martedì 28 febbraio 2012

NUOVO ROCK INGLESE AL TEATRO MIELA, TRIESTE

Avete presente il brano “Waitin’ so long”? Forse il titolo non vi dirà nulla, a meno che non siate dei fan di Nick Pride e dei suoi Pimptones. Ma se lo ascoltate, beh, riconoscerete senz’altro questo mezzo tormentone che stava nella colonna sonora di “Lezioni di cioccolato 2” ed è poi stato letteralmente adottato dalla trasmissione “Popcorner”, di RadioDue.
Ne parliamo perchè l’artista e il gruppo in questione saranno fra i protagonisti della mini-rassegna che il Teatro Miela ha allestito per il mese di marzo, dedicandola alle ultime novità inglesi in fatto di nuovi suoni soul, ma anche groove e “dancefloor jazz” (termine che sta a indicare un contenitore nel quale convivono, senza barriere, vari generi popolari nati dalla musica afroamericana: dal blues al jazz, dal soul al funky, fino alla disco e alla house).
Vediamo allora i nomi. Si comincia domani con Lewis Floyd Henry, si prosegue venerdì 16 marzo con Nick Pride e i suoi Pimptones, conclusione venerdì 23 marzo con Ghostpoet.
Nell’ordine. Lewis Floyd Henry risponde ai canoni del classico “onemanband” inglese. Ha cominciato a far conoscere la sua musica per strada, come tanti, nelle stazioni della metropolitana e nelle vie londinesi. Sul suo carrettino c’era posto per un piccolo amplificatore, la sua chitarra e una spartana batteria. La gente che si fermava ad ascoltarlo lo ha poi ritrovato “on line”, visto che viviamo gli anni di internet e dei social network. “One Man & His 30 Pram” è il suo primo disco, prodotto da Ferg Peterkin (già con Depeche Mode e The Horrors), salutato così dalla critica musicale: un album che lascia il segno, uno dei dischi più veri dell’annata, un musicista di strada azzanna il futuro e incide un (bel) disco, un incrocio fra Hendrix, Robert Johnson e Wu-Tang-Clan...
Secondo nome, già introdotto all’inizio: Nick Pride e i Pimptones arrivano da Newcastle. Si sono fatti conoscere suonando nei migliori club, oltre che della loro città, di Londra, Leeds e Birmingham. In Italia il loro citato singolo “Waitin’ so long” è uscito nel 2010 sull’etichetta milanese “Record Kicks” e, come si diceva, li ha imposti all’attenzione anche del pubblico di casa nostra. Dal vivo propongono dei set assolutamente da non perdere, con sei musicisti sul palco.
Ultimo, ma non ultimo, Ghostpoet. Forse il meno noto fra i protagonisti di questa mini-rassegna. “Peanut Butter Blues & Melancholy Jam” è il titolo del suo album uscito l’anno scorso, che ci ha fatto conoscere questo strano poeta stralunato, dalla voce a tratti ubriaca, che trascina l’ascoltatore in atmosfere notturne e maledette, fra l’elettronica e l’hip hop.
«Siamo sempre attenti a spaziare nei territori musicali e in quelli geografici - dice Fabrizio Comel, curatore della rassegna -. In questo caso sono capitate delle offerte dal panorama inglese e abbiamo scelto delle novità che si sono fatte conoscere grazie ai loro “live-acts” e grazie alle loro primissime uscite discografiche. Cose fresche fresche e grossa curiosità, come tutte le volte che portiamo per la prima volta delle musiche che pensiamo possano avere un “futuro”, piuttosto che un passato, glorioso... Delle volte ci indoviniamo ed è una soddisfazione».

mercoledì 22 febbraio 2012

QUANDO IL DISAGIO TI SFIORA, STORIE DALLE MICROAREE DI TS

Storie di povera gente. Storie di malattia e disagio non necessariamente mentale, ma anche “semplicemente” umano, sociale, economico. Storie disperate che a volte trovano piccoli, angusti spazi fra le pieghe della cronaca nera di questo come di mille altri giornali, ma che ora acquistano dignità di racconto e di testimonianza grazie al “Laboratorio di comunicazione” curato dalla psicologa Giovanna Gallio. Ne sono venuti fuori dieci fascicoli, messi assieme sarebbero un libro, pubblicati a Trieste nell’ambito del “Progetto fare salute” dell'Enaip Fvg e dall'Azienda sanitaria. Un progetto che si propone di raccontare, attraverso la voce e le testimonianze dirette dei protagonisti, «la pratica medica dei Distretti e delle Microaree, nella sfida che da anni, a Trieste, impegna gli operatori a sviluppare una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali». Che sarebbe poi come dire: intervenire nel più profondo del tessuto sociale di una comunità, integrando l’azione di chi - servizi sociali e sanitari, ma anche scuole, parrocchie, volontariato, società sportive, semplici cittadini - è presente sul territorio. E magari non è abituato a voltarsi dall’altra parte quando vede una persona che soffre, che ha dei problemi. Tante volte affrontabili, gestibili e spesso risolvibili senza il ricovero ospedaliero. L’idea da cui l’esperienza è partita è dunque quella di aprire un laboratorio «per sperimentare nuovi metodi di racconto della malattia, al fine di informare, descrivere, rappresentare i contenuti e le metodologie dell’intervento territoriale. Ricostruendo la storia di singoli casi, stabilendo confronti tra il linguaggio delle procedure sanitarie e la complessità delle pratiche, vengono evidenziati aspetti specifici che differenziano la “medicina di comunità” da quella ospedaliera». Ecco allora emergere le tante vicende raccolte da quell’osservatorio assolutamente particolare che è la sala operativa del 118 (“Storie dall’emergenza”). La storia del camerunense gravemente malato di Hiv (“Il paziente Amadou”), arrivato a Trieste in condizioni fisiche assai preoccupanti, e che aveva bisogno di un aiuto non solo sanitario. Il caso di un paziente al quale era stato diagnosticato il diabete in uno stadio particolarmente avanzato, ma che al momento delle dimissioni dall’ospedale non era in grado di badare a se stesso, e alla sua malattia, per problemi di solitudine, depressione, dipendenza da alcol, anoressia (“La malattia del signor Walt”). «La raccolta di materiali orali, così come l’elaborazione dei testi, serve - scrive la curatrice - a documentare il grado di coinvolgimento dei diversi attori: da un lato la dimensione affettiva del lavoro di cura (l’intensità e la frequenza dei contatti, le relazioni ravvicinate fra operatore e utente); dall’altro i dubbi e le scoperte, le incertezze e i conflitti come punti di forza di un intervento basato sul continuo confronto e sulla negoziazione; dall’altro ancora gli aspetti co-evolutivi di un sistema d’intervento protratto nel tempo, e l’importanza che assume la capacità e il potere degli operatori di esplorare i differenti contesti, tenendo conto di numerose variabili, determinanti di salute». Ancora Giovanna Gallio: «Soprattutto il racconto mostra gli interni delle case, le strade e i quartieri, gli spaccati di vita delle persone che, ammalandosi di una malattia grave, possono assumere un ruolo attivo o passivo, interpretando in modi diversi il cambiamento loro richiesto, di stili di vita e traiettorie della cura». Altro fascicolo, altra storia, altro dramma. La vicenda umana assai emblematica di una donna, cui il destino sembra aver voluto riservare, sempre e comunque, la parte peggiore della vita. Ne “I silenzi di Edda” (fascicolo “Storie di donne”), sbattiamo infatti contro la storia di una donna cui in passato erano stati diagnosticati dei disturbi psichiatrici e che era stata seguita per diverso tempo dai Centri di salute mentale triestini. Ma il suo male, forse, era cominciato molti anni prima innanzitutto con le botte subite dal marito, per concludersi molti anni dopo con il tumore all’utero che l’ha portata pian piano a spegnersi. Fra le violenze casalinghe, subite anche quando la coppia aveva avuto un figlio, e l’insorgere della malattia, la donna aveva trovato però il coraggio «di ribellarsi e andarsene di casa, lasciando anche il figlio, un bambino di otto o nove anni. Non avendo denaro né un luogo dove recarsi, era vissuta a lungo nei pressi della stazione ferroviaria, trovando rifugio di notte sui treni, mentre di giorno per guadagnare un po’ di soldi faceva la donna delle pulizie». Seguono l’intervento dei servizi assistenziali del Comune e di quelli dell’Azienda sanitaria, un piccolo alloggio (che Edda teneva sempre tirato a lucido, anche quando il male avanzava...) ottenuto dall’Ater nel rione di Ponziana grazie all’intervento della Microarea competente per territorio, il rifiuto del ricovero in ospedale quando il male affronta la curva terminale, l’incontro con il figlio ormai adulto (il padre violento nel frattempo è morto) che ritrova dopo tanti anni la madre e sceglie di assisterla fino all’ultimo... Una storia commovente, come tante altre raccontate nell’opera, tutte avvenute a Trieste, in questi ultimi anni, mentre ognuno di noi era sicuramente e legittimamente impegnato a fare qualcos’altro. Storie di cui la città - operatori sociali e sanitari ovviamente a parte - non si è praticamente accorta, ma che forse hanno pari o addirittura maggiore dignità di altre assurte agli onori della cronaca. --- I fascicoli curati da Giovanna Gallio nascono dalle attività del progetto “Microaree, salute e sviluppo della comunità”, avviato dal 2005 dal Comune di Trieste, dall’Azienda sanitaria locale e dall’Ater per l’integrazione dei rispettivi interventi e servizi. In quest’ambito tre enti pubblici si propongono di intervenire, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, con azioni coerenti e organiche in cinque settori: sanità, educazione, habitat, lavoro e democrazia locale. «Il fine è la promozione di benessere e coesione sociale - spiega Maria Grazia Cogliati, coordinatrice sociosanitaria di Ass1 -. Le aree triestine interessate dal programma sono Valmaura, Giarizzole, via Grego, San Giovanni, Melara, Gretta/Roiano, Ponziana, San Giacomo/Vaticano e Città Vecchia: interessano circa 15.000 persone».

GIAN ANTONIO STELLA

«Anni fa D’Alema disse che i costi della politica sono un’invenzione di giornalisti sfaccendati. A parte che Sergio Rizzo ed io lavoriamo dieci ore al giorno, comunque la nostra è una battaglia civile. Bisogna riportare la sobrietà nella politica. Il governo Monti ci sta provando».
Parole di Gian Antonio Stella, che ieri in un affollatissimo Circolo della Stampa ha parlato di “Questa politica che non sa (non vuole) tagliare i suoi costi”, nell’ambito del ciclo “Informazione da scoprire - Incontri con i protagonisti della professione”, organizzato da Assostampa Fvg e Circolo della Stampa.
Il giornalista e scrittore, quattro anni dopo “La casta”, è partito dalle decine di imitazioni che sono state fatte di quel libro, poi diventato un marchio di successo: «Con quel titolo hanno fatto persino un pornofilm...».
Ma in questi anni i tagli sono stati fatti “per finta” e non è cambiata nemmeno quell’infame leggina che permette di detrarre molto più per una donazione a un partito che per una donazione a una onlus che, per esempio, cura la leucemia dei bambini.
I veri tagli sono stati fatti al Fondo per le politiche sociali, a quello per gli affitti delle famiglie povere, a quelli per il rischio idrogeologico (meno 84%, e abbiamo visto i risultati), ovviamente all’istruzione (meno 38% nel solo 2011) e alla cultura: meno 50% secco in dieci anni. Nel frattempo i rimborsi elettorali sono aumentati del 1.110%, le spese della Camera del 360%, quelle del Senato 370%.
E poi vai con in canoni d’affitto che la Camera spende per vari palazzi nel centro di Roma: nell’83 l’equivalente di 868mila euro attuali, oggi 35 milioni e mezzo di euro, qualcosa come quarantuno volte in più. Vai con l’impietoso confronto fra spese pubbliche in Italia e all’estero, fra stipendi e vitalizi fra politici italiani e stranieri.
Qualche esempio? Il governatore del Molise guadagna più di quello dello Stato di New York, il consigliere regionale Renzo “Trota” Bossi guadagna quanto tre governatori di stati americani, la Merkel incassa meno dell’assessore alla sanità di Bolzano.
Il magna-magna funziona a destra come a sinistra, a Nord come a Sud, in Sicilia come in Trentino Alto Adige. «Qui in Friuli Venezia Giulia - ha detto Stella - state un po’ meglio, anche se l’indecoroso caso Ballaman ha mostrato anche a voi cos’è diventata la Lega, altro che predicozzi...».
Gran parte dei casi citati sono tratti dal suo nuovo libro “Licenziare i padreterni”, scritto ancora con Sergio Rizzo. «La frase del titolo - ha ricordato - l’abbiamo presa da un articolo che Luigi Einaudi pubblicò nel 1919 sul Corriere della Sera, contro una parte dei governanti di allora. Perchè è chiaro: allora come oggi non sono tutti uguali. Ma la verità è che gli elettori devono essere più esigenti con i loro eletti...».
Spontanea, alla fine, una domanda: ma un cambiamento è possibile? Per rispondere Gian Antonio Stella coniuga speranza e ironia, facendo partire un “file” dal suo computer. Sullo schermo appare la faccia spiritata di Gene Wilder nel film “Frankenstein Junior”. E dall’audio parte l’urlo: «Si-può-fare...!».

domenica 19 febbraio 2012

SANREMO il giorno dopo

Nell’anno di Celentano, abbiamo dovuto aspettare Geppi Cucciari e l’una di notte dell’ultima serata, al 62.o Festival di Sanremo finalmente andato in archivio, per sentire parole in sintonia con la realtà. Le ha dette la trentottenne comica e conduttrice sarda, che nei suoi pochi e brucianti interventi ha rivitalizzato la finale di uno dei Festival più mosci degli ultimi tempi.
Prima uscita: «Ho capito che su questo palco bisogna stare senza qualcosa, quindi io mi sono tolta le scarpe. Volevo tatuarmi anch’io una farfallina, ma bisogna stare attenti che poi con gli anni non diventi uno pterodattilo». Sistemata Belen, simbolo di un certo modo di intedere la donna in tivù.
Seconda staffilata: «Io non ho niente contro Gianni Morandi, io ho tanti amici Gianni Morandi». Sistemato anche il sessantasettenne ex ragazzo di Monghidoro, scivolato sulla sciocca gag dei “Soliti idioti” (di nome e di fatto). Perchè certe volte è meglio tacere, e invece Morandi ha peggiorato una situazione già penosa e imbarazzante.
Ma il top è arrivato, come si diceva, poco prima di chiudere. Cucciari ha ricordato agli italiani che da quattro mesi c’è una nostra cooperante, Rossella Urru, ostaggio di Al Qaeda, di cui i media italiani non parlano. E sono queste, ha aggiunto, le donne di cui vorremmo sentir parlare di più.
Con garbo e ironia, la signora ci ha ricordato che anche a Sanremo è possibile parlare di cose serie, senza per questo dover salire sul pulpito, fare predicozzi e lanciare insulti.
Parliamo di musica, che in fondo questo dovrebbe essere pur sempre il Festival della canzone italiana. Emma ha vinto con un brano di moderno pop italiano, “Non è l’inferno”, per la verità più debole di quello dell’anno scorso, arrivato secondo perchè sulla sua strada c’era un certo Roberto Vecchioni. Parlare di realtà, di crisi, di gente che non arriva alla fine del mese, sposare l’impegno alla canzonetta non è di per sé garanzia di qualità. Ne è venuto fuori un polpettone retorico, premiato dalle giurie e dal voto popolare soprattutto per la grinta e la potenza interpretativa della cantante pugliese. Cui una bella spinta è stata data, nella sera dei duetti italiani, da un’altra vincitrice di “Amici”: Alessandra Amoroso.
Meglio la canzone e l’interpretazione di Arisa, che si è finalmente scrollata di dosso l’immagine quasi fumettesca del suo esordio, tre anni fa, sul palco dell’Ariston. Quella volta, ad accompagnare il suo trionfo fra i giovani con “Sincerità”, c’era al pianoforte il compianto Lelio Luttazzi. Stavolta, in cabina di regia, c’era Mauro Pagani. E ne “La notte” il tocco dell’ex Pfm si è sentito, in un esempio di canzone d’autore raffinata, ben orchestrata e meglio cantata.
Buono il terzo posto di Noemi con “Sono solo parole”, confermato nel voto finale dopo che la “golden share” della sala stampa le aveva permesso di scalzare dal provvisorio podio la strada coppia D’Alessio e Bertè (a proposito: memorabile la versione dance della loro “Respirare”, venerdì sera, con il cantante napoletano in versione Village People e la sorella di Mia Martini costretta dalle precarie condizioni vocali a un playback che le ha fatto rischiare l’eliminazione...). La cantante romana ha sbagliato solo una cosa: la tinta rosso fuoco dei capelli. Per il resto, perfetta. Brano pop rock, voce roca, interpretazione “bluesy”. Meritava la vittoria, ma si rifarà nelle classifiche e nel gradimento della “ggente”.
Qualche rammarico per il mancato piazzamento di Nina Zilli, interprete e personaggio dalle potenzialità notevoli: la sua “Per sempre” ha il respiro di certe belle canzoni di Mina, ma evidentemente non ha avuto la forza di arrivare al pubblico come avrebbe meritato. E qualcosa non ha funzionato anche nella “Nanì” di Pierdavide Carone, supportato da Lucio Dalla: ballata all’antica, d’accordo, ma comunque di spessore e qualità.
Il resto è notte. E anche i Marlene Kuntz, colonna del rock italiano, sarebbero passati inosservati se non avessero avuto l’enorme merito di portare al Festival, della serata dei duetti internazionali, quella leggenda vivente che risponde al nome di Patti Smith.
Concluso Sanremo, mai come quest’anno le prospettive per il futuro sono assolutamente incerte. Il Festival - proprio come la Rai, servizio pubblico allo sbando - andrebbe rifondato. O se preferite chiuso, per “ricordarlo com’era”.
Invece, con ogni probabilità, dopo l’addio di Gianni Morandi e del direttore artistico Gianmarco Mazzi (e magari del direttore di Raiuno Mauro Mazza), verrà affidato alle cure di Maria De Filippi, nota per trasformare in oro tutto quel che tocca (tranne ovviamente il marito, Maurizio Costanzo, ricco già di suo).
Tre delle ultime quattro edizioni del Festival sono state vinte da ragazzi usciti dal suo talent show “Amici”: Marco Carta nel 2009, Valerio Scanu nel 2010 (fra l’altro con una canzone proprio di Pierdavide Carone, meno fortunato quest’anno), ora Emma Marrone. Con un pedigree del genere, vedrete che i prossimi capi della Rai le chiederanno “di sacrificarsi”.
Da ultimo, la parola alla fresca vincitrice: «Se si viene fuori da “Amici” o da una cantina, se hai un fuoco dentro, se devi sfondare sfondi. I “talent” sono uno scudo per non accettare l’evidenza che, al di fuori delle telecamere, ci sono artisti come tanti altri. Se uno è forte è forte e arriva alla gente. A decidere è la gente, quella che viene ai concerti e che compra la musica. Non nascondiamoci più dietro a questi schemi: ci siamo e non possiamo scomparire».
È una promessa o una minaccia?

SANREMO Celentano

Dopo il casino combinato la prima sera, Celentano pensa bene di correggere il tiro. E puntare soprattutto sulla musica, la cosa che sa fare meglio. Appare sul palco dell’Ariston alle 22.40, con mezz’ora di ritardo sull’orario previsto, accettando la richiesta della Rai per consentire ai cantanti in gara di esibirsi nella stessa fascia oraria. Forse un gesto distensivo, dopo “l’avvertimento” del direttore generale Lei.
Attacca con “Thirteen women”, un rock’n’roll nel suo tradizionale inglese mezzo vero e mezzo inventato. Poi, fra gli applausi del pubblico, riparte col sermone, ma meno aggressivo: «La coalizione dei media si è coalizzata in massa contro di me, neanche avessi fatto un colpo di stato. Fra i 4/5 che mi hanno difeso, mi ha colpito la voce di un prete, don Mario. Grazie, tu hai capito ciò che i vescovi hanno fatto finta di non capire. Persino Travaglio, che sembrava aver capito, ha deciso di affondare il coltello nella piaga, non la mia, la vostra, perchè vi impediscono di capire».
Ancora Celentano: «Per non farvi capire, dal contesto del mio discorso estrapolano una frase, ma io sono venuto qui per parlare del significato della vita, della morte, e soprattutto di quel che viene dopo. E dunque della grande fortuna che noi tutti abbiamo avuto nell’essere nati e dunque divertirci a fantasticare su dove e come sarà il paradiso».
Poi avanti, tentando fra l’altro di chiarire quanto detto martedì sull’Avvenire e Famiglia Cristiana. Dal pubblico, in mezzo agli applausi, anche qualche contestazione. C’è chi grida “basta!”, lui ribatte: «Almeno aspettate di sentire quel che dico, magari ci può essere qualcosa di interessante». E avanti a dirci quel che dovrebbero fare i giornali cattolici, cioè «spiegare e far rivivere la figura di Gesù. E adesso potete fischiare». Partono invece gli applausi, ma anche un urlo: “Predicatore...”.
Riecco la musica. Con l’annunciata “Cumbia di chi cambia”, quella che dice: «I funzionari dello stato italiano si fanno prendere spesso la mano, inizian bene e finiscono male, capita spesso che li trovi a rubare».
E ancora: «Non sono mai stato un qualunquista, quelli che dicono che sono tutti uguali, quella non è la mia maniera di pensare, però lo ammetto certe volte l’ho pensato, i funzionari dello stato sembrano spesso personaggi da vetrina, sotto alla luce sono belli ed invitanti, quando li scarti ti accorgi che eran finti».
Due parole con Morandi, che lo ringrazia. Poi i due vecchi amici (si conoscono dal ’62) cantano assieme “Ti penso e cambia il mondo”. Gianni si commuove. Pubblicità. E pericolo scampato.

SANREMO, ha vinto EMMA

Emma con “Non è l’inferno” ha vinto il 62.o Festival di Sanremo. Seconda Arisa con “La notte”, terza Noemi con “Sono solo parole”. Podio dunque tutto al femminile, dopo che la “golden share” della sala stampa ha fatto salire Noemi e scendere al quarto posto la coppia Gigi D’Alessio e Loredana Bertè.
Ma è stato il peggior Festival degli ultimi anni. Non solo per colpa di Celentano. Per tutta una serie di motivi: dalla costruzione dello spettacolo televisivo alla qualità delle canzoni in gara, da una conduzione debole alle numerose cadute di gusto, e senza dimenticare l’handicap rappresentato dalla scelta di ingaggiare un anziano e ottimo cantante (che infatti ieri sera ha puntato sulla musica) e dargli carta bianca.
Sanremo è sempre stato accettato perchè, nella sua lunga storia, ha rispecchiato nel bene e nel male il Paese. Pur mettendo in scena il più delle volte il nulla. Stavolta l’incantesimo sembra essersi rotto. All’Ariston è andata in scena la rappresentazione di una realtà che non esiste più. L’Italia sta cambiando, tenta di voltare pagina, di risollevarsi dopo anni bui, ma di tutte queste cose al Festival (e alla Rai) non se ne sono accorti, sono rimasti un passo indietro.
Hanno allestito il solito vecchio show, che mostrava da anni i suoi limiti ma ora, in una realtà mutante, non regge più. Non sono riusciti ad allestire un cast all’altezza né a mettere insieme canzoni davvero di qualità: lo scorso anno c’era Vecchioni che stava una spanna sopra tutti gli altri, quest’anno Dalla è venuto a fare il comprimario. Fra gli altri sono davvero pochi (le tre donne del podio, ma anche Nina Zilli e Pierdavide Carone con il citato Lucio...) quelli che meritano la sufficienza. Che poi, fuori dal contesto sanremese probabilmente anche le loro canzoni passerebbero inosservate, mentre qui vengono salvate solo nel confronto con le altre.
Anche Morandi stavolta ha toppato. Reduce dalla buona prova dell’anno scorso, quando aveva fatto qualche figura imbarazzante ma alla fine se l’era cavata, forse pensava già di fare il tris. Ma è scivolato su se stesso, sull’essere anche lui, come Celentano, in scena da oltre mezzo secolo, prim’ancora delle pesanti cadute di gusto nelle quali è stato trascinato dalle cosiddette gag dei cosiddetti “Soliti idioti” (ma a chi è venuto in mente di invitarli...?).
Polemiche sono sorte, oltre che per l’imbarazzante scenetta sui gay, anche per il modo in cui la figura femminile continua, nel 2012, a esser messa in scena a Sanremo. Proprio mentre sono soprattutto le ragazze, quelle che si salvano nel cast canoro, sul palco sembra di stare indietro di tanti anni: dalla stangona Ivana Mrazova (ieri sera in nude look, con telecamere puntate sulle tette...) alle ripescate Belen (con farfallina tatuata sull’inguine scoperto) e Canalis (ricordate le sue “traduzioni” dell’anno scorso con De Niro?), alle tristi battutacce da caserma, c’è davvero di che restare allibiti. E non basta chiamare Geppy Cucciari all’ultima sera, quando la frittata è fatta. Come non basta la presenza di Patti Smith e pochi altre star, nella serata dei duetti internazionali, per giustificare tutto questo caravanserraglio.
Meglio del Gianni nazionale esce Rocco Papaleo, attore e regista al debutto davanti a una platea nazionalpopolare. Spesso ha bonariamente sfottuto Morandi, ed è riuscito a sostituire il tormentone dell’anno scorso (“stiamo uniti, siamo una squadra”) con il più attuale “stiamo tecnici”. Con la sua ironia e autoironia, nonostante l’aria da meridionale perennemente arrapato (della serie: dove sono le donne...?), il lucano ha segnato le poche oasi di leggerezza dell’intera maratona.
Già, maratona. Perchè nel mondo che va sempre più veloce di twitter, dei blog, di youtube, della “tv on demand”, insomma delle nuove tecnologie e dei nuovi media applicati allo spettacolo e al tempo libero, risulta demenziale solo pensare di allestire cinque-serate-cinque che cominciano all’ora di cena e vanno avanti, inframmezzate da miliardate di spot, fino all’una di notte passata. Quarto d’ora più, quarto d’ora meno.
Dietro questo disastro, il disastro Rai. Reso nell’occasione più evidente da come è stato gestito tutto l’affare Celentano. La verità è che, mentre il Paese aspetta che la “cura Monti” tenti di curare - e possibilmente salvare - anche un servizio pubblico ormai e purtroppo allo sbando, Sanremo è considerato in Viale Mazzini solo una gallina dalle uova d’oro per audience e incassi pubblicitari. Obbiettivi per raggiungere i quali si è disposti a passare sopra tutto: qualità, educazione, buon gusto, ragionevolezza.
Dalla nuova Rai che potrebbe uscire dall’indicazione dei nuovi vertici sarebbe bello aspettarsi l’anno prossimo un “vero” festival della canzone italiana. Altrimenti, c’è già la soluzione. Se ne parla da anni, si aspetta solo il momento giusto. Si chiama Maria De Filippi. Forte delle vittorie dei suoi pupilli al Festival (Marco Carta 2009, Valerio Scanu 2010, ora Emma), potrebbe trasformare Sanremo nell’ennesimo talent show sul modello del suo “Amici”. Chissà, a questo punto non sarebbe nemmeno la scelta peggiore. Forse.

sabato 18 febbraio 2012

SANREMO, STASERA LA FINALISSIMA

Pronti per la maratona finale? Il 62.o Festival di Sanremo vive stasera l’ultimo atto. Di solito, arrivati a questo punto, l’attesa è tutta per il vincitore. Della serie: vincerà il solito favorito della vigilia (l’anno scorso era Vecchioni, che però stava una spanna sugli altri), o ci sarà una sorpresa, chissà, magari spunterà dalle retrovie l’outsider pronto al sorpasso sull’ultima curva?
Quest’anno, giusto per non farsi mancare nulla, c’è un altro interrogativo che affianca quello sui nomi da consegnare agli annali del Festival. E ovviamente riguarda Adriano Celentano. Che cosa dirà nell’ulteriore mezz’ora che minaccia per stasera, cosa combinerà, quali “lezioni” pretenderà di dare all’universo mondo, contro chi si scaglierà stavolta? Oppure rientrerà nei ranghi di un’esibizione “normale”, senza particolari picchi polemici, senza insulti né intemerate deliranti?
Magari ricordandosi che la cosa che lui, l’ex Ragazzo della via Gluck sa fare meglio, da oltre mezzo secolo, è solo e soltanto cantare. Senza improvvisarsi sociologo e predicatore davvero da strapazzo. Per stasera sembrava avesse pensato di farsi intervistare sul palco dell’Ariston da Giovanni Floris, ma quanto accaduto martedì ha rimesso tutto in discussione.
Anche perchè, dopo il commissariamento del Festival con l’arrivo in riviera di Antonio Marano, ieri il direttore generale Lorenza Lei ha emesso una nota nella quale auspica che «il buon senso e la correttezza prevalgano» e che non sia necessario «procedere a iniziative conseguenti a violazioni contrattuali». Come dire: stai attento Celentano che non ti diamo tutti i soldi concordati, e poi la beneficenza annunciata ti tocca farla con i tuoi. Argomento al quale il “cretino di talento” (copyright del compianto Giorgio Bocca) è da sempre sensibile, e che giustificherebbe anche un clamoroso “macchina indietro”.
Ieri sera, oltre alla gara fra i giovani, che purtroppo passa sempre in secondo piano (se la sono giocata in quattro: il gruppo Iohosemprevoglia, Alessandro Casillo, Marco Guazzone, Erica Mou), ripasso delle dodici canzoni rimaste in gara, dopo l’eliminazione definitiva di Irene Fornaciari e dei Marlene Kuntz.
Ogni artista con un ospite: Noemi (che meriterebbe di vincere) con Gaetano Curreri, Carone e Dalla con Gianluca Grignani, Dolcenera con Max Gazzè, D’Alessio e Bertè versione dance con Dj Fargetta, Chiara Civello con Francesca Michielin (la sedicenne di Bassano del Grappa che ha vinto “X Factor”). E ancora Samuele Bersani con Paolo Rossi, Eugenio Finardi con Peppe Servillo, Nina Zilli con Giuliano Palma e il jazzista Fabrizio Bosso, Arisa con Mauro Ermanno Giovanardi (quello dei La Crus), e via via anche gli altri che mancano per completare la lista.
Dalla quale lista, a tarda notte, sono stati pescati altri due eliminati, per arrivare ai dieci che stasera si giocano la vittoria. E siamo al quesito citato: chi vince? E chi si piazza dietro? La favorita per la vittoria è ancora Emma, con la sua canzone che parla di crisi ma soprattutto con la sua (bella) grinta. Ma sono buone anche le possibilità di piazzamento per la talentuosa Nina Zilli e per la stessa Noemi.
Un podio tutto femminile, allora? Perchè no. Anche se “tramano nell’ombra” altri pretendenti: l’ex rockettaro convertito alla melodia Francesco Renga, la strana coppia D’Alessio e Bertè (eliminata mercoledì e poi riammessa), l’altro ripescato Pierdavide Carone con il suo illustre mentore Lucio Dalla, persino la garbata Arisa (il cui brano, ascolto dopo ascolto, non è per niente male).
Ammesso ovviamente che questi signori siano passati indenni attraverso le eliminazioni di ieri sera, decise dopo le ospitate di Sabrina Ferilli («il festival va difeso, non attaccato», ha detto, prima del finale con omaggio a Louis Armstrong e la sua “Mi va di cantare”, cantata da Satchmo a Sanremo, stavolta con Papaleo finto trombonista stile New Orleans), del napoletano Alessandro Siani e della “boy band” inglese One Direction.
Da ultimo, l’unica cosa che interessa alla Rai. Buoni gli ascolti della serata dei duetti internazionali: 12 milioni e 770mila (share 45,7) nella prima parte, sei milioni e 533mila (57,1) nella seconda, finita all’una e mezzo. Orari che nemmeno Pippo Baudo...
Ah, stasera è annunciato anche l’arrivo da Roma dei lavoratori dello spettacolo che dal giugno scorso anno occupano il Teatro Valle per protesta contro i tagli alla cultura. Hanno detto che “marceranno sull’Ariston”. Occupy Sanremo? Magari.

SPRINGSTEEN: CANTO LA MIA AMERICA DEVASTATA DALLA CRISI

SPRINGSTEEN: CANTO LA MIA AMERICA DEVASTATA DALLA CRISI
anteprima a parigi del nuovo album




di Carlo Muscatello
INVIATO A PARIGI
«Certo che ricordo Udine, dopo il concerto ci offrirono dell’ottima grappa. Che spero di trovare anche a Trieste...».
Teatro Marigny, su una laterale degli Champs Elysées. Bruce Springsteen, arrivato da poche ore dal suo New Jersey, dove sta provando il tour che l’11 giugno sarà a Trieste, ha appena finito di presentare alla stampa europea il suo nuovo album: “Wrecking ball”, in uscita il 6 marzo. Un lavoro politico e disilluso, che parla - nell’anno delle elezioni - dell’America lacerata dalla crisi economica di questi anni.
Ascolto e intervista collettiva, poi si avvicina anche ai sei giornalisti italiani “ammessi” al blindatissimo evento (con tanto di depistaggio: era stato annunciato in località segreta fuori Parigi...) per stringere mani e scambiare due parole più o meno di circostanza. E basta dirgli che lo aspettiamo a Trieste, chiedergli se ricorda il concerto a Udine del 2009 e magari di quello a Villa Manin del 2006, che il Boss dimostra di avere memoria lunga.
Giacca nera stropicciata, camicia e jeans scuri, orecchino al lobo destro, scarpacce nere giuste per quelli “nati per correre” e aspetto da “working class”, la sessantatreenne rockstar dimostra di essere in forma. Ha voglia di parlare, sorride e scherza su Obama che recentemente ha canticchiato in pubblico “Let’s stay together” con un bel falsetto che imita per l’occasione.
A un primo ascolto il disco è molto buono, almeno quattro brani potrebbero entrare nel repertorio springsteeniano di sempre: dalla “Wrecking ball” del titolo (la “palla da distruzione” che negli Stati Uniti usano per demolire interi edifici, per poi costruirne di nuovi) a una “Shackled and drawn” di seegeriana memoria, dall’acustica - almeno nell’attacco - “You’ve got it” fino a “We are alive”, messaggio di speranza che conclude il lavoro.
Parla di promesse tradite, della distanza sempre più grande tra sogno americano e realtà. Parla di depressione economica, sociale, morale. E la metafora della “palla da distruzione”, con i “tempi duri che arrivano e se ne vanno”, vuole indicare proprio il momento storico attuale, nel quale dopo la crisi, dopo trent’anni di deregulation c’è spazio per qualcosa di nuovo. E l’America è attesa dalla ricostruzione, dalla rinascita.
Il linguaggio è quello abituale del rock, con tentazioni country e folk, ma anche spiritual e blues, persino hip hop. Suoni di frontiera, a tratti grezzi e ruvidi, che pescano fra Irlanda e ghetti neri, cornamuse e marce militari. Ma sentiamo cosa dice il Boss.
IL DISCO. «Ho cominciato a lavorarci nel 2008, in piena crisi finanziaria. Ci ho messo del tempo: scrivere è l’arte di aspettare. Musicalmente, il produttore Ron Aiello mi ha dato molte idee nuove, a livello di suoni. All’inizio abbiamo lavorato in uno studio casalingo, i brani sono nati quasi come ballate folk, poi si sono trasformati. Come “We take care of own”, un’idea del 2009 poi sviluppata».
SOGNO AMERICANO. «Quel brano nasce da una domanda: stiamo dando un’opportunità a tutti? Purtroppo no. Nei miei dischi ho sempre fatto questo lavoro: misurare la distanza tra realtà e sogno americano. Che ultimamente si è allargata. Il ricco resta ricco, il povero povero. E non riusciamo a prenderci cura di noi, dei nostri fratelli».
LA CRISI. «È un momento duro, nel quale gli americani hanno visto crollare le certezze. Un periodo devastante, questo clima si sentiva fra la gente. Ho visto tanti amici perdere il lavoro, la casa. Ma prima di Occupy Wall Street non c’era nessuno che parlasse di uguaglianza economica, non c’era una voce di protesta contro una situazione che colpiva l’idea stessa di America».
POLITICA. «Fino al 2004 non mi sono mai schierato, pur avendo le mie idee. Quando ho visto cosa stava combinando Bush, ho scelto di appoggiare il suo sfidante John Kerry, che purtroppo non ce l’ha fatta. Ma lì ho capito che non potevo più stare con le mani in mano. Comunque ho un pubblico trasversale: tanti fan repubblicani vengono ai miei concerti perchè amano ballare, amano la mia musica».
OBAMA. «L’ho appoggiato e lo appoggio ancora, non è vero che ne sono deluso. Ha fatto cose importanti in una situazione difficile: penso alla riforma sanitaria, al salvataggio della General Motors, all’uccisione di Bin Laden. Magari avrei preferito che facesse qualcosa di più per la “middle class”. Oltre che chiudere Guantanamo. Ma comunque deve continuare il lavoro avviato».
PATRIOTA. «A modo mio sono un patriota, ma di tipo critico, arrabbiato. Le mie canzoni sono spesso intrise di patriottismo, per questo i politici cercano di usarle. Lo faranno anche con “Land of hopes and dreams”, dove i suoni folk e le atmosfere gospel mi servono per contestualizzare una situazione in senso storico, per trasmettere l'idea che si tratta di qualcosa di ciclico, che è già accaduto».
CHIESA. «Ho avuto un’educazione cattolica, sono cose che ti restano tutta la vita. Vicino a casa c’erano un convento e una chiesa. Sono cresciuto vedendo preti, sentendo l’odore dell’incenso. Mi è rimasta dentro una certa spiritualità, e forse anche qualche disagio sessuale (ride, ndr)».
FAMIGLIA. «A casa, mia madre (Adele Zirilli, di origine italiana - ndr) lavorava sempre duramente, è stata un esempio positivo, una figura dominante. Mio padre spesso lottava per un posto di lavoro. Lo vedevo soffrire, ricordo la sua rabbia e le umiliazioni subite. Una situazione che ritrovo ora, molto diffusa: senza lavoro manca anche l’autostima».
CLEMONS. «Perderlo è stato molto duro. Ci conoscevamo sin da ragazzi, abbiamo cominciato e passato quarant’anni assieme, la E Street Band era quasi più lui di me. Pensare di sostituirlo era praticamente impossibile, non basterebbe un villaggio intero. Per questo al suo posto ho chiamato un’intera sezione di fiati, fra cui c’è anche suo nipote Jack, il figlio di suo fratello, che ha 22 anni. Clarence ha fatto comunque in tempo a lasciarci un regalo: il sax di “Land of hopes and dreams” è infatti suo...».
E quando parte sul disco, è un momento molto emozionante.

martedì 14 febbraio 2012

SANREMO prima serata

Eccolo, Sanremo ai tempi della crisi. Le Olimpiadi non ce le possiamo permettere, ma il festivalone - con i deliri strapagati di Celentano - non ce lo tocca nessuno. Magari senza troppi fronzoli, possibilmente rispettando «la politica di contenimento dei costi voluta dall’azienda», comunque vai con il solito rito che niente e nessuno sembra poter e voler interrompere, con la scusa che è da oltre sessant’anni “lo specchio del Paese”.
Una breve “anteprima” dal camerino (anche l’attesa fa spettacolo, Sanremo è come quell’animale di cui non si butta via nulla...). E poi, venti e quarantacinque, tac, pronti e via. Subito dopo il tg, rompendo una consolidata tradizione di brodi allungati nell’attesa.
Si comincia con Luca e Paolo che guardano in lacrime le immagini della loro “Ti sputtanerò” dell’anno scorso, dedicata a Berlusconi e Fini. Ora rileggono “Uomini soli” dei Pooh (vincitrice proprio a Sanremo, nel ’90), dicendo che “ci manca tanto il cavaliere”, che “non si può fare satira davvero senza più la Carfagna al ministero”: insomma, “torni presto quel pelato”.
Venti minuti di puro cazzeggio, culminati con una rilettura di “Va pensiero” e l’imitazione dei lunghi silenzi di Celentano, evocato anche dalla scritta sulla lavagna: “Caro Adriano, avevi torto. La foca ha rovinato il Paese”. E chi vuol intendere, intenda.
Arriva Gianni Morandi, impeccabile nei suoi sessantasette anni tirati a lucido. È al secondo festival, punta al tris. Due parole di circostanza. Un balletto con le musiche di “Odissea nello spazio” giusto per gradire, gli auguri alle ballerine “che andranno alle Olimpiadi di Londra”: il Gianni nazionale dimentica che non si parla di corda in casa dell’impiccato.
Dopo quaranta minuti di tante chiacchiere e tantissimi spot, Dolcenera (che solo secondo Morandi “sta conquistando l’Europa”) è la cantante chiamata a rompere il ghiaccio. La sua “Ci vediamo a casa” prova senza successo a cantare la crisi, brano debolissimo. Meglio Samuele Bersani: “Un pallone” è una metafora vagamente swing di questa nostra Italia scassata e stanca, quasi stremata.
Finalmente il padrone di casa introduce Rocco Papaleo, che forma con Morandi la prima strana coppia (senza uno straccio di valletta...) di questa 62.a edizione. L’attore lucano, che l’anno scorso voleva partecipare come cantante ma non l’hanno voluto, si presenta in loden blu e cartella sotto il braccio: «Voglio lanciare un messaggio di sobrietà, sono un conduttore tecnico in linea col nuovo governo. Fossi venuto l’anno scorso, mi sarei presentato in vestaglia...». Poi propone di correggere il tormentone dell’anno scorso: da «stiamo uniti» a «stiamo tecnici, così si abbassa lo spread...».
Morandi è in vena di esagerare. Presenta la pur brava Noemi, azzardando che «la sua voce è stata paragonata a quella di Janis Joplin e Ella Fitzgerald». Per fortuna che “Sono solo parole” (firmata Fabrizio Moro e prodotta da Corrado Rustici) non è niente male: potrebbe puntare tranquillamente al podio. Sul quale rischia di salire anche Francesco Renga, biancovestito e piacione nel cantare da par suo, la sera di San Valentino, “La tua bellezza”: brano che incarna la classica retorica sanremese, che di solito qui funziona.
Bella e sprecata la voce jazz di Chiara Civello, finora più nota all’estero che in patria: la sua “Al posto del mondo” non le rende giustizia, è davvero pochissima cosa. La figlia di papà Irene Fornaciari continua a brillare di luce riflessa: “Grande mistero” è stata scritta per lei da Davide Van de Sfroos, che certo l’avrebbe cantata meglio.
Ma tutti aspettano Celentano. Alle 22.20, preceduto da immagini di guerra e di morte, facendosi strada fra comparse sdraiate sul palco, l’ex Molleggiato appare e incassa l’ovazione. Attacca il suo predicozzo, mischiando preti e vangelo (beati gli ultimi...), paradiso e “giornali inutili come Avvenire e Famiglia Cristiana” che andrebbero chiusi perchè scrivono di politica e non parlano di dio. Poi sotto con operai e povertà, alta velocità e treni che collegavano nord e sud, popolo sovrano e referendum.
L’apparizione di Elisabetta Canalis (“Come ti chiami?”, “Italia...”) e un paio di canzoni non riescono ad alleggerire la suprema pesantezza del tutto. Lo scambio di battute con Papaleo (“Non vorrei contraddirla, eccellenza...”) offre speranza, quello con Pupo e Morandi dà la botta finale a un’esibizione assolutamente delirante.
I sopravvissuti a Celentano (cachet di ieri sera: 350mila euro di soldi pubblici, e il fatto che li dia in beneficenza non attenua lo scandalo) hanno la possibilità di ascoltare i rimanenti cantanti in gara: Arisa, Eugenio Finardi, Pierdavide Carone, Marlene Kuntz, Nina Zilli, Matia Bazar, Emma, l’altra strana coppia D’Alessio e Bertè. Due dei quattordici sono stati fatti fuori a tarda sera dalle giurie.
Ma è stata una serata nel segno di Celentano. Forse ha ragione Francesco Renga, quando dice: «Cinquanta minuti senza interruzioni? Mi sembra eccessivo uno spettacolo di questa durata all’interno di Sanremo. Noi facciamo la cornice di Celentano. Direi che non contiamo una beata fava».

SANREMO presentazione (mart 14)

«Ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese, ho giurato fede mentre diventavo padre, due guerre senza garanzie di ritornare, solo medaglie per l’onore...». Una canzone quasi di denuncia, questa “Non è l’inferno” scritta da Kekko dei Modà per Emma Marrone, che l’anno scorso avevano diviso il podio dietro Vecchioni e davanti ad Al Bano.
Dicono che la cantante fiorentina di nascita e pugliese d’adozione, uscita dalla fucina di “Amici”, sia la favorita di questa edizione. Ma a un primo, frettoloso ascolto, la canzone sembra più debole di quella dell’anno scorso, pur ricalcandone l’impostazione.
Colpisce maggiormente “Nanì”, che Lucio Dalla ha scritto con un altro “allievo” di Maria De Filippi: Pierdavide Carone, che ha già vinto un Festival come autore (quello di due anni fa, con “Per tutte le volte che” affidata al collega Valerio Scanu) e ora ci prova in prima persona con un supporter d’eccezione. Il brano racconta la storia di un uomo che s’innamora di una giovane prostituta, fra «venti euro di verginità» e «il camionista da accontentare», e la domanda: «dimmi perchè ami sempre gli altri e io amo solo te».
«Pierdavide è un ponte fra la mia generazione di cantautori e il pop odierno», ha detto Dalla, che torna a Sanremo in veste di direttore d’orchestra nonchè “padrino” (in senso buono) del giovane cantautore. Qualcuno si è spinto a trovare un filo rosso fra “4 marzo ’43”, che Dalla cantò al Sanremo del ’71, e questa “Nanì”.
Un brano che sorprenderà è quello proposto dalla stranissima coppia formata da Gigi D’Alessio e Loredana Bertè. La loro “Respirare” è un crescendo di passione e riff di chitarra elettrica, abilmente costruito dal napoletano, sul quale si inserisce con la grinta d’un tempo la cantante calabrese. Che canta: «Bugiardi come la luna noi siamo ancora qua, sono maledetta questo sì lo so, forse per vendetta o forse no, siamo sole e temporale, sarò vento che il tuo fuoco accenderà». Enrico Ruggeri, che quest’anno non partecipa, li dà fra i favoriti e azzarda: «La loro accoppiata trasversale potrebbe essere interessante e di moda, sono come il Pd e il Pdl».
Un altro su cui puntano i bookmaker è Samuele Bersani, lanciato anni fa proprio da Dalla. “Un pallone” vuole essere una metafora e al tempo stesso una riflessione sul nostro Paese, che si arrabatta in un «contesto vigliacco che non si muove più», e dove ci vuole «molto coraggio a rotolare giù a ricercare la felicità in un miraggio che presto svanirà».
Su piano della tradizione festivaliera Francesco Renga (altro favorito della vigilia), che dedica un inno alle bellezza femminile ne “La tua bellezza”, e i redivivi Matia Bazar, che in “Sei tu” ripescano «caldi brividi, fredde lame, oramai sei tu, sei tu, sei tu che mi hai rubato il cuore».
Ma dovrebbero esser meglio Nina Zilli (“Per sempre” la lancerà definitivamente) e Noemi (“Sono solo parole”, scritta da Fabrizio Moro e prodotta da Corrado Rustici), ma anche la voce jazz di Chiara Civello (“Al posto del mondo”), il cantautorato sicuro di Eugenio Finardi (in fase mistica con “E tu lo chiami Dio”), il rock dei Marlene Kuntz (“Canzone per un figlio”).
Completano il cast Arisa, impegnata a scrollarsi di dosso l’immagine retrò con “La notte”; Dolcenera, all’eterna ricerca di un rilancio con “Ci vediamo a casa”; Irene Fornaciari, con un brano (“Grande mistero”) scritto da Davide Van de Sfroos. Non dovremmo aver dimenticato nessuno.

domenica 12 febbraio 2012

WHITNEY HOUSTON +

LOS ANGELES
È morta Whitney Houston. La cantante e attrice aveva 48 anni. Il suo corpo è stato trovato in un hotel di Beverly Hills, a Los Angeles. Ancora da chiarire le cause del decesso.

di Carlo Muscatello
Sanremo dell’87, Whitney Houston canta “All at once”. Canta dal vivo, e la cosa non era - non è - assolutamente scontata, fra gli ospiti internazionali. Interpretazione da antologia, quasi da brividi. Alla fine la sala dell’Ariston è tutta in piedi. Le richieste di bis somigliano a un’onda che investe dolcemente il palcoscenico. E, cosa più unica che rara nella kermesse festivaliera, Pippo Baudo non può far altro che chiedere all’allora ventiquattrenne cantante americana di esaudire le insistenti richieste.
L’Italia probabilmente scoprì Whitney quella sera di venticinque anni fa. Gli Stati Uniti l’avevano consacrata star l’anno precedente, ai Grammy Awards. E il destino vuole che la cantante sia morta in un hotel di Beverly Hills dove si trovava per partecipare, poche ore più tardi, a uno dei party che precedono la serata dei Grammy Awards. A scoprire il decesso la sua guardia del corpo, un “bodyguard” che non ha potuto salvarla come l’aveva salvata Kevin Costner nell’omonimo film.
Secondo un sito americano, sarebbe morta per annegamento, dopo essersi addormentata nella vasca della sua stanza d’albergo. Pare che da tempo assumesse un forte sedativo normalmente usato per combattere l’ansia e la depressione. E la notte prima di morire, secondo diverse testimonianze, avrebbe bevuto moltissimo. Il mix fra alcol e sedativi provoca un forte stato di incoscienza.
Un’altra morte annunciata, è stato detto appena la notizia della morte si è diffusa in tutto il mondo. Certo una morte che non sorprende chi ha seguito le vicende dell’artista, da anni in lotta contro le dipendenze da alcol e droga.
Whitney era nata a Newark, New Jersey, il 9 agosto 1963. La madre Cissy Houston era una grande cantante gospel, il padre dirigeva un coro misto gospel. Era nipote di Dionne Warwick (cui la legava anche una certa somiglianza per bellezza ed eleganza) e parente lontana di Aretha Franklin, che era sua madrina. Comincia a cantare a undici anni, proprio in un coro gospel.
Pochi anni più tardi la scopre Clive Davis, pezzo grosso della discografia black. Primo album nel 1985: s’intitola semplicemente “Whitney Houston”, debutto col botto, vende qualche milionata di copie. Il brano che la fa conoscere al mondo è “I wanna dance with somebody” (stava nel secondo album, “Whitney”, uscito nell’87). Quando nel ’90 arriva il terzo album, “I’m your baby tonight”, la Houston è ormai una star planetaria.
Un altro suo brano molto noto è “I will always love you”, dalla colonna sonora del citato film “The bodyguard”, di cui fu protagonista nel ’92: altri Grammy e altri ventitre milioni di copie vendute. Nel film la cantante interpreta praticamente se stessa.
Figura sofisticata ed elegante, gran voce capace di spaziare fra vari generi musicali: dal gospel al soul, dal blues al funky. Dei suoi sette album ha venduto chi dice 170 chi 190 milioni di copie, numeri che ne hanno fatto la regina del pop soul ma anche l’artista donna di maggior successo di tutti i tempi.
Negli anni Novanta continua a incassare cachet faraonici per i film e royalties miliardarie per i dischi. Ma la fase ascendente è terminata. Nel ’98 arriva “My love is your love”, due anni dopo la cantante viene premiata con un altro Grammy per la miglior interpretazione femminile rhythm’n’blues, con “It’s not right but it’s okay”. Altri dischi, altri tour. Nel 2009 esce il settimo album, “I look to you”, il cui tour mondiale di presentazione fu però un disastro.
Sì, perchè i numeri, i titoli, i premi non dicono tutto. Per buona parte della sua vita Whitney Houston lotta contro il demone delle dipendenze. Il turbolento matrimonio con il cantante rap Bobby Brown, da cui ebbe la figlia Bobby Kristina, nata nel ’93, non aiuta. «Mio marito era la mia droga», disse la cantante nel 2002 davanti alle telecamere, dopo aver reso noto il suo calvario con le droghe e aver confessato di essersi “annullata come persona” durante il matrimonio.
In questi anni i tentativi di risollevarsi si alternano a brusche ricadute, riabilitazioni che sembrano riuscite vanno a sbattere contro pietosi e tutto sommato malinconici tentativi di tornare in scena, dal vivo o in sala d’incisione. I racconti della tossicodipendenza diventano carne da frullare nelle interviste con Ophra Winfrey se va bene o nei reality se va male, le foto di colei che era stata una splendida ragazza, ora ridotta malissimo dal crack, sono gettate in pasto al famelico pubblico delle riviste scandalistiche.
Il nome di Whitney Houston va adesso ad aggiungersi all’elenco troppo lungo dei grandi talenti della musica schiantati sotto il peso del cinico show business, che significa successo, denaro, lusso, ma spesso anche solitudine, infelicità, dipendenze dalle sostanze.
La cerimonia dei Grammy Awards, che si è svolta stanotte a Los Angeles, non avrà mancato di ricordarla come si conviene a una numero uno. Perchè a livello di tecnica vocale, Whitney Houston è stata una caposcuola. È a lei che si sono ispirate le nuove star del pop-soul che da anni dominano le classifiche. A Sanremo, giovedì, nella serata dei duetti, la ricorderà Nina Zilli con Skye dei Morcheeba.

LIBRO CRISTICCHI

C’è la guerra raccontata dai libri di storia. Poi c’è quella vissuta dalla povera gente: lutti, dolori, sofferenze indicibili. Ed è sempre molto più brutta di quella che si lascia raccontare nei manuali.
Simone Cristicchi per due anni ha girato l’Italia in cerca degli ultimi sopravvissuti a quel conflitto folle e brutale in cui il Paese fu trascinato - e poi di fatto abbandonato - dal regime fascista. Ha incontrato anziane donne, anziani uomini che all’epoca erano poco più che ragazzi. Epigoni di una generazione a cui la guerra ha strappato via a volte la vita, di certo la giovinezza. Li ha ascoltati, ha raccolto testimonianze orali che rischiavano di andar perdute.
Ne è uscito questo libro. Leggendo il quale, scrive lo storico Gianni Oliva nella prefazione, «viene istintivo il confronto con le voci raccolte da Nuto Revelli tra i contadini delle vallate cuneesi».
Il cantautore romano aveva già dimostrato la sua sensibilità andando a cantare delicate e struggenti “storie di matti” sul palco di Sanremo (vinse l’edizione 2007 con “Ti regalerò una rosa”), ma anche portando a teatro altre storie di disagio mentale, raccontate nel libro “Centro di igiene mentale”. Un interesse concretizzatosi anche nella sua visita, nell’estate 2007, alle strutture triestine del “dopo manicomio”.
Ora, come un moderno ricercatore di vecchi ricordi di guerra, dipinge e ci consegna un emozionante affresco sull’Italia povera e disperata degli anni Quaranta. Vecchi soldati dell’esercito italiano, donne che hanno perso figli e mariti e fratelli, partigiani scappati sui monti...
E poi l’esodo della gente istriana e dalmata, il tal nonno tornato dalla Russia, i bombardamenti degli alleati, i sabotaggi delle formazioni partigiane, il poverissimo pane nero sulle tavole della poverissima gente che si considerava già fortunata di essere ancora viva.
Tante piccole storie individuali, ognuna con il proprio dramma nascosto nel cassetto dei ricordi più tristi, nessuna delle quali “degna” di finire su un libro di storia. Ma non per questo meno vera, importante, drammatica.

venerdì 10 febbraio 2012

SANREMO, EMMA PRIMA PER BOOKMAKERS

Emma prima, Pierdavide Carone secondo, Samuele Bersani terzo. Mancano ancora tre giorni all’inizio del Festival di Sanremo (da martedì a sabato), ma a sbirciare le quote dei bookmaker il podio della 62.a edizione sarebbe già ben che definito. La cantante fiorentina di nascita e pugliese d’adozione, già seconda lo scorso anno assieme ai Modà, è data a 5 (un euro giocato, cinque vinti) con la sua “Non è l’inferno”. Dietro di lei, dati entrambi a 6, “Nanì” del giovane cantautore lanciato da “Amici” (che su questo progetto sta collaborando con Lucio Dalla, atteso all’Ariston per dirigere l’orchestra ma che forse farà anche una capatina sul palco...) e “Un pallone” di Bersani.
Seguono, sempre per i bookmaker, Nina Zilli (che ieri ha detto: «Se incontrerò Celentano gli bacerò le mani, come si fa con i grandi. Da giovanissima ero innamorata di lui...»), la strana coppia Gigi D’Alessio e Loredana Bertè, Francesco Renga e Noemi. Ancora più giù Eugenio Finardi, Irene Fornaciari e Arisa, mentre le vittorie più improbabili sarebbero quelle di Chiara Civello (data a 23) e dei Marlene Kuntz (a 26).
Intanto proseguono prove e preparativi. Sotto i riflettori sempre Adriano Celentano, cui la Rai ha bloccato uno degli spot promozionali (quello con l’invito provocatorio di anni fa a cambiare canale e sintonizzarsi su Canale 5...). L’altra sera, dopo una lunga sessione di prove, l’ex Molleggiato ha detto: «Se Sanremo è rock o lento? Con Gianni Morandi il Festival sarà hard rock».
Il conduttore, nonchè vecchio amico, lo ripaga così: «Sono cinquant’anni che Celentano fa spettacolo e non ha mai fatto danni, la Rai dovrebbe fidarsi di più». Rivelando che «mi voleva nel suo gruppo quando avevo 17 anni, ma il mio impresario non volle perchè la star sarebbe stata sempre e solo lui. Eppure, fosse stato per me, sarei andato con lui. Ancor oggi mi piacerebbe fare parte di un clan in cui il capo è lui. Lo guardo sempre con occhi di grande rispetto. Lo stimo tantissimo. I miei primi dischi erano molto vicini al suo stile, volevo imitarlo nelle mosse»

giovedì 9 febbraio 2012

DISCHI / McCARTNEY + morgan

Sono le canzoni con cui Paul McCartney, classe ’42, è cresciuto. Quelle che ascoltavano suo padre e sua madre quando lui era ragazzino. Quelle che magari provava assieme a John Lennon, prima dell’inizio della loro straordinaria avventura beatlesiana. E che ora, giunto alla vigilia dei settant’anni (li compirà il 18 giugno, roba da non credere...), gli è venuta voglia di incidere.
“Kisses on the bottom” (Hear Music) è il sedicesimo album in studio del Macca, a quasi cinque anni dal precedente “Memory almost full”. Tempi nei quali il nostro non è rimasto certo con le mani in mano. Tour a parte (con recenti tappe anche in Italia), nel 2008 pubblicato “Electric arguments” con il suo vecchio progetto elettronico denominato The Fireman, nel 2009 il live “Good evening New York City” e l’anno scorso “Ocean's kingdom”, colonna sonora di musica classica per l’omonimo balletto del New York City Ballett.
Il nuovo lavoro - registrato fra Los Angeles, New York e Londra - è un omaggio ai grandi standard jazz della tradizione statunitense, riletti con lo stile e il gusto propri dell’ex Beatle. Riascoltiamo allora la classicissima “Home (when shadows fall)”; “I'm gonna sit right down and write myself a letter”, portata al successo da Fats Weller nel 1935, da cui l’artista ha tratto il titolo della raccolta; “The glory of love”, interpretata da Benny Goodman nel 1936; “Always”, composta da Irving Berlin nel 1925; “It's only a paper moon”, “More I cannot wish you”...
Ci sono anche due inediti, scritti dall’artista per l’occasione: “My Valentine” e “Only our hearts”, che ovviamente non si discostano per quanto possibile dalle atmosfere del disco. Grazie anche ala partecipazione di due pezzi da novanta: la chitarra di Eric Clapton nel primo brano, le tastiere di Stevie Wonder nel secondo.
Produzione affidata a un grande: Tommy LiPuma, già all’opera con gente del calibro di Miles Davis, Barbra Streisand e Al Jarreau. E in cabina di regia c’era anche Diana Krall, che ha aiutato Sir Paul nella selezione dei brani ma anche nella gestione dell’orchestra.
“Questa è la musica con cui sono cresciuto, quella che mi suonava al piano papà, quella che assieme a John abbiamo amato prima di innamorarci del rock’n’roll», ha confermato Paul McCartney presentando questo particolarissimo regalo che ha fatto innanzitutto a se stesso, ma in fondo in fondo anche a tutti noi.
Ancora l’ex Beatle: «Ho lavorato con Diana e con un grande jazzista come John Clayton. È un album tenero, quasi intimo. Da ascoltare quando torni a casa dopo il lavoro, con un bicchiere di vino o una tazza di tè...». Visione romantica. Ma c’è da capirlo. Il nostro si è appena sposato per la terza volta.
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MORGAN
    “ITALIAN SONGBOOK VOL.2” (Sony)  Molti temono che sia diventato “soltanto” un personaggio televisivo, con tutto quel che ciò comporta. Sarebbe un peccato, perchè Marco Castoldi in arte Morgan, al netto di tutte le esagerazioni e le sgradevolezze del personaggio tv, rimane un buon musicista. Lo conferma questo secondo capitolo (il primo era uscito nel 2009) del suo viaggio fra i classici della canzone italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Quindici canzoni, di cui tre in inglese, che il nostro rilegge attraverso la sua originale sensibilità artistica. Riscopriamo allora canzoni come “Marianne” di Sergio Endrigo (scelta anche come singolo di lancio dell’album), “Hobby” di Luigi Tenco, “Io che non vivo” di Pino Donaggio... Non potevano mancare, secondo le prevedibili regole della discografia contemporanea, due inediti: “Una nuova canzone” e “La sera”. L’album esce in una doppia versione: il cd singolo e il doppio, comprendente anche il capitolo precedente.
 
 
 

SPRINGSTEEN A TS, MADONNA A ZAGABRIA

Magari ai seguaci del Boss non potrà importar di meno. Ma l’annuncio che nella stessa sera del concerto di Bruce Springsteen allo Stadio Rocco di Trieste, lunedì 11 giugno, il tour di Madonna farà tappa allo stadio di Zagabria, beh, può essere tranquillamente iscritta nell’affollatissima lista locale delle “sgradevoli sovrapposizioni”.
Si dirà che a parte le comuni origini italiane (la madre di lui si chiama Adele Zirilli, lei di cognome fa Ciccone) e la comune appartenenza alla ristretta schiera dei numeri uno, il rocker del New Jersey e l’ex “material girl”, fra l’altro reduce dall’apparizione al Super Bowl, non hanno molto da spartire. Vero, ma è anche un dato di fatto che quella sera di inizio estate - o almeno così si spera - una parte del popolo della musica di casa nostra punterà dritto verso la capitale croata, mentre tantissimi altri non mancheranno di certo l’appuntamento allo stadio triestino.
Per il concerto di Springsteen, la prevendita dei biglietti ha ormai superato quota 22 mila. «C’è una crescita costante di richieste dal pubblico straniero - segnala Luigi Vignando, di Azalea Music, che organizza la tappa assieme a Barley Arts -, soprattutto da parte di quello ungherese, oltre ovviamente alle richieste da Austria, Slovenia, Croazia e Serbia». Si punta comunque al tutto esaurito, fissato a quota 35mila.
Gli organizzatori segnalano anche che, sulla base dell’esperienza passata, le prevendite dovrebbero subire un’ulteriore impennata nelle prime due settimane di marzo, in concomitanza con l’uscita del nuovo album “Wrecking ball”, prevista in tutto il mondo per martedì 6 marzo. Si tratta del diciassettesimo album in studio del Boss, con undici brani nuovi, prodotto da Ron Aniello assieme al produttore esecutivo, nonché manager storico, Jon Landau e allo stesso artista.
Il tour americano partirà il 18 marzo da Atlanta e si concluderà il 2 maggio a Newark, nel “suo” New Jersey. L’esordio europeo è invece previsto per il 13 maggio a Siviglia, in Spagna, e si concluderà il 31 luglio a Helsinki, in Finlandia, dopo aver toccato vari Paesi fra cui ovviamente l’Italia: Milano il 7 giugno e Firenze il 10, prima di arrivare a Trieste.
Gli organizzatori stanno approntando assieme al Comune il piano logistico per il concerto (trasporti, parcheggi, servizi navette...), ma anche iniziative collaterali per i giorni di vigilia dello show.
E siamo alla novità di queste ore. La conferma del concerto di Madonna (finora erano circolate solo delle anticipazioni), la stessa sera dell’11 giugno allo stadio di Zagabria. Il Madonna World Tour partirà il 29 maggio da Tel Aviv, in Israele, e toccherà Europa (Londra, Parigi, Berlino...), Stati Uniti (New York, Los Angeles...), ma anche Australia e Sud America, dove non si esibisce da vent’anni. La tappa croata anticiperà gli unici due concerti italiani previsti, il 14 giugno allo Stadio San Siro di Milano e il 16 allo Stadio Franchi di Firenze.
Le prevendite dei biglietti per il concerto a Zagabria cominceranno venerdì 17 da Radio Attività, a Trieste. L’emittente organizza anche dei pullman per il concerto.
Per quanto riguarda invece il debutto a Tel Aviv, da segnalare l’incredibile richiesta dei fan israeliani della regina del pop al governo dello stato ebraico: nessuna guerra all’Iran almeno fino al 29 maggio, giorno del concerto... «Per favore non fermate la musica!», hanno scritto i fan su una pagina Facebook creata appositamente. Roba da non credere.

mercoledì 8 febbraio 2012

VASCO BRONDI SABATO A PORDENONE

Cantava crisi e disagio quand’ancora non erano esplosi. Quando c’era qualcuno sempre sorridente che voleva farci credere che i tempi difficili erano già alle spalle. Lui, Vasco Brondi - che sabato alle 22 torna al Deposito Giordani di Pordenone -, girava l’Italia, annusava l’aria, parlava con la gente, e capiva che le cose andavano male. E sarebbero andate peggio.
«Non serviva essere economisti - dice il cantautore, classe ’84, che continua a presentarsi come Le luci della centrale elettrica -, bastava guardarsi attorno per capire che il sistema era prossimo al collasso. La crisi invece è stata negata fino all’ultimo, facendo un danno doppio: sarebbe stato importante preparare la gente, anche psicologicamente».
E le sue antenne fra sfigati e mammoni ora cosa segnalano?
«La sensazione, forse il rischio, è che da cittadini stiamo diventando azionisti, per giunta di minoranza. Siamo governati da chi rappresenta più le istituzioni economiche e bancarie che lo stato. E se ne viene pure fuori con quelle frasi infelici: sfigato è chi non ha previsto ma ha negato la crisi»
Ma eravamo messi male.
«Certo, non possiamo tacere sulle responsabilità di chi ci ha portato fin qui: politica ma anche sindacati, che da anni parlavano di cose che non esistevano più. Rappresentando solo dipendenti e pensionati, non si erano accorti del buco nero del precariato, della disoccupazione galoppante».
E comunque il governo Monti non le piace.
«Chiariamo: è mille volte meglio di chi c’era prima. E ha un vantaggio: essendo formato da persone che non puntano a essere rielette, può fare le cose di cui c’è bisogno. Prima, fossero di destra o di sinistra, il principale obbiettivo era la rielezione».
Parliamo di musica: da De Gregori e Jovanotti cosa ha imparato?
«Che sul palco non devo difendermi da nessuno, ma piuttosto espormi, trasmettere al pubblico il più possibile di me stesso. Il primo era un mio mito da ragazzo, cantare con lui a Torino è stato bellissimo. E aprire i concerti di Lorenzo, davanti a migliaia di persone, mi ha insegnato un nuovo modo di stare sul palco».
Nuovo album?
«Non ho fretta, per fortuna non c’è nessuno che mi corre dietro. Amo i ritmi umani, fare un disco quando ho qualcosa da dire».
Lei incide per “La Tempesta” di Pordenone. Come vi siete incontrati?
«Attraverso i Tre Allegri Ragazzi Morti, che ho sempre seguito e ai quali avevo inviato un demo nel 2007. Anzi, ho ritrovato un disegno che Davide Toffoli mi aveva fatto dopo un loro concerto a Copparo, in provincia di Ferrara. Io avevo quindici anni, lui scrisse sotto il disegno: a Vasco, allegro ragazzo morto...».
Il primo disco nel 2008 accolto benissimo, il secondo nel 2010 bollato come una brutta copia.
«Tutto previsto. Santificato all’esordio, criticato dopo. Ma non avevo e non ho nulla da perdere, non devo mica vendere un nuovo modello di automobile, preferisco puntare sulla sincerità. Va detto comunque che le canzoni di quei due album erano state scritte nello stesso periodo».
Due mesi fa ci ha concesso un antipasto.
«Sì, il mini-cd pubblicato con XL, la rivista di Repubblica. L’inedito “C’eravamo abbastanza amati” e alcune cover stravolte, anzi, “canzoni d’amore rovinate”, come le chiamo io. Mi è servito per sperimentare nuove strade».
Dove portano?
«Chi lo sa. Privilegio i sentimenti alle logiche commerciali. Sempre sul crinale fra canzone d’autore e punk. Che assieme fanno quasi un corto circuito...».

domenica 5 febbraio 2012

DOMANI PUPKIN KABARETT ALLA TRIPCOVICH / SANGERMANO / RASSEGNA STAMPA

Quando si dice un predestinato. Massimo Sangermano è nato il 29 dicembre, lo stesso giorno del “Piccolo”. Giusto a qualche annetto di distanza... «Ma in fondo mi sarebbe piaciuto nascere anch’io nel 1881 - confessa l’attore e regista triestino, classe 1963, origini calabresi -, probabilmente avrei trovato un mondo migliore. Magari rischiavi di morire di morbillo, ma c’erano più educazione, rapporti più veri, un panorama più libero. Sì, mi trovo abbastanza male nel mondo moderno...».
In queste parole c’è già tutto Sangermano, l’ideatore di quella caustica “rassegna stampa” che è da sempre uno dei punti di forza della proposta spettacolare del Pupkin Kabarett. E lo sarà ancor più, c’è da scommetterci, nella serata speciale dedicata ai 130 anni del giornale.
«Sì - conferma -, abbiamo cercato anche nei vecchi numeri del giornale, per fare una cosa più completa. Ho letto con attenzione la copia del primo numero, che avete ripubblicato in occasione dell’anniversario. Beh, in fondo le cronache e le storie sono sempre uguali...».
Com’è nata questa passione per il “Piccolo”?
«Faccio da tanti anni il pendolare fra Trieste e Roma, dove lavoro dal 2004 come regista per Rai Educational. Mia mamma Nunziatina, una che legge il giornale dalla prima all’ultima riga, ha sempre conservato le vecchie copie. E io, ogni quindici giorni, quando torno a casa, mi leggo gli arretrati. Che è un buon modo per rendersi conto meglio delle notizie».
Cosa la colpisce?
«Che tutto il mondo è paese: la piccola cronaca, l’incidente, la vecchietta, la polemica... Amo le vecchie foto dei compleanni e degli anniversari. Ma il punto è che ormai la realtà ha superato la fantasia, dunque dopo anni in cui ho puntato sulla seconda, ho deciso di prendere spunto dalla prima. Combatto questo tempo che non mi piace, e ho adottato il “Piccolo” per essere sempre informato, anche vivendo altrove, sulla mia città».
Che ovviamente odia e ama.
«Certo. Trieste è stata grande in altre epoche, oggi può solo ridurre il danno. Il fatto è che l’Italia comincia a Mestre. La caduta dei confini doveva aprirci grandi orizzonti, non è successo proprio nulla».
L’avventura del Pupkin?
«Un altro ottimo motivo per tornare a casa. Dobbiamo ringraziare la Cooperativa Bonawentura che ci ha dato spazio e fiducia. Abbiamo cominciato nel 2001 nella saletta video del Teatro Miela. Poi, settimana dopo settimana, i quaranta posti a sedere non bastavano più, e nel 2003 siamo stati promossi nella sala grande».
Lei ha cominciato con Arbore.
«Sì, nell’88 ero con Fulvio Falzarano e altri triestini nel pubblico di “Indietro tutta”. A Roma ero andato due anni prima, per frequentare la scuola di teatro di Enzo Garinei, nella cui compagnia ho poi lavorato. Ma ho fatto anche tv, un po’ di cinema, fiction, qualche video con Jovanotti (conosciuto negli Stati Uniti nel ’90), pubblicità. Portai le mie gag al “Gran Premio” di Baudo, sempre nel ’90, su Raiuno. E Oreste Del Buono scrisse su di me delle cose molto belle sul Corriere della Sera...».
A Rai Educational cosa fa?
«Giro per l’Europa, faccio servizi su mostre e musei. Ma senza la presunzione di Daverio, o di Sgarbi. Io sono un illetterato. Faccio cose pop».
Prossime cose?
«Ho fatto una parte nel film per la tv “Il toso”, con Elio Germano che interpreta il boss Felice Maniero, in uscita su Sky Cinema. Insomma mi arrangio, anche se i quattro neuroni che mi rimbalzano in testa a volte mi suggeriscono che forse sarebbe meglio entrare in un convento di frati, a fare distillati “de pomi”. Niente stress, niente tivù, tanti “uselèti”..».

25 ANNI FA MORIVA CLAUDIO VILLA

Sabato 7 febbraio 1987, serata finale del 37º Festival di Sanremo, quello vinto dal trio Morandi Ruggeri Tozzi con “Si può dare di più”. Pippo Baudo interrompe la kermesse, il suo volto è contratto, la voce traballa. «Purtroppo devo dare una brutta notizia. E mi sembra doveroso interrompere per un momento questo spettacolo che è fatto di festa, di gioia e di canzoni per rivolgere l'ultimo applauso a Claudio Villa...!».
La notizia della scomparsa del Reuccio della canzone italiana, ricoverato all’ospedale di Padova per una pancreatite, arrivò così nelle case degli italiani. Tutto il pubblico del Teatro Ariston si alzò in piedi, per una volta l’emozione fu autentica, a molti sembrò quasi un segno del destino che l’annuncio della scomparsa venisse fatto proprio lì, a Sanremo, in quel Festival della canzone che lo aveva visto tante volte competere e quattro volte vincere: nel 1955 con “Buongiorno tristezza”, nel ’57 con “Corde della mia chitarra”, nel 1962 con “Addio... addio” e nel ’67 con “Non pensare a me”.
Ma Villa non è stato solo Sanremo. Nato a Roma il primo gennaio 1926, vero nome Claudio Pica, trasteverino di via della Lungara (dove c’è il carcere di Regina Coeli), padre vetturino e mamma casalinga. La voce profonda e potente diventa subito il suo strumento di riscatto sociale. Debutta alla radio nel ’46, dopo vari concorsi canori. Nel dopoguerra è protagonista sulle frequenze radiofoniche. Quando arriva la tivù, si fa trovare pronto. La sua popolarità cresce in maniera esponenziale, in Italia e all’estero. Canta “Granada”, “Binario”, “Il torrente”...
Iscritto al Pci, diventa protagonista anche al cinema: tra i suoi film “C'è un sentiero nel cielo” e “Primo applauso” del 1957, “Fontana di Trevi” del ’60. Viene soprannominato “Il reuccio” per il temperamento fiero e orgoglioso, durante una puntata dello spettacolo tv “Rosso e nero” di Corrado. Storiche le sue sfide nelle “Canzonissime” televisive con Gianni Morandi.
Per i venticinque anni dalla scomparsa, tante iniziative per ricordare il Reuccio. Una al Museo della canzone di Vallecrosia (in provincia di Imperia) viene inaugurata oggi una mostra di fotografie, dischi, musicassette, copertine, articoli di riviste e giornali d’epoca, manifesti e locandine dei film. E poi spartiti delle sue canzoni, un portadischi autografato, una giacca di scena e il contratto del 1958 con il Festival di Sanremo. Quello in cui Villa portò a casa “soltanto” il quarto, il quinto e il settimo posto (allora ogni cantante poteva partecipare con più canzoni), perchè per la vittoria non c’era stata partita: era andata a “Nel blu dipinto di blu”, di Domenico Modugno.
Sulla sua tomba c’è scritto: «Vita sei bella, morte fai schifo».

giovedì 2 febbraio 2012

PETER HAMMILL IL 10-5 A TRIESTE

Peter Hammill il 10 maggio in concerto al Teatro Miela. La primavera/estate musicale triestina si arricchisce dunque di una nuova perla. L’ex Van der Graaf Generator torna in città a nemmeno tre anni di distanza dal concerto tenuto con il suo storico gruppo in piazza Unità, nel luglio 2009, per la sesta edizione del Trieste Rock Festival.
Punta di diamante del “progressive” inglese, sviluppatosi a cavallo fra gli ultimi Sessanta e i primi Settanta, la band nasce nel '67, all'università di Manchester, proprio attorno al cantante Peter Hammill. “The aerosol grey machine”, nel '69, è il primo album. Ma dopo “The least we can do is wave to each other” e “H to He, who am the only one”, usciti nel '70, è soprattutto con “Pawn Hearts”, del '71, che il gruppo ottiene il successo che merita, fra l’altro prima in Italia e poi in patria.
In tutti questi anni Hammill e soci si sono allontanati e ritrovati tante volte. Ultimamente, dopo l’uscita del sassofonista David Jackson, si sono spesso esibiti in trio: Hammill (voce, chitarra, pianoforte), Hugh Banton (tastiere, basso, chitarra) e Guy Evans (batteria). Gli stessi di tanti anni fa, gli stessi del luglio 2009.
Ma in questo tour che fa tappa a Trieste, il musicista inglese (classe ’48) sarà sul palco da solo: chitarra, pianoforte e voce, per proporre al pubblico cose vecchie e nuove della sua fascinosa e originale carriera, cominciata quan’era giovanissimo.
Concerto organizzato dall’Associazione Musica Libera di Davide Casali, la stessa del festival rock estivo. Prevendite dei biglietti dalla prossima settimana al Ticket Point e da Radio Attività. Info su http://www.musicalibera.it/

mercoledì 1 febbraio 2012

PRESENTAZIONE SANREMO / CELENTANO / BENEFICENZA

Adriano Celentano, si sa, è una vecchia volpe. Al Festival di Sanremo - 62.a edizione dal 14 al 18 febbraio, presentata ieri nella città dei fiori - ci andrà, anche se il contratto non è ancora stato firmato. Il suo staff ha già ottenuto nei giorni scorsi dalla Rai adeguate garanzie su contenuti (non dovrà presentare in anticipo testi a chicchessia) e spot pubblicitari (i suoi sermoni non verranno interrotti).
Ma l’ex Molleggiato, che ha da poco festeggiato i 74 anni, ha capito che la vera polemica si era ormai spostata sul suo megacompenso, ufficializzato ieri dal direttore artistico Gianmarco Mazzi («Se farà una serata percepirà un compenso di 350 mila euro, se ne farà due o tre 700 mila, per quattro o tutte e cinque 750 mila»).
Col passare dei giorni le proteste su queste cifre, ritenute da tutti perlomeno inopportune nell’attuale momento del Paese, sono andate via via aumentando. Con proposte da parte di alcuni di boicottare il suo intervento e non pagare il canone. Solo il direttore generale della Rai, Lorenza Lei, se l’è cavata richiamandosi alle “regole del mercato”.
E il furbo Adriano come si leva dall’angolo? Facile. Annunciando di devolvere tutto in beneficenza. A Emergency e a famiglie povere. «Ha già contattato sette sindaci - ha spiegato Mazzi -, quelli di Verona, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Cagliari, chiedendo loro di segnalargli i nomi di famiglie in condizioni di assoluta povertà. Se percepirà 350 mila euro, ne destinerà 100 mila a un ospedale di Emergency e 250 mila a tredici famiglie. Nel caso di 700 mila euro di compenso, 200 mila andranno a due ospedali di Emergency e 500 mila a venticinque famiglie; gli eventuali 50 mila euro in più consentiranno di portare a ventisette il numero delle famiglie aiutate. E Celentano si farà carico di tutte le tasse».
Geniale. Anche se qualche giornale oggi lo taccerà di demagogia e populismo, per non ammettere che quel che rode a parte della politica e dell’opinione pubblica è innanzitutto l’aiuto all’organizzazione di Gino Strada. Che è amico di Celentano, “il nostro Tevez”, come ha detto ieri il direttore di Raiuno Mauro Mazza, quello che una settimana fa si scambiava sms con Lei e Mazzi con scritto “Celentano è fuori dal Festival”.
Invece l’artista a Sanremo - dove manca dal 2004 - ci sarà, e rappresenterà il vero evento di quest’anno. «Portare Celentano - ha detto Gianni Morandi, per il secondo anno consecutivo sulla tolda di comando - è un sogno che abbiamo da sempre: lui è Sanremo, proprio qui iniziò le sue provocazioni nel ’61 cantando “24 mila baci”. Lui è la storia, è la musica, è l’Italia. Lo conosco da 49 anni e la cosa che mi sorprende è come riesca sempre a creare una rivoluzione ogni volta che arriva, ad attrarre l’attenzione. È come se Sanremo fosse il festival di Celentano, all’insegna di Celentano, questo ci aiuterà».
Ancora Morandi: «Alcuni politici hanno parlato di scempio e di immoralità, parlano male degli artisti e credono di risolvere così i problemi legati alla politica in questi anni. Probabilmente parlano di Celentano solo per apparire sui giornali. Ma non c’è un artista italiano che vale più di lui».
Il resto? Fra gli ospiti - lista ancora “in progress” - ci saranno Sabrina Ferilli, Geppi Cucciari e i Cranberries, appena tornati dopo dieci anni di assenza con l’album “Roses”. Fra gli sportivi, oltre a Federica Pellegrini, dovrebbero fare una comparsata Prandelli, Capello e forse Trapattoni.
L’assurdo ricorso della vedova di Lucio Battisti, che ha diffidato la direzione artistica del Festival dall’utilizzare “Il paradiso” e “Amarsi un po’” per la serata dei duetti internazionali di giovedì 16 febbraio, intanto procede. «È una vicenda surreale - ha detto Mazzi -, credo che le canzoni di Battisti siano un patrimonio di tutti e vengono cantate ovunque. Con la signora Battisti ho avuto un rapido colloquio, ma lei non ha mandato niente per iscritto».
Un altro ricorso, quello dei quattro “over 28” che si sono sentiti discriminati dal limite di età previsto per Sanremo Giovani, è stato «dichiarato inammissibile» dal Tar del Lazio (la competenza è del giudice ordinario e non di quello amministrativo).
Da ultimo, ma non per ultimo, il ricordo di Mia Martini. Avverrà la sera di giovedì 16, con la strana coppia formata da Gigi D’Alessio e Loredana Bertè, sorella della cantante scomparsa. Canteranno “Almeno tu nell’universo” - portato a Sanremo da Mimì nell’89 - assieme a Macy Gray.