo Stadio Rocco. Anche questa volta Trieste ha risposto bene, benissimo. Da matura città europea, aperta verso il futuro e la speranza. Futuro e speranza che passano soprattutto attraverso i ragazzi e dunque anche attraverso la loro musica. Quel rock che dopo sessant’anni non è morto, ma «vive e lotta assieme a noi», e il cui spirito originario sopravvive anche grazie all’estro e all’onestà di una band chiamata Pearl Jam.

PEARL JAM oggi a trieste, il "VEDDER PENSIERO"

Presto fa cinquant’anni. Sì, perchè Eddie Vedder - vero nome Edward Louis Severson III - è nato il 23 dicembre 1964 a Chicago. Cantante, leader e in qualche modo “anima” dei Pearl Jam, non ama rilasciare interviste. Dunque quando parla, è già una notizia. Nell’autunno scorso, in occasione dell’uscita di “Lightining bolt”, decimo album in studio della band di Seattle, anticipato dai singoli “Mind your manners” e “Sirens”, ha detto alcune cose. Da cui possiamo estrarre una sorta di “Vedder pensiero”. Dischi come figli. «Ogni volta che fai un nuovo disco è come ricaricare il fucile. È come stare dinanzi a una lavagna pulita. I dischi sono come i figli, ognuno ha la sua personalità. Sono sempre diversi anche se i genitori sono gli stessi. E i genitori fanno il possibile per farli venire su bene». Cambiamenti. «Cosa abbiamo imparato? In che modo siamo cambiati? Ce la stiamo prendendo comoda di questi tempi... Non facciamo molte prove e quando ci esibiamo in pubblico, lo facciamo solo per grossi concerti. In questo senso siamo veramente cambiati». L’anima delle canzoni. «Bisogna proteggere l’anima di una canzone. Non ci si deve fare influenzare dal fatto che poi la ascoltano milioni di persone. Quando si scrive un pezzo non è necessario pensare alle radio perché il solo pensarci sciupa la purezza del brano. Qualche volta viene fuori una canzone che non è di facile ascolto. Suonarla è bello ed è una sfida, ascoltarla è più difficile. Mentre la scrivi sai che quel pezzo verrà suonato solo due o tre volte durante il tour. Quando componi non devi pensare che vuoi scrivere una canzone che verrà suonata più spesso perché corri il rischio della semplificazione». Misteri della vita. «Quando compongo, quando scrivo i testi cerco sempre di trovare le risposte agli stessi misteri. Sono gli stessi misteri che ci tormentano da decenni. A volte ci interroghiamo sulla nostra esistenza, sullo scopo della vita e su cosa ci riserva il futuro». Quando diventi padre. «Quando diventi padre - dice Vedder, papà di due bambine - ti preoccupi di più. A me è successo. Questo sarà il loro mondo e che futuro le aspetta? Non ci sono abbastanza persone che difendono la natura. Le risorse del pianeta sono limitate. La gente sfrutta e spreca le risorse del pianeta senza alcun controllo e tra le multinazionali e la natura la battaglia è impari. Tutto il potere è dalla parte delle multinazionali. Possono fare quello che vogliono. Non le ferma nessuno».

PEARL JAM, oggi il concerto a TRIESTE

Oltre sessantamila ieri sera a San Siro, Milano; trentamila stasera allo Stadio Rocco, Trieste. Che sono rispettivamente il primo e il secondo stadio italiano che accolgono i Pearl Jam da protagonisti assoluti della serata. Da “headliner”, insomma, come si dice nel linguaggio dei concerti rock. Sì, perchè prima di ieri sera Eddie Vedder e compagni avevano suonato diverse volte in Italia, ma soltanto due negli stadi, nel luglio ’93, a Verona (il vostro cronista c’era...) e a Roma, da “semplici” supporter degli U2, nello “Zoo Tv Tour”, dunque non da protagonisti. Ieri a Milano, proprio come nelle due tappe d’apertura del tour europeo, pochi giorni fa ad Amsterdam, tre ore di grande musica e una scaletta di oltre trenta brani, tratti da un repertorio ormai classico e ultraventennale. Il tutto ovviamente condito da tanto entusiamo, sul palco, sul prato e nelle tribune. La band di Seattle ha proposto - e con ogni probabilità proporrà stasera - tutti i suoi maggiori successi, dagli esordi dei primi anni Novanta fino alle ultime cose. E dunque un ventaglio che va dal primo fortunato album “Ten” del 1991 (pubblicato in Italia nel febbraio ’92, dieci milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti e oltre dodici in tutto il mondo), fino al recente “Lightning bolt”, decimo capitolo in studio della loro discografia, pubblicato nell’ottobre scorso, già disco di platino in Italia. Non sono ovviamente mancati autentici classici come “Alive” e “Better man”, “Jeremy” e “Even flow”, “Just breath” e i più recenti “Sirens”, “Mind your manners”, nonchè la “Lightining bolt” che ha dato il titolo all’ultimo disco. Ancora una curiosità sul concerto milanese. Poco prima dell’inizio della partita dell’Italia con la Costa Rica, nel mezzo delle prove, Vedder è comparso sul palco con la maglia azzurra della nazionale italiana (per la precisione: la numero 10 di Antonio Cassano) e ha eseguito da solo il brano “Porch” per la gioia dei fan già presenti da ore, facendo il suo personale in bocca al lupo agli azzurri. Anche il campione del mondo 2006 Marco Materazzi era fra il pubblico, come hanno mostrato i Pearl Jam con una foto, anzi, un “selfie” scattato negli spogliatoi e poi pubblicato sui loro account Twitter e Instagram. Come sappiamo, maglia azzurra e Materazzi non hanno però portato fortuna alla squadra di Prandelli... L’Italia infatti ha perso ma hanno sicuramente vinto i Pearl Jam e il loro popolo. «Fintantochè riusciremo ad andare d'accordo almeno per una serata - ha detto Vedder dal palco di San Siro, prima di “Rocking in the free world” - noi vinceremo contro tutto...». A Milano apertura con “Release”, seguita da “Nothingman”, “Sirens”, “Black” e “Go”. Inizio di scaletta dunque completamente diverso dai concerti dei giorni scorsi ad Amsterdam, dove la prima sera i Pearl Jam hanno aperto con “Pendulum”, “Nothingman”, “Breakerfall” e “Corduroy”, e la seconda con “Hard to imagine”, “Elderly woman behind the counter in a small town”. Ogni sera una scaletta diversa, dunque, per la gioia dei fan più appassionati. Ma anche con la conseguenza di rendere praticamennte impossibile fare delle previsioni per domani sera. Nel concerto di ieri sera a San Siro, alla fine sono stati contati trentasei brani, che hanno pescato soprattutto da due album molto amati dal pubblico come “Vitalogy” e “No code”: fra “lati b” come “Sad” e perle soliste (“Setting forth”, dalla colonna sonora di “Into the wild”), fra chicche storiche (“Chloe dancer/Crown of thorns” dei Mother Love Bone) e cover inattese (“Let it go” dal cartoon Disney “Frozen”). C’è stato spazio anche per cinque brani da “Lightning bolt”, compresi ovviamente i singoli “Sirens” e “Mind your manners”. Ma sono stati soprattutto classici come “Black”, “Corduroy”, “Given to fly”, “Rearview mirror”, “Daughter”, “Jeremy”, “Better man” e “Alive” a infiammare gli oltre cinquantamila di San Siro. «Ho fatto tanti brutti sogni recentemente, così tanti che ora ho paura di chiudere gli occhi. Penso di aver letto troppi giornali. Ma ora che vedo tutti voi qui a Milano, è un grande sogno», ha detto Vedder ieri sera in italiano, lingua che evidentemente conosce abbastanza bene. Non tutti sanno infatti che entrambi i matrimoni della rockstar di Seattle sono legati al nostro Paese: Eddie ha infatti sposato la storica fidanzata Beth Liebling nel ’94 a Roma, in Campidoglio (divorzio nel 2000), mentre la seconda e attuale signora, la modella Jill McCormick, sposata nel 2000, l’ha conosciuta a Milano (la coppia ha due figlie: Olivia nata nel 2004 e Harper Moon Margaret nel 2008). Ma dopo tanta attesa, stasera lo Stadio Rocco sarà tutto per Eddie Vedder e compagni. Che sono Jeff Ament e Stone Gossard (i fondatori della band), Mike McCready e Matt Cameron, aiutati da Boom Gaspar (sorta di “membro aggiunto”) all’organo Hammond. Gli ultimi biglietti di tribuna centrale e laterale sono disponibili dalle 10 alle casse dello stadio. Cancelli aperti al pubblico dalle 16. Poi alle 21 tocca alla musica. La grande musica, il rock sanguigno dei Pearl Jam, i cinque ragazzi di Seattle che hanno scalato il mondo. Prossime tappe del tour: il 25 giugno a Vienna, il 26 a Berlino, e poi Svezia, Norvegia, Polonia, Belgio, Inghilterra.

sabato 21 giugno 2014

PEARL JAM, still alive, volume arcana sui testi

«So che sono nato e so che morirò / Quel che c’è in mezzo è mio/ Io sono mio / E il sentimento che resta indietro / Tutta l'innocenza persa in un momento/ Quel che importa dietro agli occhi / Non c'è bisogno di nasconderci / Siamo al sicuro questa notte...». Versi dal brano dei Pearl Jam “I am mine”, che fu il primo singolo estratto dall’album del 2002 “Riot act”. Da questi versi, citati in copertina, parte il libro “Pearl Jam. Still Alice. Testi Commentati” (Arcana, collana Txt, pagg 430, euro 19,50), di Simone Dotto, uscito proprio alla vigilia di questo breve tour italiano della band di Seattle. Il volume ripercorre la storia del quintetto, dalle origini nei primi anni Novanta al trionfale ritorno del recente album “Lighting bolt”, attraverso i testi di Eddie Vedder, da sempre leader, voce e primo autore del gruppo. Parole e versi intrisi di rabbia, dolori e delusioni della giovinezza. Ma riga dopo riga si colgono anche le ansie per un successo arrivato tutto sommato in fretta, all’inizio sfuggito e poi quasi accettato ma alle proprie condizioni. Spuntano anche quelle tentazioni eremitiche contro la vocazione politica di chi si ritrova, suo malgrado, a fare da megafono a un’intera generazione. Da ultimo, una sorta di sindrome del sopravvissuto. Sì, perchè - secondo l’autore - più che i santoni del grunge, i Pearl Jam sono “quelli che non sono morti”, che hanno proseguito sulla stessa strada, lasciandosi alle spalle i compagni di strada tragicamente caduti (Kurt Cobain, il leader dei Nirvana suicida nel 1994, è soltanto uno dei fantasmi che abitano il canzoniere vedderiano: ne parliamo più diffusamente qui sotto). Dunque inni alla vita ma anche amare riflessioni sulla morte. Due estremi che escono da un percorso sofferto ma coerente, che dicono molto del seguito planetario che la band di Seattle ha saputo conquistare in oltre un ventennio fra i giovani e meno giovani di mezzo mondo. «Rileggere le liriche dei Pearl Jam - scrive Simone Dotto nell’introduzione - lungo un’avventura lunga ormai quasi venticinque anni serve soprattutto a rendersi conto che gli integralisti del punk e del “do it yourself” avevano ragione eppure avevano torto. Che l’autonomia è qualcosa che va guadagnata nel tempo: non una dote innata ma un percorso di crescita. E dimostra che sì, mantenere la propria indipendenza quando si diventa grandi si può, ma quel che è più difficile è diventare indipendenti senza rinunciare a ciò che ti rende grande».

PEARL JAM, trieste pronta per la carica dei 30mila

Trentamila domani al concerto dei Pearl Jam allo Stadio Rocco, a Trieste, di cui 26mila in arrivo dal resto d’Italia e praticamente da mezza Europa. Soprattutto da Slovenia, Croazia, Austria, Germania, Serbia, Ungheria, Grecia, Repubblica Ceca. Insomma, si ripeterà il colpo d’occhio di due anni fa per Bruce Springsteen. E la novità dlle ultime ore è che sono sbucati fuori altri biglietti. Montato il mastodontico palco, gli organizzatori hanno potuto calcolare con maggiore precisione ingombri e visibilità. Dunque nuovi biglietti di tribuna centrale e laterale, disponibili da oggi su TicketOne e nei punti vendita autorizzati. Domani casse dello stadio aperte dalle 10, cancelli aperti al pubblico dalle 16. I Pearl Jam sono arrivati ieri in Italia con un aereo privato. Prima tappa Milano, stadio di San Siro, dove ieri sera hanno tenuto il primo dei due concerti previsti nel nostro Paese in questo tour mondiale, a quattro anni di distanza dal precedente show italiano. La band arriva a Trieste domani pomeriggio, poche ore prima del concerto, e ancora non si è capito se i musicisti dormiranno in città o proseguiranno nella notte alla volta di Vienna, dove mercoledì è prevista la successiva tappa del tour. Intanto, tutto è pronto (ne parliamo in un’altra pagina) per il grande show nel capoluogo giuliano, inaspettato protagonista di un’estate musicale coi controfiocchi (la prossima settimana arriva anche Manu Chao, poi John Fogerty, Ligabue, diversi altri...), grazie soprattutto alla rinnovata alleanza fra amministrazione comunale e Azalea Promotion, con il supporto non trascurabile della Regione. Una stagione di cui comunque i protagonisti assoluti saranno Eddie Vedder e compagni, proprio come lo erano stati Spingsteen nel 2012 e Green Day l’anno scorso. I Pearl Jam sono considerati gli “U2 del grunge” (e nel luglio ’93 fecero da supporter proprio alla band irlandese, nello Zoo Tv Tour, a Verona e a Roma...). Altri li chiamano “i sopravvissuti”, “quelli che non sono morti”, per rimarcare la differenza con quanti invece non ce l’hanno fatta, a partire da Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, suicida nel ’94, giusto vent’anni fa. In questi vent’anni, invece, Vedder e i suoi soci sono diventati delle superstar mondiali. Nati a Seattle nel ’90, in oltre vent’anni di carriera hanno venduto più di sessanta milioni di copie, di cui la metà negli Stati Uniti. Influenzati dal rock classico degli anni Settanta, a loro volta continuano a influenzare molti gruppi rock contemporanei. Nell’ottobre scorso hanno pubblicato “Lightning bolt”, subito balzato ai vertici delle classifiche negli States, in Canada, in Australia e in diversi paesi europei fra cui l’Italia. Per diverse settimane è stato numero uno della classifica di iTunes in ben cinquantasei paesi. Anticipato dal singolo “Sirens”, l’album è il decimo lavoro in studio della band, è arrivato a quattro anni di distanza dal precedente “Backspacer” (uscito nel 2009) e comprende dodici brani. In un alternarsi di ballate e brani punk-rock con gli inconfondibili “riff” di chitarra di Mike McCready e la personalissima voce di Eddie Vedder, cantante e leader rinosciuto della band. «Il fatto di pubblicare un disco in questo momento - ha detto in un’intervista Vedder, vero nome Edward Louis Severson III, nato il 23 dicembre 1964 a Chicago - è un po’ come una scossa che vogliamo dare all’intero sistema. Ci piace rimarcare che sappiamo essere traumatici». Il tour europeo, che arriva dopo le date negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda, è partito lunedì 16 giugno da Amsterdam (oltre tre ore di show, trenta brani in scaletta). Queste a Milano e a Trieste sono la seconda e la terza tappa. Poi vanno, come si diceva, il 25 giugno a Vienna, il 26 a Berlino, e dopo toccano Svezia, Norvegia, Polonia, Belgio e Inghilterra. Stasera alle 22, in attesa del concerto, all’Ausonia l’associazione “Trieste is rock” propone “Are you alive? (Pearl Jam opening act & jammer meeting point)”, con vari gruppi locali e non. Poi, domani sera, il palcoscenico sarà tutto per Vedder e compagni...

giovedì 19 giugno 2014

ASPETTANDO I PEARL JAM

Fra le iniziative collaterali al concerto dei Pearl Jam (domenica 22 giugno, stadio Rocco, già trentamila biglietti venduti, arrivi annunciati da mezza Europa oltyre che dal resto d’Italia) che verranno presentate oggi, spicca la serata della vigilia. Sabato 21 giugno l’associazione “Trieste is rock” propone all’Ausonia Beach Club, a partire dalle 22, la serata “Are you alive? (Pearl Jam opening act & jammer meeting point)”. Tre band in pista: Brazos Black Suit Trio, Bruzai, Elbow Strike. Ospiti, o “special guests” come si dice in questi casi, “Acoustic Pj Songs by” Andrea “Cipo” Belgrado, Dario Calandra & Stefano Alessandrini, Hernandez & Sampedro (da Ravenna). Ma vediamo le proposte nel dettaglio. Brazos Black Suit Trio è un giovanissimo quartetto rockabilly/blues (Bobby Brown chitarra e voce, Paul In armonica, Tramp Soul Simon contrabasso, Mathias Slim Butul batteria), animato dalla comune passione per artisti come Stray Cats, Eddie Cochran, Gene Vincent, Steve Ray Vaughan, Gov’t Mule, Almann Brothers, Sugar Blue. Oltre che a Trieste, hanno suonato in Slovenia al Rock Nations Festival di Divaccia e allo Snifferson Fest di Gorjansko. Nel loro primo “ep” ci sono tre brani: “Anche oggi niente Havana”, “Caffè” e “Kissin‘ walk”. E siamo ai Bruzai, attivi dalla fine degli anni Novanta, specializzati nella rilettura di classici del rock, pop e della new wave in chiave punk-rock. Pescano soprattutto nel repertorio di Rolling Stones, John Lennon, Talking Heads, Culture Club, David Bowie, Elvis Presley, Bruce Springsteen, Beatles. Con gli Elbow Strike, entriamo nell’universo del triestino Chris T Bradley, classe 1972, songwriter giramondo, madre inglese e padre italiano. “Planning great adventures” è il titolo dell’album, che ha per tema conduttore il mondo degli alieni: un pretesto per osservare gli umani da un punto di vista esterno e spingerli a un cambiamento. «Non istigo alla guerra e alle rivoluzioni violente - dice il musicista -, ma invoco alla rivoluzione come evoluzione». Info su www.triesteis rock.it e scrivendo a associazione.tsrock@gmail.com, oppure nella sede dell’associazione in Corso Italia 9 (lunedì e giovedì dalle 16 alle 18) e alla Libreria Minerva, in via San Nicolò (tel. 040 369340).

venerdì 13 giugno 2014

CARMASSI, un italiano con PAT METHENY, sab a Villa Manin

Dice Pat Metheny, che domani sera suona a Villa Manin per “Udin&Jazz 2014”: «La Unity Band che si è formata l'anno scorso era perfetta per me e rappresentava anche la connessione con i miei dischi precedenti. Ma dopo aver portato a termine un tour meraviglioso ci siamo chiesti: ora cosa facciamo? Volevo unire tutte le mie esperienze ma sentivo che mi mancava una figura: l'ho trovata nel polistrumentista Giulio Carmassi. Lui voleva essere il chitarrista ausiliario ma è bravo anche come pianista. Era perfetto per aggiungere una nota di colore e per regalarci ispirazione». Ancora Metheny: «È un musicista unico nel suo genere. Non avevo mai sentito nessuno suonare come lui. Un amico comune, il bassista Will Lee, un giorno mi ha chiamato raccontandomi che Giulio era venuto a un paio di miei concerti e che desiderava incontrarmi. Nelle mie band hanno trovato posto musicisti capaci di suonare un po' di tutto, credo che lui abbia immaginato di essere la persona giusta per il ruolo. Aveva ragione. Si è aggiunto al quartetto come una specie di “wild card” ed è come se le porte del nostro suono si fossero aperte». Ciliegina finale: «A parte il resto, Giulio è un pianista eccellente. Non esattamente un improvvisatore, anche se è bravo negli assolo non è quella la sua qualità principale: è un ottimo musicista che sa fare un sacco di cose diverse. Proprio quel che cercavo, dal momento che non avevo bisogno di un altro solista. È anche grazie a lui che mi sono sentito stimolato ad allargare la mia ispirazione». Ma sentiamolo, allora, questo musicista toscano assurto al palcoscenico internazionale. «Sono diventato amico di Will Lee tramite la figlia di Chuck Loeb - conferma Carmassi -, con la quale ho iniziato a suonare una volta trasferitomi a New York, dopo sei anni di Los Angeles. Una sera dopo un concerto con Lizzy ho ricevuto una mail da Don Dyza che mi raccomandava di entrare in contatto con Metheny, che stava cercando un polistrumentista. Will e la moglie lo hanno contattato per raccomandargli di vedere i miei video». Colpo di fulmine? «A Pat dev'essere piaciuto qualcosa di quel che ha visto perchè ha chiesto di incontrarmi. Sono un suo fan da quando avevo 12 anni, dopo aver comprato l’album “Watercolors”. Ci siamo incontrati varie volte, suonando, parlando, provando. Alla fine mi ha chiesto di entrare nel gruppo». È vero che si era proposto come chitarrista? «All'inizio pensavo che avrei fatto voce, seconda chitarra e fiati. Ma a lungo non mi era stato detto niente di preciso». Oltre a Metheny? «Suono in una band con Steve Gadd, Will Lee e Chuck Loeb. Ho arrangiato anni fa un disco per l'attrice Emmy Rossum. Suonato nel disco di “Hey Hello!”, una band che è arrivata al numero uno delle classifiche rock inglesi. Ho fatto la colonna sonora di un film con John Turturro e altre colonne sonore. Ho registrato con Oz Noy, Chuck Loeb, Will Lee, Akiko Yano, Keiko Marsui...». Come sta andando questo tour? «Molto bene. Pubblico caloroso e tutto esaurito quasi dovunque». Le sue origini musicali? «Sono cresciuto a Beatles e Elvis Presley. E poi Bruce Springsteen e Queen. Questo fino ai 10-11 anni. Poi ho scoperto il jazz: Chick Corea, Jarrett, Petrucciani, Bill Evans, lo stesso Metheny. E da lì ancora il “prog”: Emerson Lake and Palmer, King Crimson, Yes. Allo stesso tempo ho sempre avuto una passione per Lucio Dalla. E oggi anche per Niccolò Fabi, Capossela, Brunori Sas». Ha studiato musica? «Sono diplomato in pianoforte e autodidatta in tutti gli altri strumenti». Pianista classico ma anche tecnico del suono diplomato... «La mia vera passione è il suono. Prima ancora della performance. Il miei lavori ideali in musica sono il produttore, l'arrangiatore, il compositore. E allora imparare la tecnica di registrazione per me è stato un passo fondamentale per capire la musica moderna». Che musica ascolta? «Musica orchestrale e cantautori. Piero Ciampi, Leo Ferrè, Dalla, Fabi, Beth Orton, Morgan, Paul Simon, Pink Floyd. E poi Morricone, Nino Rota, le vecchie colonne sonore degli anni 50-60. Mina, la Vanoni». Prossimo progetto? «Sto lavorando a un disco di canzoni di musica cantautoriale e a un libro. E mi sto interessando alla musica popolare, alla canzone...».

martedì 10 giugno 2014

TRIESTE LOVES JAZZ con Scofield, Gnaorè, eastwood ...

C’è anche l’ottava edizione del festival TriesteLovesJazz, nella grande estate musicale triestina che sta per cominciare. Fra i Pearl Jam e Manu Chao, fra John Fogerty (Creedence Clearwater Revival) e Ligabue, fra Greg Lake (quello di Emerson Lake & Palmer) e David Jackson (Van der Graaf Generator) e gli altri che forse si aggiungeranno in extremis, un posto particolare lo prenota la piccola grande rassegna dedicata al genere afroamericano, proposta dalla rinnovata partnership fra Comune e Casa della musica. Anche qui, come per il Trieste Summer Rock Festival, i lavori sono ancora in corso ma qualcosa trapela. Tre nomi in mezzo ai tanti, italiani e stranieri, che animeranno la rassegna. Tre nomi che, senza nulla togliere agli altri che verranno annunciati nei prossimi giorni con l’intero programma, che giustificano da soli l’interesse per il collaudato appuntamento triestino. Giovedì 17 luglio concerto di Kyle Eastwood (Los Angeles, classe 1968), bassista e compositore di livello, figlio del grande Clint, per gli ultimi film del quale (“Mystic River”, “Million Dollar Baby”, “Flags of Our Fathers”, “Lettere da Iwo Jima”, “Gran Torino”, “Invictus”...) ha scritto le colonne sonore. “From There to Here”, “Paris Blue”, “Now”, “Metropolitain”, “Songs from the Chateau” sono i titoli dei suoi album solisti. Domenica 20 luglio tocca a Dobet Gnahorè, classe 1982, talentuosa artista della Costa d’Avorio, che arriva a Trieste dopo aver partecipato il 19 a Umbria Jazz. Cantante, danzatrice e percussionista dotata di una voce calda e possente, ha appena pubblicato il suo quarto album intitolato “Na Drê”. È considerata la nuova voce dell’Africa. Lunedì 28 luglio seratona con John Scofield, americano di Dayton, classe 1951, chitarrista fra i più importanti della scena jazz contemporanea, quest’estate in tour in Europa con la sua Uber Jam Band. Ha suonato con mezzo mondo: da Miles Davis a Gerry Mulligan, da Gary Burton a George Duke, da Billy Cobham a Pat Metheny. “A Moment's Peace” e “Überjam Deux” sono due dei suoi album più recenti. «Il festival - anticipa Gabriele Centis, patron della rassegna - comincerà il 14 luglio, dunque dopo i mondiali di calcio, e si concluderà il 31 luglio, con una ripresa il 16 agosto, una sorta di gran finale dell’edizione di quest’anno. Come sede confermiamo piazza Verdi, sorta di centralissimo “teatro all’aperto” che ha ben figurato negli anni scorsi, ma recuperiamo per alcuni appuntamenti più particolari la nostra vecchia sede di piazza Hortis, che ha ospitato le primissime edizioni di un festival che è cresciuto pian piano, ma ormai gode di un proprio prestigio anche a livello internazionale». Prestigio e notorietà che sono fatti anche di collaborazioni. «Sì, diverse e importanti - prosegue Centis -, per esempio con il Bohemian Jazz Festival, con Udine Jazz, con il Lubiana Jazz Festival, con la città di Graz. Con tutti sono previsti scambi e reciproco sostegno organizzativo e culturale». A partire, per il secondo anno consecutivo, proprio con lo storico festival jazz della vicina capitale slovena, che verrà presentato domani alle 10 nell’auditorium della Casa della musica. La rassegna, giunta alla 55a edizione, si terrà quest’anno da mercoledì 2 a sabato 5 luglio. L’edizione 2014 prevede interessanti proposte monografiche, dedicate in particolare al jazz pianistico e alle maggiori tendenze del jazz nordico, in particolare norvegese.

lunedì 9 giugno 2014

PAT METHENY sabato a villa manin, udine

Non c’è due senza tre. Pat Metheny torna infatti per la terza volta a “Udine&Jazz”, il festival che giunge quest’anno alla 24a edizione. Stavolta addirittura un debutto. Il chitarrista statunitense aprirà infatti sabato alle 21.30, a Villa Manin, assieme alla sua “Unity band”, il nuovo tour italiano. Metheny (classe 1954, originario del Missouri) suona mercoledì a Londra, dopo il debutto friulano sarà il 15 a Tortona, il 16 a Firenze, il 18 a Roma, il 19 ad Avellino, il 20 a Bari, il 21 a San Marino, il 22 a Gardone Riviera. Luglio in giro fra Spagna, Francia e Stati Uniti, poi un’altra data relativamente vicina: il 6 agosto a Vienna. Il chitarrista - alle spalle una carriera quasi quarantennale, cominciata nel ’77 con il Pat Metheny Group, che lo ha portato a dominare il panorama jazz internazionale - ha pubblicato da poco l’album “Kin”, registrato l’estate scorsa a New York, nel quale la sua “Unity Band” (composta dal sassofonista Chris Potter, dal batterista Antonio Sanchez e dal contrabbassista Ben Williams) si è arricchita di un nuovo elemento, il trentaduenne polistrumentista toscano Giulio Carmassi. «Dopo cento concerti - ha detto l’artista, che ha vinto recentemente il suo ventesimo Grammy Award - l’anno scorso ci siamo ritrovati a voler ancora andare avanti. L’idea di dover smettere ci metteva tristezza. La sfida consisteva nel decidere che direzione prendere. La mia sensazione era che la band avesse un tale potenziale da poter fare qualsiasi cosa, il mio desiderio era di mettere sotto un unico tetto tutte le esperienze musicali che avevo fatto negli ultimi anni». Ancora Metheny: «In questo tour ci diamo per forza una disciplina. Ma se fai le cose per bene le due componenti, struttura e improvvisazione, si amplificano a vicenda. Si tratta di affidare ai musicisti un tema, un canovaccio, e in quell'ambito di lasciargli carta bianca. Se qualcuno si fa prendere dall'entusiamo e va fuori tema, lo fermo. Le restrizioni ci sono sempre, e sono salutari: io stesso, quando lavoro su progetti altrui, amo avere dei limiti e dei temi a cui attenermi». «Di una cosa del genere, con i miei musicisti, non c'è neppure bisogno di parlarne. Chris lo capisce benissimo, essendo un compositore. E anche Antonio è un musicista molto evoluto. Ci comprendiamo al volo, e quando suoni con musicisti di questo livello sono loro stessi a sottolineare sfumature della composizione di cui non eri nemmeno consapevole. Il motivo, il tema del brano, diventa un trampolino da cui lanciarsi: più energia ci metti, più in alto rimbalzi. Ogni musicista, sul palco, cerca l'incrocio magico tra il suo desiderio di raccontare una storia e le variabili di quel momento specifico: l'ambiente, il repertorio, l'acustica della sala, la reazione del pubblico». Dopo Metheny, “Udin&Jazz prosegue a luglio con il batterista Jack DeJohnette, l’ex Weather Report Peter Erskine (in trio con Marcotulli e Danielsson), il duo Brad Mehldau e Mark Guiliana, il Crimson ProjeKCt (laboratorio musicale sulla scia dei King Crimson, ma senza Robert Fripp).

domenica 8 giugno 2014

TRIESTE SUMMER ROCK FESTIVAL: DAVID JACKSON, GREG LAKE, etc...

Il Trieste Summer Rock Festival ricomincia dall’undicesima edizione, che si svolgerà con ogni probabilità l’8, il 9 e il 13 agosto, nella collaudata e centralissima cornice di piazza Verdi, sempre a cura dell’associazione Musica libera di Davide Casali. Il cast è ancora “in progress”, ma qualche anticipazione trapela. Già sicura innanzitutto la partecipazione di David Jackson, storico sassofonista dei Van der Graaf Generator, già visto a Trieste alcune estati fa assieme ai napoletani Osanna, sul palconescenico di piazza Unità, sempre per la rassegna Trieste Summer Rock Festival. Nel concerto triestino David Jackson (inglese di Stamford, classe 1947) si esibirà assieme agli italiani della Alex Carpani band, con cui collabora da un paio d’anni, tenendo tour sia in Europa che negli Stati Uniti. Quasi sicura anche la presenza di Greg Lake, leggendario bassista del trio Emerson Lake & Palmer, che si esibirà con la sua nuova band. E manca solo la firma sul contratto per un gruppo rock triestino che gode da anni di un buon successo internazionale. Purtroppo del cast non faranno parte i nuovi Area, con i quali c’erano stati dei contatti che purtroppo non hanno avuto buon esito per un problema di date. L’anno scorso, il Trieste Summer Rock Festival ha rischiato di chiudere baracca e burattini proprio in occasione della decima edizione. Che poi si è tenuta in extremis, nei giorni prima di Ferragosto, in “edizione ridotta”: una serata con le immarcescibili Orme, gruppo storico del pop italiano di quaranta e più anni fa, la cui nobile sigla viene ora utilizzata dal batterista Miche Dei Rossi con giovani collaboratori; e una seconda serata dedicata ai gruppi locali, nell’occasione i Coloured Sweat e i Disequazione. Quest’anno si ritorna alle tre serate e si conferma la sede di piazza Verdi, dopo alcune edizioni a San Giusto che non avevano riscosso lo stesso successo di pubblico toccato alle annate iniziali, che si erano svolte in piazza Unità. Cioè a due passi da quella piazza Verdi che anche quest’estate risuonerà di buona musica. «Negli anni passati - ricorda il patron del festival Davide Casali - abbiamo portato a Trieste gruppi e artisti come Pfm, Banco, Osanna, New Trolls, Steve Hackett, Carl Palmer, Ian Paice, Gong, gli stessi Van der Graaf Generator... Certo, erano altri tempi, nei quali potevamo contare su vari contributi pubblici». Ancora Casali: «Capisco che la situazione è profondamente mutata, e anche quest’anno ci troviamo a combattere contro la crisi economica. Ma l’anno scorso abbiamo rischiato di chiudere, possiamo ringraziare il sindaco Cosolini se ciò non è avvenuto. Quest’anno ripartiamo con rinnovato entusiasmo, certi del consenso del pubblico...».

lunedì 2 giugno 2014

ALTAN, quando una vignetta vale più di un editoriale / su ARTICOLO 21

di Carlo Muscatello* Più sintetico di un tweet, più lucido e corrosivo delle più lucide e corrosive penne del giornalismo italiano. Così è Altan (all'anagrafe Francesco Tullio Altan, nato a Treviso nel 1942, vive da molti anni ad Aquileia, nella campagna friulana), le cui vignette sono quasi sempre meglio di tanti prolissi e spesso noiosi editoriali. Un vero cronista dell'immagine, del disegno. Capace di intuizioni fulminanti ma anche di sintesi sublimi. Una delle ultime su Repubblica: "Dall'Europa ci richiedono di rifare i conti. Ma che pidocchiosi insensibili". Qualche altro esempio recente: "Sbagliato o sbagliato, è il mio paese". "Campagna elettorale palpitante. Meglio di un combattimento di cani". "E l'Expo? Un complotto per favorire Grillo". Perle di alcuni anni fa, che non perdono freschezza: “Uno nasce e poi muore. Il resto sono solo chiacchiere". "La solita merda? Sì, ma poca, che sono a dieta". Qualche classico già consegnato agli annali: "Adesso scrivo le mie solite cazzate, come faccio fin da tempi non sospetti". "L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro? Una volta, quando era giovane". "Questi sono i libri che mi hanno formato. Temo di aver trascurato le note, visto il risultato". Si potrebbe proseguire a lungo, visto che è dal 1974 - giusto quarant'anni fa - che Altan crea battute, collaborando come fumettista (ma sarebbe meglio dire "editorialista per immagini", "cronista del disegno"...) a vari giornali italiani. Linus (dove debuttò con Trino, un dio confuso che lavorava per conto di un commendatore: le dò sei giorni per creare il mondo, il settimo si riposerà...), Corriere dei Piccoli (sul quale nacque la sua Pimpa, la cagnolina a pois rossi inventata per la figlia, cui seguirono per i bambini le storie di Kamillo Kromo), prima Panorama e poi Espresso, da tempo Repubblica. E anche quest'anno, a "Repubblica delle Idee" (la cui terza edizione si terrà dal 5 all'8 giugno a Napoli), saranno proprio le sue vignette a "firmare" i quattro giorni di dibattiti, interviste, laboratori, mostre, spettacoli... Dall'operaio Cipputi al "Banana" Berlusconi, passando per certe sensuali figure femminili e il ghigno truce di certi uomini di potere e di panza, Altan coglie meglio di tanti altri il nostro mal di vivere, la nostra quotidianità malinconica, il disincanto e la disillusione delle nostre passate passioni politiche. Una penna velenosissima quando fustiga i potenti ma anche i nostri normalissimi costumi, un tocco dalla tenerezza infinita quando disegna per i più piccoli. Un cronista dell'immagine e del disegno dal quale l'autoreferenziale giornalismo italiano avrebbe davvero molto da imparare. Quando nel 2001 gli venne assegnato il premio "È giornalismo", Giorgio Bocca ed Enzo Biagi argomentarono così a nome della giuria: «Perché le sue vignette, con una capacità di informazione e una sintesi straordinarie, assumono un’importanza non inferiore a un articolo di fondo». Appunto. *giornalista del "Piccolo" di Trieste, presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia