mercoledì 31 marzo 2010

ADDIO A NICOLA ARIGLIANO


«Quand’ero ragazzo nelle case non c’era il bagno, dunque si andava a fare i bisogni nei campi. Ma dalle nostre parti era pieno di ortiche, e si diceva: ”Squinzano (il suo paese di nascita - ndr) scànsalo, che c’è l’erba che ti punge lu culu”...».

Nicola Arigliano - morto l’altra notte, a ottantasei anni - era così: amabile, gradevole, ma innanzitutto ironico e autoironico. Ai primi di ottobre del 2004 era già un arzillo ottantunenne arrivato a Trieste per partecipare a un’edizione del Barcolana Festival dedicata al jazz. E prima di salire sul palco, passeggiando sulle nostre Rive, il grande crooner pugliese ci raccontava aneddoti e ricordi di una vita e una carriera meravigliose.

Poi, per un pubblico ”selezionato” ma attento, affiancato dal suo trio e con l’immancabile cappelluccio calato sugli occhi, quella notte propose una serie di cavalli di battaglia dello swing italiano: da ”Marilù” a ”Permettete signorina”, da ”Il pinguino innamorato” a ”Venti chilometri al giorno” (Sanremo del ’64), da ”Adagio Biagio” a ”Ludovico”, passando per un omaggio al grande Louis Armstrong e, nel finale, una toccante ”Arrivederci” di Umberto Bindi.

«Sono nato a Squinzano - ci disse quella sera -, un paese in provincia di Lecce, il 6 dicembre 1923. La mia è una storia declinata a suon di jazz, anzi, ”di swing”. Ma lo so che se non ci fosse stata la pubblicità, quella dei vecchi Caroselli, la mia storia sarebbe stata diversa».

«Ho fatto per ventisette anni, alla radio e alla tivù, la pubblicità del Digestivo Antonetto, quello che ”si poteva prendere anche in tram”, e posso dire che è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Prima suonavo, lavoravo, guadagnavo, ma poi, dopo quella pubblicità, che feci perchè ero amico di Armando Testa, grande pubblicitario, d’un tratto tutti mi conoscevano, tutti mi volevano, e anche economicamente le cose migliorarono: con il jazz nessuno aveva mai guadagnato tanto...».

In Puglia, da bambino, nessuno l’avrebbe mai immaginato. «In casa eravamo quattro fratelli, alla musica mi sono avvicinato subito, grazie a mia madre che cantava e suonava la chitarra. Presi anche lezioni di armonia e composizione, ma al paese mi annoiavo. A quattordici anni partii per Milano, attratto dai racconti che facevano alcuni giovani del paese che erano emigrati e tornavano giù d’estate. Continuai a studiare composizione, cominciando anche a suonare il sax, la batteria, il contrabbasso...».

«Al canto arrivai anni dopo, incoraggiato da altri colleghi con cui collaboravo: Renato Sellani, Franco Cerri, Gianni Basso, Oscar Valdambrini... Con Cerri condivisi l’esperienza nella pubblicità: lui era l’uomo in ammollo, ma un po’ si vergognava, mentre io mi sono sempre divertito e sono tuttora grato alla pubblicità».

«A Milano suonavamo alla Taverna Messicana: swing italiano e americano. Il mio mito era Benny Goodman. Poi feci cinque anni di militare, durante la guerra. Ricordo che finii la leva qui vicino, a Udine. E poi me ne andai finalmente in America. Avevo una ragazza a San Francisco, andai a trovarla, poi mi fermai a Boston, a New York, dove conobbi finalmente il vero ”iazz”...».

Nel '52, grazie al critico Marshall Brown che l'aveva sentito cantare in un locale, Arigliano aveva partecipato al festival jazz di Newport, allora il più importante del mondo. Nel ’56, dopo una quasi inevitabile trafila di canzoni napoletane, incise il suo primo disco importante: ”Simpatica”, firmato da Kramer, Garinei e Giovannini.

«Negli anni Sessanta, dopo una parte nel film di Monicelli ”La grande guerra”, partecipai ad alcune Canzonissime e anche a un Sanremo, nel ’64, con ”Venti chilometri al giorno”, scritta da un giovanissimo Mogol e da Pino Massara. Fu una stagione di successo: ”Permette signorina”, ”I sing ammore”, ”È solo questione di tempo”, ”Amorevole”. Per tutti ero ”il brutto che canta o’ iazz”, oppure ”il cantante che non canta”...».

«Poi, verso la fine del decennio del boom, mi sono allontanato dal mondo dello spettacolo. Ero un po’ stufo. Ho continuato a fare dischi, a tenere concerti, ma da una posizione più defilata. Fino a pochi anni fa: nel ’96 mi hanno dato il Premio Tenco, sono usciti degli articoli, la televisione si è di nuovo ricordata di me, e anche l’attenzione per i miei dischi e concerti è aumentata. Ed eccomi di nuovo qui...».

Riflessione finale, quasi filosofica: «Io sono un po’ misantropo, ho sempre voluto restare padrone assoluto della mia vita: se mi propongono delle cose che non mi piacciono, non le faccio e basta. Invece mi piace ancora, e tanto, cantare davanti alla gente: se non ho davanti un pubblico da intrattenere, per cui swingare, io non mi diverto...».

Fin qui Arigliano in quella serata ancora quasi estiva di un ottobre di alcuni anni fa. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2005, si tolse l’ultimo sfizio di una carriera unica: tornare dopo tanti anni al Festival di Sanremo, in gara con il brano ”Colpevole”. Una partecipazione che gli valse un piccolo grande primato: diventare, a ottantuno anni compiuti, il più anziano cantante in gara nell’intera storia del Festival di Sanremo. I giornalisti della sala stampa gli assegnarono in quell’occasione il premio della critica e un'interminabile standing ovation, piena di tanto affetto.

Fu il canto del cigno. L’anno successivo andò a vivere nel centro per anziani di Calimera, provincia di Lecce, dove ha vissuto gli ultimi quattro anni della sua vita e dov’è morto l’altra notte.

Rimane la lezione di un uomo - e un artista - che ha fatto la storia del jazz di casa nostra. Arigliano, come ha detto qualcuno, ha trasformato in precetto di vita il celebre titolo di Duke Ellington, ”It don't mean a thing if ain't got that swing”, non vuol dire niente se non ha swing. Lo swing era la sua vita, la sua missione in terra.

Renzo Arbore ricorda così: «Per noi, ragazzi del jazz degli anni Cinquanta,Arigliano era un idolo non solo perchè cantava lo swing ma anche perchè lo faceva con molta ironia: era il re dello swing e dell'ironia.Tra le cose che lo rendevano originale c'era il fatto che in pieno successo aveva abbandonato Milano per vivere in collina con animali e prodotti della terra, aveva fatto una scelta bucolica. Era allo stesso tempo naif e innamorato della musica moderna».

Fiorello: «Mi dispiace tantissimo. Con Luttazzi ha dimostrato che lo swing lo sanno fare anche gli italiani. Ciao Nicola, I sing amore forever...».

sabato 27 marzo 2010

DANILO DOLCI


Quarant’anni fa un triestino fondava in Sicilia la prima radio libera. Per denunciare la mafia e le drammatiche condizioni di vita dei terremotati del Belice. E rompendo di fatto, per la prima volta, il monopolio radiofonico della Rai.

Lui si chiamava Danilo Dolci, era nato nel ’24 a Sesana (all’epoca provincia di Trieste) da padre lombardo e madre slovena, prima di andare a studiare a Milano e a Roma e poi, dal ’52, a vivere e lottare in Sicilia. Dove si guadagnò la stima del mondo e l’appellativo di ”Gandhi italiano”. E dove anticipò di diversi anni, con Radio Partinico Libera, quel fenomeno delle cosiddette radio libere che poi si sarebbe diffuso soprattutto nell’Italia della seconda metà degli anni Settanta.

L’anniversario sarebbe passato quasi sotto silenzio se l’altra sera Michele Santoro, aprendo il suo ”Raiperunanotte” dal palasport di Bologna, organizzato assieme alla Fnsi (il sindacato dei giornalisti) dopo la sospensione di ”Annozero” e degli altri talkshow politici, non l’avesse ricordato citando i suoi antichi ”sos” dalla terra siciliana.

Era il marzo del 1970, e l’intellettuale triestino - come lo definì Piero Calamandrei che lo difendeva in un processo - s’inventò quella radio di fatto clandestina per denunciare le condizioni di degrado in cui versavano le zone della Valle del Belice, dello Jato e del Carboi a due anni dal terremoto del 1968, ma anche per protestare contro il disimpegno dello Stato e il dominio mafioso nella gestione del denaro pubblico destinato alla ricostruzione. Per Dolci la radio significava innanzitutto offrire alla gente la possibilità di conoscere un’opinione diversa, dire qualcosa che gli altri non volevano o non potevano dire.

<USNUOVA>Inizialmente l’idea era quella di trasmettere da un’imbarcazione in acque extraterritoriali, per eludere le leggi italiane sulle telecomunicazioni. Ma l’idea fu presto abbandonata per le imprevedibili condizioni del mare e per il più che probabile arresto dei responsabili non appena entrati in acque territoriali, nonché per la volontà degli stessi organizzatori di non interferire con le comunicazioni radiofoniche del vicino aeroporto di Punta Raisi.

Si scelse allora di trasmettere da terra, dalla sede del Centro Studi e Iniziative di Partinico, paesotto vicino Palermo. Diedero il loro contributo esperti nel campo delle telecomunicazioni e della giurisdizione in materia. E tutto il progetto fu preparato nel massimo riserbo per evitare un intervento preventivo delle forze dell’ordine: le stesse antenne necessarie alla trasmissione furono issate sull’edificio pochi minuti prima della trasmissione e soltanto dopo il tramonto.

Furono trasmesse le registrazioni di testimonianze raccolte da Dolci e dai suoi collaboratori sulle condizioni di vita dei terremotati, alternate a brani musicali della tradizione popolare. Furono trasmesse più volte, in italiano e in inglese, fino all’arrivo delle forze dell’ordine, che chiusero la baracca ponendo così fine alla prima esperienza italiana di radio libera.

«La radio clandestina di Partinico - scrisse il giorno dopo, il 27 marzo 1970, il Giornale di Sicilia - ha trasmesso per sole ventisette ore. Stasera verso le 22, l’avventura di Franco Alasia e Pino Lombardo, i due collaboratori di Danilo Dolci che si erano barricati dentro per trasmettere un lungo programma registrato in precedenza, si è conclusa in pochi minuti con un’azione a sorpresa di polizia e carabinieri».

Diceva Danilo Dolci nel messaggio di apertura delle trasmissioni: «Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto, di enorme gravità, assurdo: si lascia spegnere un’intera popolazione. La popolazione delle Valli del Belice, dello Jato e del Carboi, la popolazione della Sicilia occidentale non vuole morire. Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, avvisate immediatamente i vostri amici, i vostri vicini: ascoltate la voce del povero cristo che non vuole morire, ascoltate la voce della gente che soffre assurdamente. Siciliani italiani, uomini di tutto il mondo, non possiamo lasciar compiere questo delitto: le baracche non reggono, non si può vivere nelle baracche, non si vive di sole baracche. Lo Stato italiano ha sprecato miliardi in ricoveri affastellati fuori tempo, confusamente: ma a quest’ora tutta la zona poteva essere già ricostruita, con case vere, strade, scuole, ospedali. Le mani capaci ci sono, ci sono gli uomini con la volontà di lavorare, ci sono le menti aperte a trasformare i lager della zona terremotata in una nuova città, viva nella campagna con i servizi necessari, per garantire una nuova vita...».

Ancora: «Questa è la radio della nuova resistenza: abbiamo il diritto di parlare e di farci sentire, abbiamo il dovere di farci sentire, dobbiamo essere ascoltati. La voce di chi è più sofferente, la voce di chi è in pericolo, di chi sta per naufragare, deve essere intesa e raccolta attivamente, subito, da tutti».

Rimane l’importanza di un’esperienza, ”la radio dei poveri cristi” come la chiamavano i siciliani, di grande valore civile e di indubbia valenza anticipatrice. Dovevano infatti passare ancora diversi anni perchè la Corte Costituzionale riconoscesse la legittimità delle libere trasmissioni, rompendo anche in diritto, dopo che di fatto, il monopolio radiotelevisivo pubblico. Rimane la figura di un educatore e di un intellettuale che ha messo la propria vita e le proprie capacità al servizio della legalità e della povera gente.

Danilo Dolci è morto a Trappeto, in provincia di Palermo, il 30 dicembre 1997. La Sicilia pulita lo ricorda da tempo fra i suoi eroi civili. Trieste non lo ha mai ricordato come sarebbe stato giusto e necessario. Forse perchè era un triestino nato a Sesana?

venerdì 26 marzo 2010

HENDRIX / JOPLIN / MORRISON


Il rock ha meno di sessant’anni, visto che convenzionalmente lo si fa nascere nel ’54 con il brano ”Rock around the clock”. Ma la sua strada è da sempre lastricata di morti più o meno misteriose. Alcune delle quali concentrate a cavallo fra il ’70 e il ’71. Giusto quarant’anni fa.

Tre artisti in particolare sono macabramente accomunati da un paio di elementi. Avere il nome che cominciava per ”J” ed essere morti tutti a ventisette anni, nel pieno di un furore creativo che, unito alla morte in giovane età, li ha subito trasformati in mito.

Stiamo parlando ovviamente di Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Il chitarrista di Seattle muore in una camera d’albergo a Londra il 18 settembre del ’70; passano solo due settimane e il 4 ottobre ’70 se ne va per overdose di alcol ed eroina anche la cantante texana; meno di un anno dopo, il 3 luglio del ’71, viene trovato morto nella sua stanza d’albergo parigina il leader e cantante dei Doors.

Per loro, ma anche per Brian Jones, dei Rolling Stones, che era morto annegato nella sua piscina il 3 luglio del ’69, alcuni parlarono di una ”maledizione del J 27”. Per la quale esiste anche uno storico precedente d’annata: nel 1939 era infatti morto avvelenato da un marito geloso il grande bluesman Robert Johnson, che aveva - guarda caso - proprio ventisette anni.

Johnson a parte, la presunta maledizione ha avuto, per gli artisti finora citati ma anche per altri (da Tim Buckey a Jerry Garcia), molto a che fare con l’uso e l’abuso di droghe. Anche se le ”grandi morti del rock” hanno contemplato tragici finali quasi di tutti i tipi: dai gettonatissimi incidenti aerei (Buddy Holly, Richie Valens, Otis Redding, John Denver, Jim Croce, mezzi Lynyrd Skynyrd...) a quelli in motocicletta (Duane Allmann), dagli omicidi (John Lennon, Marvin Gaye, Sam Cooke) ai suicidi (Kurt Cobain, morto anche lui a ventisette anni), fino alla morte per annegamento (Jeff Buckley, figlio di Tim).

Senza dimenticare i due lutti forse più importanti, assieme a quello di Lennon: Elvis Presley e Michael Jackson. Il re del rock ucciso nel ’77 da un mix di cibo, farmaci, droghe, eccessi di ogni tipo. Il re del pop ammazzato l’estate scorsa da un farmaco iniettatogli dal medico che doveva curarlo (ma il procedimento giudiziario è ancora in corso).

Spesso, dietro a queste morti, si sono sviluppate vere e proprie leggende metropolitane, alimentate da dubbi, illazioni, congetture di ogni tipo. E dunque non manca mai qualcuno che giura di aver visto Elvis Presley in un paesino del Sud America, o Jim Morrison in un atollo tropicale, o ancora Jimi Hendrix confuso fra la folla di una qualche grande città.

Rimane il triste anniversario di quei tre ragazzi - fra i tanti protagonisti del rock scomparsi - che se ne andarono da questo mondo più o meno quarant’anni fa. Un periodo particolare. Woodstock aveva da poco chiuso i battenti. Calando forse inconsapevolmente il sipario anche sul sogno di una nazione alternativa, di un mondo diverso e migliore.

Woodstock grande esperienza collettiva ma anche gigantesco esperimento di business: la comunità rock che fa le prove generali per diventare mercato globale del rock. Punto più alto della controcultura giovanile, all’incrocio fra musica e politica, sull’onda del movimento contro la guerra nel Vietnam che due anni prima aveva portato mezzo milione di persone in piazza a Washington. E al tempo stesso canto del cigno, funerale dei sogni e degli ideali e delle utopie degli anni Sessanta.

Jimi Hendrix fu il protagonista dell’epica chiusura del festival. Nelle intenzioni degli organizzatori Woodstock doveva terminare domenica 17 agosto ’69, ma il chitarrista aveva insistito per essere l’ultimo a esibirsi e salì sul palco alle nove del mattino di lunedì 18 agosto. La maggior parte degli spettatori era già ripartita, e ”soltanto” ottantamila persone assistettero a quelle due ore di performance, con l’inno americano fatto a brandelli dalla chitarra elettrica. Una straziante, allucinata versione psichedelica si ”Star Spangled Banner”, volutamente distorta in una provocazione diventata il simbolo della protesta pacifista e antimilitarista.

Hendrix morì un anno e un mese dopo, in circostanze tuttora avvolte dal mistero. La causa ufficiale è che sia stato soffocato dal suo stesso vomito, quello che avvenne in quei tragici minuti però non è chiaro. Jimi riuscì a chiedere aiuto al suo manager ma pare che i soccorritori invece di farlo mettere di lato in modo da liberare la trachea lo tennero sdraiato facendolo così soffocare.

Da poco sono stati pubblicati dei suoi inediti (”Valleys of Neptune”), un segno anche questo di quanto la sua memoria - e quella di Janis Joplin, e di Jim Morrison - sia viva e vitale a distanza di quarant’anni.

racconti GRISHAM


Nelle redazioni di una volta girava un detto: i giornali sono come il maiale, non si butta via niente. A significare che ogni piccola notizia, ogni curiosità, ogni minuscolo rimasuglio poteva essere utile e finire in pagina. In un destino analogo all’animale bandito dalle diete dimagranti: ogni sua parte può essere utilizzata con soddisfazione degli utilizzatori finali.

Non sembri irrispettoso, ma un pensiero analogo (della serie: qui non si butta via niente...) sorge dinanzi al nuovo libro di John Grisham, ”Ritorno a Ford County” (Mondadori, pagg. 380, euro 20,00). Presentato come la prima raccolta di racconti del re del legal thriller («storie toccanti - si legge nella nota dell’editore - dal retrogusto spesso dolceamaro, che confermano ancora una volta Grisham come uno dei più grandi scrittori americani dei nostri giorni»), il volume propone otto racconti, otto storie che sembrano accomunate da un elemento: non essere state degne di diventare protagoniste di un romanzo. Di quelli che il cinquantacinquenne autore dell’Arkansas vende a decine e decine di milioni di copie in tutto il mondo da vent’anni a questa parte.

Del resto, lo ha ammesso lui stesso in un’intervista. «Quasi ogni racconto - ha detto Grisham - era lì per diventare un libro a sé, ma anche se aveva un plot ben definito, un inizio, un centro, una fine, non riuscivo a svilupparlo, e non era lungo abbastanza...».

Ecco allora questa raccolta di storie e personaggi, sullo sfondo di Ford County, cittadina immaginaria del Mississippi nella quale aveva già ambientato nell’89 il romanzo d’esordio, ”Il momento di uccidere”, cui sarebbero seguiti ”Il socio”, ”Il rapporto Pelican”, ”Il cliente”, ”L’appello”, ”L’uomo della pioggia”, ”La giuria” e tanti altri.

Nel primo racconto tre ragazzi di campagna partono per Memphis. Devono donare il sangue a un amico in fin di vita. Ma dopo essersi fermati in un negozio di alcolici, il loro viaggio incrocia un club di spogliarelli alla periferia della grande città. E le buone intenzioni iniziali svaniscono.

Secondo racconto, secondo viaggio. Inez Graney, un'anziana costretta su una sedia a rotelle, parte con i due figli per rendere l'estremo saluto al figlio più piccolo, detenuto nel braccio della morte, e riportarne a casa la salma.

L’avvocato Mack Stafford è il protagonista della terza storia. I piccoli equilibri della sua vita vengono sconvolti da una telefonata che riporta a galla un caso archiviato molti anni prima. E nuovi, inimmaginabili orizzonti gli si aprono dinanzi.

L’assicuratore Sidney è un altro uomo comune: vita normale, completa di matrimonio ormai in pezzi. Ma un giorno scopre di possedere un innato talento per il blackjack. Con la possibilità di vendicarsi dell'uomo che gli ha portato via la moglie.

Wade è un altro avvocato, lavora a Clanton, e un giorno si imbatte in un uomo uscito sconfitto anni prima da una causa e che gli aveva giurato vendetta. E stavolta c’è una violenta ”giuria popolare” che deve giudicare il povero avvocato...

Si va avanti, fra una casa di riposo con un gentile inserviente molto interessato ai conti correnti degli anziani e un quartiere nel panico per un ragazzo di buona famiglia che torna a casa malato di Aids, fino all’ultimo racconto - presente solo nell'edizione italiana - che ci riporta nel braccio della morte per vivere le ultime ore di Joey, che non ha nessuno da salutare né nulla più da desiderare. Tranne una cosa, che in fondo non gli dispiacerebbe: guardare per l'ultima volta la luna.

Intendiamoci, sono storie ben raccontate, scritte bene come si conviene a un grande professionista della scrittura. Ma dall’inventore del legal thriller, dall’autore che in passato da saputo creare - pescando fra i suoi ricordi di avvocato e nelle storie vere pubblicate tutti i giorni dai giornali - appassionanti intrecci che non mollano il lettore fino all’apparire della parola ”fine”, beh, da tempo ci aspettiamo di più.

Mettiamola da un altro punto di vista: questo libro non avrebbe trovato un editore se fosse stato firmato da un pinco pallo qualsiasi. «Anche oggi - ha ammesso Grisham nell’intervista citata - alle sette ero alla tastiera, fino alle tredici: ho scritto ventinove pagine, e devo tenere questo passo per consegnare il mio prossimo romanzo a fine giugno. Se non facessi così non potrei mai finire un libro all’anno. Ma lo faccio divertendomi».

È il problema degli scrittori che hanno un successo tale da farli somigliare a piccole aziende. Corrono il rischio che siano i lettori, un giorno, a non divertirsi più.

venerdì 19 marzo 2010

DYLAN a LUBIANA e ZAGABRIA


Bob Dylan è di nuovo in zona. Il suo ”never ending tour”, la tournèe praticamente infinita, interrotta soltanto da qualche sosta per riprendere letteralmente fiato, che dal lontano 1988 lo porta a suonare in ogni parte del mondo (mai meno di cento date all’anno), fa infatti di nuovo tappa nella nostra zona.

Attualmente il menestrello di Duluth (sessantanove anni il 24 di maggio) è in Giappone, poi il suo tour toccherà Corea, Grecia, Turchia e Romania. E a giugno arriva nei paesi della ex Jugoslavia e poi, con ogni probabilità, anche in Italia.

Ma vediamo le date sicure: 4 giugno a Skopje, Macedonia; 6 giugno a Belgrado, Serbia; 7 giugno a Zagabria, Croazia; 13 giugno nella vicina Lubiana, Slovenia. Poi, nella seconda metà del mese, sono previsti due concerti a Viareggio e a Parma (nell’ambito del Parma Poesia Festival), peraltro ancora da confermare.

Un’occasione comunque da non perdere, per i tanti amanti vecchi e nuovi del grande poeta e cantautore americano, più volte candidato al Premio Nobel e insignito del Premio Pulitzer alla carriera nel 2008, che in questi concerti si diverte spesso a ”massacrare” - se ci è passato il termine - i suoi classici.

Dylan non è infatti fra quelli che ripropongono dal vivo le loro canzoni sempre nella stessa, identica maniera in cui il pubblico si attende di ascoltarle. Anzi, ama non solo cambiare arrangiamenti ma sembra quasi che si diverta a rendere i vecchi e famosi brani il più possibile irriconoscibili. Spesso, in concerto, solo i conoscitori più profondi del suo repertorio riescono nell’impresa di riconoscere canzoni anche storiche sin dall’inizio. Tanto sono diverse dall’originaria versione discografica consegnata ai posteri.

Del resto, il grande e vecchio Bob è uno che ama sorprendere. Sempre. Lo ha fatto anche pochi mesi fa, pubblicando l’album natalizio ”Christmas in the heart”. Una raccolta di standard natalizi come ”Little drummer boy” e ”Here comes Santa Claus”, con tanto di campanellini e coretti in stile anni Cinquanta, le cui royalties raccolte negli Stati Uniti sono state devolute alla Feeding America per sfamare famiglie bisognose nel periodo natalizio.

Al proposito l’artista ha dichiarato: «È una tragedia che, solo negli Stati Uniti, venticinque milioni di persone (sette dei quali bambini) vadano a letto affamate e si sveglino la mattina dopo senza avere la certezza di quando e come potranno mangiare. Ho deciso di fare questo piccolo gesto, che forse contribuirà, almeno durante le feste, a risolvere i problemi di parte di queste persone».

Da ricordare infine che il mese scorso Bob Dylan ha cantato alla Casa Bianca, davanti alla famiglia Obama, nel corso di una serata organizzata in onore dei diritti civili. Per la sua prima volta alla White House, il musicista ha eseguito solo ”The times they are a-changin”. Brano del ’64, evidentemente ancora molto attuale.

mercoledì 17 marzo 2010

MINA 70 ANNI


Esistere, essere senza apparire. Da trentadue anni. Nella società dell’immagine e dell’apparenza, perdippiù. Praticamente un miracolo, di quelli che riescono soltanto ai grandissimi.

Il 25 marzo Mina, la protagonista di questo miracolo, compie settant’anni. Non si esibisce in pubblico dal 23 agosto 1978, data del suo ultimo concerto. Ma nei tanti anni che sono ahinoi trascorsi, Mina Anna Mazzini - nata a Busto Arsizio nel 1940, cresciuta a Cremona, dal ’66 residente in Svizzera, in tempi più recenti riaccasatasi fra Brescia e Milano - è rimasta una figura pubblica di prima grandezza della musica, della cultura, della comunicazione, del costume di casa nostra. La sua scommessa: sparire per esistere davvero.

Mina non ha mai smesso di esistere come cantante, innanzitutto. La miglior cantante italiana di tutti i tempi. Che in tutti questi anni ha sempre continuato a incidere. All’inizio degli album doppi, per la verità spesso un po’ stanchi, che uscivano preferibilmente sotto Natale: un disco di cover e uno di cose nuove, scelte personalmente - assieme al figlio produttore Massimiliano Pani - fra le migliaia di brani che autori noti e sconosciuti non hanno mai smesso di sottoporle. In tempi più recenti progetti discografici più vivi, più interessanti, più attuali: dall’album assieme a Celentano (che intervistato da Repubblica l’ha definita «una bomba che non si può disinnescare ed esplode quando meno te lo aspetti») di una decina d’anni fa, fino al recente duetto con Manuel Agnelli degli Afterhours, rock italiano dei più aggiornati (e nel video di ”Adesso è facile” lei canta e l’altra sua figlia, Benedetta, appare nel ruolo della mamma...).

Mina esiste con le sue acute riflessioni sui nostri tempi scassati affidate da qualche anno al quotidiano La Stampa e al settimanale Vanity Fair. Cose scritte talmente bene, e così ricche di contenuti, che all’inizio qualcuno ebbe persino l’idiozia di dubitare sulla loro genuinità. L’altro giorno, commentando l’uscita di alcuni illustri inediti post mortem, da Salinger a Jimi Hendrix, la Tigre di Cremona (come la soprannominò tanti anni fa la sua amica Natalia Aspesi) sul quotidiano torinese ha scritto: «La fine della vita si presenta all'improvviso e nessuno trova il momento per indicare il destino di una propria opera incompiuta. Ognuno ha la propria Pietà Rondanini, la propria Turandot e forse non trova la forza di decidere se destinarla a un tritasassi o all'estasi dei posteri. Non c'è una legge che dica che le opere non finite debbano essere bruciate, invece che nascoste da qualche avido profittatore. A questo proposito mi devo ricordare di dare alle fiamme un maglioncino che sto finendo. Gli manca una manica». Sublime.

Mina esiste in quella forma d’arte che, ovviamente ai livelli alti, è la pubblicità. La sua voce accompagna da anni gli spot della Pasta Barilla senza nemmeno il bisogno di un riferimento qualsiasi alla sua persona: una scritta, una firma, un’immagine... No, basta la sua voce che è grande anche quando non canta. E comunque nell’ultimo spot, forse proprio in occasione del compleanno, canta pure: nientemeno che ”Nel blu dipinto di blu”, alias ”Volare”, vincitrice a Sanremo del ’58, con Mimmo Modugno e Johnny Dorelli. La canzone italiana più famosa del mondo, Mina l’aveva già interpretata nel 2001 nel cd ”Sconcerto”.

Mina esiste perchè l’anno scorso ha aperto (seppur virtualmente, a mo’ di sigla) il 59.o Festival di Sanremo, quello di Bonolis: una ”Nessun dorma” da antologia, cantata magistralmente, alla maniera di uno standard, e arricchita dalle immagini della cantante in studio con l’orchestra diretta da quel Gianni Ferrio che lavora con lei da sempre. E altre sue immagini in sala di registrazione erano state diffuse nel 2001. Lei più o meno sempre uguale: gli occhialoni, i capelli raccolti, le cuffie in testa, il grande foulard nero attorno al collo...

L’aria di una tranquilla signora borghese. Ma con la stessa grinta che animava quella ragazza che nell’estate del ’58, in vacanza al mare con la famiglia a Forte dei Marmi, una sera, alla Bussola di Marina di Pietrasanta, sale sul palco sfidata dagli amici, prende il microfono e praticamente non lo molla più. Si narra che il proprietario del locale, Sergio Bernardini, nelle sere successive dovette quasi frenare l'entusiasmo di quella diciottenne esuberante che voleva solo cantare, cantare, cantare.

Il resto è storia nota. Il debutto come Baby Gate, pseudonimo subito abbandonato. La stagione degli ”urlatori” con Celentano. Nel ’59 il grande successo con il brano ”Nessuno”, al Musichiere ma anche a Canzonissima. Il primo posto in hit parade con ”Tintarella di luna” nel gennaio del ’60. E poi Sanremo e Studio Uno, ”Il cielo in una stanza” e ”Le mille bolle blu”, il successo anche all’estero. La leggenda vuole che Frank Sinatra la volesse in America (ma lei, si sa, aveva e ha paura dell’aereo...). Che anche Louis Armstrong e Sarah Vaughan si fossero idealmente inchinati dinanzi alla sua grande voce. «La più grande voce bianca», secondo il vecchio Satchmo.

Ma le cronache ricordano anche il presunto scandalo di un figlio concepito con un uomo sposato, l’attore Corrado Pani (nell’aprile ’63 nacque il citato Massimiliano, per tutti all’epoca ”Paciughino”). Era un’altra Italia, pre-divorzio e molto democristiana: la cantante viene messa in quarantena dalla televisione di stato. Salvo richiamarla in servizio meno di un anno dopo. E chiederle idealmente scusa restituendole onori e ruolo.

Mina oggi rimane un mito per il quale parlano le cifre: cinquantadue anni di carriera, mille brani incisi, cento milioni di dischi venduti, la stima unanime di pubblico, critica e colleghi. E quella scommessa, essere senza apparire, giocata e vinta trentadue anni fa. Mina come Greta Garbo, come Lucio Battisti.

Mina per sempre giovane, Mina forever young. Anche adesso che arriva un compleanno ”pesante”. Festeggiato dalla sua casa discografica con la pubblicazione in vinile dei suoi ultimi album, quelli compresi fra ”Canarino mannaro” del ’94 e il recente ”Facile”. E presto arriva anche un nuovo disco di inediti. Perchè la leggenda va avanti.

domenica 14 marzo 2010

DISCHI


MALIKA AYANE


A volte nascono le stelle. Così, quasi per caso. Premio della critica all’ultimo Festival di Sanremo, Malika Ayane arriva al secondo album con una visibilità ma anche una credibilità - ed è quel che più conta - che poco più di un anno fa poteva solo sognare.

Milanese, ventisei anni, madre italiana e padre marocchino, Malika - dopo il Coro di voci bianche della Scala - ha cominciato la sua carriera con gli spot pubblicitari. Incantevole quello del 2007 per la Saab, cui lei regalava la sua magnifica voce nel brano ”Soul weaver” (poi compreso anche nel suo primo album, uscito nel settembre 2008).

La svolta: ovviamente l’incontro con Caterina Caselli, che si conferma talent scout di prima grandezza, mettendola sotto contratto per la sua Sugar e permettendole di crescere artisticamente.

Il debutto al Sanremo Giovani dell’anno scorso con ”Come le foglie”, scritto per lei da Giuliano Sangiorni dei Negramaro, che diventa uno dei tormentoni della primavera-estate 2009, regala alla musica leggera italiana una sua nuova, splendida protagonista.

Tutto in meno di due anni, insomma. ”Ricomincio da qui”, da lei scritta con Pacifico su musica di Ferdinando Arnò (con lei sin dai tempi degli spot pubblicitari), è stata una delle poche cose da salvare musicalmente dell’ultimo Festival.

E ora questo ”Grovigli” (Sugar), che è una bella conferma. «È il titolo - dice - di una canzone a cui tengo molto ma per questioni di tempo non sono riuscita ad inserire nel disco. Penso però che rappresenti bene le varie canzoni e i vari generi che si inseguono nell'album. Non ho nessun problema a fare sia l'interprete sia l'autrice, mi piace scrivere i testi, e vorrei riuscire a farlo anche con la musica, ma finché ci sono artisti come Paolo Conte nei miei dischi, sarà difficile sbloccarmi».

Già, Paolo Conte. Uno che appena l’ha sentita ha detto: «Il colore di questa voce è un arancione scuro che sa di spezia amara e rara». Per questo disco ha scritto per lei ”Little brown bear”, nel quale duetta con la padrona di casa, e ”Chiamami adesso”.

«Conte - rivela lei - l'avevo incontrato quando era uscito il mio primo disco ed era molto soddisfatto del lavoro. Mi sono molto sospresa quando mi ha mandato il brano inedito, e specie quando ha accettato di cantarlo insieme a me. In passato aveva detto che la mia voce sapeva di spezie, mentre questa volta ha scritto direttamente a Caterina Caselli dicendole che la mia voce somiglia a un calycanthus che fiorisce in inverno e ti porta via lontano».

Un altro duetto d’autore è quello con Cesare Cremonini, suo nuovo fidanzato, che ha scritto per lei ”Just believe in love”. E nel disco c’è anche la superba cover di "La prima cosa bella", vecchio successo di Nicola Di Bari, che sta nella colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Virzì. E ancora il rock delicato di ”Satisfy my soul”. Ma tutto l’album è ricco di gioiellini. Benvenuta fra i grandi, cara Malika...


PAOLO PIETRANGELI


Paolo Pietrangeli ha sessantacinque anni. Da tanto tempo fa il regista televisivo (ha legato il suo nome soprattutto al Maurizio Costanzo Show) ed è un apprezzato autore di documentari, ma è stato - tutto sommato è ancora - un grande cantautore politico. Quando ancora esisteva la canzone politica e di protesta.

La sua canzone più nota rimane ”Contessa”, sorta di colonna sonora del Sessantotto italiano, il cui ritornello (”Compagni, dai campi e dalle officine...») talvolta risuona ancora nei cortei e nelle manifestazioni della sinistra.

”Antologia” (Ala Bianca, distr. Warner) è il cd doppio che ripercorre attraverso quarantotto canzoni tutta la sua carriera. Un lungo percorso che parte dagli anni Sessanta di "Valle Giulia", per arrivare a cinque canzoni inedite: "Paure. Magari no (la commessa)", "La questione meridionale", "Dibattito sulle sorti della sinistra a mozioni contrapposte in una notte desolata di Chianciano Terme (Sliding door)", "Fiore di Gaza" e "Addio padre madre addio".

Ma si diceva di ”Contessa”. Pare che Pietrangeli l'abbia scritta ispirandosi a una conversazione ascoltata involontariamente in un elegante caffè di Roma, quando negli anni Sessanta la nascente stagione della contestazione cominciava a rimettere pesantemente in discussione equilibri sociali fino ad allora mai toccati. Negli anni seguenti diviene una canzone popolare nella vera accezione del termine. E della canzone popolare riprende stile e andamento, nonché il parallelo tra lotte operaie e studentesche.

Molti dei brani storici sono riproposti nelle versioni originali. E riportano automaticamente l’ascoltatore a un’Italia che non esiste più: storie e riflessioni, opposizione e poesia quotidiana, in due ore e mezzo di grande canzone d’autore sociale e popolare nel senso più autentico del termine.


POOH


Il sottotitolo di questo doppio dvd è ”Ancora una notte insieme”. Quella del 30 settembre scorso a Milano, serata d’addio del batterista Stefano D’Orazio (nella foto) che lascia dopo quarant’anni la premiata ditta. E quella notte ritorna in queste quarantotto canzoni - da ”Anni senza fiato” a ”Chi fermerà la musica”, passando per ”Piccola Katy”, ”Tanta voglia di lei”, ”Pensiero”, ”Dammi solo un minuto” e tante altre - che ripercorrono una carriera senza eguali nel mondo della musica leggera italiana. Ora i tre Pooh vanno avanti da soli, con lo storico paroliere Valerio Negrini che rimane della squadra e con la certezza di non voler sostituire D’Orazio con un ”nuovo Pooh”. La formazione, dicono, verrà piuttosto integrata di volta in volta con altri strumentisti. Appuntamento già fissato ad aprile in Canada e per il 27 novembre al Palalottomatica di Roma e il 30 novembre al Forum di Assago di Milano, preludio di un tour più ampio. La leggenda insomma continua. E anche l’azienda...


NAIF HERIN


Quinto album per l’originale cantautrice valdostana che ha mosso i primi passi della sua promettente carriera a cavallo fra Italia e Francia. Le tredici canzoni proposte nel disco sono state scritte nell’arco degli ultimi quattro anni e sono una bella occasione per intraprendere un viaggio nell'universo musicale di una cantautrice che ha saputo recepire e far proprie influenze diversissime: dalla musica popolare alla musica elettronica, fino alla miglior canzone d’autore. I suoi estimatori ne sottolineano il talento cristallino, l’energia funk, quella sua voce leggera e intensa, in una personalità particolare e ricca di ironia che ne fanno un'artista originale dalla freschezza stilistica ricercata. Naif - nata in una valle di montagna, che oltre a cantare suona chitarra, tastiere e basso - propone una musica difficilmente classificabile e rintracciabile nel panorama musicale italiano. Fra i brani: ”I tuoi sogni”, ”La ballata del povero giuda desolato”, ”Attraversando l’Italia”, ”Immensamente”...

GUCCINI


Oltre quattromila giovani di tutte le età hanno affollato ieri sera il PalaTrieste per il concerto di Francesco Guccini. Camicione rosso portato fuori dai jeans, tanta voglia di chiacchierare (”se non parlo, non mi diverto...”), il giovanissimo settantenne di Pàvana apre così: ”Come va, bricconcelli...?”.

Lo guardi, imponente sul palco, con quell’aria da vecchio oste saggio, e ti chiedi com’è possibile cominciare ogni concerto, ormai da tanti anni, con una canzone del ’67, per poi chiuderlo, dopo un paio d’ore abbondanti, con una del ’72, e regalare al pubblico ogni sera uno spettacolo sempre nuovo e originale e intelligente.

Ogni volta che capita di rivederlo e risentirlo dal vivo, ci si ricorda con sollievo che - fra la casta e il casting - esiste anche un’altra Italia. Intelligente, onesta, spesso colta, seria eppur ironica. Lontana dal cattivo gusto e dalla volgarità che sembrano essersi impadroniti del Paese. Allergica alla cricca di affaristi che stanno facendo scempio delle istituzioni e della democrazia.

Lui, cantautore storico ma da tempo anche scrittore (è appena uscito il suo ”Non so che viso avesse”, dal celebre verso che apre la sua ”Locomotiva”, che è la sigla finale dei suoi concerti), da una decina d’anni si è ritirato nella vecchia casa di famiglia del suo paese nell’appennino toscoemiliano. Scende ogni volta che ne ha voglia, e tiene un paio di concerti al mese in palasport sempre affollati non solo da cinquantenni nostalgici degli anni Settanta, ma anche da ragazzi che non erano nati quando lui era già uno di successo. E che probabilmente trovano in lui quel punto di riferimento etico e morale, prim’ancora che culturale e politico, che altrove ormai da tempo è merce rara.

Anche ieri sera ha attaccato, come si diceva, con ”Canzone per un’amica”: «Lunga e diritta correva la strada...», quasi una sigla, che stava nell’album d’esordio ”Folk Beat n.1”, del ’67, col titolo ”In morte di S.F.” poi cambiato.

Seguono canzoni - preferibilmente d’annata - e chiacchiere a volontà. Fra le prime: ”Il tema” (da ”L’isola non trovata”, del ’71), una ”Noi non ci saremo” rock (ancora dall’album d’esordio, con quei toni quasi apocalittici di un futuro che nel ’67 sembrava lontano...), le superbe ”Canzone delle osterie di fuori porta” e ”Vedi cara”, la crepuscolare ”Canzone quasi d’amore” (da ”Via Paolo Fabbri”, del ’76).

Fra le chiacchiere, condite sempre da un sorso di vino (”scusate, ma recentemente ho avuto momenti di depressione bruttissimi...”, e chi vuol intendere intenda), molti riferimenti all’attualità. Sono tempi duri, riflette il nostro, è in atto un complotto giudaico comunista e togato. Caro Silvietto nostro, anche questo Milan: stava per segnare sei o sette gol, ma poi ci si sono messi di mezzo quei radicali, tutti lì sulla porta... Poi c’è Ignazio Benito Larussa, che aggredisce quel giornalista freelance. Per fortuna abbiamo altre soddisfazioni, come il principe della casa regnante.

Arrivano anche la classicissima ”Incontro” e ”Farewell”, ”Ti ricordi quei giorni” e la triestina ”Eskimo” (ispirata all’indumento comprato per diecimila lire al mercato di Ponterosso, duranta la naia a Banne nel ’63...), ”Cirano” e una trascinante ”Don Chisciotte”, a due voci con il chitarrista Juan Carlos Flaco Biondini.

I brani nuovi vengono inseriti sul canovaccio con misura e giudizio. Guccini non è tipo da privilegiare le ultime creazioni. È anche vero che se lo può permettere: in mezzo secolo (”la prima l’ho scritta nel ’58”, confessa) ha composto tante e tali belle canzoni, che per lui costruire la scaletta di un concerto non è mai difficile.

Comunque ieri<IP0> le novità, che prima o poi entreranno in un nuovo album, sono stati due, verso metà concerto: ”Su in collina”, ballata che narra di un episodio della Resistenza (”Oggi c’è bisogno di parlare di Resistenza...”), e ”Il testamento del pagliaccio”, quasi una canzone satirica, e autoironica, dedicata al popolo italiano che ha sempre la memoria troppo corta. «Il pagliaccio - avverte Guccini - siamo tutti noi...”.

Si va verso il finale. Ma c’è ancora tempo per le antiche ”Il vecchio e il bambino”, ”Auschwitz” - scritta nel ’64, pubblicata nel ’67 - e poi tutti in piedi per ”Dio è morto”, per ”Un altro giorno è andato”. Fino al finale già scritto mille volte, ma non per questo meno emozionante: ”Trionfi la giustizia proletaria...”.

Con Guccini, sul palco, il solito grande gruppo i cui punti cardinali sono sempre, oltre al citato Biondini, Vince Tempera, Ellade Bandini, Antonio Marangolo. Che si godono assieme al capobanda l’ennesimo affettuoso trionfo, tributato per l’occasione dal pubblico triestino. Per una volta caldissimo.

CAMMARIERE intervista


«Canto per la prima volta a Gorizia, la città di Carlo Michelstaedter, il filosofo goriziano morto suicida giusto un secolo fa, nel 1910, a soli ventitre anni. Trovo che sia il nostro poeta maledetto, il Baudelaire o il Mallarmè italiano...».

Parla Sergio Cammariere, il cui tour ”Carovane” fa tappa domani sera al Teatro Verdi di Gorizia, accompagnato da Amedeo Ariano batteria, Luca Bulgarelli contrabbasso, Bruno Marcozzi percussioni, Olen Cesari violino, Daniele Tittarelli sax alto, Sanjay Kanja Banik tabla, Michele Ascolese chitarra elettrica, chitarra acustica, bouzuki.

Come l’ha scoperto?

«Me l’ha fatto conoscere Roberto Kunstler, con cui collaboro da sempre - dice il cantautore e musicista, calabrese di Crotone, classe 1960 -, che ha usato i versi iniziali della poesia ”I figli del mare” di Michelstaedter per la nostra canzone ”Dalla pace del mare lontano”. Un brano evocativo, fra sogno, mito, leggenda, presenze oniriche. Per evocare anche il dramma dei nostri fratelli che si imbarcano e navigano giorni e notti per il mare nella speranza di un futuro migliore».

Come nelle ”Carovane” dell’ultimo disco e di questo tour?

«Proprio così. ”Carovane” che per me sono sogno e metafora dell’esistenza, di quel viaggio che si compie nel mondo, sulla strada della vita. Cercando di cogliere i segni e la vera essenza dell’uomo».

In musica come si traduce?

«Con una rinnovata attenzione per le musiche, i suoni, gli strumenti lontani da noi. Non ho ovviamente abbandonato il jazz e la canzone, che sono i campi nei quali mi sono sempre mosso, ma diciamo che avevo voglia di sperimentare, di provare emozioni diverse».

E dunque?

«Dunque nel disco, ma anche nel concerto che porto a Gorizia, pur restando fedele alla linea jazz e canzone, mi sono lasciato suggestionare da suoni indiani, albanesi, balcanici».

La musica muove le genti?

«Certo, ma ha bisogno anche di spazi. Prenda la televisione: c’è poca musica, intesa come arte, perchè pensano che la grande musica in tivù non funzioni, non faccia ascolti e dunque incassi. Niente di più sbagliato...».

L’altra sera era in tivù da Gigi D’Alessio...

«Sì, mi ha invitato e ci sono andato volentieri. E mi sembra che sia andato tutto benissimo. A dimsotrazione di quello che dicevo prima».

Sanremo l’ha visto?

«No, ma non per snobismo. Ero impegnato nella scrittura delle musiche per un nuovo lavoro teatrale importante, di cui per ora preferisco non dire nulla».

E lei perchè non è più tornato, al Festival?

«Perchè non c’è più Pippo Baudo. E io sono un po’ suo figlio... È stato infatti lui che mi ha chiamato, e devo dire grazie anche a lui se, dopo tanti anni di gavetta, sono arrivato al grande pubblico».

Oggi, con i talent show, la gavetta è stata abrogata.

«Ed è un errore. Io fino al 2002, a quarant’anni passati, avevo il problema di come pagare l’affitto di casa. Poi è cambiato tutto. Ma oggi ringrazio gli anni della formazione, della gavetta, se vuole anche della precarietà: mi hanno aiutato a essere quello che sono».

Cioè?

«Una persona tranquilla, equilibrata, un uomo normale che fa musica. Quella musica che è sempre stata la mia vita. Vengo da una famiglia di contadini del Sud, nessuno dei miei suonava, io ho cominciato con una melodica soprano, il mio primo strumento preso in mano

che andavo ancora alle elementari».

Cosa le è rimasto della sua Calabria?

«Le radici, ma anche la consapevolezza della realtà che vivevo da ragazzo, fatta di natura, di elementi spirituali, di mare. E anche quanto poi sono partito, lasciando la mia terra, sono rimasto convinto che il mio destino passasse proprio dal mare».

Diceva del teatro, ma ultimamente ha lavorato anche per il cinema.

«Ed è stata una grande soddisfazione. Ho cantato la versione italiana di un brano di Randy Newman nei titoli di testa del film ”La principessa e il ranocchio”. Un film di animazione artigianale, un cartone disegnato a mano come si faceva una volta, non come adesso che tutto viene realizzato al computer».

A Gorizia?

«Suono con un grande gruppo multietnico, apro il concerto con ”La rosa filosofale” e farò una piccola sorpresa al pubblico: una nuova versione di ”Dalla pace del mare lontano”. Per ricordare il grande Michelstaedter...».

AMOROSO 2


TRIESTE Forse ce l’avrebbe fatta comunque, ma Valerio Scanu deve ugualmente ringraziare Alessandra Amoroso che a Sanremo ha duettato con lui nella serata dei ripescaggi. Tirandolo fuori dall’imbarazzo dell’eliminazione e poi proiettandolo nientemeno che verso la vittoria finale.

Ora la cantante pugliese (è nata a Galatina, provincia di Lecce, nell’agosto 1986) arriva a Trieste, per un concerto al Politeama Rossetti che domani sera, alle 20.30, attirerà con ogni probabilità una platea formata quasi integralmente da giovanissimi. Come giovanissimi sono i fan televotanti che l’hanno fatta trionfare l’anno scorso ad ”Amici”, quando si piazzò proprio davanti a Scanu.

Per il (contestato) sistema del televoto, unito alla coesione del ”popolo” che cresce anno dopo anno attorno al talent show di Maria De Filippi, rimaniamo convinti che la Amoroso, fosse andata quest’anno a Sanremo con una canzone presentabile, avrebbe tranquillamente vinto il festival al posto del ventenne cantante sardo.

Appuntamento solo rinviato? Può darsi. Ma ora c’è questo tour. Al Rossetti canterà le canzoni della sua giovane carriera: da ”Ama chi ti vuole bene” a ”Mi sei venuta a cercare tu”, da ”Per ora un po’” a ”Il cielo può attendere”, a ”Find a way”, fino ai successi ”Senza nuvole” (dovrebbe arrivare a fine concerto) e ”Stupida” (prevista fra i bis). Infilando fra un brano e l’altro anche qualche cover, come ”Almeno tu nell’universo” e un medley fra ”Respect” e ”Chains of fools”. Testimonianza di un amore per Aretha Franklin e la musica nera che ha radici lontane. Precedenti all’affermazione ad ”Amici”.

Ci aveva provato già cinque volte, ad essere ammessa fra i concorrenti del ”talent” di Canale 5, prima dell’entrata nel cast avvenuta nell’ottobre 2008. Quando presenta ”If I ain’t got you” di Alicia Keys, e accade che Rudy Zerbi (giurato nonchè discografico) ne intuisce le potenzialità, mentre Luca Jurman (musicista nonchè ”insegnante” cui vengono affidati i giovani del programma) la segue con particolare attenzione.

Puntata dopo puntata, sfida dopo sfida, canzone dopo canzone, la ragazza dalla gran voce nera convince tutti e vola fino alla vittoria finale, esattamente un anno fa: primo premio e premio della critica.

Il suo inedito ”Stupida” esce su singolo e dà il titolo anche al primo mini-cd: duecentomila copie vendute sono il segno tangibile che il suo successo non si limita al programma televisivo. E la canzone è uno dei tormentoni dell’estate passata.

Dopo l’Amici Tour estivo assieme a tutti gli altri, dall’autunno scorso per Alessandra è tempo di correre da sola: la Pausini che la chiama nel cast di ”Amiche per l’Abruzzo”, il programma del sabato sera su Raiuno con Gianni Morandi (che aveva già duettato con lei ai Wind Music Awards), l’uscita del cd ”Senza nuvole” (album di debutto, altre 200 mila copie vendute), il duetto sanremese con Scanu, ma soprattutto questo tour che ora arriva a Trieste.

Con lei, domani sera sul palcoscenico del Politeama Rossetti, ci saranno Simone Papi (tastiere), Davide Pecchioli (batteria), Ronnie Aglietti (basso), Giacomo Castellano e Alessandro Magnalasche (chitarre), Luciana Vaona (voce).

GUCCINI intervista


«La neve si è sciolta ma adesso dicono che torna il freddo, potrebbe nevicare di nuovo. Sì, è stato un inverno rigido, non c’eravamo più abituati. Mi son beccato anche un raffreddore che proprio non vuol passare...».

Francesco Guccini - il cui ”never ending tour” fa tappa venerdì 12 al PalaTrieste - risponde dal telefono fisso della sua casa di Pavana, appennino toscoemiliano della sua infanzia, dov’è tornato a vivere da dieci anni.

«Ci si adatta a tutto - riflette il cantautore e scrittore - dunque anche ai ritmi più lenti del paese di montagna. Arrivasse la primavera si potrebbe anche vivere un po’ di più all’aria aperta. Anche se gli anni (settanta a giugno - ndr) cominciano a pesare...».

Per questo ha appena scritto un’autobiografia?

«Chissà. In passato avevo già raccontato parti della mia vita ma in forma romanzata. L’infanzia pavanese in ”Croniche epifaniche”, l’adolescenza a Modena negli anni Cinquanta in ”Vacca d’un cane”, la Bologna vivace e curiosa dei Sessanta in ”Cittanova blues”...».

Cos’era rimasto fuori?

«Qui ci sono episodi diversi, storie non raccontate mie e della mia famiglia. Che poi, come diceva Borges, ogni scrittore è sempre autobiografico. Questo è un racconto per situazioni, per persone, per luoghi».

Stavolta non c’è Trieste.

«Ma non dimentico quel ’63 passato nella caserma di Banne. Non dimentico il ”primo eskimo dettato solo dalla povertà” comprato al mercato di Ponterosso, il trenino che da Opicina ci portava in città, le passeggiate in viale per conoscere le ragazze...».

Cosa la colpì della città?

«Tante cose. Intanto un clima di maggior libertà. Le donne che al bar bevevano senza problemi il calice di vino, anche da sole. Cose che nella pur liberalissima Bologna non erano concepibili: da noi una donna si sarebbe fatta ammazzare, piuttosto...»

E poi?

«Certi sapori, la porcina con i crauti e il kren. Un naturale mistilinguismo: sul Carso era naturale sentir parlare sloveno, in città non era infrequente ascoltare colloqui in austriaco. E ancora quel vostro dialetto, così musicale, davvero bello».

Cose che ha ritrovato?

«Quando torno trovo ovviamente la città molto cambiata. La caserma di Banne mi dicono non esista più. Anche il clima del viale è diverso. Ma forse, al di là dei cambiamenti che tutte le città hanno a distanza di tanti anni, la verità è che siamo cambiati noi. E tutto ci sembra diverso».

Ha aderito alla manifestazione di sabato scorso a Roma, intitolata ”Basta! La legge è uguale per tutti”.

«Mi sembrava il minimo. Sono molto preoccupato da questa situazione che sta vivendo il Paese. Oltre a tutto quello che sappiamo, quest’ultima goccia della sospensione dei talkshow politici mi sembra un episodio di censura non degno di una democrazia occidentale. Ma stiamo scherzando? Qui si impedisce alla gente di conoscere, di essere informata».

Il caos delle liste per le regionali?

«Beh, lì siamo al ridicolo. Episodi che fanno ridere, sembra tutto impossibile, vien da pensare che ci sia qualcosa sotto. Anche quel tale, a Roma, che doveva consegnare la lista con le firme ma dice prima che era andato a mangiare un panino e poi che dovevano cambiare dei nomi della lista. A proposito di nomi, mi sembra che il tipo si chiami Milioni. Nomen omen...».

Lei allude...

«Non è colpa mia se c’è un partito che ha un padrone che comanda. Gli affaristi ci sono sempre stati, ma qui ormai hanno in mano le istituzioni. C’è tutta una concezione del potere che è diversa dalla democrazia».

Anche la sua Bologna, con le dimissioni del sindaco, non ci fa una bella figura.

«Vero. Ma almeno Delbono si è dimesso. Ha fatto un errore, lo ha riconosciuto e ha dato le dimissioni. Certe cose purtroppo avvengono ormai da una parte e dall’altra, c’è uno svilimento della vita pubblica, ma rimango convinto che a sinistra ci sia maggior coerenza e onestà».

Delbono è caduto su una vicenda emersa dal gossip. Lei a gossip come sta...?

«Malissimo, grazie. Non sono personaggio da gossip. Io delle cose mie racconto poco o niente. Giusto le orchestre, i concerti, poco di più. L’altra sera, a una presentazione del libro a Bologna, ho detto che il gossip me lo tengo buono per il prossimo libro. Ma era ovviamente una battuta...».

Sanremo l’ha visto?

«Tre secondi e due decimi. E se vuole chiedermi del principe le dico subito che l’ho evitato. Poi ci hanno pensato i giornali, a farmi sapere tutto quello che era successo: la canzone, il televoto, le polemiche... Stiamo tornando al dopoguerra, quando i rotocalchi avevano i componenti di casa Savoia in copertina una settimana sì e una no. Che vuole: la gente si appassiona».

E dei talent show non mi dice nulla?

«Fanno il loro gioco, il loro mestiere. La cosa non mi interessa più di tanto. È che le case discografiche sono in crisi, non hanno mezzi né potere. E dunque si affidano a questi programmi per trovare personaggi nuovi. Bisogna vedere poi se durano».

Ha visto che Dalla e De Gregori sono tornati assieme?

«Ho letto. I duetti sono di moda. Ma sono situazioni che funzionano solo se nascono per caso. Secoli fa, a tavola, si era parlato di fare una cosa assieme con Fabrizio De Andrè. Ma poi purtroppo non se ne fece nulla».

Nel libro parla anche di chitarre. Quante ne ha?

«Solo cinque, anzi sei, compresa una costruita con delle corde basse su un altro manico. Un periodo amavo le Martin, ora suono una giapponese montata in Francia. Ma sempre acustiche. L’elettrica la suonavo ai tempi delle sale da ballo. Ed è rimasta a mio fratello, che l’ha appesa al muro...».

Il concerto lo comincia sempre con ”Canzone per un’amica”?

«Certo. E lo chiudo ancora con ”La locomotiva”. Come sempre...».