mercoledì 25 febbraio 2009

IL LASCITO DEL 68


Mitizzato e rimpianto da alcuni, demonizzato da altri. Ma sempre evento centrale della seconda metà del Novecento. Il Sessantotto è da tempo oggetto di studio e di dibattito. Del suo ”lascito” si parla oggi alle 16, alla Biblioteca Statale (Largo Papa Giovanni), nella conferenza degli storici Marcello Flores e Roberto Finzi. «La prima scintilla del ’68 - spiega Flores, docente di storia contemporanea a Siena, dopo aver insegnato anche nell’ateneo triestino - fu la protesta degli studenti dell'università di Berkeley, nel ’64. Era la prima generazione che cercava da sola la propria strada, contrapponendosi al mondo di adulti in cui non aveva fiducia».

Il contesto internazionale?

«L'evento che incide maggiormente è la guerra nel Vietnam. Ma non va sottovalutato quanto avviene in America latina, con le spinte guerrigliere che si accendono in diversi paesi sotto l'influsso della rivoluzione cubana».

In Europa?

«Era la fase finale del boom economico. Della società dei consumi, caratterizzata dalla perdita di valori e incapace di offrire dignità e uguaglianza per tutti».

I carriarmati sovietici a Praga e gli scontri alla convention democratica di Chicago?

«Mostrano come anche le due superpotenze fossero coinvolte in una protesta di tipo assai diverso ma ugualmente significativo del clima di lotta generazionale rappresentata da quell’anno».

Come diventa un anno simbolo?

«Con le manifestazioni contro la presenza americana in Vietnam, mentre il maggio di Parigi sembra offrire un possibile sbocco politico (che qualcuno s'illude possa essere rivoluzionario) a una mobilitazione che coinvolge l'intera società».

Il ’68 italiano?

«Più ideologizzato e politicizzato. Anche se il peso dei gruppi extraparlamentari sembra diluirsi e quasi scomparire nella più generale protesta degli studenti che acquista un carattere di massa con le occupazioni delle università».

La protesta operaia come si salda con la contestazione studentesca?

«Nel maggio francese, nel corso delle grandi manifestazioni. Da noi l'influenza della protesta giovanile nell'accendere la protesta operaia è forte, ma sarà poi quest'ultima a fare da catalizzatore nei confronti degli studenti».

Roma e Berkeley, Parigi e Berlino si muovevano assieme in tempi in cui la comunicazione era meno veloce.

«Contatti e viaggi tra le varie città centro della contestazione erano all'ordine del giorno. Ma c’era soprattutto una sorta di sintonia comune, di senso di appartenenza generazionale e politico, nella voglia di essere protagonisti della nuova epoca storica».

La violenza?

«All’inizio ha poco spazio. Poi acquista un peso crescente per la risposta repressiva, che accresce la voglia di risposta, anche violenta, da parte di alcune frange del movimento. Da questo punto di vista Valle Giulia è una svolta, anche se si tratta di una violenza molto circoscritta».

Perchè i successivi movimenti hanno sempre evocato ma mai ripetuto la forza del ’68?

«Perché era un movimento nuovo, che ha creato sorpresa, nuovi modelli, costretto i partiti a ridefinire le proprie strategie. E perché era il primo movimento "di generazione", perché al suo interno erano presenti tante anime diverse che avevano trovato il comun denominatore nel disagio per il presente, nel desiderio di una profonda trasformazione, nella speranza di un cambiamento radicale. Poi ci sarà solo il tentativo di ricrearlo un po' artificiosamente».

La forza del ’68?

«La sua spontaneità, la rottura culturale oltre e più che quella politica con la tradizione e il passato. Poi la politica ha ripreso il sopravvento, incanalando i possibili nuovi movimenti in percorsi noti e prevedibili».

Il suo lascito?

«Prevalentemente culturale: modi di pensare, di parlare, di vestirsi, di vivere in modo egualitario, di sentirsi coinvolti nella cosa pubblica. Ma anche nel riconoscere di vivere in un mondo interconnesso, nello spazio e nel ruolo che ha acquistato la comunicazione, in forme di solidarietà generazionale che si traducono nell'appartenenza a un clima condiviso di speranza, di valori riscoperti, di accettazione di una modernità che in alcuni paesi - l'Italia tra questi - era ben lontano dall'essere arrivata e diffusa».

domenica 22 febbraio 2009

SANREMO ultimo


Sanremo, il giorno dopo. Agli archivi passa la vittoria del ventitreenne cagliaritano Marco Carta, sponsorizzato da Maria De Filippi, che l’anno scorso lo aveva visto trionfare ad ”Amici” e l’altra notte era con lui sul palco dell’Ariston nel momento più importante della sua giovane carriera.

L’ex parrucchiere con la passione per la musica, rimasto da bambino orfano di entrambi i genitori, è stato preferito dal contestato sistema del televoto (chi più spende, più voti riceve, proprio come vent’anni fa con le schedine Totip) agli altri due finalisti: Povia (le polemiche allora pagano, visto che la canzone non era granchè...) e Sal Da Vinci, sponsorizzato da Gigi D’Alessio, prima eliminato e poi ripescato e infine sul podio. Per la cronaca: 57% di voti al primo, 25% al secondo, 17% al terzo.

In archivio anche la vittoria fra le Nuove proposte di Arisa, acronimo delle iniziali dei nomi dei suoi familiari, dietro il quale si cela la ventisettenne Rosalba Pippa. La sua ”Sincerità” è la canzone del momento, l’unica che la gente canticchia, e sulla quale è già calata l’accusa più infamante e abituale: quella di plagio. Somiglierebbe pericolosamente, infatti, a ”Somewhere nicer”, degli inglesi Obi, da un album del 2001 (vedi su www.myspace.com/obitheband).

E in archivio anche il Premio della critica agli Afterhours, di misura su Tricarico e Nicolai/Di Battista. Ovvero: le poche canzoni da salvare, assieme a quella di Patty Pravo, al Festival di quest’anno.

Del quale, come già detto a caldo, il vero vincitore è comunque Bonolis, che non ha selezionato grandi canzoni ma ha saputo creare cinque serate di spettacolo televisivo in grado di attirare attenzione e ascolti. Anche la finale ha sfiorato il 50% (49.75%) di share, con 13.008.000 spettatori nella prima parte; impennata di share al 64.15% con 11.269.000 spettatori nella seconda. Per l'annuncio del vincitore, a mezzanotte e quaranta, share al 75.53%. Picco di ascolti alle 22.55, quando sul palco c'era l'attore Vincent Cassel, visto da 15.171.000 persone.

L’impresa di Bonolis - e di Luca Laurenti, il cui apporto non va sottovalutato - è stata quella di svecchiare la rassegna e ringiovanirne il pubblico. L'80% degli 800 mila che si sono pronunciati al televoto finale aveva infatti un'età tra i dodici e i vent’anni.

Squadra che vince non si cambia, a meno di essere mossi da istinti suicidi (cosa che parlando di questioni Rai non è da escludere...). Dunque ci sono buone probabilità di ritrovare la stessa coppia l’anno prossimo, nell’edizione numero sessanta. Cui va pensato «da subito», come ha detto ieri il direttore di Raiuno Del Noce, che però potrebbe essere sul punto di passare la mano nell’imminente ribaltone di nomine.

«I sessant’anni di vita del Festival - ha aggiunto - non devono essere una celebrazione della vecchiaia o come qualcosa per animali estinti o brontosauri, ma di giovinezza. Bisogna mantenere alto il prodotto su cui come azienda investiamo molto. A maggio-giugno bisognerà cominciare a occuparsene in termini pratici».

Infine, l’ultima polemica. Non dimenticando che di polemiche il Festival vive. Ci ha pensato Iva Zanicchi, che ieri pomeriggio su Raiuno ha strepitato («sono stata oltraggiata...») per l’intervento di Benigni che martedì sera l’aveva effettivamente distrutta prim’ancora della sua interpretazione. Un piccolo comizio da parte della signora, che non a caso è europarlamentare di Forza Italia, alla vigilia di una probabile ricandidatura.

In fondo, come confidò una volta Casini a Mastella (altro candidato per tutte le stagioni), con cinque anni al parlamento europeo uno può mettere da parte un miliardo tondo. Parlava di lire, dunque fate pure il calcolo in euro: restano comunque tanti soldi. Molti più di quelli che un cantante medio, magari a fine carriera, incassa a Sanremo.

SANREMO finale


Primo Marco Carta (direttamente da ”Amici”), secondo Povia, terzo Sal Da Vinci. Si è conclusa a notte fonda, con un risultato abbastanza a sorpresa, la 59.a edizione del Festival di Sanremo. Quella della rinascita, del successo di Bonolis, degli ascolti record, della ritrovata centralità nel palinsesto televisivo di Raiuno. Ma anche di Roberto Benigni e di Mina.

La vita reale ha sempre il vizio di ficcare il naso al Festival, un tempo specchio del Paese, da anni regno dell’irrealtà, che della società italiana regala - giusto per citare il Vaticano - «la sua immagine più stereotipata e banale, quella falsa, confezionata ogni giorno dalla televisione».

Ieri pomeriggio dunque manifestazione dei gay fuori dall’Ariston (vedi articolo qui sotto) contro la canzone di Povia, che in serata - prima di salire sul podio - ha proseguito la sterile polemica chiudendo la sua esibizione con un cartello sul quale era scritto prima «Ognuno difende la sua verità» e poi «Ci prendiamo troppo sul serio».

Ma a Sanremo è arrivata anche una delegazione degli operai Fiat di Pomigliano d’Arco, da mesi in cassa integrazione. E Bonolis li ha incoraggiati dal palco («Coraggio ragazzi, grazie...»), spiegando i motivi della protesta e parlando dei riflessi della crisi economica mondiale.

Serata dedicata alla riproposizione delle canzoni rimaste in gara. E agli ospiti: Vincent Cassel, il francese noto da noi soprattutto per essere marito di Monica Bellucci; la strepitosa Annie Lennox, con ”Why” solo pianoforte e voce; l’irrestibile talento comico di Checco Zalone; l’arte di Piera Degli Esposti, impegnata in una lettura di Dacia Maraini.

E poi riflettori puntati sulla prima volta di Maria De Filippi in Rai (oltre che al Festival). La signora Mediaset è stata trattata con tutti gli onori, e ha affiancato Bonolis per un lungo tratto nella presentazione. Fino al trionfo del suo protetto Marco Carta, vincitore di ”Amici”. «È la prima volta che metto piede in Rai - ha detto con la sua caratteristica voce rauca, quasi maschile - e sono un po’ preoccupata. Sono venuta perchè conosco e stimo molto Paolo...».

Paolo che - va detto - ha vinto il suo secondo Sanremo. Record di ascolti nel 2005, al suo debutto, quando tutto sommato un’affermazione poteva anche essere messa in preventivo. Ma trionfo di audience pure quest’anno, «al di là delle più rosee previsioni», come hanno cinguettato quasi all’unisono il direttore di Raiuno Del Noce e il direttore generale Cappon.

Dopo il crollo dell’anno scorso con Baudo, per il Festival sembrava suonasse la campana dell’ultima chiamata. Alla vigilia qualcuno si era addirittura spinto a pronosticarne la messa in archivio di qui a un paio d’anni, magari dopo la sessantesima edizione. Che a questo punto si farà, l’anno prossimo, con tutt’altro stato d’animo e una ritrovata centralità nel palinsesto Rai. E con l’ironico conduttore che trasforma in oro tutto quel che tocca - statene certi - ancora sulla tolda di comando.

Ma se Bonolis è oggi il miglior uomo televisivo che passa il convento dello spettacolo italiano, e se la coppia comica con Luca Laurenti (scoperto anche come cantante...) non si discute, reclamizzino il caffè o presentino Sanremo, altra cosa è la scelta delle canzoni in gara.

Qui Baudo, ormai impresentabile in video, era più abile. Nelle ultime due edizioni da lui dirette e condotte, erano numerosi i brani di qualità. Quest’anno nisba. O quasi. Fra i big buona la canzone di Patty Pravo, difficile da cantare e penalizzata dalle stonature nella prima serata. Passabili quelle degli Afterhours e di Tricarico, non a caso subito eliminati e ovviamente non ripescati.

Meglio i giovani, anzi, le cosiddette Nuove proposte. La splendida Malika Ayane e l’intrigante Karima, entrambe figlie di madre italiana e padre straniero. Figlie dunque dell’Italia multietnica che è già qui, ha potenzialità anche artistiche, e che troppi tentano di ridurre a questione di criminalità e ordine pubblico.

Bravissima anche la vincitrice Arisa, ragazza fumetto dai grandi occhialoni e timida da far tenerezza. La sua «Sincerità», riproposta ieri sera e impreziosita nella serata di giovedì dal pianoforte del nostro grande Lelio Luttazzi, è una gemma swing senza tempo, delicata e orecchiabile. E brava anche Iskra, la corista di Dalla con tante primavere sulle spalle ma non nella gran voce.

Ma il successo dell’edizione di quest’anno ha saputo prescindere dalle canzoni in gara. Bonolis ha impresso una bella svecchiata al Festival. Nell’approccio, nel tono, nella scenografia, nell’atmosfera generale di uno show televisivo condotto con ironia e seguendo una rotta diametralmente opposta alle stantie e autoreferenziali messe cantate di Baudo, dal quale ha ereditato solo l’estenuante lunghezza delle cinque-serate-cinque.

L’attesa e la curiosità sono state costruite già alla vigilia. Reintroducendo l’eliminazione fra i big, ingaggiando grandi nomi della canzone come padrini dei giovani (e quella dei duetti è stata una serata di grandissima musica), inventando la ridicola polemica costruita a tavolino sulla canzone di Povia (anche se poi ”Luca era gay”, pur premiato dalle giurie e dal televoto, è di una pochezza impressionante...).

Ma i due colpi sono stati soprattutto riportare a Sanremo la voce di Mina (con un video, vabbè, ma quell’interpretazione di ”Nessun dorma” valeva da sola tutto il girone dei cosiddetti big...) e ancor più l’ospitata di Benigni. Che anche al netto nelle polemiche per i 350 mila euro in diritti tv versati da mamma Rai al comico e alla sua società di produzione, è stata come al solito travolgente.

Vien da pensare a Del Noce, che prima dello show aveva raccomandato al toscanaccio di non badare alle polemiche: «Vola alto e pensa al tuo amato Dante», sperando magari nell’ennesima lettura della Divina Commedia. Dopo le irresistibili bordate a Berlusconi, oltre che a Veltroni e alla stessa Mina, l’inquadratura del direttore (ancora per poco...?) di Raiuno corrucciato in platea, in mezzo alla folla ridente e plaudente, è già stata consegnata alla storia del Festival.

sabato 21 febbraio 2009

SANREMO 3


Il Sanremo di Bonolis affronta la terza curva e tiene bene la strada. Gli ascolti non crollano, anche senza Benigni. Ieri apertura con il piano di Giovanni Allevi e poi spazio ai giovani, ognuno col suo illustre padrino: grande musica allora, con Cocciante, Pino Daniele, Zucchero, Bacharach, Dalla... Ma il Festival non piace al Vaticano. Prima l'Osservatore Romano, poi l’agenzia cattolica Sir. Che stronca il Festival: dà della società italiana «la sua immagine più stereotipata e banale, quella falsa, confezionata ogni giorno dalla televisione». Che dire? Parole sante.


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Il Sanremo di Bonolis affronta la terza curva, ripesca Al Bano e Sal Da Vinci, ma tiene ancora bene la strada. Apertura con il pianoforte spericolato di Giovanni Allevi, che esegue il tema della ”Leggenda del pianista sull'oceano”, di Ennio Morricone, introdotto da una breve clip del film di Giuseppe Tornatore, con Tim Roth.

Dopo il ricordo di Oreste Lionello, subito spazio ai giovani, ognuno affiancato dal suo bravo, illustre padrino. Che ne approfitta per far sentire anche un proprio brano. Ed è finalmente l’occasione, dopo alcune ospitate delle edizioni passate, di vedere sul palco dell’Ariston una manciata dei maggiori protagonisti della canzone italiana.

Apre Filippo Perbellini, che si porta dietro Riccardo Cocciante e per la verità ne sembra il clone biondo, giusto un po’ più alto e carino. Silvia Aprile è supportata dalla chitarra di Pino Daniele, che poi regala una versione da brividi, leggermente rallentata, pianoforte e voce, di «Quando». Poi, fra i ”complimenti per il Festival” e un appello per la raccolta differenziata dei rifiuti, ci scappa anche una magica ”Napule è”.

Bella canzone per Karima (mamma livornese, babbo algerino), che raddoppia: la scortano nientemeno che il pianoforte di Burt Bacharach e la gran voce di Mario Biondi. Irene addirittura esagera: con lei supergruppo formato da papà Zucchero, Maurizio Vandelli, Dodi Battaglia e Fio Zanotti. Ma poi ci sono anche Chiara Canzian (altra figlia di un Pooh, Red Canzian) con Roberto Vecchioni, la talentuosa ”giovane” corista di sessantadue anni Iskra con Lucio Dalla (che ricorda ”4 marzo 1943” e ”Piazza grande”), la bravissima Malika Ayane (mamma milanese, padre marocchino) con Gino Paoli, Simona Molinari con Ornella Vanoni (omaggio a Tenco ma anche a Reitano), Barbara Gilbo con Massimo Ranieri, ovviamente Arisa con il nostro Lelio Luttazzi al pianoforte: ”Sincerità” è una gemma swing. Cui il grande artista triestino dà un degno seguito con ”Vecchia America”.

Sfilano anche i sei eliminati delle prime due serate: Afterhours, Tricarico, Iva Zanicchi, Al Bano, Nicolai e Di Battista, Sal Da Vinci. La giuria, quand’è ormai notte fonda, ne ripesca soltanto due: come detto, Al Bano e Sal Da Vinci. Che stasera si riaggregano alla compagnia. C’è pure la prima vincitrice: la napoletana Ania, che con ”Buongiorno gente” si aggiudica il primo Sanremo Giovani Web.

Intanto si apprende che il Festival non piace al Vaticano. Prima l'Osservatore Romano, poi l’agenzia dei settimanali cattolici Sir. Che scrive: «Un Festival che vuole essere specchio della società italiana ma che, paradossalmente, è destinato a dare di essa la sua immagine più stereotipata e banale, quella falsa, confezionata ogni giorno dalla televisione».

Che dire? Parole sante. Ma c’è di più: «Qualcuno si è spinto a dire che questa edizione avrebbe rappresentato l'ultima chiamata per uno spettacolo ormai alla frutta. A giudicare da quanto visto e ascoltato sinora non sembra essere distanti dal vero. A cominciare dalle canzoni in gara, in generale di mediocre qualità, che probabilmente non verranno ricordate per molto tempo».

Conclusione: «Una sorta di parentesi fuori dal tempo e dalla realtà, fatta di compensi stratosferici, di giovani comparse sullo sfondo, di giurie demoscopiche applaudenti tra il pubblico. Stonata con la realtà attuale della nostra Italia, dove le famiglie iniziano a fare i conti, anche in maniera dura, con la crisi economica. Un Festival che non è lo specchio della società ma che, invece, è l'immagine edulcorata e falsa della tv».

Nessun accenno alle parole di Benigni in difesa degli omosessuali. La replica di Bonolis: «Questo Paese è un bellissimo posto perchè garantisce a tutti di potersi esprimere. L'Osservatore ha voluto esprimersi così. L'importante è che si rispettino gli altri».

A margine, anche il piccolo giallo di un’intervista a Patty Pravo. Che sembrava destinata prima all’Osservatore Romano, poi a Radio Vaticana. Con annesso giudizio positivo sulla sua canzone, definita «l’unica da salvare della rassegna». Ma si scopre che l’intervista l’aveva fatta un sacerdote che collabora con la Rai, e che dunque il giornale e la radio del Vaticano non c’entravano nulla. Ma l’equivoco era bastato a qualcuno per titolare ”Patty, la diva sexy che piace al Vaticano”. Chiacchiere sul nulla, insomma.

giovedì 19 febbraio 2009

SANREMO 1


La classe inarrivabile di Mina, la verve inarrestabile di Roberto Benigni. La prima serata del 59.o Festival di Sanremo ha emesso a tardissima ora il primo verdetto: eliminati (giustamente) Iva Zanicchi, (ingiustamente) Tricarico e Afterhours. Ma è brillata soprattutto della luce abbagliante di due giganti dello spettacolo italiano, così diversi ma così uguali nell’eccellenza della loro arte. Tale da oscurare tutto il resto, cantanti e canzoni e ospiti e contorni vari.

Va ammesso che, magari non basterà a risollevarne le sorti, ma Bonolis ha dato una bella svecchiata al Festival. Nell’approccio, nel tono, nella scenografia, nell’atmosfera generale di una prima serata andata in porto seguendo una rotta sufficientemente diversa dalle stantie e autoreferenziali messe cantate di Baudo. Sempre con un pizzico di autoironia, dote sconosciuta al siculo, grazie anche alla presenza della spalla Laurenti.

Apertura minimal, con il conduttore seduto sul palco accanto a una bimbetta (Beatrice Bonetti, sette anni, allieva di pianoforte all’Accademia musicale di Savona), cui spiega la grandezza della musica italiana, le sue origini, la sua storia. Il testimone passa al tanto atteso video di Mina, che canta da par suo ”Nessun dorma” in uno studio affollato di musicisti, con l’orchestra diretta da Gianni Ferrio.

Lei è come l’abbiamo intravista in qualche foto rubata o nell’ultimo video di qualche anno fa, sempre in uno studio di registrazione: vestita di nero, capelli raccolti, occhialoni, cuffie in testa, e quella voce inarrivabile che addomestica l’aria più celebre della Turandot di Puccini e ce la restituisce alla stregua di una grande canzone melodica.

Intanto, le immagini ripercorrono per titoli la storia della musica italiana, quella classica e quella popolare, da Caruso a Pavarotti, da Modugno a Vasco Rossi, da Battisti a Ramazzotti, e si incrocia con la storia del Festival. Pochi minuti ma di grande classe, di alto livello, chiusi dall’immagine di Mina seduta che saluta con la mano in direzione della camera. Quasi un arrivederci. Magari a sabato, quando è prevista la sua seconda ”comparsata virtuale”. Pare con ”Mi chiamano Mimì”, dalla Boheme.

I primi cantanti in gara: l’incompiuta Dolcenera, il vecchio leone Fausto Leali, lo stralunato Tricarico (punito dalle giurie), l’inutile Marco Carta. E ancora la sofisticata Patty Pravo (la sua ”E io verrò un giorno là” sembra una delle migliori canzoni di quest’anno), l’incazzato Marco Masini, il tenorile Francesco Renga.

Due parole con Alessia Piovan, attrice e modella di belle speranze. Poi è il momento dell’altro picco della serata. Benigni entra e fa il vuoto attorno. Comincia col chiarire che non vuole parlare di Berlusconi, e poi lo massacra a botte di sarcasmo: «Silvio, ti propongo di diventare unico come Mina. Per farlo devi sparire. Mina non si è fatta più vedere ed è diventata un mito, manda solo filmati, come Bin Laden».

Di più: «Silvio, non ti devi far più vedere. Più lontano vai, più mito sei. Ogni tanto ci mandi una canzone con Apicella. Magari la canto io. Silvio, ti prego di diventare un mito, come Dio, che non si vede mai».

Del Noce in prima fila non ride. Ma ce n’è anche per Veltroni («Non faccio battute su di lui, perchè più battuto di così non si può. Gli regalo solo uno slogan: rialzati Walter. Che poi la Sardegna non è niente, tanto avremo la maggioranza alle Eolie...»), per la Zanicchi («Iva, non me l’aspettavo questa canzone, è come dire: trombami e non finire presto...»), per gli italiani che «vogliono la certezza della pena, mi sa invece che di questi tempi di crisi nera vogliono la certezza della... cena».

Conclusione con parole alte e nobili in difesa degli omosessuali: «È una storia incredibile che va avanti da millenni. Gli omosessuali non sono fuori dal piano di Dio. Di peccati c'è solo la stupidità», per poi ricordare Oscar Wilde, «messo ai lavori forzati per la sua omosessualità. In prigione ha scritto una lettera alla persona per la quale era stato condannato». E, prima di lasciare il teatro tra gli applausi scroscianti, legge quella accorata lettera.

Difficile riprendere la gara, a quel punto. Ci pensano Pupo, Paolo Belli e Youssou N'Dour, uniti in uno strano trio per un messaggio di tolleranza e solidarietà. E poi il rap dei Gemelli Diversi, il solito Al Bano, gli Afterhours (”Il paese è reale”, gran pezzo rock massacrato dalle giurie), la citata Iva Zanicchi, i talentuosi Nicky Nicolai e Stefano Di Battista. È il turno anche di Povia: che piccola cosa è la sua ”Luca era gay”, soprattutto dinanzi alla grandezza delle parole di Benigni. E di Oscar Wilde. Nemmeno il microfono in platea a Grillini, leader dell’Arcigay, può aggiungere granchè.

Chiusura dimessa con Sal Da Vinci e Alexia con Mario Lavezzi. Tocca all’ospite californiana Katy Perry ma soprattutto ai primi quattro giovani: Malika Ayane, Irene, Simona Molinari e Filippo Perbellini. È quasi l’una. C’è solo spazio per i nomi dei primi eliminati.


 

martedì 17 febbraio 2009

SANREMO


Sanremo, ci risiamo. La 59.a edizione del sedicente Festival della canzone italiana comincia stasera su Raiuno. Sedicente perchè da anni è in realtà soltanto un evento televisivo, nemmeno di qualità. E anche volendo restare nell’ambito mediatico, il vero festival della canzone italiana quest’anno si è svolto poco più di un mese fa, da Fazio, nel decennale della scomparsa di De Andrè, quando i più importanti esponenti della nostra musica hanno reso omaggio al grande poeta scomparso.

Come se non bastasse, Raidue manda ogni lunedì in onda anche una sorta di ”sezione giovani” migliore di quella prevista all’Ariston, con quell’X Factor che, al netto delle sterili baruffe fra Morgan e la Ventura, è un grande trampolino per le giovani speranze della canzone. Basti pensare che la rivelazione canora del 2008, Giusy Ferreri, è partita da lì.

Ciononostante, riflettori puntati da una settimana sul secondo Festival targato Bonolis, dopo l’edizione del 2005, premiata da ascolti record. La Rai l’ha richiamato in servizio, riprendendoselo dalla concorrenza, proprio per risalire quella china, precipitata dopo le ultime edizioni.

Con Baudo, l’anno scorso, si è praticamente toccato il fondo, per una manifestazione che a livello di ascolti era abituata a fare terra bruciata attorno, e da anni sconta una formula (troppe serate, troppo lunghe, poca attenzione alle canzoni e troppa al contorno...) che mostra la corda.

Paolo Bonolis sa creare attesa e curiosità. Ha cominciato reintroducendo l’eliminazione fra i big e assoldando grandi nomi (da Zucchero a Cocciante, da Lucio Dalla a Burt Bacharach, da Pino Daniele a Vecchioni...) come padrini dei giovani. Ha proseguito con la polemica costruita a tavolino sul brano anti-gay di Povia, con il colpo di riportare a Sanremo la voce di Mina (solo la voce, sia chiaro, sufficiente comunque per catalizzare l’attenzione sul ”Nessun dorma” che stasera aprirà la kermesse...), e ancora con il ritorno di Benigni, le conigliette di Playboy attese al seguito di Hugh Hefner, la presenza di Maria De Filippi nella serata finale...

Al proposito, fra Bonolis sulla tolda di comando e la De Filippi al rimorchio, qualcuno ha gridato allo scandalo. Hanno detto che è il Festival di Rai-set, vista la presenza sul palco dell’Ariston dell’uomo e della donna di punta delle reti berlusconiane.

Ma chi strepita si sveglia tardi: sono anni che Rai e Mediaset filano d’amore e d’accordo, spartendosi audience, affari e dunque anche protagonisti.

Non fa scandalo nemmeno il milione di euro al conduttore, che si ”giustifica” sottolineando che, essendo anche direttore artistico della rassegna, in realtà è da un anno (...) che lavora. Non fa scandalo perchè sono gli stessi soldi che prendeva Baudo, che hanno preso la Ventura e persino Michelle Hunziker quando fu chiamata a fare la co-conduttrice. La cifra tonda fa maggior impressione ora solo perchè i tempi di crisi nera la mettono in una luce nuova.

Rimarrebbe da dire - anche se abbiamo tutta la settimana a disposizione - dei presunti big. Qui Bonolis non si è discostato dalla ricetta Baudo: solito cast macedonia, una botta alla tradizione e una ai giovani, un occhio alla qualità e l’altro al nulla.Fra Renga e Masini, Patty Pravo (che ha bacchettato Mina: o vieni di persona o stai a casa...) e l’incredibile trio Pupo, Paolo Belli e Youssou N'Dour, Gemelli Diversi e Afterhours, Tricarico e Al Bano, Marco Carta (direttamente da Amici della De Filippi) e Dolcenera, Leali e Alexia, Sal Da Vinci (Carneade, chi era costui...) e il citato Povia, Nicolai/Di Battista e persino la Zanicchi.

Avanti gente, c’è davvero posto per tutti.

lunedì 16 febbraio 2009

Franco Battiato


(Trieste, Rossetti, 13 e 14 febbraio 2009)


(sciopero del "Piccolo")




POVERA PATRIA ('91)


Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere

di gente infame, che non sa cos'è il pudore,

si credono potenti e gli va bene quello che fanno

e tutto gli appartiene.


Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni

Questo paese è devastato dal dolore...

ma non vi danno un po' di dispiacere

quei corpi in terra senza più calore?

Non cambierà, non cambierà

no cambierà, forse cambierà.

Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali

Nel fango affonda lo stivale dei maiali.

Me ne vergogno un poco, e mi fa male

vedere un uomo come un animale.

Non cambierà, non cambierà

si che cambierà, vedrai che cambierà.

Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali

che possa contemplare il cielo e i fiori,

che non si parli più di dittature

se avremo ancora un po' da vivere...

La primavera intanto tarda ad arrivare...


 


LA CURA ('96)


Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,

dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.

Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,

dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore,

dalle ossessioni delle tue manie.

Supererò le correnti gravitazionali,

lo spazio e la luce

per non farti invecchiare.

E guarirai da tutte le malattie,

perché sei un essere speciale,

ed io, avrò cura di te.



Vagavo per i campi del Tennessee

come vi ero arrivato, chissà

Non hai fiori bianchi per me?

Più veloci di aquile i miei sogni

attraversano il mare.



Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.

Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.

I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,

la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi.

Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.

Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.

Supererò le correnti gravitazionali,

lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

TI salverò da ogni malinconia,

perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te...

io sì, che avrò cura di te...




venerdì 13 febbraio 2009

ANTONACCI AL ROSSETTI


Un sax urla ”Summertime”, le luci si accendono e rivelano un improbabile psicanalista dal marcato accento partenopeo. Entra il ”paziente” Biagio Antonacci e comincia a raccontare, con una punta d’ironia, le sue pene d’amore. Fra una chiacchiera e l’altra imbraccia la chitarra e canta, sprofondato in poltrona, ”Si incomincia dalla sera” e ”Così presto no” (da ”Il mucchio”, album del ’96).

Entra un altro ”paziente”, che poi è Saverio Lanza, il chitarrista e polistrumentista che lo accompagna in questa prima parte del tour. Lo psicanalista si congeda, la gag è finita, il concerto può cominciare. E comincia con una canzone che il nostro non faceva dal vivo da molto tempo, ”Non vendermi”, dall’album del ’98 ”Mi fai stare bene”. Pianoforte e voce, situazione quasi unplugged.

Sì, perchè Biagio ha due anime musicali. Una rock, l’altra intimista. Abitualmente, il quarantaseienne cantautore di Rozzano, paesotto alle porte di Milano, fa convivere (”convivendo”...) queste due anime nei suoi concerti. Era successo anche l’ultima volta che era passato da queste parti, nell’ottobre 2004 al PalaTrieste. Stavolta ha diviso la tournèe in due parti: la prima nei teatri, più intima, quasi acustica; la seconda nei palasport, più elettrica e rockettara.

Ed è la prima che ci è toccata in sorte ieri sera, in un Rossetti tutto esaurito, affollato da un pubblico soprattutto femminile (che belli, i cori delle ragazze...). Antonacci non portava i suoi spettacoli nei teatri da dieci anni. «Ho voluto queste date nei teatri - ha detto - per trovare intimità con voi, cantare con un filo di voce e sentire i vostri respiri. Voglio farvi sentire le canzoni come sono nate, con pochi strumenti, quindi ora cerchiamo di stare insieme e stringerci il più possibile...».

Parole di miele, quelle che il suo pubblico vuole ascoltare. E il nostro danza fra i suoi più grandi successi, vecchi e nuovi: ”Se è vero che ci sei” e ”L’eternità”, ”Alessandra” e ”Non ci facciamo compagnia”, ”A volte” (”una mattina mi son svegliato, bella ciao...”) e ”Lo conosco poco” (dedicata ai padri con cui non si parla mai abbastanza, quand’è ancora possibile farlo).

Tutte le canzoni vengono rilette in una chiave essenziale e suggestiva, con l’ausilio di chitarra o pianoforte, o del caratteristico tamburo africano chiamato djembe. ”Immagina” apre la seconda parte, con Biagio alla batteria, «strumento che suonavo quand’ero banmbino».

Fra un pezzo e l’altro, il bell’Antonacci tesse il suo dialogo con il pubblico, fra racconti e confidenze riguardanti l'amore, il rapporto con i figli, i genitori. Atmosfera a tratti quasi familiare, diretta, che mette in risalto la sua capacità di parlare dritto al cuore della gente. Una sensibilità antica, quella del ragazzone cresciuto nelle periferie povere della metropoli lombarda, quello che studiava da geometra ma sognava la musica.

Il concerto prosegue, fra brani mai interpretati negli ultimi spettacoli e senza dimenticare gli inediti tratti da ”Il cielo ha una porta sola”, l’album raccolta uscito lo scorso ottobre. Dopo ”Vivimi” e ”Coccinella”, nel finale arrivano anche ”Sognami” e ”Pazzo di lei”.

Canzone dopo canzone, confidenza dopo confidenza, risata dopo risata, l’atmosfera diventa quella di una festa fra amici. Con un pubblico che di Antonacci dimostra di apprezzare - oltre alle belle canzoni e al bell’aspetto - la semplicità, la sincerità, la coerenza.

Al Rossetti, ennesimo successo annunciato, fra cori, bigliettini, cartelli con scritte adoranti. E a Biagio, che rivela spiccate doti di entertainer, scappa anche un ”bella patatona” rivolta a una fan delle prime file. Ma a lui si perdona tutto...

martedì 10 febbraio 2009

BATTIATO


«A volte è proprio tornando indietro nel tempo che il futuro diventa più chiaro. E per me è stato molto importante, prima di affrontare l’impegno di un nuovo disco, regredire alle magnifiche consolazioni di questi inebrianti "fiori" musicali...».

Così aveva detto Franco Battiato - che venerdì e sabato torna a Trieste per un doppio concerto al Rossetti - in occasione del primo ”Fleurs” (uscito nel ’99), fascinosa raccolta di successi altrui riletti alla maniera sempre originale del cantautore e musicista siciliano (che per la verità è anche pittore, scrittore, regista...). Disco importante, anche per quel suo modo nuovo di affrontare la rilettura di grandi canzoni del passato, evitando la routine e la logica banale delle cover.

Poi nel 2002 Battiato pubblicò il suo secondo album di riletture, intitolandolo «Fleurs 3» e saltando a piè pari il secondo capitolo dell’immaginario - e fino a quel punto incompiuto - trittico. Perchè, spiegava Battiato, «assecondando la consequenzialità dei numeri si apre una serie infinita».

L’uomo (che a marzo ne fa sessantaquattro) deve evidentemente aver cambiato idea, visto che pochi mesi fa ha realizzato una nuova raccolta e l’ha intitolata proprio ”Fleurs 2”. Mettendoci dentro cover come «Sitting on the dock of the bay» di Otis Redding, «Il carmelo di Echt» di Juri Camisasca, «Era d’estate» di Sergio Endrigo, «It’s five o’clock» degli Aphrodite’s Child, «Bridge over troubled water» di Simon & Garfunkel e «Il venait d'avoir 18 ans» di Dalida. Unico inedito: «Tutto l’universo obbedisce all’amore», duetto con Carmen Consoli.

Ora, dopo un anno di lontananza dalle scene, interrotto solo dai concerti a Londra e Parigi dell’autunno scorso, Franco Battiato si ripresenta al pubblico in questo tour - partito il 31 gennaio da Carpi - che ora tocca Trieste, proponendo il repertorio di ”Fleurs 2”, mischiato ai brani dei precedenti capitoli ma anche, ovviamente, ai cavalli di battaglia di una carriera assolutamente strepitosa e fuori dagli schemi.

Una carriera cominciata negli anni Sessanta suonando la chitarra nel gruppo dell’allora cantante Ombretta Colli (poi parlamentare, presidente della Provincia di Milano, europarlamentare...), incidendo il 45 giri ”L’amore è partito” (uscito nel ’65), ma soprattutto con la pubblicazione nel ’72 dell’album ”Fetus”. Il grande successo di pubblico, dopo anni di sperimentazioni, è arrivato nell’81 con ”La voce del padrone”, primo album di un artista italiano a superare il milione di copie vendute. Quel successo commerciale fu deciso quasi a tavolino, come Battiato ha più volte dichiarato.

Dicendo fra l’altro: «Per me esiste solo questa legge: vado avanti per la mia strada. Chi è d’accordo, bene, chi non è d’accordo, bene lo stesso. Se poi viene il successo, tanto meglio...».

Di queste e altre cose si parla in ”Franco Battiato 1965-2007, l’interminabile cammino del Musikante” (Editori Riuniti), il libro di Vanna Lovato che è uno dei più completi e originali fra quelli dedicati all’artista nato a Jonia, paesino in provincia di Catania.

Nel doppio concerto triestino Battiato sarà accompagnato dalla sua ultima formazione, che comprende Manlio Sgalambro (l’anziano filosofo con cui Battiato collabora da anni, e che dal vivo regala con la sua voce un tocco di ulteriore unicità alle performance), Carlo Guaitoli (pianoforte), Angelo Privitera (tastiere e programmazione), Davide Ferrario (chitarre e voce) e il Nuovo Quartetto Italiano (Alessandro Simoncini, primo violino; Luigi Mazza, secondo violino; Demetrio Comuzzi, viola; Luca Simoncini, violoncello).


 

lunedì 9 febbraio 2009

INTERVISTA CAPOSSELA


«Per me Trieste è sempre stata la porta del viaggio, un oggetto di desiderio, il punto che ti fa prendere un treno e partire. È la porta di un immaginario che amo. Anche perchè il fronte dell’avventura è sempre a Oriente, come diceva Napoleone...».

Questa dichiarazione d’amore arriva da Vinicio Capossela, che a Trieste ha suonato tante volte, spesso in situazioni spartane, ma che stavolta arriva nel teatro più grande della città: domenica il musicista e cantautore nato ad Hannover nel ’65 (genitori emigrati dall’Irpinia) sarà infatti al Politeama Rossetti con il suo ”Solo Show”, che riprende i temi dell’ultimo album ”Da solo”.

Per lui, cresciuto in Emilia Romagna, Trieste e l’Istria sono anche territorio di ricordi: «Ricordo che a vent’anni la mia prima avventura è stata attraversare l’Adriatico. Prendere un aliscafo a Rimini, coi soldi guadagnati facendo il barista nella riviera romagnola, e sbarcare a Pola, scoprendo vestigia della cultura veneziana, fu per me un’esperienza importante. Scoprii luoghi dietro l’angolo di casa dove l’italiano era un elemento esotico...».

Nel nuovo spettacolo l’esotismo dove sta?

«In un certo sapore da vecchio West, da saloon, in una dimensione che attinge al Circo Barnum di fine Ottocento. ”Canzoni a manovella” (disco e spettacolo del 2000 - ndr) era legato all’idea del circo tradizionale. Ora ci spostiamo nel tendone a fianco, nel cosiddetto ”side show”: il baraccone delle attrazioni, delle stranezze, come la donna barbuta o il maiale a due teste. Una sorta di metafora dello spettacolo».

Tour dopo tour, l’allestimento teatrale è sempre più curato.

«A teatro non mi basta riprodurre cose che il pubblico già conosce. Voglio uno spettacolo vero, per lo spettatore dev’essere come salire su un ottovolante, il teatro permette di rendere abitabili le emozioni. Con gli occhi, il cuore, le orecchie, la pancia...».

Certe atmosfere del disco riportano alla grande depressione Usa degli anni Trenta.

«È un disco di inni, di cerimoniali. Che servono, allora come oggi, nel momento delle difficoltà. Quando non ci si piange addosso, ma ci si stringe in un abbraccio, in una sorta di preghiera laica».

Pensa all’America di oggi, a Obama?

«Anche. La politica può fare cose straordinarie. Già sentir parlare di un diverso approccio alle cose è un segnale che fa bene al cuore. Penso che, più della crisi economica, sia terribile l’abbruttimento del vivere civile. L’accanirsi contro gli ultimi, contro gli indifesi, in Italia come in tutto il mondo».

La strada è un suo elemento costante.

«Chatwin parlava dell’orrore del domicilio. Io amo la strada intesa come cammino che dobbiamo fare nella vita, come il lasciarsi dietro delle cose. E poi la strada è una cosa sempre viva, sempre diversa. È il luogo dell’incontro».

Al tributo a De Andrè ha cantato ”La città vecchia”.

«Sì, nella versione non censurata. Ho scelto io di cantare quel brano, espressione del De Andrè ”di strada”, che parla di una piccola comunità. Ero sinceramente emozionato. De Andrè è, con Piero Ciampi e Matteo Salvatore, l’artista italiano da cui sento di aver ricevuto di più. Le sue canzoni sono ricche di umanità».

Con Capossela, al Rossetti, i musicisti Glauco Zuppiroli, Zeno De Rossi, Vincenzo Vasi, Mauro Ottolini, Achille Succi e Alessandro Stefana. Ma anche il ”mago” Christopher Wonder e la ”mangiafuoco” Jessica Love.

domenica 8 febbraio 2009

SPRINGSTEEN


Il rinascimento americano promesso da Barack Obama sembra aver influenzato anche Bruce Springsteen. Che il nuovo presidente degli States lo aveva appoggiato nella campagna elettorale, lo ha festeggiato in occasione dell’insediamento, e in qualche modo già lo celebra - lui con tutto quel che rappresenta il suo storico avvento alla Casa bianca - con il nuovo album ”Working on a dream” (Sony Columbia).

Se ”Magic”, poco più di un anno fa (il tempo dei lunghi silenzi discografici per il Boss sembra finito...), aveva i toni dell’amara riflessione sull’America, permeata quasi da un senso di tradimento, qui si respira di nuovo la grinta dei tempi migliori, l’entusiasmo dei sogni, sotto l’egida di una ritrovata terra promessa, di una rinnovata pulsione in perfetto stile «I have a dream».

Pare che lo spunto per il disco - Obama a parte - sia nato da una canzone registrata quasi per caso alla fine della lavorazione dell’album precedente: “What love can do”, robusta ballata che «suonava più come la prima canzone di un nuovo disco - confessa Bruce - che non come qualcosa di adatto a “Magic”. Così, il nostro produttore Brendan O’Brien ha detto: Hey, facciamone subito un altro...!».

Detto, fatto. Con una manciata di canzoni scritte fra la fine della registrazione dell’album uscito nel 2007 e il successivo tour con la E Street Band. Complice forse il mutato clima politico, ne è venuto fuori un album ottimista, per certi versi quasi facile, commerciale. Più pop che rock, addirittura. Con svariati riferimenti agli anni Sessanta.

Si parte con “Outlaw Pete”, otto sinuosi minuti dai retaggi western e dal sapore quasi morriconiano. Con "My lucky day", chitarre organo e pianoforte, in un crescendo figlio dei tempi migliori. Con "Working on a dream", ballata orecchiabile, giusta per fare la title-track.

“Queen of the supermarket” è una suadente ode alle cassiere (potrebbe essere dedicata alla nostra Giusy Ferreri, cassiera di supermercato in aspettativa lunga e nuova star della canzone italiana...), che ci riporta alle atmosfere lievi di “Girls in their summer clothes”.

Si prosegue con la citata "What love can do", con un episodio minore come "This life", con le asperità blues di "Good eye", con la leggerezza country di "Tomorrow never knows". Gli altri titoli: "Life itself", la melodica "Kingdom of days", "Surprise, surprise" (classico pop di qualità) e l’intensa "The last carnival", dedicata al compianto vecchio compagno d’avventura Danny Federici. C’è anche una bonus track: la meditativa "The wrestler”, già vincitrice di un Golden Globe per la miglior canzone originale dall’omonimo film con Mickey Rourke.

Album in gran parte solare, solo apparentemente facile e leggero, sul tempo che passa e ci insegna sempre qualcosa. «Il passato non è mai passato. È sempre presente, lo porti sempre con te». Parola del Boss. Che il 23 luglio chiude il tour italiano allo Stadio Friuli di Udine (19 a Roma, 21 a Torino).


SKIANTOS


Gli Skiantos sono quelli che, trenta e più anni fa, hanno inventato il rock demenziale. Nella Bologna della seconda metà degli anni Settanta, in un mondo della musica che si prendeva troppo sul serio, e in un’epoca in cui per tanti altri aspetti non c’era da star molto allegri, il cantante Roberto "Freak" Antoni e il chitarrista Fabio "Dandy Bestia" Testoni capeggiavano un gruppo di geniali schizzati, armati - in anni in cui si sparava per le strade - solo di ironia e autoironia. Si definivano «l'unico gruppo che è partito dalle cantine per arrivare alle fogne», ma anche «il gruppo che vanta innumerevoli tentativi di imitazione, tutti perfettamente riusciti».

Ora ritornano (formazione rinnovata attorno ai citati leader di allora) e non hanno perso il gusto della provocazione intelligente. Come dimostra ”Dio ci deve delle spiegazioni” (Estragon/Walcor/Universal), che rompe un silenzio discografico durato cinque anni. Fra i brani, ”Il razzista che c'è in me” (ovvero: il rapporto con chi è diverso da te, visto da sinistra) e ”Senza vergogna” (tentativo di sdrammatizzare «un argomento tabù come l'eroina»), ma anche ”Testa di pazzo” e ”Merda d’artista” (omaggio a Piero Manzoni).

Freak Antoni e compagni scherzano anche su un tema su cui di questi tempi è diventato difficile scherzare: il lavoro. In ”Una vita spesa a skivar la fresa” cantano infatti che «chiunque può trovare un lavoro, ma deve essere in gamba per vivere senza e non sentirne la mancanza».

«Su questa terra, prima che precari, siamo provvisori, per questo Dio ci deve delle spiegazioni - spiegano - e per questo il lavoro, anche quando non c'è, non va mitizzato: l'ironia è l'unica resistenza possibile alle fatiche della vita».

Le canzoni del disco e quelle di tanti anni fa verranno presentate nel ”Fogna tour (Il tour dell'unico gruppo che parte dalle cantine per arrivare alle fogne)”, che parte venerdì dal Deposito Giordani di Pordenone.


NEK


Quando debuttò al Sanremo del ’93, fu al centro di una polemica per una canzone anti-abortista (”In te”, che arrivò comunque terzo fra le Nuove proposte). Oggi, sedici anni e sette milioni di dischi venduti - in tutto il mondo - dopo, Nek non ha bisogno delle polemiche per far parlare di sé. «Un'altra direzione» è il suo decimo album di inediti, che arriva a due anni di distanza dal precedente. Il cantante e autore di Sassuolo (all’anagrafe Filippo Neviani, classe ’72) dimostra di restare fedele a se stesso, pur proseguendo nella sua evoluzione musicale. In questa chiave va letta anche la presenza nel disco della> popstar inglese Craig David, con cui duetta nel brano ”Walking away”. Il testo di uno dei brani, ”Per non morire mai”, è liberamente ispirato a ”Muere lentamente”, una poesia erroneamente attribuita da molti a Pablo Neruda e invece scritta dalla giornalista e scrittrice brasiliana Martha Medeiros. ”Se non ami” trae invece ispirazione dall'Inno all'amore di San Paolo. L’album esce a marzo anche in versione spagnola. Dal 24 marzo il tour da Torino.


TOZZI


Sono passati vent’anni dal disco ”Royal Albert Hall”, registrato dal vivo a Londra. Umberto Tozzi celebra l’anniversario con un doppio cd che raccoglie i suoi grandi successi registrati dal vivo, cinque inediti e due cover. L’album s’intitola ”Non solo live” ed è un piccolo monumero discografico a un cantante e autore che ha venduto nel corso di trent’anni di carriera oltre 45 milioni di dischi in tutto il mondo. Riecco allora, vestiti di nuovi abiti musicali e immortalati nel tour che la scorsa estate lo ha portato sui palchi di tutta Italia, i due cavalli di battaglia ”Ti amo” e ”Gloria” (conosciuti e venduti in mezzo mondo), successi come ”Donna amante mia” e ”Io camminerò”, la sanremese ”Si può dare di più” (che vinse il Festival dell’87, cantata assieme a Morandi e Ruggeri). Tra gli inediti da segnalare ”Anche se tu non vuoi”, brano dal ritmo incalzante che perpetua lo stile del cantante torinese, ma anche l’ironica ”Muchacha” e la suggestiva ”Oriental song”. Ci sono anche due cover (bella ”Lullabye goodnight my angel”, di Billy Joel)e persino due ghost track: ”Vida” e ”Un corpo e un'anima”, con cui nel ’74 Dori Ghezzi e Wess vinsero Canzonissima.




 


 


 


 

sabato 7 febbraio 2009

ANTONACCI


Bonolis lo voleva ”padrino” di qualche giovane in gara al Festival. Lui ha preferito declinare l’invito, e nella settimana sanremese sarà in tour. Un tour che giovedì sera fa tappa al Politeama Rossetti.

Biagio Antonacci apre dunque il tris di ”disintossicazione preventiva” (gli altri che ci daranno una mano: Battiato venerdì e sabato, Capossela domenica), allestito forse inconsapevolmente dallo Stabile regionale alla vigilia della kermesse festivaliera.

Sotto dunque con il bell’Antonacci, da anni idolo canoro di ragazze e donne di ogni età, che mesi fa ha pubblicato l’album «Il cielo ha una porta sola». L’annesso tour teatrale è partito a fine gennaio dal Teatro Augusteo di Napoli e porta in giro uno spettacolo particolare, diverso da quello visto nell’ottobre 2004 al PalaTrieste: elettrico e con vari spunti rock allora, perlopiù intimista stavolta.

Il cantautore di Rozzano, paesotto vicino Milano, mancava dai teatri da dieci anni. E conclusa questa prima parte del tour, tornerà comunque nei palasport già a primavera, per una seconda tranche elettrica. Caratterizzata anche dalla presenza di un coro speciale: un gruppo di spettatori, che da una tribuna sul palco canteranno con Biagio in una sorta di karaoke.

Ma torniamo al concerto triestino. Nel quale Antonacci sarà da solo sul palco, assieme a un altro musicista, il chitarrista Saverio Lanza: «Suonerò, male, tutti gli strumenti - ha detto l’artista -: chitarra, basso, batteria, pianoforte, tastiere vintage, djembe (tamburo africano - ndr) e la batteria con la quale ho cominciato la mia carriera ma che non uso da vent’anni. È difficilissimo tenere il tempo e cantare, da ragazzino avevo l’esempio di Phil Collins nei Genesis e Don Henley negli Eagles...».

Ancora Biagio: «Ci sarà qualche campionamento di archi, ma tutto il resto sarà scremato in stile Coldplay, con un classico trio chitarra basso e batteria». Per rivisitare successi vecchi e nuovi, proprio come nell’ultimo, vendutissimo album.

Da segnalare che le canzoni inserite nel disco - e dunque nel concerto - sono state scelte attraverso un sondaggio fra i fan (oltre 900 mila contatti), che hanno potuto votare e quindi decidere la composizione definitiva del cd: inserendo «Pazzo di lei» e «Quanto tempo e ancora», «Iris (fra le tue poesie)» e «Sappi amore mio», «Convivendo» e «Se è vero che ci sei». Senza dimenticare «Angela», «Mio padre è un re», «Fiore», «Quell’uomo lì», «Lo conosco poco»...

Ultima cosa. Antonacci è in queste settimane protagonista di una vertenza giudiziaria con la sua ex casa discografica, da lui accusata di aver immesso sul mercato senza autorizzazione la raccolta ”Best of... 2001/2007”.

Come sempre più spesso accade quando un artista cambia etichetta, era successo che la vecchia casa discografica (l’Universal) aveva fatto uscire due raccolte - quella citata e un’altra, del periodo ”1989/2000” -, e poi un cofanetto comprendente entrambe, nello stesso periodo dell’uscita del primo disco del cantautore per la sua nuova casa discografica, la Sony.

Le Sezioni specializzate per la proprietà industriale e intellettuale del Tribunale di Milano hanno deciso in via cautelare il ritiro dal mercato del disco e del cofanetto, «con il divieto di distribuire, promuovere e commercializzare» i due prodotti (gli avvocati di Antonacci hanno deciso di riservare a separata iniziativa la tutela dei diritti del best ”1989-2000”).

L'Universal, sottolineando che si tratta di un ”provvedimento soltanto provvisorio in sede cautelare”, ha chiesto la revoca nel giudizio di merito ancora pendente. Forte anche di un primo provvedimento del dicembre 2008, che rigettava le richieste avanzate da Antonacci.

Come dire: la tournèe nelle aule di giustizia è appena cominciata...

martedì 3 febbraio 2009

SANREMO TESTI


Festival di Sanremo, conto alla rovescia. Per chi è interessato alle piccole cose della kermesse (17/21 febbraio), segnaliamo che i testi delle 16 canzoni in gara fra i cosiddetti big al solito non brillano di luce propria. Mischiando tradizione e timide incursioni nel presente, nel paese reale. Insomma, il Festival di Bonolis sembra somigliare a quello di Baudo. Una macedonia dagli ingredienti appena più freschi.

La novità di giornata è che ci sarà anche Gianni Morandi a cantare con Pupo, Paolo Belli e Youssou N'Dour (mai trio fu più assortito...), nella serata di giovedì dedicata ai duetti. «L’opportunità» tratta un tema di stretta attualità: l’accoglienza nei confronti di chi arriva da lontano in cerca di un futuro migliore. Il progetto nasce attorno alla Nazionale cantanti, della quale Morandi è una storica colonna. E l’altro ospite, oltre al cantante di Monghidoro, sarà l’attore Raoul Bova. Compagnia assai composita, dunque.

L’altra novità è la gustosa lettera aperta che Cristiano Malgioglio manda a Povia: «Il tuo amico è guarito? Per me hanno detto che non c'è nulla da fare...». Si riferisce ovviamente a «Luca era gay», il rap che il cantautore toscano porta al Festival e ha già suscitato quasi tutte le polemiche della vigilia. «Ho appreso con grande gioia ed entusiasmo - scrive Malgioglio - che uno dei tuoi amici più cari è stato miracolato. Era gaio e non lo è più. Caro, con tutta l'ammirazione che io posso avere nei tuoi riguardi, mi trovi un po’ scettico, per la cosiddetta guarigione del tuo amico».

Un altro toscano, un’altra polemica. «L'Italia» di Marco Masini racconta, con accenti a tratti forti, alcuni dei guai di casa nostra. Da verificare soltanto se rimarrà il verso «È un Paese l'Italia che c'ha rotto i coglioni», o se, dopo le polemiche della vigilia, la sera di martedì verrà ...edulcorato. Di certo masici canterà: «È un Paese l'Italia dove tutto va male, lo diceva mio nonno che era meridionale, lo pensavano in tanti, comunisti presunti». Toni da denuncia sociale, in bilico fra canzone d’autore indignata e «L’italiano» di Cutugno, ovviamente non all’altezza di analoghi brani già passati alla storia della canzone.

Altri sfoghi, altre denunce nel brano dei Gemelli Diversi, «Vivi per un miracolo». Rap arrabbiato, che mette assieme aborto, baby prostituzione e violenza domestica, trattando dei mali che spesso si annidano tra le pareti domestiche. «Parla dei dimenticati, degli sconfitti, dei cuori infranti e della loro voglia di cambiare le cose - precisano i Gemelli Diversi -. Ma ricorda l’obbligo di rimanere vivi, di non farsi prendere dall'assuefazione che tende a trasformare le ingiustizie e perfino le tragedie in ordinaria quotidianità».

Approccio analogo per gli Afterhours, nella loro «Il paese è reale». La band di Manuel Agnelli non tradisce la sua anima rock per presentarsi dinanzi alla platea festivaliera. E propone un brano vibrante di rabbia e desolazione, in una società sempre più priva di punti di riferimento.

Patty Pravo si è affidata a un autore debuttante, il sardo Andrea Cutri, per tornare all’Ariston con «E io verrò un giorno là». Tradizione francese, fra Brel e Ferrè, retaggi di melodramma, ma anche livide chitarre rock. Per una performance che promette di ricordare quella del ’97 con «E dimmi che non vuoi morire». Il vincitore dell’altra edizione del Festival targata Bonolis, Francesco Renga, ci riprova con «Uomo senza età», una sorta di «Nessun dorma» in chiave pop, con tanto di citazione dell'aria pucciniana. Bel canto puro, quello che di solito funziona sempre.

Tricarico ritorna con «Il bosco delle fragole», filastrocca stralunata e demenziale che potrebbe bissare il successo dell’anno scorso con «Vita tranquilla».

Degli altri - dal vecchio Al Bano al giovane Marco Carta, dall’incompiuta Dolcenera all’eterno Fausto Leali, passando per Alexia, Nicolai/Di Battista, Iva Zanicchi, Sal Da Vinci... - avremo ancora tempo per parlare.

LIBRO SOFRI


C’è una ragazza di vent’anni, «di quelle che fanno le domande», che non sa nulla di stragi e anni di piombo e Pinelli e Calabresi. C’è un uomo - Adriano Sofri, nato a Trieste nel 1942 - che fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta è stato il leader di Lotta Continua (gruppo extraparlamentare di sinistra dell’epoca, scioltosi nel ’76, anche se l’omonimo quotidiano uscì fino all’82), prima di diventare apprezzata voce critica della sinistra, sia come giornalista che come scrittore.

Sofri è stato condannato con sentenza definitiva, dopo un lungo processo, conclusosi nel ’97, come mandante dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Dopo nove anni di carcere, attualmente è ai domiciliari per motivi di salute. Si è sempre dichiarato innocente, e per questo si è sempre rifiutato di chiedere la grazia.

Oggi la novità è che, pur nel ribadirsi innocente, Sofri si è assunto la corresponsabilità morale dell'omicidio Calabresi. Lo ha fatto in un’intervista al ”Corriere della Sera”. Lo fa in questo libro «La notte che Pinelli» (Sellerio Editore Palermo, pagg. 284, euro 12), nel quale alla ragazza di vent’anni ignara dei tragici fatti che si susseguirono da Piazza Fontana in poi non racconta del caso Calabresi ma del caso Pinelli, come si evince già dal titolo. Ma il lungo monologo contiene frasi inequivocabili, come: «...quando dico che la campagna condotta da Lotta Continua contro Calabresi tra il 1970 e il 1972 (non mi importa dei molti altri concorrenti) fu un linciaggio moralmente responsabile, benchè nient’affatto penalmente, della morte di Calabresi».

E ancora: «E che a questo niente toglie la ricostruzione di ciò che l’aveva preceduta, in quel tragico gioco delle parti che inchiodò tanti a un ruolo solo in parte scelto e in parte subìto e sofferto, e per tanti altri significò solo dolore e perdita».

E soprattutto: «Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, ”Calabresi sarai suicidato”».

Ma il libro, come si diceva, parla innanzitutto di quella notte del 15 dicembre 1969 quando il ferroviere anarchico Pino Pinelli volò giù da una finestra del quarto piano della Questura di Milano. Era stato fermato nelle drammatiche ore immediatamente successive alla strage di Piazza Fontana, 12 dicembre del ’69, atto di nascita della strategia della tensione. Parlarono di suicidio, un suicidio a cui non credeva nessuno. Seguì quella campagna con i toni del linciaggio - cui fa riferimento Sofri - contro il commissario di polizia Luigi Calabresi, che venne assassinato sotto casa la mattina del 17 maggio 1972. E a dolore e ingiustizia si sommarono altro dolore e altra ingiustizia.

L’autore ricostruisce tutta la storia, facendola precedere - alla maniera quasi di una rappresentazione teatrale - da un elenco delle persone coinvolte con i rispettivi ruoli. E seguire da trentasei pagine di minuziose e dettagliatissime note.

Ne viene fuori la prima ricostruzione storico-documentale, pur in forma narrativa, di quei drammatici giorni del dicembre 1969, uno dei grandi buchi neri della storia della Repubblica italiana. Sofri la traccia attingendo alle migliaia di carte dei tanti procedimenti giudiziari e ai propri ricordi personali.

Dalla lettura di questo libro - e magari anche di quello scritto da Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso e oggi giornalista di ”Repubblica”, intitolato ”Spingendo la notte più in là”, uscito due anni fa - tutte le ragazze e i ragazzi di vent’anni che hanno la voglia di sapere e di capire, potranno imparare qualcosa di più della storia recente, e a tratti terribile, del nostro Paese.

domenica 1 febbraio 2009

VASCO BRONDI AL TEATRO MIELA


Capita a volte - raramente - di imbattersi in oasi di viva intelligenza e originale genuinità, nel mare piatto e prevedibile della canzone italiana. È successo nel 2008 con Vasco Brondi, ventiquattrenne cantautore ferrarese che preferisce celarsi dietro la sigla Le luci della centrale elettrica, il cui tour l’altra sera ha fatto tappa in un Teatro Miela adeguatamente affollato per l’occasione.

Targa Tenco per la miglior opera prima con «Canzoni da spiaggia deturpata», Brondi è stato il miglior esordio dell’anno passato. Mischia rabbia generazionale e poesia metropolitana, sembra mosso da un’urgenza creativa a tratti fluviale, è visionario e ancora indignato al punto giusto. Il suo è «cantautorato attualizzato, che non trascuri le distorsioni sature, le frasi urlate, i ritmi ossessivi. Una chitarra acustica/distorta comprata a rate e una voce che sussurra urla e tossisce...» (dalla sua pagina su MySpace).

Dal vivo, nonostante problemi di acustica e un impianto voce non all’altezza, conferma quanto di ottimo si era percepito nel disco. La prima sorpresa è la formazione: da una parte lui e il suo produttore Giorgio Canali (cinquantenne di Predappio, già nell’orbita bolognese dei Cccp/Csi/Pgr e nel progetto Rossofuoco) alle chitarre, elettriche e acustiche; dall’altra la soave Daniela Savoldi (padre italiano, madre brasiliana, dieci anni di conservatorio alle spalle) al violoncello. Sì, avete capito bene, al violoncello. E l’incontro inedito fra quest’ultimo e le chitarre rabbiose dei due ragazzacci vale già il prezzo dell’attenzione.

Attaccano con «Produzioni seriali di cieli stellati» e «Piromani» (il brano di «andiamo a vedere le luci della centrale elettrica...», cui segue un’appendice parlata, quasi alla maniera di un reading lisergico), proseguono con «Stagnola» e «Sere feriali». Vasco canta di tram troppo mattinieri e sigarette fosforescenti, di farfalle meccaniche e occhi di criptonite, di motorini elaborati e cani avvelenati, di preservativi troppo costosi e sogni smantellati.

La scelta di alternarsi fra due microfoni, uno dei quali capace di rendere la sua voce meccanica e distorta fino all’incomprensibilità, non rende semplice l’ascolto dei brani alla parte (maggioritaria) del pubblico che li non conosce a memoria. Ma a nessuno sfugge un bisogno primario di comunicare che non lascia indifferenti. Nel racconto teso, vibrante, allucinato dei suoi - nostri - anni confusi. Anche se a tratti si avverte il retaggio di personaggi ed epoche che Brondi può aver conosciuto solo indirettamente: la Bologna del Settantasette, Claudio Lolli, i citati Cccp/Csi/Pgr, gli «altri libertini» di Pier Vittorio Tondelli...

Il concerto prosegue, c’è spazio anche per un brano di Casali, oltre che per l’abbozzo di un paio di cose nuove, che entreranno nel secondo disco («a primavera mi fermo e comincio a pensarci seriamente...», confida sceso dal palco). «Lacrimogeni», «Fare i camerieri», «La gigantesca scritta Coop», ma soprattutto «La lotta armata al bar» e «Per combattere l’acne» - scelta come bis - completano la serata.

Canzoni che brillano di piccole frasi storiche: «farò rifare l’asfalto per quando tornerai» e «siamo l'esercito del Sert», «con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche» e «si fermavano i tram per deridermi», fino al trionfo nichilista generazionale di «cosa diremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero...?». Istantanee urlate, schegge di presente, malinconia e smarrimento e rabbia, desolazione dalla provincia italiana.

Alla fine, applausi convinti. Brondi saluta a pugno chiuso e scompare.