venerdì 29 settembre 2017

50 ANNI FA MORIVA WOODY GUTHRIE

Chissà come Woody Guthrie avrebbe raccontato quest’America di Trump. E questo mondo nel quale si riaccendono i razzismi e riprendono vigore le destre più o meno sovraniste. Chissà cos’avrebbe detto lui, morto cinquant’anni fa, lui che sulla chitarra aveva inciso la scritta “This machine kills fascists”, questa macchina uccide i fascisti. Dicono che di certo Bob Dylan ma forse anche Bruce Springsteen non ci sarebbero stati, o perlomeno non sarebbero stati gli stessi, senza l’opera di quell’omino (nome completo Woodrow Wilson Guthrie), nato a Okemah, Oklahoma, il 14 luglio 1912 e morto a New York il 3 ottobre 1967. Ma “figli di Woody” sono stati considerati anche Joan Baez, Phil Ochs, Tom Paxton, Peter Paul and Mary. Per non parlare di Pete Seeger, sorta di suo fratello minore. Woody Guthrie, (anti)eroe del folk che alla fine degli anni Trenta ha di fatto inventato la canzone di protesta, da tempo negli Stati Uniti è considerato un eroe nazionale, è finito persino sui francobolli, la sua “This land is your land” è considerata una sorta di secondo inno ufficiale americano, ma ovviamente non è stato sempre così. Per gran parte della vita è stato un “hobo” (il vagabondo che sceglie la vita da senzatetto improntata alla semplicità, all’avventura, ma anche alla ricerca interiore), in viaggio da uno stato all’altro, clandestino sui treni merci, con un fagotto in spalla e l’inseparabile chitarra sempre in mano. Impegnato nella “costruzione di un mondo nuovo” che probabilmente non ha visto mai la luce. Musicalmente incrociava la ballata country con il blues parlato, la ninnananna con l’epopea di Tom Joad raccontata da John Steinbeck in “Furore” e poi ripresa dal Boss. Un artista la cui influenza non è ancora tramontata a distanza di settant’anni, e non solo grazie agli artisti già citati. Tutta la musica folk e di protesta, americana e internazionale, deve infatti qualcosa a Woody Guthrie. Lo hanno chiamato il “menestrello della Grande Depressione”. Ha raccontato per primo la vita e la dannazione dei migranti, quando questi ultimi, negli anni Trenta, erano gli americani che scappavano dagli stati centrali per cercare lavoro e una vita migliore a ovest, verso la California, per sfuggire alla cosiddetta Dust Bowl. Era infatti successo che, a causa di condizioni climatiche particolari, enormi nubi di polvere coprivano campi e paesi, soprattutto in Texas e Oklahoma. E a migliaia di contadini non restava che mettersi in viaggio. La vita di Woody, fagotto e chitarra in spalla, è continuo movimento. Con il mito della frontiera. Dall’Oklahoma alla California, poi verso est, a New York. Ovviamente Greenwich Village, pieno di militanti radicali già negli anni Trenta. Il suo duetto con il bluesman Lead Belly è storia: un bianco che suona canzoni di protesta assieme a un nero, pugno nello stomaco per i benpensanti di allora. Scoppia la guerra. La marina mercantile degli Stati Uniti lo porta in Sicilia, assieme al cantante Cisco Houston e all’attivista sindacale italoamericano Vincenzo “Jim” Longhi. Vede le macerie di Palermo e scrive: «Constatai che cosa triste e terribile fosse la guerra. Ma capii che nessuno avrebbe impedito alla gente di cercare la propria indipendenza e la propria libertà di costruire un nuovo mondo in cui ogni persona potesse essere utile, ogni lavoratore avesse il suo lavoro, senza restare prigioniero del mondo che ti circonda». Gli ultimi anni scorrono tristemente nell’ospedale psichiatrico di Greystone Park, morbo di Huntington, lo stesso che si era portato via sua madre. Lì va a trovarlo fra gli altri il diciannovenne Bob Dylan, arrivato dal Minnesota per rendere omaggio al maestro. Arriva anche il vecchio sodale Pete Seeger, accompagnato da Arlo Guthrie, figlio dello stesso Woody e poi eroe di Woodstock. Che ricostruì proprio quella scena nel suo film “Alice’s Restaurant”. «Lasciate che io sia conosciuto – diceva Woody - soltanto come un uomo che vi ha detto qualcosa che già sapevate». Del manicomio scrisse: «Credetemi, è proprio questo l’ultimo posto libero d’America».

sabato 23 settembre 2017

DOMANI FICTION MORANDI SU CANALE5

«Cinquant’anni fa facevo i “musicarelli”, ogni canzone di successo negli anni Sessanta diventava anche un film. Ora non facevo una fiction da quasi vent’anni. Mediaset mi ha fatto quest’offerta, mi sembrava arrivato il tempo per accettare. E poi adesso credo di avere la faccia giusta per una storia come questa...». Gianni Morandi è il protagonista della fiction “L’isola di Pietro”, da domani sera in sei puntate su Canale 5. «Abbiamo girato a Carloforte, in Sardegna - spiega il Gianni nazionale, settantatre anni a dicembre e la magia di non sentirli e non mostrarli -. Interpreto un pediatra vedovo, che trascorre la vita tra il lavoro in ospedale e le corse mattutine sulla spiaggia con il labrador Mirto. Pietro ha una figlia, Elena, che manca dall’isola da tanti anni e torna a causa di un incidente. Una storia che ha momenti di suspense, con risvolti anche drammatici». La fiction si “scontrerà” con il debutto di Fazio su Raiuno. «Sì, con Fabio ci siamo anche sentiti. È un amico, nessuna rivalità. E poi lui dura sei mesi, io soltanto sei settimane». Morandi è reduce dal grande successo di “Volare”, il tormentone estivo assieme al giovanissimo Fabio Rovazzi. «Mi aveva fatto questa proposta, lo trovo un ragazzo intelligente. È stata una cosa molto diversa da quello che faccio di solito, a me piace sperimentare sempre qualcosa di nuovo, amo le sfide. Mi sono divertito, ma mi sembra che si siano divertiti anche gli altri». Autunno, presto è tempo di Sanremo. «Trovo che la scelta di Baglioni direttore artistico sia la migliore possibile. Claudio è un grande. Tornare al Festival? Come conduttore no, troppo faticoso. Ma come ospite, o forse anche in gara, beh, non lo escludo. Chissà, mai dire mai...».

sabato 16 settembre 2017

STASERA STONES IN AUSTRIA, GLI ALTRI TOUR E DISCHI DELL'AUTUNNO

Sono migliaia gli appassionati - più o meno attempati - provenienti dal Friuli Venezia Giulia, ma anche da Veneto, Slovenia e Croazia, che stanno convergendo in queste ore, con vetture private e pullman organizzati per l’occasione, sull’autodromo austriaco di Spielberg dove questa sera verrà celebrato l’eterno rito rappresentato da un concerto dei Rolling Stones. Terza tappa del “No filter tour”, cominciato giusto una settimana fa da Amburgo, per il quale è prevista una sola tappa italiana, il 23 settembre a Lucca. Ogni volta potrebbe essere l’ultima, dicono i fan da diversi anni a questa parte. La verità è che, a cinquantacinque anni dagli esordi, gli ultrasettantenni ex ragazzacci del rock - che “minacciano” un nuovo album di inediti dopo dodici anni - non sembrano aver intenzione di mollare la ditta. Il tour di Jagger e soci, complici calendario e soprattutto meteo, tiene in realtà a battesimo la stagione autunnale della musica. Tanti concerti, tantissimi dischi. Sotto allora, anche in ordine sparso. Cominciando però dai superstiti dei “rivali” di allora. Paul McCartney sta per rompere un silenzio discografico durato quattro anni, e uscirà con un nuovo album nel quale è annunciato un brano contro un certo Trump. Ringo Starr ha appena pubblicato “Give more love”, ospite lo stesso “Macca”. Entro la fine dell’anno arriva “Songs of experience”, nuovo attesissimo album degli U2. Che arriva dopo quel “Songs of innocence”, rimasto alla storia per il discusso connubio con la Apple. Bruce Springsteen, oltre ad aver annunciato ben otto settimane in teatro a Broadway (ed è già scattata l’emergenza bagarini, nota ultimamente come “secondary ticketing”), sta lavorando a un album “intimista”: la E Street Band rimane a casa, insomma, e il venerato Boss lascerà spazio alla sua vena più solitaria e introspettiva, alla “Nebraska” o “The ghost of Tom Joad”, per intenderci. Liam Gallagher esce il 6 ottobre con “As you were”, il fratello Noel accetta la sfida ed esce un mese dopo con un suo lavoro solista. Nuovo album anche per Anastacia: s’intitola “Evolution”. Appena uscito, è subito in vetta alle classifiche “Concrete and gold”, il nuovo album dei Foo Fighters. Che cela una curiosità: ospite in un brano, ovviamente alla batteria, il citato Ringo Starr. Altra uscita fresca fresca: il doppio cd e dvd “Rebel Heart Tour”, di Madonna, raccolta dal vivo che racconta in due ore la sua carriera, senza dimenticare i brani del recente “Rebel Heart”. Cat Stevens torna al suo antico pseudonimo con “The laughing apple”, primo disco di nuove incisioni a nome Cat Stevens dal lontano 1978, quando lasciò la musica e adottò il nome Yusuf: per lo più riletture di sue vecchie canzoni, alcune risalenti a mezzo secolo fa. Italiani, sempre in ordine sparso. Ieri è uscito “All’Italia”, nuovo album del rocker veneto Massimo Priviero. “Emotional tattos” è il nuovo album della Pfm, anticipato dal singolo “Quartiere generale”, a quattordici anni di distanza dal precedente. Il 29 settembre debutta al Nuovo di Milano “Musica ribelle - La forza dell’amore”, opera rock di Eugenio Finardi, nel quarantennale del celebre brano. Il nuovo tour di Francesco De Gregori fa tappa il 26 ottobre alla Supersonis Music Arena di Treviso. Fine mese nella nostra regione. Il 29 settembre esce per la Sony il nuovo album di inediti del pordenonese Remo Anzovino, a cinque anni dal precedente. La sera dopo, in piazza Unità, a Trieste, concertone in attesa della Barcolana con Francesco Gabbani, vincitore dell’ultimo Sanremo. La stessa sera del 30 ottobre, all’Hala Tivoli di Lubiana, concerto di Nick Cave & The Bad Seeds. E sempre nella capitale slovena, ma all’Arena Stozice, il 5 dicembre arrivano gli Scorpions.

venerdì 1 settembre 2017

FNSI, SI RIPARTE DA IMPEGNO X LAVORO

di Carlo MuscatelloÈ opinione diffusa che il nuovo anno cominci in realtà a settembre. Finiscono le vacanze, riaprono le scuole, il mondo del lavoro e la politica si rimettono in moto dopo la pausa agostana. E con il lavoro riparte anche l’impegno e l’attività del sindacato dei giornalisti, insostituibile presidio per difendere una professione che negli ultimi anni ha dovuto affrontare – sta ancora affrontando – una crisi senza precedenti. Il governo garantisce da settimane bonus stabili da inserire nella prossima finanziaria per incentivare l’assunzione stabile soprattutto di giovani. Un impegno da apprezzare ma da attendere a un’attenta verifica dei fatti. Nel nostro settore, infatti, i fondi pubblici in parte sono già arrivati e in parte arriveranno (oltre venti miliardi lo scorso anno, altri quarantacinque spalmati nel prossimo quinquennio), ma si tratta sempre e soltanto di denari destinati alle aziende per permetter loro di ultimare i propri stati di crisi e le rispettive ristrutturazioni. Che significa? Semplice: prepensionare quasi quattrocento giornalisti attorno ai sessant’anni (più della metà sono già andati), senza però che queste posizioni vengano sostituite con forze giovani e fresche all’interno delle redazioni. Magari attingendo ai tanti giovani e meno giovani precari che lavorano quotidianamente per i giornali, pagati poco e male, e che tante volte si trovano costretti – a malincuore, dopo molti anni di lavoro e moltissime promesse, senza prospettive certe e nemmeno probabili – a ricorrere al giudice del lavoro per veder riconosciuti i propri diritti. Un piccolo “contentino” in realtà c’è, ed esiste grazie all’impegno del sindacato unitario dei giornalisti: secondo il decreto legislativo del 2014, a ogni tre prepensionamenti deve corrispondere infatti almeno un’assunzione. Com’è di tutta evidenza, una “riparazione” limitata, anche considerando il fatto che il costo industriale di un giornalista di sessant’anni che esce (con scatti di anzianità, di carriera, vecchi contratti integrativi e quant’altro…) coprirebbe il costo di tre o quattro nuovi assunti. Cionostante, gli editori hanno tentato di cancellare anche l’obbligo normativo di quella singola assunzione ogni tre uscite. Non ci sono riusciti, ma non opera dello spirito santo: per l’impegno e l’ostinazione del sindacato. Anche per questi motivi nell’agenda per il nuovo anno di lavoro che comincia a settembre, il sindacato dei giornalisti pone ancora l’obiettivo della nuova occupazione. Senza la quale si stenta a immaginare un futuro per un settore come il nostro, che ha vissuto e sta vivendo trasformazioni epocali a seguito delle rivoluzioni tecnologiche avvenute e ancora in atto. Com’è stato già più volte detto, un’informazione precaria è un’informazione meno autorevole e meno autonoma. E il futuro dell’informazione nel nostro Paese non può passare solo da tagli, pensionamenti anticipati e lavoro precario. I giornalisti hanno fatto e stanno facendo la propria parte, aspettiamo segnali di vita (e di responsabilità) anche dall’altra parte del tavolo. . (da newsletter Ordine Giornalisti Fvg e Articolo 21)