martedì 28 novembre 2006

Ogni Natale che Dio manda in Terra ha sotto l’albero, da molti anni a questa parte, un disco di Mina. Per tanto tempo è stato il classico «doppio natalizio», che era così concepito: un disco di inediti, un altro di riletture. Da qualche anno la formula è cambiata. Ma non l’abitudine di accontentare le schiere di fan. Ed ecco allora che il Natale 2006 fa «Bau» (SonyBmg), titolo del disco che è appena arrivato nei negozi, ma prima in quelli di telefonia cellulare. Il disco è infatti in vendita anche assieme a tre cellulari Nokia. Andrea Mingardi è autore di ben otto dei tredici brani. Ha detto: «Quando Mina apre la bocca c'è un ruscello che sgorga...». La copertina è illustrata da un ritratto «fumettoso» di Mina firmato da Gianni Ronco. E fra gli autori debutta Axel Pani, figlio di Massimiliano Pani e dunque nipote della cantante, che ha firmato un brano assieme a un compagno di università. Risultato: una miscela di swing, jazz, pop, rock... Con la grande voce di Mina a far da collante. Era da «Kyrie», del 1980, che non si verificava una presenza così numericamente significativa di brani firmati dallo stesso autore - o dalla stessa coppia di autori - in un disco di Mina. Se si escludono, ovviamente, i dischi monotematici dedicati ai Beatles, a Lucio Battisti, a Renato Zero e a Domenico Modugno...

Ma se in «Kyrie» le canzoni di Simonluca erano sei (ma l'album era in origine doppio, e conteneva complessivamente sedici titoli), in «Bau» Mingardi e Maurizio Tirelli (suo collaboratore di lunga data, fin dai tempi dei Supercircus) firmano insieme sette brani su tredici, e il solo Mingardi è autore anche di un'ottava canzone: il che fa del cantautore bolognese il detentore di un invidiabile record (già nell’86 una canzone di Mingardi, «Ogni tanto è bello stare soli», era stata inclusa da Mina nel suo album «Sì buana»).

Due delle otto canzoni sono anche eseguite in coppia da Mina e Mingardi: quella che apre il cd, la già nota «Mogol Battisti», e quella che lo chiude, «Datemi della musica», canzone che intitolava il secondo Lp di Andrea Mingardi, datato 1976. Le altre sono «Sull'Orient Express», «Johnny Scarpe Gialle» (scritta 25 anni fa), «Nessun altro mai», «The end», «L'amore viene e se ne va», «Inevitabile».

Gli altri brani sono firmati da Maurizio Morante («Un uomo che mi ama»), dal 1991 presente abbastanza regolarmente sui dischi di Mina; Giancarlo Bigazzi e Marco Falagiani («Fai la tua vita», già presentato al Festival di Sanremo del 2000 dal giovane Claudio Fiori, qui con alcune modifiche al testo originario); Agostino Guarino, giovane cantautore di belle speranze che firma «Come te lo devo dire» (in cui la signora si permette pure una parolaccia...); Luca Rustici, fratello del più famoso Corrado, chitarrista e autore, già collaboratore degli Audio 2, che ha composto «Alibi»; e l'inedito trio Samuele Cerri, Mattia Gysi e Axel Pani (il figlio di Massimiliano aveva già dato la sua voce, per un messaggio in segreteria telefonica, a «Portati via», uno dei brani di «Bula Bula», 2005), che firma «Per poco che sia».

Fra i musicisti, oltre ai collaudati Lele Melotti, Danilo Rea, Faso e Lorenzo Poli, si segnalano Ugo Bongianni, ventenne pianista e arrangiatore, che ha programmato e suonato le tastiere, e il chitarrista Luca Meneghello; gli arrangiamenti dei fiati sono stati scritti da Gabriele Comeglio. La produzione è di Massimiliano Pani, che ha confermato le voci secondo le quali Mina sta lavorando a un disco per il mercato latino, tutto di canzoni nuove o di nuove versioni (in spagnolo) di grandi successi del suo repertorio.




Prosegue l’invasione dei dischi tripli. Ma per Fabrizio De Andrè si tratta già di un «sequel». Dopo il successo del primo volume - 300 mila copie e un primo posto in classifica - arriva infatti a circa un anno dal precedente il secondo capitolo di questa grande opera di lettura del suo lungo percorso artistico.

Lettura originale, dal momento che anche qui prosegue l’operazione di recupero del calore del suono analogico voluta da Dori Ghezzi: ovvero la pulizia e precisione del supporto digitale ma che restituisce il suono che avevano gli album nel loro anno di uscita, i toni originali della voce così pieni di note basse, così avvolgenti e così naturalmente indirizzati all'intimità dell'ascolto.

«In direzione ostinata e contraria 2» (SonyBmg) prosegue dunque per una strada che non è quella della semplice antologia di successi, ma quella del tributo che con questa seconda uscita arricchisce il suo contenuto filologico di classici rimasti esclusi - solo per una questione di capienza - dalla precedente emissione.

Sono ben 14 gli album dai quali sono tratti i 53 brani, in un arco di tempo che va dal 1967 di «Fabrizio De Andrè Vol. I» fino ad «Anime salve» del 1996. Insomma, siamo vicini alla realizzazione di una opera omnia. Il triplo propone ad esempio l'ascolto quasi per intero di album storici come «Tutti morimmo a stento», «La buona novella» e «Rimini»; recupera tre figure di quella straordinaria rilettura dell'«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters che De Andrè fece con «Non al denaro non all'amore né al cielo». E ci ricorda una interpretazione suprema di «Suzanne» di Leonard Cohen (presente in «Canzoni» del 1974); ci fa rivivere la dignitosa esistenza e la sobria tristezza de «La storia di un impiegato»; condensa nel terzo cd tre capolavori assoluti come «Creuza de ma», «Le nuvole» e «Anime salve».

Scrive Salvatore Niffoi nell'introduzione: «In ogni sua canzone è presente la poesia come atto d'amore e di riscatto verso l'umanità ferita, dimenticata; verso quegli ultimi che lui sognava primi in questo mondo, non nell'improbabile altro...».

 

A settantun anni, il grande Jerry Lee Lewis si ripropone con una serie di duetti all’altezza del suo nome e della sua fama. Classici del suo repertorio assieme a Jimmy Page, BB King, Bruce Springsteen, Mick Jagger & Ronnie Wood, Neil Young, Keith Richards, Ringo Starr, Rod Stewart, Willie Nelson, Kid Rock, Eric Clapton, Don Henley... Il titolo del disco è un riferimento sia al caratteristico modo di suonare il pianoforte stando in piedi che al fatto che oggi Jerry Lee Lewis - col suo inimitabile stile vocale - è l'unica leggenda del rock'n'roll ancora in attività, l'unico tra quelli (Elvis Presley, Johnny Cash, Roy Orbison, Carl Perkins...) che Sam Phillips scoprì con la sua Sun Records a Memphis, Tennessee, cinquant'anni fa.



Ve lo ricordate Billy Idol? Quello di «Eyes without a face», primi anni Ottanta. Ebbene, ritorna con un album di canzoni natalizie alla sua maniera. Nella sua carriera il cantante inglese ha attraversato diversi stili, dagli inizi punk in compagnia dei Generation X ai suoi lavori solisti, sintesi perfetta di hard rock, pop ed attitudine ribelle. Ora gioca ancora una volta la carta della sorpresa e propone un album di canzoni natalizie in cui veste i panni del crooner o paga il tributo al suono rock'n'roll delle origini, da Elvis Presley a Chuck Berry. L'ironia è l'arma vincente e queste versioni di canzoni come «Frosty the snowman», «Jingle bell rock» e «Silent night» non hanno nulla da invidiare a quelle classiche.

venerdì 24 novembre 2006

PRIMA AL “VERDI”

di Carlo Muscatello


TRIESTE Buio in sala. Venti e trentacinque: parte il primo applauso. Daniel Oren, kippà rosso cremisi sulla nuca, ringrazia con ampi e circolari gesti del braccio. Gli stessi che gli servono, subito dopo, a far partire le immortali note dell’Inno di Mameli. Allora luci in sala, tutti in piedi, qualcuno porta la mano sul petto. E il consueto rito può entrare nel vivo.





Sì, perchè in questa città che non va né avanti né indietro, ieri sera al Teatro Verdi è andato scena il solito, immutabile, immarcescibile rito della prima. Inutile come una pelliccia in questo mite novembre (e infatti nel fiammeggiante foyer bardato a festa ne giravano pochissime). Vuoto come il nostro porto che aspetta il miracolo di San Boniciolli. Staccato dalla realtà e autoreferenziale come gran parte della nostra classe politica. Triste come piazza Venezia senza uno straccio di panchina.





La musica, ovviamente, non è in discussione. Soprattutto quando è grande musica proposta da grandi interpreti. È il contorno del gala inaugurale, quello che va in scena innanzitutto nel foyer, che lascia sempre più perplessi. Occasione mondana de noantri, in stile «voio ma no’ poso», col sindaco compagnone (absit iniuria verbis) sempre a suo agio nel far gli onori di casa, e tutto quel corollario di personaggi che animano - si fa per dire - il nostro piccolo mondo antico di provincia.




La signora prefetto vestita di viola (colore che a teatro fa l’effetto di una bestemmia in chiesa), il questore in trasferta da Udine, l’assessore regionale in gran spolvero (il principale, si sa, marca visita da anni: evidentemente non ama l’appuntamento...), il consigliere regionale di maggioranza con mantella risorgimentale e quello di opposizione fresco di barbiere. E poi un ex presidente della Provincia in disuso, quella in carica scortata dal nuovo sovrintendente del Verdi, la cinquantenne leopardata, il notaio con la passione del jazz e il giovane avvocato di sinistra, il farmacista e il medico accomunati dall’amore per la vela. E ancora la Signorina Buonasera che ha lasciato più traccia all’Isola dei Famosi che alla presidenza dello Stabile regionale, i carabinieri in alta uniforme, rarissime fanciulle in fiore, compensate da diverse signore reduci da complicati lavori di restauro...




Fra smoking, abiti lunghi, gioielli, acconciature fresche di parrucchiere, papillon rispolverati per l’occasione e decollété d’ordinanza e sorrisi di circostanza, sembrano stare tutti sulla tolda del Titanic la sera prima di quel problemuccio che capitò alla grande, inaffondabile nave. A proposito: della crisi del Teatro Verdi nessuno parla più. Che dio li abbia in gloria...


venerdì 10 novembre 2006

Le case discografiche continuano a combattere come possono la grande guerra con la musica su internet. Le vendite dei cd sono in netto calo ormai da anni, mentre continuano ad aumentare a livello vertiginoso i «download» - illegali ma soprattutto illegali - dalla rete. Dopo chiusure e accorpamenti, le grandi multinazionali discografiche sono ormai ridotte a cinque. Che tentano di salvarsi come possono. Proponendo in vendita i file digitali di dischi vecchi e nuovi. Ma anche... raschiando il fondo del barile dei loro ricchi cataloghi. Ecco allora la recente invasione del mercato a botte di doppi e soprattutto tripli antologici, a volte con uno o due brani inediti, e il resto attingendo agli archivi. Che per artisti presenti sulla scena da decenni sono decisamente notevoli. Ecco allora che, soprattutto nel periodo di fine anno, quello delle strenne natalizie, ogni casa discografica tira fuori tutto quel che ha. Nelle settimane scorse abbiamo già parlato dei tripli di Lucio Dalla, Ivano Fossati, Lucio Battisti (con Mogol o con Panella), Edoardo Bennato, Pierangelo Bertoli...

Oggi spazio ad Adriano Celentano e al suo «Unicamente Celentano» (Clan-SonyBmg), scritto sulla copertina in maniera tale da far pensare che l’«unica mente» sia quella dell’ex ragazzo della via Gluck. Quarantadue brani, fra vecchi successi («Il tuo bacio è come un rock», «Ciao ragazzi», «Azzurro», «L’emozione non ha voce»...) e brani meno noti, e una versione inedita di «Diana» cantata con Paul Anka, con un testo italiano riscritto dallo stesso Celentano con Mogol. Un monumento al passato, in attesa del nuovo disco. Particolarità: la raccolta viene venduta anche nel circuito dei 13 mila uffici delle Poste.

Spazio anche al cofanetto di Francesco De Gregori, «Tra un manifesto e lo specchio» (SonyBmg), titolo tratto da un verso di «La valigia dell’attore», brano presente del terzo cd della raccolta. Una raccolta che è la summa del cantautore romano, dalle origini di «Alice» e «Niente da capire» fino alle cose più recenti. Non mancano i classici: «Generale», «Titanic», «La donna cannone», «La storia siamo noi»... E non mancano due inediti: apertura con «Mannaggia alla musica» (scritta nel ’79 per Ron), chiusura con «Diamante» (scritta con e per Zucchero), che è forse la cosa più bella del disco.

Altro cantautore romano, con una storia assai meno lunga e importante, è Niccolò Fabi. Il suo «Dischi volanti - 1996-2006» (Emi Virgin) è composto da due cd (con «Capelli», «Dica», «Il negozio di antiquariato»...) e un dvd, che propone episodi live, backstage e una manciata di videoclip dei suoi brani più noti. Per Fabi - che ha registrato l’ultimo album, «Novo Mesto», nella vicina Slovenia - la prima raccolta in dieci anni di carriera.

Uno che, invece, nel corso degli anni non ha lesinato raccolte, «best of» e «greatest hits» è Umberto Tozzi. «Tutto Tozzi - Ti amo e altre storie» è la più recente. Un doppio con trentaquattro canzoni: «Gloria, «Tu», «Donna amante mia», «Stella stai», «Gli altri siamo noi»..., ma anche «Gente di mare» con Raf e «Si può dare di più» con Morandi e Ruggeri. Versioni rimasterizzate e prezzo ridotto, il che basta per avere in un colpo solo tutta la carriera del cantante e autore torinese.


Alla prova del terzo album, Le Vibrazioni propongono un disco intitolato «Officine Meccaniche» (Sony Bmg Ricordi) ancora una volta in bilico fra pop di facile ascolto e reminiscenze rock anni Settanta. L’amore per i suoni e le atmosfere vintage emerge anche dalla tecnica di registrazione: Francesco Sarcina e compagni (tutti «barbudos», nelle nuove foto) hanno scelto di immortalare i brani su nastro, preferendo la tecnica analogica a quella digitale. Il disco - venduto per la prima settimana solo con un cellulare - prende il nome dallo studio di registrazione milanese (di Mauro Pagani, sui Navigli) in cui è nato, un po’ come avevano fatto i Beatles con Abbey Road e Jimi Hendrix con Electric Ladyland. Fra i brani: «Fermi senza forma», «Dimmi», «Portami via»...

«Go-the very best of Moby» (Emi Virgin) raccoglie quindici brani del quarantunenne musicista newyorkese, supremo manipolatore di suoni e ritmi, vero nome Richard Melville Hall, pronipote del grande scrittore Herman Melville. Dall’ipnotica «Go», primo singolo della sua carriera a destare interesse nel pubblico, fino a «Natural Blues», «Lift me up» (da «Hotel», l’album uscito l’anno scorso), «Move», «Honey»... In questa sua prima raccolta che suggella dieci anni di carriera c’è anche un brano inedito, «New York, New York», cantato da Debbie Harry.

E chiudiamo con Gianni Morandi, reduce dall’ennesima avventura televisiva con cui ha provato a scherzare della sua immagine da eterno bravo ragazzo. Il nuovo disco s’intitola «Il tempo migliore» (Epic Sony Bmg) e propone una dozzina di canzoni inedite, sfornate da autori del calibro di Morra, Fabrizio, Cogliati, Malavasi, Mingardi... Un testo, quello di «Adesso tocca a lui», è firmato dallo stesso Morandi, coautore anche di un paio di musiche. «Il tempo migliore è il mio presente qui con te...», canta l’artista nel brano che dà il titolo all’album, sorta di canzone-manifesto in stile «La vita è adesso...».


Lunga vita al patrimonio di classe ed eleganza lasciatoci da Lennon e McCartney. Sì, perchè anche riletti in chiave «ambient», o «new age», o quasi «disco», i capolavori dei Beatles funzionano sempre. Ascoltare per credere «And I love her» leggermente swingata, «Eleanor Rigby» quasi reggae, «Something» profumata di bossa nova, le suadenti «Let it be» e «Michelle», ma anche «From me to you», «I’ll be back», «A day in the life», «When I’m sixty-four»... Le voci sono quelle della cubana Odette Telleria e dell’americana Natalia Fox Chapman. Il progetto è nato in Spagna, dove il disco ha già venduto oltre centomila copie. In attesa di «Love», in uscita il 17, con gli storici brani rimissati da George Martin per il Cirque du Soleil.


Un doppio cd per un viaggio nella memoria «tra brani giganti di autori e interpreti giganti». Così Baglioni descrive questo suo ultimo lavoro, dedicato ad alcune tra le più belle pagine della grande musica italiana degli anni Sessanta. Si comincia per la verità dal ’58 di «Nel blu dipinto di blu», la rivoluzione di Modugno, e si conclude nel ’70 delle «Emozioni» di Battisti. In mezzo c’è davvero la storia della nostra canzone: «Cinque minuti e poi» (Maurizio), «Una lacrima sul viso» (Bobby Solo), «Lontano lontano» (Tenco), «C’era un ragazzo» (Morandi), «Una miniera» (New Trolls)... Il divo Claudio fa la sua bella figura anche solo come interprete. Esercizio già praticato anni fa, in tivù con Fabio Fazio...

martedì 7 novembre 2006

Che elezioni, le politiche del 2006... Sono passati soltanto sette mesi, ma a volte la sensazione è che siano trascorsi anni. E la materia sembra pronta per essere trasferita ai libri di storia della politica della nostra scalcagnata ma amata repubblica.

Ricordate? Il forte vantaggio iniziale del centrosinistra, la campagna sulle tasse e in particolare sulla tassa di successione, la rimonta di Berlusconi, e poi quel testa a testa finale, nella lunga notte fra il 10 e l’11 aprile, con quello scarto ridottissimo, sul filo di poche migliaia di voti. E quell’immagine, alle tre del mattino, da piazza Santi Apostoli, con Prodi e gli altri leader e leaderini del centrosinistra a esultare, con gli inni e le bandiere e le dita a indicare vittoria, nemmeno avessero stravinto i mondiali per dieci a zero. Chissà, forse l’inizio della fine va cercato proprio in quell’immagine, va identificato con quei volti entusiasti e ridenti, ignari di quel che sarebbe avvenuto soltanto di lì a pochi mesi...

Materia per gli studiosi e per i libri, insomma. E infatti stanno uscendo vari volumi sull’argomento. Uno s’intitola «Dov’è la vittoria - Il voto del 2006 raccontato dagli italiani» (Il Mulino/Contemporanea, pagg. 248, euro 13) e raccoglie vari interventi scritti nell’ambito di Itanes, acronimo che sta per Italian National Elections Studies, programma pluriennale di ricerca sui comportamenti elettorali e le opinioni politiche degli italiani, che vede impegnate alcune università e l’Istituto Cattaneo di Bologna.

«Io sono convinto che la campagna elettorale l’abbia vinta Berlusconi - premette Paolo Segatti, ordinario di sociologia politica alla Statale di Milano, che ha coordinato la ricerca con Paolo Bellucci - anzi, se fosse durata una settimana di più, avrebbe vinto anche le elezioni».

Eppure il distacco da cui partiva il centrosinistra era notevole...

«Ma ha fatto una campagna disastrosa. Partiva da un presupposto sbagliato. Avendo stravinto le regionali del 2005, Prodi e compagnia pensavano fosse sufficiente confermare il dato, consolidarlo, senza bisogno di andare all’attacco, senza ricordarsi che gli sfidanti erano loro».

E invece?

«Invece non si teneva conto che nelle amministrative, dove fra l’altro il centrosinistra è sempre stato più forte, chi sta al governo viene sempre penalizzato. Diverso il discorso alle politiche. Dove c’era sì una delusione nei confronti di Berlusconi, ma l’abilità di quest’ultimo e gli errori del centrosinistra hanno praticamente ribaltato la situazione esistente...».

Quali errori?

«Beh, su tasse e successioni sono stati fatti degli errori clamorosi, e il centrodestra è stato abilissmo a sfruttarli. Poi il centrosinistra ha vinto ugualmente, seppur di pochissimo, in virtù della sua ampia coalizione, dell’arretramento del centrodestra al Nord e di un passaggio di elettori dal centrodestra al centrosinistra al Sud...».

Da un decennio chi è al governo perde le elezioni. Siamo un Paese impossibile da governare?

«Non credo sia questo il punto. Diciamo che è sempre cambiata, di volta in volta, l’offerta politica. Nei vari appuntamenti sono mutati i giochi delle alleanze: il centrodestra ha perso senza la Lega, il centrosinistra senza Rifondazione e Di Pietro, poi c’è il ruolo dei radicali...».

Insomma, l’elettorato è stabile, sono le alleanza che cambiano...

«Appunto. La stabilità dell’elettorato italiano è un dato impressionante. E in questo il voto del 2006 è simile, a parti invertite, a quello del 2001: stabilità al Nord, passaggi di voto al Sud, dove il Novecento ideologico non è mai arrivato e dove le dinamiche del voto rispondono maggiormente a criteri di convenienza».

Lei nel libro firma un intervento su ”I cattolici al voto, tra valori e politiche dei valori”. Che cosa segnala, al proposito?

«Innanzitutto che il centrodestra nel 2006 ha ottenuto più voti dei cattolici praticanti rispetto al recente passato. Non è un ritorno alla Dc, ma è un segnale, perchè interrompe un trend: dal ’94 in poi, infatti, i cattolici erano più attratti dal centrosinistra».

Cos’è cambiato?

«Ci sono stati due fatti, che hanno causato l’inversione di tendenza. Innanzitutto il referendum sulla procreazione assistita, poi l’ingresso dei radicali nel centrosinistra. Si sa che quello di Pannella è il partito meno gradito dai cattolici praticanti».

Dunque una questione di valori...

«Sì, attraverso quei due fatti si è riproposta la vecchia divisione fra laici e cattolici che in parte era stata superata in passato. I cattolici del centrodestra sono uguali a quelli del centrosinistra in quanto a condotta morale personale. Divergono nelle opinioni su alcuni temi politici eticamente sensibili: l’eutanasia, i pacs, il matrimonio fra gay... Ecco, il centrodestra ha saputo intercettare maggiormente questa richiesta di valori».

Professore, se si votasse oggi?

«Fare calcoli sul futuro è sempre molto difficile. Di certo c’è un dato: il crollo della fiducia nei confronti del governo Prodi. Bisognerebbe vedere quanto questa situazione potrà poi incidere effettivamente sul voto. Magari con l’astensione di chi ha votato centrosinistra e ora è deluso. Al proposito sarà interessante vedere il voto regionale del 2008 nel Friuli Venezia Giulia. Ma l’elettorato rimane comunque stabile, con l’Italia divisa in due».

E dietro l’angolo c’è anche il possibile referendum sul sistema elettorale...

«Quella è una vera e propria mina, che potrebbe avere un effetto devastante su tutto il sistema ma soprattutto su Prodi e sui suoi alleati. Spostando infatti il premio di maggioranza dalla coalizione al partito vincente, è chiaro che si rafforzerebbe la spinta ad aggregarsi all’interno del futuro Partito Democratico. Con un effetto penalizzante innanzitutto per i partiti minori del centrosinistra, che infatti sono contrari...».

Qualcuno auspica il ritorno del proporzionale...

«Non farebbe altro che assecondare la tendenza molto italiana a ritagliarsi un proprio piccolo feudo, dal quale condizionare nascita e morte dei governi...».

Ma anche questo maggioritario permette ai partitini con l’uno o il due per cento di essere decisivi...

«È vero. Ma quel poco di bipolarismo che abbiamo ci salva dal rischio di governi incerti, variabili, privi di un indirizzo politico preciso».

Lei ha un suo sistema elettorale ideale?

«Sicuramente il maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia. Funziona molto meglio del doppio turno italiano, previsto nell’elezione dei sindaci. Ma dubito ci arriveremo...».

sabato 4 novembre 2006

TRIESTE Cinque minuti dopo le ventuno. Il buio in sala è sufficiente per far partire il primo applauso. A trasformarlo in boato ci pensano l’accordo iniziale di chitarra e subito dopo la voce di Ligabue. Solo in scena, seduto con la chitarra in braccio, un po’ alla maniera dei cantautori di una volta. Attacca con «Metti in circolo il tuo amore». E la festa può cominciare. Sarà innanzitutto una festa della musica e delle parole. «Figlio di un cane», «Ho messo via», «Una vita da mediano», «Il giorno dei giorni»... Uno alla volta entrano anche i musicisti: prima Mauro Pagani (bouzouki, violino...), poi tutti gli altri. Dopo «Il giorno dei giorni» arriva anche la prima poesia, «Le cartoline non inviate»...

Luciano Ligabue, quarantasei anni, da Correggio, Reggio Emilia, torna nello stesso teatro a quattro anni di distanza da quel «Giro d’Italia» che allora era concepito così: prima sera a teatro, più o meno acustico, seconda sera nel palasport, più o meno elettrico. La voglia, di più, l’esigenza di diversificare era dunque presente già allora. Stavolta ne ha fatto una sorta di impresa lunga un anno e più. Tutto è cominciato nel settembre dell’anno scorso, col megaconcerto dei record a Campovolo, dalle parti di casa sua: quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse. Poi, il «Nome e cognome Tour» (dal titolo dell’ultimo album) è partito nei piccoli club, è proseguito a primavera nei palasport, d’estate negli stadi, e ora arriva finalmente nei teatri. Dimensione ideale per il progetto che ha in testa il nostro.

A lui, come si diceva, interessa la musica ma anche le parole. Non è come quei rocchettari duri e puri votati solo alla prima, ma nemmeno come quei cantautori di tanti anni fa cui interessavano solo le seconde. Il Liga, figlio o fratello minore sia degli uni che degli altri, cura suoni e liriche quasi con la stessa cura e dedizione. Le parole, poi, sono la sua àncora di salvezza, il tramite con cui tira fuori quel che ha dentro. E come sanno ormai tutti, il bisogno e la necessità di esprimersi l’hanno trasformato in pochi anni da uno dei due rocker italiani capaci di riempire gli stadi (l’altro è ovviamente Vasco...) in un artista a tutto tondo: regista, sceneggiatore, scrittore, ora anche poeta, col recente «Lettere d’amore nel frigo».

Che gli permette, nel doppio concerto triestino (stasera infatti si replica), di infilare fra una canzone e l’altra qualche poesia. Anche qui un segnale c’era già stato nel 2002, quando aveva recitato qualche verso di Charles Bukowski. Stavolta è tutta roba sua, in quella che qualcuno ha già definito una piccola Spoon River in salsa emiliana. Storie, situazioni, volti...

Lo spettacolo è quasi interamente acustico. Se l’altra volta non aveva saputo o potuto rinunciare del tutto alle chitarre elettriche, stavolta il nostro indio padano si è fatto coraggio. Una grossa mano gliela dà la band in cui - accanto a un organo Hammond che profuma di anni Settanta - brilla anche stavolta la presenza di Mauro Pagani. I musicisti lo affiancano prima l’uno, poi l’altro, poi due o tre alla volta, infine tutti assieme... Ma al centro della scena, verrebbe da dire: al centro della musica, c’è ovviamente sempre e solo lui, con la sua inconfondibile voce, col suo modo di esprimersi, schietto, diretto, senza fronzoli, con la sua musicalità, con la sua anima nascosta dietro a un verso o a un accordo di chitarra.

I ragazzi, quelli giovani e quelli con qualche anno in più, pendono dalle sue labbra e dalle sue corde. Le poltroncine e i velluti del teatro non creano soggezione. Lui all’inizio avverte: «Fate un po’ quello che volete...». E l’atmosfera somiglia presto a quella di uno stadio. Anche se lui, stavolta, oltre agli strumenti elettrici, rinuncia anche a una scaletta «fatta tutta di singoli». Cosa che potrebbe permettersi, visto il successo che ha sorriso praticamente a tutto quello che ha scritto e cantato dal ’90, anno del primo album, a oggi.

Ieri sera, assieme a classici come «Hai un momento Dio», «Vivo o morto o X», «Questa è la mia vita» - e poi ancora «L’amore conta», «Si viene e si va» (coro del pubblico), «Non è tempo per noi» (gente ormai in piedi), «Ho perso le parole», «Le donne lo sanno», «Piccola stella senza cielo»... - Ligabue è andato a pescare episodi meno frequentati, che comunque non prendono alla sprovvista il suo popolo, che conosce a memoria e canta in coro anche cose meno note come «Lettera a G» (dal nuovo album), «I ragazzi sono in giro» (da «Buon compleanno Elvis», del ’95) e «Walter il mago» (da «Sopravvissuti e sopravviventi», del ’93).

Le poesie, in mezzo a questo materiale sonoro, fanno quasi da collante. Ammesso e non concesso che in un concerto del Liga ce ne sia bisogno, di un collante. Certe liriche sembrano l’altra faccia della medaglia di alcune canzoni. Pensiamo ai vecchi «Sogni di rock’n’roll», cui adesso si sposa un testo - non letto ieri sera - intitolato «Ce lo vedi Mick Jagger morire a 27 anni?», dedicato ai tanti morti giovani del rock, da Jimi Hendrix a Jim Morrison, da Janis Joplin a Brian Jones, fino a Kurt Cobain. Morti eccellenti, cui fanno da anonimo contraltare tanti ragazzi «la cui disperazione non merita di essere considerata di serie B solo perchè non sono famosi...».

Con questo spettacolo il rocker - e poeta, e regista, e... - padano ridà fra l’altro fiato alla vecchia diatriba, avvitata sull’eterno dilemma se una canzone possa esser considerata poesia, e se dunque i cantautori possano fregiarsi del titolo di poeti. Fernanda Pivano, ch’è una che se ne intende, ha detto che sì, che anche lui - come De Andrè - fa parte della ristretta schiera. Ligabue si è schermito, rivendicando solo l’urgenza di comunicare, sempre e comunque, con qualsiasi forma. Ma intanto scrive.

Nel concerto si nota, infilata fra una canzone e una poesia, una differenza: se quando impugna la chitarra e svolge quello che considera comunque il suo mestiere c’è sempre un ottimismo di fondo, una sorta di invito alla leggerezza, quando invece si offre al pubblico da solo, nudo con le sue liriche, i toni sono piuttosto quelli di un malinconico pessimismo. Come se ancora una volta ci fosse bisogno del rock, per salvarsi la vita...

A Trieste, ieri sera, dire che c’è stato «successo di pubblico» è effettivamente dir poco. È stato un piccolo grande trionfo. Un abbraccio lungo due ore fra Luciano Ligabue e la sua gente, il suo popolo, arrivato anche da lontano per l’appuntamento del Rossetti. E quando nel finale è toccato a «Happy hour», trasformato in tormentone estivo dall’urticante pubblicità della Vodafone, la gente è letteralmente esplosa. Poi, in un teatro trasfigurato in bolgia, fra i bis sono arrivati anche «Urlando contro il cielo» e «Fra palco e realtà».

Stasera, come detto, si replica. Ma tranquilli: non c’è più un biglietto neanche a pagarlo oro... Vorrà dire che tutti gli altri si dovranno consolare col dvd annunciato in uscita prima di Natale.

L’aveva quasi promesso che in autunno sarebbe tornato a Trieste. E Ligabue è uno di parola. Che, quando può, le promesse al suo popolo le mantiene sempre. A primavera, quando il tour negli stadi aveva fatto tappa a Udine, ce l’aveva detto chiaro e tondo: «A Trieste tornerei davvero volentieri. Mi ricordo un concerto a San Giusto dal clima quasi magico. E poi quando siamo venuti a girare il video di ”Eri bellissima”: stavamo su una terrazza dalla quale si vedeva il mare, ricordo che c’era una luce davvero particolare, che ha regalato un tocco in più a quel video...». Eccolo, allora: stasera e domani sera, con inizio alle 21, al Politeama Rossetti. Biglietti già tutti esauriti da un pezzo.
Ligabue ritorna nello stesso Rossetti che lo aveva ospitato nel dicembre di quattro anni fa. Anche quella volta due concerti: il primo in teatro, il secondo al PalaTrieste. Stavolta il concerto doveva essere uno solo, ma la velocità con cui è stato raggiunto il «tutto esaurito» ha convinto gli organizzatori a raddoppiare.

Quella volta, nel ’92, fra una canzone e l’altra lesse i versi di Charles Bukowski, cantore dell’America degli emarginati, dei disadattati, dei perdenti. Stavolta, l’indio padano si permette il lusso - si fa per dire - di leggere le sue, di poesie, tratte dalla recente raccolta «Lettere d’amore nel frigo», con cui ha ulteriormente allargato il proprio raggio d’azione: non solo rocker, ma anche regista, e poi scrittore, e ora anche poeta...

«Quelle poesie risalgono a quasi tre anni fa - ha spiegato il Liga - quando le scrissi di getto sull'onda di un momento emotivamente forte, fatto di lutti familiari, separazioni, e umori altalenanti. Fu il pretesto per prendermi una serie di libertà e buttare fuori quello che avevo dentro senza il filtro della musica. Vennero fuori dei componimenti in cui raccontavo il mondo dal mio punto di vista un po' come nei primi tre album, prima che in 'Buon Compleanno Elvis' cominciassi a raccontarmi in prima persona...».

In prima o in terza persona, quella raccontata da Luciano Ligabue - classe 1960 - è l’Italia vista da un mediano. Un mediano che fa molti gol, ma che importa. Passano gli anni, le canzoni, i dischi e i tour. Ma l’immagine che resterà sempre attaccata addosso al rocker di Correggio è ancora quella della «vita da mediano». Quello sempre «a recuperar palloni», quello «nato senza i piedi buoni», quello costretto a «lavorare sui polmoni...». Versi del ’99, sempre attuali in questa (brutta) Italia del 2006.

Il doppio concerto triestino fa parte della quarta e ultima parte del «Nome e Cognome Tour 2006»: dopo il debutto nei club l’anno scorso, subito dopo la pubblicazione dell’album (e dopo il megaconcerto di settembre a Campovolo, con quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse, col record dei 165 mila spettatori paganti...), sono arrivati prima i concerti nei palasport e poi quelli negli stadi. Ora l’appendice teatrale, acustica, cominciata il 3 ottobre da Verona.

Stasera e domani sera, a celebrare l’ennesimo trionfo del rocker padano, al Rossetti non ci saranno soltanto i fan triestini e regionali: biglietti sono stati venduti infatti anche in Veneto, ma persino a Torino, Bergamo, Bolzano, Firenze, Arezzo, Ferrara, Milano, Modena, Bologna, Roma, addirittura Catania... Oltre che all'estero, in Slovenia, in Carinzia, a Vienna. Lo Stabile - che organizza il doppio evento assieme all’Azalea Promotion - segnala che circa la metà dei biglietti venduti per le due serate è stato acquistata fuori Trieste.

Sul palco, con Ligabue, ci saranno Mel Previte alle chitarre e al sax, Antonio Rigetti al basso, Roberto Pellati alla batteria, Josè Fiorilli alle tastiere e soprattutto Mauro Pagani, flauto, bouzouki e tanti altri strumenti. Spettacolo diviso in due parti. Si comincia alle 21. E domani sera si replica. Buon divertimento.



mercoledì 1 novembre 2006

La storia non si cancella. E la storia del rock sono loro, gli Who, cui nemmeno la recente scomparsa di John Entwistle - dopo quella nel ’78 di Keith Moon - ha fiaccato la voglia di esserci di nuovo, di contare ancora, insomma di ricominciare. Dopo ventiquattro anni di silenzio (l’ultimo disco di brani originali era infatti «It’s hard», dell’82), Pete Townshend e Roger Daltrey - entrambi classe ’45 - tornano infatti alla carica con un nuovo lavoro, intitolato «Endless wire» (Polydor) e appena uscito. Già il titolo, che significa «filo senza fine», sembra sospeso fra passato e presente. Il filo è quello della moderna tecnologia ma anche quello della storia del rock, quella storia che gli Who hanno contribuito a scrivere. Da «My generation» (’65) e dall’opera rock «Tommy» (’69) in poi.

Il disco si apre con «Fragments», brano collegato a un progetto di Townshend che vuole ricreare il ritratto di una persona attraverso la musica. Ma più della metà dell’album è occupata dalla mini-opera rock «Wire and glass», che il chitarrista ha scritto per accompagnare il suo racconto «The boy who heard music». E ci sono anche due brani ispirati al film «La passione di Cristo»: «Man in a purple dress» e «Two thousand years». In questi come in altri momenti del disco, i momenti acustici prevalgono sui riff e sull’energia rock del passato. Insomma, i due superstiti della grande avventura non giocano a rifare se stessi. Guardano avanti, sono ovviamente molto più maturi di un tempo, ma anche nelle ballad e nelle atmosfere a tratti folkeggianti che popolano i brani si riconosce il loro marchio di fabbrica. Lo stile e la classe della loro indiscussa grandezza.





Da una leggenda di sempre a una leggenda per ora soltanto... di nome. Lui si chiama per l’appunto John Legend (all’anagrafe: John Stephens), che con «Once again» (Sony Bmg) tenta di ripetere i fasti del disco d’esordio, «Get lifted», tre milioni di copie e tre Grammy. Disco ancora una volta pop-soul, ricco di contaminazioni per l’ex session man diventato solista, che però non gli sottraggono quel senso di unità e coesione già apprezzato nella prova precedente. Insomma, funziona.




Come funziona, nella sua grandezza, il nuovo disco di Rod Stewart, «Still the same... Great rock classic of our time» (Sony Bmg). A sessantuno anni, dopo cento e rotti milioni di dischi venduti, l’ex ragazzaccio del rock non propone né un disco di brani nuovi né un’antologia. A due anni dal terzo «Stardust: the Great American Songbook», continua a confrontarsi con la storia della musica che gli ha cambiato la vita, a lui come a milioni di persone in tutto il mondo. E mette la sua inconfondibile voce al servizio di una manciata di classici di tutti i tempi: da «Have you ever seen the rain» (Creedence Clearwater Revival) a «If not for you» (Bob Dylan), da «Still the same» (Bob Seger) a «Father & son» (Cat Stevens), fino a «Missing you» (John Waite)... Che dire? Forse solo che la classe non è acqua.




Ultima segnalazione per i Servant e il loro nuovo «How to destroy a relationship» (Edel). Mollati i Planet Funk, Dan Black scrive con i suoi soci inglesi il secondo capitolo della loro giovane discografia. Territori del cosiddetto britpop, suoni elettrici e diretti, nel tentativo di ripetere il successo del disco d’esordio. «Save me now» e il brano del titolo sembrano gli episodi più riusciti.





C’è chi ha amato soltanto il primo Battisti, quello con Mogol. Pochi - fra cui chi scrive - hanno trovato superlativo anche il secondo periodo, quella della collaborazione con l’assai ermetico poeta Pasquale Panella. Cinque album, usciti fra l’86 e il ’94. Titoli come «Don Giovanni», «L’apparenza», «La sposa occidentale», «Cosa succederà alla ragazza», «Hegel»... Canzoni, anzi, post-canzoni dai versi straniati e stranianti, dai suoni robotici che a tratti germogliavano sublimi melodie. Roba non commerciale, comunque. Oggi quelle canzoni ritornano nel cd triplo «Battisti-Panella / Il cofanetto» (Numero Uno - Sony Bmg), che arriva dopo i due volumi «Le avventure di Lucio Battisti» e «Mogol». Quaranta canzoni, quelle conosciute, odiate o amate dai vecchi fan. Non ci sono purtroppo i famosi inediti scritti dalla coppia: pare una decina di brani, finiti chissà dove...




Sesto album per Gianmaria Testa, intitolato «Da questa parte del mare» (Fuorivia Fandango Edel), che arriva a tre anni da «Altre latitudini». Il cantautore piemontese, scoperto prima in Francia che in patria, prosegue sulla strada dell’artigianato nobile e raffinato, della canzone come messaggio semplice e diretto, senza fronzoli né strizzate d’occhio alla moda. «Seminatori di grano» apre il disco ed è anche il singolo di lancio. Fra arpeggi di chitarra e sonorità jazzate comincia il viaggio di una sorta di concept-album sulle migrazioni moderne, sui viaggiatori in cerca di pane e lavoro. Storie di imbarchi clandestini, di terre sognate e mai trovate, storie di straordinaria umanità.




Chiusura col veneto Massimo Priviero, quello che ai tempi dell’esordio con «San Valentino» (1988) sembrava potesse diventare quel che poi è diventato Ligabue. «Dolce Resistenza» (Mbo) è il suo nuovo disco, parla la lingua del rock e del rifiuto della guerra. Anche con «Ciao amore ciao», di Tenco, col testo originale d’impronta antimilitarista «Li vidi tornare».


Prosegue la serie nata andando a scavare nei ricchissimi archivi Rai. Per far rivivere il leggendario Quartetto Cetra i curatori della collana hanno restaurato alcune vecchie incisioni dell'ottobre 1954, tratte dalle riviste radiofoniche realizzate dal gruppo canoro tra il ’53 e il ’55. È infatti dall'ottobre ’53 che va in onda sul Secondo Programma della Rai «Sassofoni e vecchie trombette. L'impossibile storia del jazz». Come dire: la storia del genere afroamericano riveduta e corretta da Tata, Virgilio, Felice e Lucia, in un alternarsi di gag e canzoni scritte appositamente per l'occasione. Fra i classici, anche «Night and day» di Cole Porter.




E un capitolo della collana è dedicato anche al grande Gorni Kramer, nato a Rivarolo Mantovano nel 1913, genio della fisarmonica. Non tutti sanno che Gorni era il cognome e Kramer il nome (in onore di Frank Kramer, grande ciclista degli anni Dieci). Il cd ce lo fa ricordare com’era: chiacchierone, sorridente, sempre di buon'umore... C'è il Kramer «opinionista» (anche se all'epoca il termine non era ancora stato inventato) e quello canterino («Ai tempi che Gallo correva», «È vero signor Strauss che il valzer non le piace?»...), ma soprattutto l'arrangiatore capace di passare dai temi popolari («Reginella campagnola») allo slancio vitale dello swing. Di cui era un maestro.