domenica 25 giugno 2017

PINO DANIELE, Terra mia, di Poggi e Salzone

Due anni e mezzo senza Pino Daniele. Che paradossalmente oggi è più vivo che mai, almeno per chi ha amato le sue canzoni, la sua musica, la sua voce scostumata. In questi trenta mesi trascorsi dalla sua morte è successa anzi una cosa strana: alla grande arte del “nero a metà”, del “mascalzone latino” si sono avvicinati anche tante ragazze, tanti ragazzi, tante persone che non avevano fatto in tempo a conoscerlo o apprezzarlo in vita. In loro soccorso, oltre ai tanti dischi, alle tante registrazioni audio e video, arriva un libro che offre al lettore tanti particolari inediti, tanti gustosi e al tempo stesso malinconici dietro le quinte. Si tratta di “Terra mia” (Minimum Fax, pagg. 121, euro 16), di Claudio Poggi e Daniele Sanzone: lo stesso titolo del leggendario primo album di Pino, pubblicato nel 1977. Dice Daniele Sanzone, giornalista e musicista di Scampia, classe 1978: «Nel quarantesimo anniversario di “Terra mia”, Claudio ha deciso di raccontare la storia di un ragazzo di vent’anni innamorato del blues, che scrisse capolavori come “Napule è”, “Cammina cammina”, “Suonno d'ajere”...». Claudio Poggi, classe 1954, un anno più grande di Pino, che era del 1955, è passato alla storia della musica italiana per essere stato il produttore di quel “Terra mia”, album che prendeva il titolo da una delle canzoni più belle e al tempo stesso malinconiche del nostro («Comm’è triste e comm’è amaro st’assettato e guardà tutt’e cose, tutt’e parole ca niente pònno fa’...»: com’è triste e com’è amaro starsene seduto a guardare, tutte le cose e tutte le parole che niente possono fare...). «Non si tratta - chiarisce ancora Sanzone, cantante degli ’A67, gruppo rock di Scampia - dell’ennesima biografia, ma di un vero e proprio viaggio negli anni Settanta, fatto con gli occhi di chi quel sogno, l’ha vissuto in prima persona. Conoscere la genesi, le storie, gli aneddoti, gli umori e le aspirazioni, che hanno portato alla pubblicazione di quel capolavoro fa venire ancora i brividi. Se solo riuscissimo a trasmettervi un centesimo delle emozioni che abbiamo provato nello scrivere queste pagine, allora avremmo raggiunto il nostro scopo...». In effetti il libro esce decisamente dalla categoria delle biografie di cantanti e musicisti, scritte per soddisfare i fan e sfruttare anche in termini editoriali la luce riflessa dell’artista. Raccontando la storia dei primi passi musicali - e discografici - di Pino Daniele, gli autori aprono uno squarcio sulla Napoli musicale del decennio d’oro dei Settanta, terra fecondissima che grazie anche a “Pinotto” (così veniva chiamato da amici e colleghi) stava uscendo dagli stereotipi e dalla melassa del passato per aprirsi alla grande congèrie culturale che poi avremmo conosciuto e apprezzato, nella quale il rock e il blues flirtavano con i suoni provenienti dall’Africa e dall’Oriente, senza mai dimenticare le tradizioni e le radici melodiche di quella terra. «Nel 1977 sembrava difficile immaginare - scrive Gino Castaldo nella nota introduttiva al volume - che si potesse dire qualcosa di nuovo in una tradizione che, al momento del debutto di Pino Daniele, vantava già almeno un secolo di trionfale e autorevole storia». E invece... Riavvolgendo il nastro della memoria di Poggi, riemergono particolari sulla genesi di brani che ormai sono classici consegnati alla storia della canzone. “Terra mia”, certo, ma anche “Na tazzulella ’e cafè” e quella che per molti è la sua perla assoluta, “Napule è”. Leggi e sembra di vederli, quei due ragazzi poco più che ventenni, in una modesta, forse “sgarrupata” cucina con addosso voglia di caffè. Anche solo “un sorso freddo, giusto per fumarmi una sigaretta”, come chiede Pino all’amico. Poi, dopo l’ultimo sorso: «Comunque stanotte nun riuscivo a durmì e m’é asciut’pure chiest’: Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce d’e creature, che saglie chianu chianu, e tu sai ca nun si sule...». La voce dei bambini che sale piano piano, e tu sai che non sei solo. Capolavoro assoluto. Di quelli che non sfioriscono.

sabato 24 giugno 2017

80 ANNI DI RENZO ARBORE / da ART21

Renzo Arbore compie ottant’anni. E dopo la scomparsa (recente) di Gianni Boncompagni e quella (meno recente) di Mariangela Melato, dice che non ha proprio voglia di festeggiare. «Mi chiamo, come risulta dai documenti, Lorenzo Giovanni Maria Antonio Domenico Arbore. In arte Renzo. Sono nato l’anno in cui è morto Guglielmo Marconi (1937 – ndr) e non ho fatto in tempo a dispiacermi…». Cominciava così, con queste righe autografe, il suo libro “E se la vita fosse una jam session?”, sottotitolo “Fatti e misfatti di quello della notte” (Rizzoli, pagg. 311, euro 35). Un volume curato da Lorenza Foschini (già volto noto del Tg2) che un paio d’anni fa celebrava mezzo secolo di carriera di un grande showman. «Un libro – spiegava l’artista, pioniere di nuovi linguaggi e registri – improvvisato come la mia vita, perché all’improvvisazione devo la mia passione per la musica che poi è diventata passione per la parola improvvisata. Ho cercato di non parlare solo di me, ma di quello che ho visto perché possano vederlo gli altri e, vedendolo, possano dire sì, forse era proprio così. E anche di quello che il pubblico vorrebbe sapere di me, dai retroscena ai backstage. Nelle pagine ci sono le mie dieci o quindici passioni, dalla plastica a Napoli, dal jazz alla provincia, da New Orleans allo shopping, da Totò ai pupazzetti o alle luci colorate, in una sorta di rassegna. Non c’è niente che sostenga idee come io sono bravo. Io sono solo stato fortunato perché adesso mi sono accorto di aver vissuto rispettando la sacra regola del carpe diem». Non la solita biografia di un uomo di spettacolo. Da grande anticipatore e contaminatore qual è sempre stato, Arbore si divertiva a introdurre il lettore in quel caleidoscopio che è stato – ed è ancora – il suo lavoro alla radio, in televisione e sui palcoscenici italiani e di mezzo mondo. «Nel libro racconto le cose che ho visto. La mia vita è diventata abbastanza lunga quindi ci sono diverse cose: ho visto la guerra, il dopoguerra, gli americani, gli anni di piombo e quelli delle mie trasmissioni. E c’è anche la politica». In parallelo, mentre lo sperimentatore radiofonico (assieme a Gianni Boncompagni) di “Alto gradimento” diventa prima l’innovatore del varietà televisivo e poi, molto tempo dopo, il leader dell’Orchestra Italiana, è infatti possibile leggere quasi in filigrana i mutamenti culturali, sociali, politici oltre che ovviamente di costume del nostro Paese. Il tutto partendo dalla Foggia dell’immediato dopoguerra, dove il giovane Arbore teneva già allora le antenne ben dritte verso il nuovo, che all’epoca non poteva che essere l’America. Diceva: «Quello che ho visto della società e della vita civile, dalla guerra che ho visto a Foggia quando ero un bambino, poi con gli americani, poi quando sono andato a Napoli e dopo a Roma, e che vedo ancora oggi guardando la televisione e la rete, che è la mia ultima passione». Le sue città, le raccontava così: «Foggia, la provincia, con tutto quello che mi ha insegnato; Napoli, una città di cultura straordinaria; Roma, città ospitalissima e veramente capitale del nostro Paese; e poi l’America tra New York, Los Angeles, Miami, New Orleans, il sogno che avevo fin da bambino quando ho visto arrivare gli americani nella mia città». Il suo segreto? Il segreto del suo successo? Facile, almeno a parole: «Ho cercato sempre di fare quello che non facevano gli altri. Ho cercato di fare l’altro e quindi l’altra radio, l’altra musica, l’altra canzone napoletana, l’altro cinema. Sono afflitto da ricorrenti passioni che ho sempre tradotto in opere vagamente artistiche». La radio. «Adoro la radio, è uno strumento fantastico. Mi ha insegnato a vincere la timidezza. La amo perchè avendo solo la voce è il mezzo che, più della televisione, scatena la fantasia. Alla radio puoi raccontare una storia e descrivere un personaggio affidandoti all’immaginazione di chi ti sente. Facendola, impari l’importanza del ritmo che è indispensabile per catturare l’ascoltatore. La radio è stata la prima a capire quanto contino le scelte tematiche, infatti ci sono le radio dei cattolici, quelle del rock, del jazz, le radio dei deejay con voci particolarissime…». E tutte le radio italiane, di ieri e di oggi, devono forse qualcosa agli esordi di Arbore a “Per voi giovani”, a “Bandiera gialla” e soprattutto ad Alto gradimento”. La televisione. «Noi facevamo una televisione con velleità artistiche e “Quelli della notte”, essendo stato un programma improvvisato e cult, e avendo un marchio potente e indelebile come “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno, ha lasciato un segno perché era assolutamente anomalo, è stato il biglietto da visita e la dichiarazione di un modo di fare televisione che nessuno faceva». L’Italia. «Ho recuperato il patriottismo con “Telepatria International”, ho celebrato la fine degli anni del terrore e degli anni di piombo con “Quelli della notte” passando dal riflusso all’edonismo reaganiano, ho fatto la satira della televisione degli anni Ottanta con “Indietro tutta”. Non ne potevo più di dire da dove chiama, il programma lo fate voi, gli sponsor, il cacao meravigliao, le ragazze coccodè…». La politica. Negli anni d’oro Pertini lo invitava al Quirinale, Berlusconi lo voleva nelle sue televisioni, Craxi «mi propose di candidarmi sindaco di Napoli per i socialisti. Io mi vestii da donna e con Gigi Proietti mi presentai sul palco intonando “Malafemmina” alla presenza di Bettino. Lui si divertì e capì che non volevo fare il sindaco». La vita privata. «Ho trascurato l’idea di farmi una famiglia, che avrei dovuto fare con Mariangela Melato, l’amore più grande della mia vita, ma ci siamo distratti». Gli anni con l’attrice sono stati quelli «della formazione, dei primi successi, dell’incontro con l’arte, con il grande cinema, con il teatro». E la famiglia più o meno tradizionale che Arbore non ha avuto è diventata quella degli amici e colleghi, di quell’allegra brigata che comprende fra gli altri Nino Frassica a Marisa Laurito, da Roberto Benigni a Isabella Rossellini. «Guardandomi indietro – concludeva Arbore quelle poche righe citate all’inizio – mi accorgo che mi sono sempre divertito a improvvisare pensieri, parole e suoni strampalati, prima da solo e poi con tanti amici. La mia vita è sempre stata un concerto improvvisato, insomma una jam session. Punto».

venerdì 23 giugno 2017

PAOLA REGENI PER UN "GIORNALISMO ETICO"

Un lunghissimo, affettuoso applauso ha salutato Paola Regeni ieri sera al Rossetti di Trieste, nella serata finale della 14.a edizione de “I nostri Angeli”, Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta, che Raiuno manderà in onda il 7 luglio. La mamma di Giulio Regeni, accompagnata dalla legale della famiglia, Alessandra Ballerini, ha fatto un forte appello per un "giornalismo etico". "Per la verità che cerchiamo da un anno e mezzo - ha detto - manca ancora un ultimo step, quello più difficile. Ma in tutto questo tempo abbiamo capito l'importanza di poter contare su un giornalismo etico, che ci accompagni nella ricerca della verità e della giustizia. Un giornalismo che vuole certamente indagare, approfondire, comprendere, creare connessioni, ma senza pregiudicare il lavoro che stiamo portando avanti solo per scrivere due paginette". Un giornalismo, quello auspicato dalla famiglia Regeni, rispettoso delle persone, in particolare di quelle più fragili, come quello praticato dai colleghi selezionati per questa manifestazione: reporter che ogni giorno mettono a rischio la vita per farci conoscere la verità su migrazioni, guerre, carestie, sui tanti muri che imprigionano intere popolazioni. Come Valerio Cataldi di Rai Tg2 Dossier, che ha raccontato la rotta dei Balcani con gli occhi di Aziz, un bambino di 8 anni, respinto per cinque volte assieme a suo padre alle frontiere ungheresi, che ora è riuscito a raggiungere Parigi. Come Laura Silvia Battaglia di Left Magazine, che ha fatto luce sui rischi quotidiani che corrono i bambini yemeniti. Come Lyse Doucet di BBC News, che ha dato voce alla speranza di Bara’aa, una bambina siriana che desiderava solo andare a scuola. Come Tom Parry, che sul Daily Mirror ha reso omaggio alla piccola Hamdi, una bimba somala morta di fame. Come Khalil Ashawi, bloccato in Turchia a causa di un visto che non arriva, ma che ha vinto il premio per la miglior fotografia, quella di una ragazza siriana con una gamba amputata che controlla il cellulare nel campo rifugiati a nord di Aleppo. Ma c’è anche il viaggio della speranza senza rischiare di morire come accaduto in mare a oltre 5000 persone solo nel 2016. Sono quelli che arrivano attraverso “Mediterranean Hope”, il progetto “Corridoi umanitari: l’accoglienza oltre l’emergenza”, avviato con Protocollo d’Intesa dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. «Un sogno» ha detto la presidente della Fondazione Luchetta «quello che abbiamo scelto di illuminare con il Premio Speciale 2017, che può e deve diventare realtà e può rappresentare un modello per tutti i Paesi europei». Perché la verità è una sola: siamo tutte persone e l’unica cosa che dobbiamo decidere, come ha ricordato consegnando il premio Unicef all’agenzia Ansa il portavoce Andrea Iacomini, è da che parte stare, se con gli umani o con i disumani.

mercoledì 21 giugno 2017

FNSI E ASSOSTAMPA FVG DOMANI A TRIESTE A "I NOSTRI ANGELI" CON FAMIGLIA REGENI

La Fnsi, assieme all'Assostampa Fvg, partecipa domani, giovedì 22 giugno, a "I Nostri Angeli", serata finale del Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta, che si terrà a Trieste, al Politeama Rossetti, e a cui parteciperanno anche Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio. «Si tratta – spiega, in una nota, l’Assostampa – di un evento importante per il giornalismo italiano e internazionale, calato nell’attualità del nostro tempo per illuminare e raccontare le periferie del pianeta, e il miracolo di un’infanzia che resiste alle emergenze più dure, travolta fra guerre, terrorismo, migrazioni epocali, fame e carestie». Sarà il giornalista del Tg1 Alessio Zucchini a condurre la serata, che avrà inizio alle 20.30 e verrà interamente ripresa da RaiUno, che la trasmetterà venerdì 7 luglio. Protagonisti dell’evento sono innanzitutto i vincitori della 14a edizione del Premio Luchetta, promosso dalla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin con la Rai, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Si partirà da Khalil Ashawi, vincitore nella sezione fotografica per lo scatto simbolo di questa edizione, una giovane sfollata siriana, con la gamba amputata, ritratta in un campo profughi in Turchia mentre scorre il cellulare. Trattenuto proprio in Turchia da un visto che non arriva, Khalil Ashawi sarà rappresentato al premio Luchetta dal collega dell’agenzia Reuters Tony Gentile, fotografo italiano noto per i suoi reportage e in particolare per lo scatto che ritrae i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, immagine iconica dell’impegno antimafia. Sul palcoscenico ci saranno anche Lyse Doucet, reporter di BBC News, Valerio Cataldi di TG2 Dossier, Tom Parry del Daily Mirror e Laura Silvia Battaglia di Left Magazine. Con loro, sul palco del Rossetti anche il giornalista Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita e vincitore del Premio Crédit Agricole Friuladria Testimoni della Storia 2017, e il direttore dell’Ansa Luigi Contu, che riceverà dal portavoce Unicef Italia, Andrea Iacomini, il Premio I Nostri Angeli per l’attività di sensibilizzazione sull’infanzia violata e minacciata nel mondo. Un forte richiamo all’attualità arriverà anche dall’intervento della famiglia Regeni: Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio – alla cui memoria andava nel 2016 il Premio Speciale assegnato dalla Fondazione Luchetta – ricorderanno a tutti che il caso attende ancora risposte certe, e che proprio per questo servono ancora impegno e attenzione. Legato all’attualità anche l’intervento del Segretario Generale della Comunità di Sant’Egidio, Cesare Zucconi, affiancato da Christiane Groeben in rappresentanza della Federazione Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese: nel corso de I Nostri Angeli riceveranno il Premio Speciale della Fondazione Luchetta per il progetto "Corridoi Umanitari: l’accoglienza oltre l’emergenza", avviato a fine 2015 attraverso un Protocollo d’intesa della Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. Corridoi umanitari significa modalità sicure attraverso le quali i rifugiati possono arrivare in Europa senza rischiare di morire nei viaggi della disperazione, al sicuro dalle organizzazioni criminali. Il progetto ha già portato in Italia 1.000 rifugiati siriani, accolti attraverso reti di ospitalità privata. La colonna sonora della serata sarà firmata dai cantautori Vinicio Capossela e Renzo Rubino. Capossela farà tappa a Trieste nell'ambito del tour estivo che lo vede protagonista di una nuova produzione, "Atti unici e qualche rivincita". Rubino, fra i protagonisti del Festival di Sanremo 2014 con il pezzo "Ora", a Trieste proporrà anche un omaggio a Lucio Dalla interpretando un grande classico come "Futura". «Importante infine – conclude l’Assostampa – ribadire alla presenza di Paola e Claudio Regeni, che la Fnsi continuerà ad aggiungere la propria voce a quelle di chi non ha mai smesso di reclamare "Verità per Giulio" e per tutti i "Giulio egiziani", come hanno voluto sempre sottolineare i familiari e i legali della famiglia Regeni».

martedì 20 giugno 2017

MASSIMO CIRRI: 7 TESI SULLA MAGIA DELLA RADIO

«Perchè la radio è magica? Perchè come oggetto fisico quasi non esiste più: esce dal computer, dall’ipad, è un’app sullo smartphone. Cambia continuamente. È quasi scomparsa ma è riuscita a stare sempre vicina alla vita quotidiana delle persone, a intrecciarsi con quello che facciamo: la radio, adesso, ce la portiamo addosso». Ne parla uno che se ne intende, non foss’altro perchè la fa: prima, nei suoi anni movimentisti della Milano da (non) bere, a Radio Popolare; da vent’anni a “Caterpillar”, su RadioDue. Lui è Massimo Cirri, toscano trapiantato a Milano, psicologo e giornalista, un passaggio anche a Trieste fra gli eredi di Basaglia. Ha appena pubblicato “Sette tesi sulla magia della radio” (Bompiani, pagg. 317, euro 13). «La radio - prosegue Cirri, classe 1958 - lavora per sottrazione: un canale solo di comunicazione, l’udito, che lascia libertà di fare ed essere altro: lavorare, divertirsi, viaggiare. La radio parla a persone attive e le persone parlano alla radio in tanti programmi aperti al pubblico. È la tivù che vuole corpi sfatti stesi di un divano». Marshall McLuhan parlava di radio medium caldo e tv medium freddo. «Lui ha classificato così i media proprio a seconda della partecipazione o del coinvolgimento di chi li fruisce. La radio è un medium caldo perché, dice, “tocca intimamente, personalmente, quasi tutti. È questo il suo aspetto immediato: un’esperienza privata”. Ed è una delle sue magie: la sensazione che parli a te, direttamente. Lo sai che quel programma ha migliaia di ascoltatori ma la voce di chi parla ti fa sentire un legame unico, personale. Che diventa collettività». Spieghi. «È avvenuto nel bene e nel male: è la radio, in Germania, a costruire il nazismo chiamando il popolo a raccolta contro i nemici, gli ebrei, i comunisti. È successo, uguale, in Ruanda nel 1994, quando una radio chiamava allo sterminio dei nemici». Per raccontare la magia della radio lei parte dal Titanic. «L’idea della radio, per come la conosciamo oggi, parte da lì. Dal giovane marconista David Sarnoff che a New York ascolta i ticchettii del Titanic che chiede aiuto. L’elenco di chi si è salvato ed è bordo di un’altra nave, quello dei morti. La radio, allora, è ancora in morse: punti, linee, punti. Dall’enorme interesse che c’è per quella storia lui intuisce che la radio potrebbe diventare un mezzo per tutti, saltando i giornali». E che fa? «Propone una “music box” da vendere agli americani. Non gli credono, lui non desiste. La svolta nel 1921 quando manda in onda un incontro di boxe per il mondiale dei massimi. Lo ascoltano nelle sale da concerto, negli auditorium. Il successo è tale che tutti vogliono comprare una radio, averla a casa. Lui diventa un manager ricco e potente. E racconta che l’intuizione gli era venuta nella notte in cui il Titanic andò a fondo. Potrebbe essere solo una storia. Ma la radio è fatta per raccontare le storie». Come la storia siciliana del triestino di Sesana Danilo Dolci. «Dolci sapeva guardare avanti. Nelle valle del Belice dopo il terremoto del 1968, dove in pochi leggono i giornali e ancora meno ci credono, capisce la potenza della radio. Ne costruisce una, illegale, che trasmette la voce dei “poveri cristi”, quelli che stanno nelle baracche e rischiano di morirci dentro. Lancia un sos, come la radio del Titanic: "Sos, Sos. Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza”. E si sentono le voci vere delle persone, per la prima volta, semplici e dure. Vanno avanti per 72 ore, poi arriva la polizia e spegne tutto». Lei ha lavorato anche a Trieste, con i “basagliani”. «E ho scoperto Radio Fragola, che trasmette da dentro l’ex ospedale psichiatrico, dando alle persone un altro strumento per stare in un circuito di comunicazione. Perché qualsiasi problema si abbia - salute mentale o altri “incasinamenti” della vita - se si esce dal circuito del comunicare e ci si ritrova chiusi da qualche parte è sempre un problema. Adesso sone decine, sparse in tutta Italia, le radio della salute mentale». Arbore e Boncompagni hanno effettivamente rivoluzionato la radio in Italia? «Sì, per il linguaggio. Con “Bandiera gialla” nel 1965 e, di più, con “Alto gradimento” nel 1970. Per come stavano davanti al microfono: disinvolti, parlando e non leggendo, mettendo molta musica americana, e poi, improvvisamente, accelerando. Non si era mai sentito nessuno parlare così alla svelta alla radio: un ritmo nuovo, un chiacchierare in due, un continuo divagare, un prendere in giro tutto e tutti, pure se stessi. Una lingua nuova, giovane, che sembra non fermarsi davanti a nulla. Nel programma arriva uno, urla: “Patroclooo!” e sparisce. Poi c’è un colonnello che non ha senso. Poi ci sono un uccello preistorico del Nicaragua, un astronauta spagnolo che hanno dimenticato in orbita e tanti altri mai pensati prima. E soprattutto questo modo di parlare in radio: amichevole, confidenziale, “normale”. C’è l’improvvisazione in diretta». Il prologo delle radio libere. «Che infatti arriveranno di lì a qualche anno: migliaia di persone da un giorno all’altro, improvvisando, senza saperne nulla, dopo aver parlato in pubblico all’assemblea a scuola, cominceranno a parlare davanti al microfono. Avranno in mente, tutti, anche senza saperlo, Arbore e Boncompagni e la loro cifra comunicativa». Tanti anni fa sembrava che la tv avrebbe oscurato la radio. «Si è solo spostata. Negli anni Trenta la radio occupa il salotto buono e tutta la famiglia le si raduna intorno in religioso silenzio. Quando arriva la televisione la radio va in cucina, in bagno, nella camera dei ragazzi. Poi in auto, poi diventa portatile. Così è sempre più accanto alle persone. È interstiziale, entra dappertutto e continua a fare quel che ha sempre fatto: tiene aperto un filo di comunicazione, mette in contatto, lega le persone a una comunità ideale». “Caterpillar” è ormai un “never ending radio show”? «“È un mondo difficile, e vita intensa, felicità a momenti, e futuro incerto”, come cantava Tonino Carotone. Ma noi “tiremm innanz”, come diciamo qui a Milano. E dal 29 giugno al primo luglio ci festeggiamo a Senigallia, con il nostro tradizionale “Caterraduno”». Della "sua" Radio Popolare cosa ricorda? «La piacevolezza dello sperimentare, un gruppo di persone intelligenti, un grande calore, il piacere adolescenziale del prendere in giro il proprio mondo: era quello, variegato e permaloso, della sinistra milanese. Libertà assoluta, porte aperte a chiunque, energie».

venerdì 16 giugno 2017

MORANDI E ROVAZZI, PRIMO TORMENTONE ESTIVO

L’estate 2017 ha già il suo primo tormentone. Che è ancora nel segno di Fabio Rovazzi, il cantante che l’estate scorsa ha sbancato tutto e tutti con “Andiamo a comandare”, prima di fare il bis pochi mesi dopo con “Tutto molto interessante”. Stavolta il ventitreenne cantante di Lambrate ha coinvolto nell’operazione nientemeno che Gianni Morandi, classe 1944, un’icona della musica italiana. “Soltanto” mezzo secolo di differenza di età fra i due, ma nel video di “Volare” - questo il titolo del brano che tiene a battesimo l’improbabile ma riuscitissima accoppiata - la differenza non si nota. Grazie soprattutto all’ironia e all’autoironia dell’eterno ragazzo di Monghidoro, disposto a mettersi e rimettersi continuamente in gioco. La storia raccontata nel video è presto detta. Rovazzi va a fare visita in ospedale a Maccio Capatonda (comico e regista molto amato sul web), che in punto di morte gli rivela che la gente ormai lo odia per il suo successo. L’unico modo per uscire da questa sgradevole situazione è fare un video con l’unica persona a suo avviso non odiabile: Morandi, appunto. Ma l’eterno ragazzo non ci sta e allora Rovazzi rapisce sua moglie Anna (che nel video interpreta se stessa): la libererà soltanto in cambio del sospirato sì al video. La finzione s’intreccia dunque con la finzione, in un continuo gioco di rimandi, citazioni e ribaltamenti di ruoli, sempre all’insegna dell’ironia. Con Morandi che ripete più volte: «Ma questi giovani di oggi no, io ti giuro mai li capirò...». Alla fine Anna viene finalmente liberata, ma nell’ultima immagine rivela al marito di aver organizzato tutto lei, per farlo finalmente uscire, perchè «stai sempre su facebook...». Una sciocchezza? Assolutamente sì, ma funziona, diverte, rimane subito in testa. E la cosa è dimostrata dai quasi trenta milioni di visualizzazioni del video (ormai il successo di un brano si misura così...) in appena due settimane dalla pubblicazione. Fra gli ospiti della ragazzata, anche Fedez, Frank Matano, la friulana Lodovica Comello e lo storico capitano dell’Inter Javier Zanetti. Com’è nata la strana accoppiata? Lo rivela lo stesso Rovazzi: «Era da tempo che volevo fare un “featuring” con Morandi, con il quale ci eravamo già “annusati” sui social. Lui è perfetto perché è l’unico della sua generazione che sui social è attivo. Gli ho cucito addosso un video sartoriale...». Morandi: «Rovazzi mi diverte. Sì, è una cosa molto diversa da quello che faccio di solito, ma a me piace sperimentare sempre qualcosa di nuovo. Io mi sono divertito molto. E mi sembra si stiano divertendo anche gli altri...».

martedì 13 giugno 2017

50 ANNI FA MONTEREY FESTIVAL

Era la “Summer of love”, i Beatles avevano appena pubblicato “Sgt. Pepper”, Woodstock e l’Isola di Wight dovevano ancora venire. E in quel 1967, giusto cinquant’anni fa, dal 16 al 18 giugno duecentomila giovani bivaccarono a Monterey, California, in un’arena naturale che per anni aveva ospitato il Monterey Jazz Festival. Ma i tempi stavano cambiando, come cantava il supremo Bob, e quell’anno andò in scena il Monterey International Pop Festival, considerato uno degli eventi fondativi del movimento (della rivoluzione?) hippie. Il biglietto costava un dollaro. Suonarono Jimi Hendrix, Who, Janis Joplin, Jefferson Airplane, Canned Heat, Grateful Dead, Simon & Garfunkel, Animals, Mamas & Papas, Otis Redding, Ravi Shankar e tanti altri. Nel programma erano stati inseriti ma non suonarono Beach Boys, Beatles e Rolling Stones. Che avevano tutte le intenzioni di partecipare, ma non poterono letteralmente entrare negli Stati Uniti: fu infatti negato loro l’ingresso a causa dei precedenti arresti per droga di Mick Jagger e Keith Richards. Il chitarrista e fondatore Brian Jones (che sarebbe morto due anni dopo, trovato sul fondo della piscina nella sua casa a Hartfield, nel Sussex) apparve sul palco ma solo per presentare Hendrix, alla prima grande apparizione americana. In questo fine settimana, dal 16 al 18, a Monterey si terrà un festival per celebrare il mezzo secolo trascorso. Ci saranno Regina Spektor, Father John Misty, My Morning Jacket’s Jim James, Kurt Vile & The Violators, Norah Jones, Dr. Dog, Gary Clark Jr, The Head of the Heart. E qualche superstite del ’67: Phil Lesh dei Grateful Dead, Eric Burdon & The Animals, Booker T.

PAOLA TURCI 19-7 A TRIESTE

«Ho un gran bel ricordo del mio concerto a Trieste, per la Barcolana, nella splendida piazza Unità affacciata sul mare, con tanta bora. Sarà stato il 2003. Pensare di tornare in quella piazza mi emoziona. A Trieste, poi: città europea, elegante, affascinante...». L’anno della Barcolana era in realtà il 2005. Paola Turci è comunque pronta per il concerto in piazza Unità in programma il 19 luglio, a ingresso libero. Il tour è cominciato il 9 maggio dall’Auditorium Parco della Musica di Roma e prosegue per tutta l’estate. “Secondo cuore tour”, stesso titolo dell’album. «Indica il luogo del cuore, dell’anima. Era la stanza dove suonavo la chitarra da ragazzina. Dove nascono le idee, le canzoni, dove l’ispirazione prende forma. Diciamo che indica la mia dimensione ideale, dove nasce la mia musica». È tornata a Sanremo dopo tanti anni. «Sì, mancavo da sedici anni. Mi sono preparata quasi come fa un atleta, era importante per me tornare dopo tanto tempo. A Sanremo avevo debuttato nell’85, avevo ventun anni: è il solito, grande, divertentissimo circo. Non avevo aspettative, mi sembra sia andata bene». Ha cantato la bellezza delle donne. «Quel “Fatti bella per te” era rivolto innanzitutto a me stessa. Credo che una donna esprima bellezza solo per il fatto di essere donna. Anna Magnani era di una bellezza dirompente, anche se non rispondeva a canoni classici». Tanti anni fa lei voleva fare l’attrice. «Ho frequentato anche l’accademia teatrale. Volevo fare un’esperienza, poi mi sono appassionata. E nel ’93 sostenni un provino per un film di Ettore Scola. Venti giorni prima dell’incidente. La vita ha le sue sliding doors...». La sua vita ha un prima e un dopo quel terribile incidente stradale. «Tredici operazioni, di cui dodici all’occhio, centoventi punti in faccia. Da ragazza non mi vedevo bella. Dopo l’incidente mi sono impegnata a non dirmi più che non ero bella». Il volto racconta una persona? «La fisiognomica ce lo insegna. La vita può essere letta su un volto. Uno sguardo può raccontare quello che hai fatto». Ha detto: non ero una persona felice. «Ero inquieta, insicura, impaurita, sempre alla ricerca di quel che non avevo. Poi sono rinata con il mio lavoro. La chiave è stata confessare le mie debolezze. Avevo fatto credere che avevo superato tutto ma non era vero, ero vittima dei giudizi degli altri, vivevo male. Avevo solo nascosto le mie cicatrici, che portavano storia, vissuto, rinascita, conquista delle cose belle venute dopo. Ha scritto anche un libro. «S’intitola “Mi amerò lo stesso”, ci ho messo dentro molto della mia vita, di questi fatti che le sto raccontando. C’è un capitolo anche sulla fede, che ho ritrovato». Finalmente ha debuttato a teatro. «Era un sogno rimasto nascosto nel cassetto dopo quel provino con Scola. L’anno scorso ho debuttato a Milano con un monologo tratto proprio dal mio libro: solo quattro repliche, ma ho intenzione di riprenderlo». Il tempo guarisce? «Se lo utilizzi bene, sì. Il tempo che scorre invece può essere vuoto, un quaderno di fogli bianchi». .

domenica 11 giugno 2017

CONCERTI FVG ESTATE 2017

E poi c’è il nostro caro e vecchio Nordest, che peraltro da qualche anno gioca un ruolo di primo piano nella programmazione estiva dei concerti grandi e piccoli. Domani alle 21, allo Stadio Teghil di Lignano Sabbiadoro sottoposto a controlli da massima allerta, si apre il tour di Tiziano Ferro. Il 15 giugno, all’Arena Alpe Adria sempre di Lignano, è di scena il rock australiano degli Airbourne. Luglio comincia con il vincitore e il terzo classificato dell’ultimo Sanremo: Francesco Gabbani il 7 luglio ancora all’Arena Alpe Adria di Lignano e due giorni dopo, il 9, Ermal Meta canta in piazza Unità a Trieste. Giusto il tempo di una parentesi il 14 luglio con Francesco Renga al Castello di Udine, e il 19 torniamo nella grande piazza triestina con il concerto di Paola Turci. Il 22 luglio ci sono i Litfiba a Majano, con il loro “Eutopia Tour”. Appena tre giorni, ed ecco l’evento forse pù atteso: il 25 luglio a Cividale del Friuli, al Parco della Lesa, è infatti di scena Sting con il tour “57th & 9th”. Che il giorno dopo, il 26, farà tappa anche in Croazia, all’Arena di Pola. Il 4 agosto siamo di nuovo allo stadio di Lignano Sabbiadoro, dove arrivano gli Offspring, nell’ambito del Lignano Sunset Festival. Una settimana dopo, l’11 agosto, ancora al Teghil di Lignano, torna in regione la popstar spagnola Alvaro Soler. Un’anticipazione dal No Borders Music Festival di Tarvisio, che giunge quest’anno alla 22.a edizione: il 27 luglio saranno di scena gli Editors, per l’unica data italiana dopo il successo al Concertone romano del Primo maggio. E il 28 arriva Joss Stone: anche questa un’esclusiva italiana, nell’ambito di quel “Total World Tour” che l’artista inglese ha inaugurato nel 2014, con l’obiettivo di suonare in ogni paese del pianeta. Il 29 agosto trasferta a Klagenfurt per la tappa austriaca del tour europeo di Robbie Williams (che il 14 luglio sarà a Verona, il 15 a Lucca e il 17 a Barolo, Cuneo). Siamo a settembre, e sabato 2 è in programma quello che potrebbe essere l’ultimo grande concerto dell’estate 2017: allo stadio di Lignano arrivano infatti i Franz Ferdinand.

ROCK CONTRO LA PAURA, CONCERTI ESTATE 2017

Il rock contro la paura. Sì, perchè la novità di quest’estate è l’allarme terrorismo. Che dopo la tragedia di Manchester, le paure del Rock am Ring e la follia di Torino non permette di vivere con serenità il tradizionale appuntamento, non solo per i giovani, con i concerti pop e rock. Il calendario è comunque quasi pronto, e promette i soliti fuochi d’artificio di stelle grandi e piccole. Doppia copertina per gli immarcescibili Rolling Stones, una sola data in Italia il 23 settembre al Lucca Summer Festival, e per Vasco Rossi, che il primo luglio a “Modena Park” sfiderà il record mondiale di presenze in un concerto. Poi, in ordine sparso, segnalazioni per Guns N’Roses (oggi all’autodromo di Imola), Iggy Pop (sempre oggi a Bari), Cranberries (lunedì a Milano, venerdì 23 a Piazzola sul Brenta, Padova), Green Day (mercoledì 14 giugno a Lucca, giovedì 15 a Monza), Radiohead (mercoledì 14 a Firenze e venerdì 16 a Monza), Linkin Park, Blink 182 e Sum 41 (17 giugno a Monza), Kings of Leon (21 giugno a Milano), Deep Purple (22 giugno a Roma, 26 a Bologna, 27 a Milano), Aerosmith e Placebo (23 giugno a Firenze), Eddie Vedder (24 giugno a Firenze), Depeche Mode (25 giugno a Roma, 27 a Milano, 29 a Bologna). Luglio apre con i Coldplay il 3 e 4 a Milano, Stadio di San Siro. Poi Editors e The Cult (6 luglio al Pistoia Blues), Darkness (7 luglio a Milano), U2 (15 e 16 luglio a Roma), The Xx (8 luglio a Firenze, 10 a Roma), Arcade Fire (17 luglio a Milano), Extreme (18 Luglio a Milano), Kasabian (19 luglio a Taormina, 21 a Roma, 22 a Piazzola sul Brenta), 23 a Lucca), Marilyn Manson (25 luglio a Roma, 26 a Villafranca, Verona), Offspring (27 luglio a Barolo, Cuneo). Agosto porta i Megadeth (8 agosto a Sesto San Giovanni, Milano), Ben Harper (10-11 agosto a Gardone Riviera, Brescia), Interpol (22 agosto ad Asolo, Treviso), Duran Duran (31 agosto all’Home Festival, Treviso). E poi c’è settembre, che oltre ai citati Stones (che saranno anche il 12 settembre a Monaco di Baviera e il 16 a Spielberg, in Austria) propone Liam Gallagher il primo settembre ancora all’Home Festival di Treviso. La nostra Elisa festeggia vent’anni di carriera il 12, 13 e 15 all’Arena di Verona. Da segnalare ancora il Festival I-Days, che porterà al Parco di Monza Green Day, Rancid e Tre Allegri Ragazzi Morti (15 giugno); Radiohead, James Blake e Michael Kiwanuka (16); Linkin Park, Blink 182 e Sum41 (17); Justin Bieber, il dj Martin Garrix e Bastille (18). Il citato Home Festival di Treviso si terrà fra il 30 agosto e il 3 settembre: oltre a Duran Duran e Liam Gallagher, ci saranno J-Ax e Fedez, Justice, Soulwax, Samuel, Marracash e Gué Pequeno, Thegiornalisti, Mannarino... La terza edizione del Todays Festival di Torino propone dal 25 al 27 agosto PJ Harvey, Richard Ashcroft, Band of Horses, Perfume Genius, Timber Timbre e tra gli italiani Giorgio Poi, Andrea Laszlo De Simone e Pop X. Altre date “in lavoro”...

ASSOSTAMPA FVG, APPROVATI I BILANCI

Si è svolta al Circolo della Stampa di Trieste, alla presenza del segretario generale della Fnsi Raffaele Lorusso, l’assemblea annuale dell’Assostampa Friuli Venezia Giulia con all’ordine del giorno il bilancio consuntivo 2016 – chiuso in buon attivo e approvato all’unanimità – e quello preventivo 2017. A inizio riunione il segretario dell’Assostampa, Alessandro Martegani ha letto un messaggio di saluto di Cristiano Degano, presidente regionale dell’Ordine, assente per un impegno romano. Il presidente dell’Assostampa Fvg, Carlo Muscatello, ha quindi fatto un quadro della situazione regionale, che sconta le stesse criticità del panorama nazionale: editori che puntano solo a ridurre i costi e a tagliare, senza pensare allo sviluppo e agli investimenti per il lavoro. Prepensionamenti dunque anche al “Piccolo” di Trieste, che in pochi anni ha visto ridotta di un terzo la propria redazione. Situazione meno critica al Messaggero Veneto, battaglia per la sopravvivenza al Primorski Dnevnik, Rai regionale impegnata per la difesa del ruolo del servizio pubblico. Impegno costante di Assostampa sul fronte degli uffici stampa, delle agenzie di stampa e dell’emittenza locale, oltre che ovviamente al fianco dei tanti colleghi precari. Mentre sindacato e Ordine aspettano da quattro anni la legge regionale sull’editoria per la quale c’era stato un formale impegno della presidente Serracchiani. Il segretario Lorusso ha invece ricordato come nei decreti attuativi della riforma dell’editoria ci sia un grande assente: il lavoro. La legge non affronta alcuni punti fondamentali per la categoria, a partire dall’accesso alla professione che rimane totalmente avulso dalla realtà. Ci sono dei passi in avanti, come il legare i finanziamenti al rispetto degli obblighi contrattuali, o l’eliminazione della cosiddetta “crisi prospettica” per poter accedere agli ammortizzatori sociali, principio che nel passato può aver generato eccessi o abusi. Gli editori utilizzano in maniera impropria contratti atipici e partite iva per sfruttare il lavoro dei collaboratori e far passare per lavoro autonomo quello che in realtà lavoro subordinato. “Questa – ha ribadito Lorusso – è una situazione che non possiamo più accettare: anche nella manifestazione del 24 maggio davanti a Montecitorio è stato posto con forza il tema dei diritti e del lavoro. Un’informazione precaria è un’informazione meno autorevole e meno autonoma. È certo che il futuro dell’informazione in questo Paese non può passare solo da tagli, pensionamenti anticipati e lavoro precario. I giornalisti hanno fatto la propria parte, sappiamo che il periodo è difficile, ma un’informazione di qualità passa per investimenti, formazione, colleghi preparati, tutti temi su cui siamo pronti a confrontarci e anche a scontrarci. Bisogna spostare le risorse dalla finanza al lavoro: se non puntiamo sul lavoro è difficile ipotizzare qualsiasi ripresa”. Il tema della qualità dell’informazione esiste, dunque, e va portato avanti nel confronto con gli editori, così come quello delle querele temerarie con il governo. “Si tratta di temi centrali, che riguardano tutto il Paese e non solo la categoria, perché l’informazione riguarda tutti. La nostra – ha concluso il segretario Fnsi – è una professione che ha una incidenza diretta sulla qualità della democrazia, e che sta subendo attacchi a livello globale da fenomeni come la disintermediazione”.

lunedì 5 giugno 2017

DOMANI SEGRETARIO FNSI LORUSSO A TRIESTE PER ASSEMBLEA ASSOSTAMPA FVG

Il segretario nazionale della Fnsi, Raffaele Lorusso, interverrà domani a Trieste all'assemblea annuale dell'Assostampa FVG, sindacato regionale dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia. Oltre al tradizionale appuntamento con i bilanci dell'associazione - informa il sindacato - si parlerà dell'attuale situazione di grave crisi del mondo del giornalismo italiano, dell'impegno del sindacato unitario al fianco dei cronisti minacciati e contro le querele temerarie, dell'emergenza lavoro e precariato. "Se guardo ai decreti attuativi della legge sull'editoria - dice Lorusso - e penso a quello che ci si è detti sull'occupazione con il governo prima che questi decreti venissero adottati, noi giornalisti sicuramente possiamo dire di essere in credito nei confronti dell'esecutivo. Ad oggi non c'è nulla, e sottolineo nulla, che vada nella direzione della ripresa dell'occupazione, della lotta al precariato e della inclusione delle fasce più deboli della professione. È invece auspicabile, chiusa la fase delle ristrutturazioni aziendali, per le quali il governo ha stanziato altre risorse, che si cominci a parlare di occupazione e di lavoro regolare perché non è immaginabile che il rilancio di questo settore passi solo attraverso la declinazione dei verbi 'tagliare' e 'precarizzare'. Non è questo - conclude - che può portare in questo paese una informazione di qualità". (Ansa)

domenica 4 giugno 2017

VASCO BRONDI 28-7 ad AZZANO X, PORDENONE

Fra i cantautori italiani, è stato forse il primo a cantare la precarietà di una generazione. Dieci anni dopo quel demo di debutto, cui nel 2008 sarebbe seguito il primo album vero e proprio, “Canzoni da spiaggia deturpata”, Premio Tenco per la miglior opera prima di quell’anno, il ferrarese Vasco Brondi (nato però a Verona, nell’84), quello che si cela dietro al nome Le luci della centrale elettrica, torna in tour dopo l’album “Terra”, prodotto assieme a Federico Dragogna dei Ministri. E in questa attesissima tournèe estiva è già prevista una data nel Friuli Venezia Giulia, il 28 luglio ad Azzano Decimo, alla Fiera della musica. Un concerto che segue la “data zero” svoltasi due mesi fa ancora nella nostra regione, a Fontanafredda, sempre in provincia di Pordenone. «Alla fine dei tour - ha detto il cantautore - ho preso l’abitudine di viaggiare. In teoria lo faccio per scrivere, ma non va mai così. La musica mi continua a stupire perché è una specie di macchina del tempo che ti porta in pochi secondi in luoghi lontani». «Per esempio, in questo disco ci sono echi di un viaggio fatto a Mostar a diciott’anni con un amico: era stato il primo contatto fisico con un luogo di guerra e vedere le case scoperchiate, i buchi dei proiettili e le signore che ti affittano le case con le stanze vuote dei figli morti per me è stato un trauma. Però c’erano anche le feste, tutte le sere, nelle case abbandonate, sentivi voglia di vivere intorno a te. Quei ragazzi non volevano fare monumenti alla memoria ma vivere il presente e pensare al futuro, non scavare nel dolore, il passato gli era già così appiccicato addosso...». Ancora Vasco: «C’è una strofa di una canzone di questo disco, “Coprifuoco”, che viene direttamente da lì. Nel ritornello dice: “Dove c’era un minareto o un campanile c’è un albero in fiore tra le rovine”. Si era ripreso il suo posto: una volta ridiventate polvere, chiesa e minareto erano uguali. Scrivendo questo disco mi sono reso conto che cose che nemmeno credevo riguardassero la mia vita mi erano invece entrate nel profondo e sono uscite fuori molti anni dopo, grazie alla musica». “Terra” è il suo quarto album di inediti dopo il citato “Canzoni da spiaggia deturpata” (2008), “Per ora noi la chiameremo felicità” (2010) e “Costellazioni” (2013). Pubblicato nel formato speciale a forma di libro che, oltre al cd, contiene anche il diario di lavorazione, intitolato “La grandiosa autostrada dei ripensamenti”: «Un diario di viaggio e di divagazioni - ha spiegato - dell’anno e mezzo di scrittura e degli ultimi tre mesi di registrazioni in studio». Un disco sontuoso nel quale Vasco Brondi racconta un mondo nuovo, quello dell’Italia di oggi, sopravvissuto a “questi cazzo di anni zero” come lui stesso urlava quasi dieci anni fa in “La lotta armata al bar”.

giovedì 1 giugno 2017

COSI' L'ITALIA CANTO' LA PRIMA REPUBBLICA, POVERA PATRIA DI STEFANO SAVELLA

«Povera patria...», cantava Franco Battiato nel 1991. Era la vigilia di tangentopoli, di mani pulite, della fine della prima repubblica. E il musicista siciliano proseguiva sferzante: «...schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore. Si credono potenti e gli va bene quello che fanno, e tutto gli appartiene». Ancora, fra j’accuse e scoramento: «Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni. Questo paese è devastato dal dolore. Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?» Non cambierà, aggiungeva duro. E poi: «Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? Nel fango affonda lo stivale dei maiali». Per annotare infine che «la primavera, intanto, tarda ad arrivare». Parole che rimangono purtroppo di attualità, a distanza di tanti anni. Forse, secondo alcuni, non è cambiato nulla. E quel titolo così evocativo, “Povera patria”, viene ora utilizzato da Stefano Savella, redattore e blogger pugliese classe 1982 (all’epoca del capolavoro battiatesto aveva dunque appena nove anni...), per battezzare la sua accurata ricerca su “La canzone italiana e la fine della prima repubblica”, sottotilo del libro (Arcana, pagg. 240, euro 17,50). Ma Battiato è solo uno dei tanti cantautori che hanno composto la colonna sonora dell’epoca in questione, di cui si parla e si scrive spesso in queste settimane. Per l’anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone e presto per quello di Paolo Borsellino. Per i venticinque anni di tangentopoli e di mani pulite, delle monetine contro Craxi, della Lega e del cappio in parlamento, presto della “discesa in campo” di Berlusconi... Persino per la fiction di Sky “1993”, in onda in queste settimane, dopo il successo lo scorso anno di “1992”. Il 1991 era anche l’anno in cui Giorgio Gaber aveva scritto “Qualcuno era comunista” («...perché Berlinguer era una brava persona, perché Andreotti non era una brava persona, perché era ricco ma amava il popolo, perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari, perché era così ateo che aveva bisogno di un altro dio, perché era così affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro, perché non ne poteva più di fare l'operaio, perché voleva l'aumento di stipendio...»). In mezzo, fra il poliedrico artista siciliano e il compianto inventore del teatro canzone (milanese di origine triestina, che all’anagrafe faceva Gaberscik, 1939-2003), tanti gli autori e i brani che accompagnarono quella stagione di assedio alla politica e ai suoi protagonisti. Da Elio e le storie tese (che al Concertone del Primo maggio, in diretta televisiva, cambiano le parole del proprio brano inserendo vicende di cronaca giudiziaria) a Francesco Baccini (“Giulio Andreotti”), da Eugenio Finardi a Francesco De Gregori (“Adelante”), da Antonello Venditti (“In questo mondo di ladri”, uscita qualche anno prima ma rispolverata nei concerti per l’occasione) a Edoardo Bennato. E ancora Enzo Jannacci, Pierangelo Bertoli, Jovanotti, Modena City Ramblers... Persino Pooh (“In Italia si può”, dall’album “Il cielo è blu sopra le nuvole”) e Gianni Morandi (“Il presidente”) non si sottraggono al clima che si respira nel Paese. Con riferimenti espliciti o impliciti, anche il mondo della musica e della canzone dà il contributo al metaforico assalto al palazzo. E poi c’è, c’era Fabrizio De Andrè. Sublime nell’immaginifica mediazione poetica de “La domenica delle salme”. «Il ministro dei temporali - cantava Faber - in un tripudio di tromboni auspicava democrazia, con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni. Voglio vivere in una città dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo. A tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile...». Profetico.