giovedì 10 agosto 2017

RAOUL CASADEI NE FA OTTANTA

Raoul Casadei, il “re del liscio”, compie ottant’anni il giorno di Ferragosto. E li festeggia sul palco, a Santarcangelo di Romagna, nell’entroterra riminese, con lo spettacolo “Il liscio incontra la taranta salentina”, assieme all’Orchestra Casadei, ora guidata dal figlio Mirko, erede di un’antica dinastia musicale. Orchestra che, anche senza il suo patriarca, anche quest’estate sta girando tutta Italia, non soltanto le località di villeggiatura, con il tour “Sono romagnolo”. Tappa anche nel Friuli Venezia Giulia, venerdì 18 agosto alle 21, a Carpacco, in provincia di Udine. L’Orchestra Casadei è in attività dal 1928, fondata dallo zio Secondo. Il folklore romagnolo, diventato “liscio” e “musica solare” negli anni Settanta, ha trovato nella famiglia Casadei la sua massima espressione e persino una sua certa iconografia: gli strumenti musicali, le divise, gli autobus e il ballo come filosofia del vivere. Fra l’altro va segnalato che il percorso cominciato da Raoul e proseguito negli ultimi quindici anni da Mirko ha saputo fondere la tradizione musicale di famiglia con sonorità pop e folk, collaborando fra gli altri con artisti del calibro di Gloria Gaynor, Tito Puente, Goran Bregovic, i Khorakhanè, Frankie hi-nrg mc, Roy Paci Aretuska. E ancora Eugenio Bennato, Massimo Bubola, Cisco, Mario Reyes, Gloria Gaynor, Kid Creole, Morgan e tanti altri. Insomma, la proposta musicale della ditta attualmente intreccia suoni e sapori di generi musicali di svariate provenienze perché «il bello della musica - come dice Mirko - è che parla un linguaggio globale». Il liscio di famiglia diventa allora trasversale, contamina e si lascia contaminare, incrociando reggae, ska, taranta e tanti altri ritmi e generi, come dimostra anche il recente album “Sono romagnolo”. «Siete tutti invitati alla mia festa a Santarcangelo - ha detto Raoul alla vigilia del suo compleanno tondo - per cantare insieme la mia canzone più bella, “Romagna capitale”». La sera di Ferragosto l’Orchestra Casadei duetterà in concerto con il Canzoniere Grecanico Salentino, il più importante gruppo di musica popolare salentina. Insomma, «il liscio incontra la taranta e la tradizione incontra l'innovazione». Senza dimenticare grandi successi come “Romagna e Sangiovese”, “Ciao mare”, “Il passatore”, la citata “Romagna capitale”, “Appasiuneda”, “Simpatia”... Da ultimo, anche Raidue festeggia Raoul Casadei. Giovedì 17 agosto alle 21.15 andrà infatti in onda “Casadei, la dinastia del liscio”, nell’ambito della serie “Unici”.

SOGNI, CANZONI E "RIVOLUZIONI", saggio di Ballanti e Assante

«Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia...». Francesco Guccini cantava questa lampante verità oltre quarant’anni fa, per l’esattezza nel ’76, nella celebre invettiva “L’avvelenata” (dall’album “Via Paolo Fabbri 43”). Vabbe, in effetti (quasi) nessuno è stato così sciocco da pensare che le rivoluzioni si potessero fare con le canzoni. Però c’è sicuramente stato un tempo, soprattutto a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, nel quale la musica, il rock, le canzoni sono sembrate a molti uno strumento, un grimaldello, un cavallo di troia attraverso il quale cambiare il mondo. Ma oggi che, col senno di poi, abbiamo la prova provata che l’impresa era ardua assai, c’è chi giustamente si domanda - con l’approccio ormai dello storico - che legame c’è stato, nella seconda metà del secolo scorso, fra azione politica, filosofia libertaria e musica rock. Quali le relazioni fra industria culturale e poeti della Beat generation, da Allen Ginsberg a Jack Kerouac a tutti gli altri? Come mettere assieme, in definitiva, Beatles e guerra nel Vietnam, Bob Dylan e battaglie per i diritti civili, Doors e movimento hippie, Pink Floyd e studenti in rivolta a Berkeley? Per tentare di tracciare il classico filo rosso fra Woodstock e Sessantotto, Pantere nere e Che Guevara, Marcuse e Jean-Paul Sartre, droghe e Pier Paolo Pasolini... Federico Ballanti ed Ernesto Assante, l’uno giornalista e filosofo esperto di comunicazione culturale, l’altro critico musicale di “Repubblica” (ruolo che divide da anni con Gino Castaldo, con cui forma anche la fortunata coppia di “Webnotte”), tentano di offrire delle risposte a cotanti interrogativi in “Rivoluzioni”, sottotitolo “L’insurrezione poetica e la rivolta politica. Controcultura (1955-1980)”, pubblicato da Arcana edizioni (pagg. 382, euro 22). Da segnalare che lo spunto per il saggio è giunto agli autori dalle domande e dalle sollecitazioni degli studenti del corso di Scienze della comunicazione da loro tenuto all’Università di Roma alcuni anni fa. Quella che emerge dal lavoro è una vera e propria mappa culturale, che ha l’ambizione di rappresentare un’epoca ma anche una generazione. Quella di chi è stato ragazzo negli anni Sessanta e Settanta, da questa e dall’altra parte dell’Atlantico. Si comincia dal ’55, quando Elvis debutta incidendo “Baby let’s play house” per l’etichetta Sun di Sam Phillips. Intanto, Allen Ginsberg scrive “Howl” e Jack Kerouac è impegnato nell’ennesima riscrittura di “On the road”: una poesia e un romanzo che hanno cambiato la vita di milioni di persone. Un quarto di secolo dopo, superati il Sessantotto e il Settantasette con tutto quello che hanno significato, il 1980 è considerato l’inizio della normalizzazione, con gli anni di Reagan dall’altra parte dell’oceano e della Thatcher in Gran Bretagna e dunque nella vecchia Europa. C’è anche una data precisa, l’8 dicembre ’80, che simboleggia la fine di tutto, o perlomeno della controcultura: quel giorno, a New York, davanti al Dakota Palace affacciato su Central Park, viene ucciso John Lennon. Quali sono le tradizioni e le innovazioni - si chiedono gli autori - che costituiscono il pensiero contemporaneo, da dove arrivano le modalità di lettura e di comprensione del reale che sono proprie dell’oggi? E quali sono le radici del presente, da quale ideale discende l’attuale reale, chi ha posto le premesse del nostro mondo? Ancora, quali sono le correnti che hanno modificato la nostra percezione del reale e fin dove possiamo risalire? Uno studio al tempo stesso culturale e giornalistico, in bilico fra vademecum musicale e riflessione sociale, nel quale si cerca di rimontare il corso del tempo, riannodare qualche legame, riconoscere le origini. Una narrazione che si spinge alle radici del dissenso, intreccia rivolta politica e insurrezione poetica, negli anni di quella controcultura e di quelle suggestioni musicali che avevano l’ambizione di cambiare il mondo. E in parte in fondo lo ha cambiato, prima di venir fagocitata dal business.

lunedì 7 agosto 2017

ELVIS, IL MONDO LO RICORDA COSÌ

Le celebrazioni per i quarant’anni dalla morte di Elvis sono in realtà cominciate per tempo. Nuovi dischi, fra cui la notevole raccolta “A boy from Tupelo”: tre cd con le registrazioni per l’etichetta Sun dal ’53 al ’55, compresi i primi “demo” poco più che artigianali. Ma anche libri, film (in arrivo un “biopic” sul leggendario colonnello Parker), cimeli (è stato venduto all’asta un suo pigiama per ottomila dollari), memorabilia. A Senigallia il Summer Jamboree proporrà la mostra Elvis Presley Museum, con un centinaio di oggetti del “re”, fra cui il primo dollaro guadagnato, il congedo militare del 1960, la sua Cadillac favorita (pare ne possedesse oltre duecento). Dal 10 ottobre, dopo l’anteprima di maggio, parte dal “Nuovo” di Milano il tour di “Elvis The Musical”, scritto e diretto da Maurizio Colombi: una sorta di biografia in musica della sua vita, ripercorsa attraverso le due canzoni, con un cast di sedici performer e sei musicisti, fra cui l’esordiente Michel Orlando (Elvis giovane) e l’italocanadese Joe Ontario (Elvis maturo), già protagonista di tributi a Presley in Italia, Stati Uniti, Germania e Inghilterra. «Non ho voluto creare un documentario, ma emozionare con la storia di Elvis», ha detto Colombi. La storia, raccontata come una fiaba e costruita con la consulenza di tre studiosi di Elvis, si sofferma così su eventi personali come la relazione con Priscilla (Valeria Citi) o la morte della madre Gladys (Elisa Filace) e seguendo luci e ombre si incardina su un momento simbolico come lo show televisivo del 1968, il ritorno alla musica dopo i frustranti anni dei film. La stessa scaletta del musical segue questo ritmo: la prima parte illustra la fulminea nascita della leggenda con classici come “Jailhouse Rock” eseguiti in medley; la seconda parte presenta per intero le più grandi hit, come “It’s now or never” (versione americana di “O sole mio”) e “Suspicious minds”'; finale con “My way”.

40 ANNI SENZA ELVIS

Quest’anno l’anniversario è tondo, di quelli che non si possono ignorare. Quarant’anni senza Elvis Presley, morto il 16 agosto 1977, arresto cardiaco, aveva appena quarantadue anni. Aveva inventato il rock’n’roll. E non solo quello. Forse anche la stessa categoria dei “giovani”. Che prima di lui, se ci pensiamo bene, nemmeno esistevano: erano soltanto piccoli uomini in attesa di diventare come i loro genitori. Fra le leggende metropolitane che hanno accompagnato questi quattro decenni, per anni ha prosperato quella secondo cui il “re del rock’n’roll” in realtà non fosse mai morto. L’edizione latinoamericana di Rolling Stone tempo fa scrisse che risiederebbe in Argentina, lì riparato nel ’77 nientemeno che con la collaborazione di Cia e Fbi, per fuggire dalla gabbia dorata che il successo mondiale gli aveva costruito attorno. Oggi avrebbe ottantadue anni. Chissà. Ma ogni tanto riemergono altri misteri, altri dubbi, altri elementi per avvalorare il mito. Esempi in ordine sparso, già rilanciati da vari giornali. Esisterebbero due bare: la prima non arrivava ai novanta chili, mentre “the king” pesava più di un quintale e mezzo. Anche l’unica foto esistente del cadavere nella bara, scattata dal cugino, non corrisponde alle ultime immagini dell’artista: sembra più giovane e più magro. Andiamo avanti. Il primo certificato di morte sarebbe sparito e poi sostituito da un altro. Anche la firma sul certificato di morte sembra esattamente quella di Elvis. L’autopsia a distanza di quarant’anni è ancora secretata, chi l’ha vista dice che segnala una lunga cicatrice sull’addome che l’artista non aveva. Appena due ore dopo la scoperta del cadavere, qualcuno acquistò un biglietto sola andata per Buenos Aires (ancora l’Argentina), pagandolo in contanti, a nome di certo John Burrows: guarda caso uno dei tanti pseudonimi che il nostro usava abitualmente. Ancora. I due libri più importanti per l’artista, quelli dai quali non si separava mai, non sono mai stati ritrovati. Il giorno dopo la morte, la sua fiamma di allora, tale Lucy De Barbon, ricevette una rosa con un biglietto firmato El Lancelot, il soprannome che lui usava solo con lei. E come se tutto ciò non bastasse, c’è sempre quella storia secondo la quale Elvis, prima di partire per Buenos Aires, avrebbe addirittura partecipato al suo funerale: nelle foto si intravede un uomo che potrebbe essere lui, e nessuno si è mai fatto vivo quando i giornali chiesero che quell’uomo si palesasse per chiarire il mistero. Leggende metropolitane? Probabile. Certa è invece l’importanza di Elvis nella musica e nella cultura degli ultimi sessant’anni. Si diceva dei giovani, che come categoria sociale non esistevano prima di lui. Erano soltanto figli che aspettavano il loro turno anagrafico per diventare come i propri genitori. Ascoltando la stessa musica, vestendo gli stessi abiti, pettinandosi alla stessa maniera, serbando gli stessi valori. Un film del 1955, “Blackboard jungle”, con Bill Haley che canta “Rock around the clock”, accende la miccia del cambiamento. Che diventa rivoluzione con l'arrivo di quel ragazzone bianco. Prima di Elvis Aaron Presley la musica leggera americana era divisa in tre generi, ben separati l’un dall'altro: il pop (da “popular”, popolare), il country e il rhythm’n’blues. I primi due rigorosamente bianchi, il terzo assolutamente nero. Lui arriva, prende la musica dei bianchi e la mischia con quella dei neri, usa il corpo e non solo la voce, abbatte schemi e barriere, dà voce - forse inconsapevolmente - alle ansie e alle aspirazioni di una generazione sopravvissuta alla guerra. Elvis era nato a Tupelo, Mississippi, l’8 gennaio del ’35. A diciotto anni si trasferisce con la famiglia a Memphis, dove lavora come camionista. La leggenda vuole che un giorno, estate del ’54, passando col camion sulla Union Street, vede che alla Sun Records con un dollaro si poteva registrare un disco da portarsi a casa. È il compleanno dell’amatissima madre, Gladys Smith, e lui decide di regalarle un suo disco, con incisa una vecchia ballata che aveva sentito alla radio fin da ragazzo: “My happiness”. Il proprietario della piccola sala d’incisione, un certo Sam Philips, ascoltato il ragazzo, capisce che aveva trovato quel che stava cercando da anni: un ragazzo bianco che cantasse con la stessa intensità di uno di colore... Chissà se poi è andata veramente così. O se anche questa ricostruzione fa parte della sapiente e meticolosa strategia che la Rca usò per lanciare sul mercato prima americano e poi mondiale quello che di lì a poco sarebbe diventato il re. Alla faccia di quelli - Chuck Berry, Carl Perkins, Bill Haley... - che erano arrivati prima di lui. Con Elvis, che pure è solo interprete di canzoni scritte da altri, l’America assiste al miracolo della musica dei bianchi mischiata a quella dei neri, il country del Sud rurale assieme al rhythm’n’blues nato nei campi di lavoro e nelle chiese, e poi diventato musica da ballo e da intrattenimento. Con la conseguenza che vengono abbattute anche le barriere fra le classifiche di vendita dei dischi, che prima di lui erano rigorosamente separate. Il figlio di Vernon Presley fu il crinale del cambiamento. Prima del suo avvento i figli dell’America che aveva salvato il mondo dal nazifascismo ascoltavano Frank Sinatra assieme ai genitori, pronti a ereditarne i valori, il benessere, l’automobile. Lui fece il botto, coniugando le due grandi famiglie della musica popolare americana. Melodia e ritmo, Nashville e canti gospel, in una miscela di suoni, movenze, atteggiamenti, e con l'importante aggiunta di una forte spinta ritmica di chiara ispirazione sessuale. Era il ’56. E nell'America che combatteva la guerra fredda quel suo provocatorio e sin troppo allusivo modo di roteare il bacino - da cui il soprannome “the Pelvis” - non venne accolto favorevolmente dal mondo degli adulti. Ma fu la miccia che accese la carica di ribellione dormiente in milioni di giovani corpi e menti. E che aspettava solo di esplodere. Dopo aver contribuito a cambiare l'America e il mondo, Presley - come si diceva - morì il 16 agosto del 1977. Aveva soltanto 42 anni e pesava circa 150 chili. Devastato dal cibo e dall’alcol, dai farmaci e dalle droghe. E forse dal peso di un successo che avrebbe schiantato chiunque. Un successo che sopravvive alla sua morte, generando un business multimiliardario (350 milioni di dollari in tutti questi anni, fra dischi, libri, spettacoli...) ma anche mille leggende. Insomma, Elvis vive comunque, il mito non accenna a perdere forza, ammantato da un alone di immortalità. Come per tutti i grandissimi. . .

MOGOL MARTEDÌ A GRADO CON IL CANTO LIBERO

Giulio Rapetti Mogol (dal 2006 quel che era uno pseudonimo è stato infatti aggiunto al suo cognome) torna nel Friuli Venezia Giulia, dove è ormai quasi di casa. Martedì alle 21 sarà infatti l’ospite d’onore dello spettacolo “Canto libero, Omaggio a Mogol-Battisti”, che si terrà a Grado, al Parco delle Rose, ingresso libero. Lo spettacolo, partito due anni fa proprio dall’Isola d’oro, ha girato mezza Italia - sconfinando in Slovenia e Croazia - e ora torna dove tutto è cominciato. E in qualche modo viene coronato grazie alla presenza proprio di Mogol, che aveva già partecipato un anno e mezzo fa alla data triestina al Rossetti, e che sul palco gradese, assieme alla band triestina capitanata da Fabio “Red” Rosso e diretta da Giovanni Vianelli, terrà assieme le celebri canzoni scritte assieme a Lucio Battisti: da “Emozioni” a “E penso a te”, da “La canzone del sole” a “Una donna per amico”, da “Ancora tu” alle tante altre perle di un repertorio senza tempo, che continua ad affascinare anche le nuove generazioni. Mogol, milanese, classe ’36, ha regalato le parole alla miglior musica leggera di casa nostra. In oltre mezzo secolo di onorata attività, ha infatti firmato i testi di oltre millecinquecento canzoni. Molte delle quali bellissime, alcune indimenticabili, entrate a far parte della colonna sonora delle nostre vite. Con Lucio Battisti, ma non solo. Anche per Celentano, Morandi, Cocciante, Gianni Bella. Per non parlare di Mina, Bobby Solo, Equipe 84, Dik Dik... «Lucio si presentò con due canzoni - ci raccontò anni fa quando gli chiedemmo del loro primo incontro -, gli dissi che aveva scritto due brani modesti, la cosa che mi colpì fu che lui disse: sono d’accordo. Mi fece quasi tenerezza. Gli dissi: dai, vediamoci, proviamo a collaborare assieme. E cominciò quell’incredibile avventura. La terza canzone che scrivemmo assieme fu “29 settembre”, per l’Equipe 84. E fu il botto». Del “divorzio” disse: «In effetti fu una cosa incomprensibile, girarono tante storie sui motivi della separazione. Questioni di gelosie, di soldi, persino di confini fra le nostre proprietà in Brianza. Tutte balle. La verità? Credo sia stato influenzato, mal consigliato da chi gli era vicino. Con Lucio mi sono sempre trovato bene, anche lui mi sembrava appagato e contento. E anche quando ci siamo incontrati di nuovo, anni dopo, tutto sempre bene. Era un rapporto ad alto gradimento reciproco. Ho lavorato e scritto canzoni con altri artisti. Anche belle canzoni. Ma credo che la nostra alchimia era irripetibile perchè completa nel senso globale del termine. Lucio era un grande autore, un arrangiatore, un interprete. Assieme avevamo raggiunto la completezza, una certa complementarietà». Sul palco, con Mogol, martedì a Grado ci saranno il cantante Fabio “Red” Rosso, Giovanni Vianelli al piano, Emanuele Grafitti e Luigi Di Campo alle chitarre, Alessandro Sala al basso, Jimmy Bolco e Marco Vattovani alla batteria e percussioni, Luca Piccolo alle tastiere, e le voci di Joy Jenkins e Michela Grilli.

venerdì 4 agosto 2017

BAGLIONI, INVITO ALL'ACCOGLIENZA / ART21

C'è anche un invito all'accoglienza, nelle lettere di Claudio Baglioni ai fan al tempo dei social. Stabilire contatti “reali” in un universo “virtuale”. Fra le attempate star della nostra canzone, non c’è solo Gianni Morandi (classe ’44) fra gli assidui frequentatori della rete. Anche Baglioni (classe ’51), che con lui ha diviso l’avventura dei “Capitani coraggiosi”, non ci sta a rimanere indietro. E coltiva il suo rapporto con i fan scrivendo loro - «con il tablet e non con la penna» - lettere che ora diventano un libro: “Non smettere di trasmettere” (La nave di Teseo, pagg. 615, euro 18). «Non sono post. Sono lettere. Lettere al tempo di Internet. Personali. Doppiamente personali, anzi. Nel senso che le ho scritte proprio io - spiega il divo Claudio nella prefazione - e che sono indirizzate proprio a voi. Le ho scritte con il tablet e non con la penna, è vero. Ma questa è l’unica differenza rispetto alle lettere di carta. Quelle che scrivevo emozionato e aspettavo trepidante, quando ero ragazzo...». Baglioni dice che trepidazione ed emozione sono le stesse ancora adesso, per lui che si sente “un ragazzo del secolo scorso”. Cambiano strumenti e contesti, ma alla base c’è sempre il desiderio di comunicare. Che non cambia mai e muove le nostre vite. Il web allora come una gigantesca buca delle lettere «dove basta premere un tasto e posso inviarvi i miei pensieri». E Facebook nel quale «non ci sono problemi di metrica; le parole non devono per forza avere anche un bel suono e non c’è naturalmente limite di spazio». Già, lo spazio e la metrica: limiti rigidissimi per chi fa poesia in forma di canzone. Qui l’autore di “Questo piccolo grande amore” e tanti altri capolavori viaggia a briglia sciolta. I suoi pensieri sono raccolti in ben 272 lettere, scritte fra il 24 ottobre 2015 e il 31 dicembre 2016: dalla più lunga, “Fuocoammare”, che occupa tre pagine, fino alla la più breve, “Anche il cuore da qui sente meno dolore”, appena cinque righe. Spazi e lunghezze diverse per affrontare temi spesso importanti e complessi dell’esistenza e del mondo: il futuro, la pace, le migrazioni. Sollevando domande ma senza la pretesa di dare risposte. Piuttosto con un invito all’accoglienza (“Proviamo ad aprire una porta anche noi”), perchè «l’altro e essenziale. E - non dimentichiamolo mai - per gli altri, l’altro siamo noi». Un invito figlio dell’impegno già fattivamente espresso negli anni in cui Baglioni organizzava il festival “O Scià” sull’isola di Lampedusa, la nostra valorosa capitale del Mediterraneo. Fra le lettere, il ricordo commosso del padre, il maresciallo Riccardo (“Io solo lo chiamavo papa” e “Non buttava via niente”), e della madre Silvia (“Se oggi è festa anche li” e “Mi piace saperla che ride”). L’importanza dell’amicizia (“Lo stesso spartito da leggere insieme”), i rimpianti della fanciullezza (“La bici che non ho mai avuto”), le prime timide esperienze d’amore (“Non successe niente eppure fu tutto”, “Bacio dolcissimo e aspro”, “Imparare ad amare da uomini veri”), Ovviamente la passione per la musica: “Volevo contare”, “15 anni e 8 mesi”, “Musicisti e poeti fanno anche il turno di notte”, “Questo mestiere si fa ancora a mano”... «Rete e social - scrive il cantautore romano - ormai sono parte di noi. E noi, parte di loro. Farne a meno è una scelta anacronistica e, soprattutto, difficilmente praticabile. Tornare indietro temo non sia possibile. Ammesso che sia saggio, cosa della quale personalmente dubito. Ma questo non significa affatto che si debba andare avanti lungo il piano inclinato della superficialità, della mediocrità, della banalità, rinunciando alla propria identità, ai propri valori e a ciò in cui si crede». Ancora Baglioni: «Non importa con cosa scriviamo - tavoletta d’argilla, papiro, pergamena, carta, computer, tablet o smartphone - importa cosa e come scriviamo. Il numero di like e follower non è l’indicatore della verità».

mercoledì 2 agosto 2017

NOA, FORZE DELL'ORDINE PER LA CANTANTE DELLA PACE / ART21

Otto poliziotti in divisa antisommossa, quattro carabinieri, quattro uomini della questura in borghese, e poi ancora steward privati completi di metaldetector e gli addetti della Croce rossa. Il tutto per controllare settecento spettatori al concerto di Noa, l’altra sera a Villa Manin di Passariano, Codroipo, antica residenza friulana dell’ultimo doge, che vi ospitò anche Napoleone. Sono i concerti, anche quelli non di massa, al tempo della paura del terrorismo. Bisognerà farci l’abitudine. Anche se gli organizzatori sono già in allarme, visto che i nuovi obblighi per la sicurezza rischiano di alzare notevolmente i costi degli spettacoli musicali. Per quanto riguarda Noa, questo è il tour con cui l’artista festeggia venticinque anni di carriera nel nostro Paese. Come si sa, Achinoam Nini, in arte Noa, nata a Tel Aviv nel ’69, cantante israeliana con sangue yemenita nelle vene, è apprezzata in tutto il mondo non solo per il suo valore di interprete ma anche per aver prestato la sua popolarità di artista alla causa della pace. Questo impegno, unito alle sue origini, la porta da anni a essere oggetto di ostracismo nel suo paese ma spesso anche all’estero dagli oppositori dello stato di Israele. I suoi concerti sono un autentico inno alla pacifica convivenza fra i popoli e al dialogo tra religioni e culture. Un impegno ormai antico, per il quale la cantante ha ricevuto importanti riconoscimenti: è stata insignita dai Frati Francescani di Assisi del premio “Artista per la Pace” e nominata “Ambasciatrice di buona volontà” dalla Fao. Ha ricevuto da Shimon Peres il “Dove of Peace”. È stata invitata nel 2016 a Ramallah dal presidente palestinese Abu Mazen. Ha cantato in Vaticano davanti a papa Giovanni Paolo II e a Cracovia al cospetto di papa Francesco. Noa ha anche scritto e cantato “Beautiful that way”, tema della colonna sonora di Nicola Piovani de “La vita è bella”, il film premio Oscar di Roberto Benigni. E in Italia ha partecipato per ben cinque volte al Festival di Sanremo, come ospite speciale. In questo tour è accompagnata da Gil Dor alla chitarra, Adam Ben Ezra al contrabbasso e Gadi Seri alle percussioni.

BAGLIONI, LETTERE AI FAN AL TEMPO DEL WEB

Lettere ai fan al tempo dei social. Stabilire contatti “reali” in un universo “virtuale”. Fra le attempate star della nostra canzone, non c’è solo Gianni Morandi (classe ’44) fra gli assidui frequentatori della rete. Anche Claudio Baglioni (classe ’51), che con lui ha diviso l’avventura dei “Capitani coraggiosi”, non ci sta a rimanere indietro. E coltiva il suo rapporto con i fan scrivendo loro - «con il tablet e non con la penna» - lettere che ora diventano un libro: “Non smettere di trasmettere” (La nave di Teseo, pagg. 615, euro 18). «Non sono post. Sono lettere. Lettere al tempo di Internet. Personali. Doppiamente personali, anzi. Nel senso che le ho scritte proprio io - spiega il divo Claudio nella prefazione - e che sono indirizzate proprio a voi. Le ho scritte con il tablet e non con la penna, è vero. Ma questa è l’unica differenza rispetto alle lettere di carta. Quelle che scrivevo emozionato e aspettavo trepidante, quando ero ragazzo...». Baglioni dice che trepidazione ed emozione sono le stesse ancora adesso, per lui che si sente “un ragazzo del secolo scorso”. Cambiano strumenti e contesti, ma alla base c’è sempre il desiderio di comunicare. Che non cambia mai e muove le nostre vite. Il web allora come una gigantesca buca delle lettere «dove basta premere un tasto e posso inviarvi i miei pensieri». E Facebook nel quale «non ci sono problemi di metrica; le parole non devono per forza avere anche un bel suono e non c’è naturalmente limite di spazio». Già, lo spazio e la metrica: limiti rigidissimi per chi fa poesia in forma di canzone. Qui l’autore di “Questo piccolo grande amore” e tanti altri capolavori viaggia a briglia sciolta. I suoi pensieri sono raccolti in ben 272 lettere, scritte fra il 24 ottobre 2015 e il 31 dicembre 2016: dalla più lunga, “Fuocoammare”, che occupa tre pagine, fino alla la più breve, “Anche il cuore da qui sente meno dolore”, appena cinque righe. Spazi e lunghezze diverse per affrontare temi spesso importanti e complessi dell’esistenza e del mondo: il futuro, la pace, le migrazioni. Sollevando domande ma senza la pretesa di dare risposte. Piuttosto con un invito all’accoglienza (“Proviamo ad aprire una porta anche noi”), perchè «l’altro e essenziale. E - non dimentichiamolo mai - per gli altri, l’altro siamo noi». Un invito figlio dell’impegno già fattivamente espresso negli anni in cui Baglioni organizzava il festival “O Scià” sull’isola di Lampedusa, la nostra valorosa capitale del Mediterraneo. Fra le lettere, il ricordo commosso del padre, il maresciallo Riccardo (“Io solo lo chiamavo papa” e “Non buttava via niente”), e della madre Silvia (“Se oggi è festa anche li” e “Mi piace saperla che ride”. L’importanza dell’amicizia (“Lo stesso spartito da leggere insieme”), i rimpianti della fanciullezza (“La bici che non ho mai avuto”), le prime timide esperienze d’amore (“Non successe niente eppure fu tutto”, “Bacio dolcissimo e aspro”, “Imparare ad amare da uomini veri”), Ovviamente la passione per la musica: “Volevo contare”, “15 anni e 8 mesi”, “Musicisti e poeti fanno anche il turno di notte”, “Questo mestiere si fa ancora a mano”... «Rete e social - scrive il cantautore romano - ormai sono parte di noi. E noi, parte di loro. Farne a meno è una scelta anacronistica e, soprattutto difficilmente praticabile. Tornare indietro tempo non sia possibile. Ammesso che sia saggio, cosa della quale personalmente dubito. Ma questo non significa affatto che si debba andare avanti lungo il piano inclinato della superficialità, della mediocrità, della banalità, rinunciando alla propria identità, ai propri valori e a ciò in cui si crede». Ancora Baglioni: «Non importa con cosa scriviamo - tavoletta d’argilla, papiro, pergamena, carta, computer, tablet o smartphone - importa cosa e come scriviamo. Il numero di like e follower non è l’indicatore della verità».

martedì 1 agosto 2017

NOA STASERA A VILLA MANIN

Torna Noa, in concerto stasera con inizio alle 21.15 a Villa Manin di Passariano, Codroipo. È il tour con cui l’artista festeggia venticinque anni di carriera nel nostro Paese. Anche nel Friuli Venezia Giulia, a partire dal ’94, la cantante si è esibita diverse volte. Ma Achinoam Nini, in arte Noa, nata a Tel Aviv nel ’69, cantante israeliana con sangue yemenita nelle vene, è apprezzata in tutto il mondo non solo per il suo valore di interprete ma anche per aver prestato la sua popolarità di artista alla causa della pace. Questo impegno, unito alle sue origini, la porta da anni a essere oggetto di ostracismo nel suo paese ma spesso anche all’estero dagli oppositori dello stato di Israele. I suoi concerti sono un autentico inno alla pacifica convivenza fra i popoli e al dialogo tra religioni e culture. Un impegno ormai antico, per il quale la cantante ha ricevuto importanti riconoscimenti: è stata insignita dai Frati Francescani di Assisi del premio “Artista per la Pace” e nominata “Ambasciatrice di buona volontà” dalla Fao. Ha ricevuto da Shimon Peres il “Dove of Peace”. È stata invitata nel 2016 a Ramallah dal presidente palestinese Abu Mazen. Ha cantato in Vaticano davanti a papa Giovanni Paolo II e a Cracovia al cospetto di papa Francesco. Noa ha anche scritto e cantato “Beautiful that way”, tema della colonna sonora di Nicola Piovani de “La vita è bella”, il film premio Oscar di Roberto Benigni. E in Italia ha partecipato per ben cinque volte al Festival di Sanremo, come ospite speciale. In questo tour è accompagnata da Gil Dor alla chitarra, Adam Ben Ezra al contrabbasso e Gadi Seri alle percussioni.

NO BORDERS, FESTIVAL SENZA CONFINI ANCHE PER RISPONDERE ALL'AUSTRIA / da ART21

L'Austria minaccia a giorni alterni di chiudere le frontiere per arrestare l'invasione dei barbari. Ma in questi giorni, a Tarvisio e dintorni, Alpi carniche, Friuli Venezia Giulia, in un fazzoletto di terra dove Italia, Slovenia e Austria sembrano una cosa sola, dividendo storia e tradizioni, si svolge la ventiduesima edizione del No Borders Music Festival, una rassegna musicale che porta già nel nome il suo manifesto: usare e valorizzare la musica quale forma di cultura e mezzo di comunicazione, in grado di essere compreso da tutti al di là dei confini etnici, linguistici, sociali e geografici. E non ci sarebbe molto altro da aggiungere... Tranne che l'edizione di quest'anno si è aperta con un applauditissimo concerto degli Editors, gruppo originario di Stafford, nell’Inghilterra centrale, considerato dalla critica e dal pubblico come una delle band più importanti e influenti della scena indie rock mondiale. Hanno scalato le classifiche di tutto il mondo con “Papillon”, “Munich” e tantissimi altri brani, e sono da anni protagonisti di tutti i principali festival rock mondiali. Gli Editors arrivano al successo già con “The Back Room” (2005), nel 2009 esce l’album “In This Light and on This Evening”, che segna una svolta verso suoni più elettronici. Nel 2013 è la volta del nuovo capitolo “The Weight of Your Love”. Nel 2015 tocca a “In Dream”, quinto e per ora ultimo album in studio della rock band di Stafford. A Tarvisio hanno presentato alcuni brani che faranno parte del prossimo disco. Altra artista che ha animato i primi giorni del “No Borders” è Joss Stone. Bianca con la voce nera, l’inglesina nata a Dover nell’aprile ’87 (dunque ormai ha trent’anni: non è più l’adolescente che avevamo conosciuto e apprezzato agli esordi...) ha tenuto a Tarvisio l’unico concerto italiano dell’attuale tournèe mondiale, quel “Total World Tour” partito nel 2014, con il quale l’artista si è prefissata di suonare in ogni paese del pianeta. Finora ha “timbrato il cartellino” in Sudafrica e in Marocco, in Australia e in Nuova Zelanda, in Giappone e in India, in Cina e a Dubai, in America Latina e in tanti altri posti. Dove ha sempre trovato - nei piccoli club come nei teatri, nei palasport come nelle grandi arene - platee entusiaste per la sua voce graffiante, per il suo fascinoso mix di generi, dal rock al rhythm’n’blues, dal reggae al suo “soul senza confini”. Giusto dunque per una manifestazione che fa della mancanza di confini il suo marchio. Per lei debutto nel 2003 con l’album “The Soul Sessions” (dodici milioni di copie vendute), seguito con “Mind, body & soul” (2005) e “Introducing Joss Stone” (2007). A Tarvisio uno spettacolo ormai ben rodato, basato sui brani del recente album “Water for your soul”. Ma Joss Stone è anche una donna e un’artista anticonformista, sensibile alle tematiche sociali, che nei suoi tour in giro per il mondo non perde occasione per lavorare con i musicisti indigeni e le organizzazioni umanitarie locali. Insomma, chapeau...