mercoledì 31 agosto 2016

VENDITTI venerdì a Cervignano

Da quasi mezzo secolo canta Roma. Con amore, passione, a volte disincanto. Disseminando di belle canzoni tutti i decenni infilati fra i Settanta e oggi. Ora Antonello Venditti, sessantasette anni compiuti a marzo, quarantacinque anni di carriera, oltre trenta milioni di dischi venduti, alla vigilia del ventesimo album in studio (dunque raccolte e “live” esclusi), la sua città l’ha raccontata anche in un libro, “Nella notte di Roma”, uscito pochi mesi fa per Feltrinelli.
«Roma è il set della mia vita - dice Venditti, che venerdì alle 21 è in concerto a Cervignano, piazza Europa Unita, per “Onde mediterranee” - dunque non posso farne a meno. È un libro affettuoso e al tempo stesso crudele. Nel quale indico i suoi peccati capitali, intrecciati a un mio percorso esistenziale fatto di musica e ricordi».
La tempesta di guano sul Lungotevere è vera?
«Certo, è stata lo spunto per raccontare questa storia. Dovevo andare a una cena, stavo cercando parcheggio, quando è arrivata la “tempesta”. Lungotevere chiuso a causa degli storni, tonnellate di merda piovevano dal cielo su Roma. Mi è sembrata un’immagine simbolica».
Nel libro ricorda Allen Ginsberg a Ostia nel ’79.
«Quell’estate la gente arrivava da tutto il mondo per sentire i poeti della beat generation sulla spiaggia di Ostia. Stagione irripetibile».
Cos’erano il Pci, la sinistra per i ragazzi di allora?
«Il Partito comunista era un sogno di cultura e libertà, un punto di riferimento leggero ma sostanziale. C’era un’area molto vasta. Berliguer, le estati di Nicolini, uomini che rappresentavano punti di riferimento di un certo livello».
Oggi?
«La gente ha ancora fame di eventi culturali, ma manca una politica all’altezza. Non ci sono le organizzazioni politiche capaci di convogliare idee e ideali. Oggi le idee stesse di sinistra e di destra vacillano».
Mafia capitale esiste ancora?
«Temo proprio di sì. Intreccio politico imprenditoriale mafioso troppo complesso. Le indagini sono in corso. Ci vorranno anni».
Roma senza monnezza?
«Speriamo. In alcune zone del centro recentemente la situazione è migliorata. Ma serve un percorso virtuoso, educare alla cultura della raccolta differenziata, prendere ad esempio le altre grandi capitali europee».
La sindaca Raggi?
«Non la conosco. Ha davanti un percorso molto difficile. Aspettiamo di vedere cosa saprà e potrà fare».
A vedere la Roma ci va sempre?
«Allo stadio meno. Guardo le partite in tv, con gli amici, è anche un’occasione di incontro. Poi il risultato conta fino a un certo punto. Ogni squadra ha un suo destino».
Un ricordo di Gato Barbieri?
«È sempre nel mio cuore. È stato un punto d’incontro importante fra jazz e cultura popolare. Le sue ceneri sono sparse nel mare di Capri, dove la moglie vive una parte dell’anno...».
Ha detto che “Tortuga” è un punto di arrivo e di ripartenza: perchè?
«”Tortuga” è un luogo ideale, un’isola, è la voglia di libertà, dove ci sono ragazze che ballano, c’è voglia di divertirsi, voglia di futuro, generi musicali diversi dai tuoi. Come in quel bar Tortuga, di fronte al mio vecchio liceo Giulio Cesare, nel quartiere Trieste».
E la ripartenza?
«Sono in tour da quasi un anno, da quel 5 settembre dell’anno scorso del mio ritorno allo Stadio Olimpico. Ebbene, dopo questi concerti mi fermo per un bel po’: comincio a lavorare al nuovo album, si chiude un capitolo durato quarantacinque anni, se ne apre un altro, senza punti di riferimento...».
Il concerto di Staranzano?
«Un’occasione speciale, come quelli di quest’estate. Ha al suo interno tanti concerti, dagli anni Settanta a oggi, tutte le fasi che ho attraversato sono rappresentate. Tanto rock, tante canzoni, stavolta parlo poco...».
Con che canzone comincia?
«Cambio ogni sera, ma chiudo sempre con “Grazie Roma”. Quasi una sigla».

lunedì 29 agosto 2016

BENNATO GIOV A STARANZANO

«Il mondo globalizzato è un concetto simile a quello dei vasi comunicanti: quel che accade in Siria, in Nigeria, nel Mali o in Turchia ci riguarda direttamente. La nostra sicurezza, il nostro benessere sono imprescindibili dalla soluzione dei problemi del terzo mondo, non c'è altra scelta».
Dunque il suo disco “Pronti a salpare”...
«...è dedicato soprattutto a noi del “mondo occidentale”. Siamo noi che dobbiamo, volenti o nolenti, essere pronti a cambiare il nostro modo di pensare».
Parla Edoardo Bennato, neo-settantenne rock, che giovedì alle 21.30 è in concerto a Staranzano, alla Sagra de le raze, in collaborazione con Onde mediterranee.
L’album è dedicato anche a De Andrè, Enzo Tortora e Mia Martini.
«Ero amico di Fabrizio, gli ho dedicato l’intero lavoro con la presunzione di credere che gli sarebbe piaciuto. A Tortora e Mia Martini mi sono ispirato per il brano “La calunnia è un venticello”, dall’opera “Il barbiere di Siviglia”, di Rossini. Entrambi, anche se in forme diverse, hanno subito il crudele vento della calunnia».
Amnesty ha premiato questo disco.
«E mi ha fatto molto piacere. Di Amnesty condivido appieno tutte le battaglie sui diritti umani: fanno un grande lavoro, spesso rischiando sulla loro pelle».
È cambiato qualcosa 40 anni dopo “Buoni e cattivi” e 30 dopo “Ok Italia”?
«È cambiato tutto per quel che riguarda la geopolitica, un po’ meno per quanto riguarda i rapporti tra gli umani su questo pianeta».
Ha detto che Napoli è una polveriera. Può esplodere?
«Purtroppo sì. A Napoli ci vivo. Non ho raccolto il consiglio di Eduardo De Filippo, che diceva ai napoletani: “fuitevenne”, scappate. Io sono testardo e continuo a viverci. Ho la convinzione, magari errata, che si debba restare e come società civile organizzare la “Resistenza”».
Il sindaco De Magistris?
«Luigi è una persona perbene, è degno di stima, ma da solo non può cambiare le cose a Napoli. Sembra retorica, ma non lo è. Bisogna cambiare la mentalità delle persone e tutti devono fare la loro parte. Tutti, anche di opposte idee politiche, dovrebbero seriamente dare il proprio contributo, se vogliamo salvare Napoli».
I mali sono antichi. Secondo lei dove cominciano?
«Storicamente Napoli è stata “territorio di conquista”, ciò ha pesato e pesa come un macigno sull’intero popolo napoletano ma, pur ammettendo che la storia non ci ha favorito, a Napoli e al sud, al mio sud, purtroppo imperano il fatalismo, il vittimismo, l’assistenzialismo. Che poi sono il terreno di cultura ideale per le mafie. Per fortuna ci sono anche realtà imprenditoriali importanti nei vari territori del sud, ma la questione meridionale è ancora irrisolta».
Intanto si spara (e si muore) ancora per le strade...
«Si spara e si muore per mancanza di cultura. Può sembrare una provocazione, ma credo che sia l’unica strada per i giovani per non cadere nelle mani del sistema. La scuola deve fare la sua parte, è lì che si formano le coscienze, anche sopperendo alle carenze di situazioni familiari ai margini della legalità. E soprattutto c’è bisogno di lavoro».
Ha visto la serie tv “Gomorra”?
«Sì, è girata magistralmente, può senz’altro competere con le fiction americane. Io però preferisco il film di Matteo Garrone, di cui ho grande stima, la stessa che ho per Roberto Saviano che ha dovuto rinunciare alla sua libertà, per aver raccontato quel che era ed è sotto gli occhi di tutti quelli che hanno vissuto e vivono in quelle aree del paese».
La polemica sull'immagine violenta che dà della città, sui camorristi visti quasi come eroi?
«Le chiacchiere e le polemiche stanno a zero. La violenza è nelle strade, nella cronaca giornaliera. Ma per leggere un libro come “Gomorra” bisogna entrare in una libreria e “loro” non lo fanno. Per vedere il film di Garrone bisogna andare al cinema e “loro” non ci vanno. Per vedere la fiction basta un decoder, magari clonato, e “loro” la possono vedere».
Dunque?
«C’è chi non ha gli strumenti culturali per evitare di farne un modello di vita da imitare, e questo può essere un aggravio del problema che già è complicato, una sorta di legittimazione. Insomma, “se sono rappresentato in televisione vuol dire che esisto...”. Accadde anche per la trilogia del “Padrino”, per “Scarface”, per il “Camorrista” di Tornatore».
Dopo Peter Pan un nuovo musical?
«Sto cercando di mettere in scena il musical di “Burattino senza fili”, la favola di Pinocchio. Ho anche scritto delle nuove canzoni su personaggi che a suo tempo non avevo preso in considerazione, come Lucignolo».
L’esperienza a Spoleto col quartetto classico?
«Fin dalla prima ora ho utilizzato la formula del quartetto d’archi che serve per svincolarmi dagli stereotipi angloamericani. Insomma, faccio rock con quartetto d’archi...».
Senza ironia ci sarebbe stato Bennato?
«L’ironia mi permette di guardare le cose da una angolazione diversa, evitando quanto più possibile di essere retorico, didascalico o, peggio ancora, moralista. Posso permettermi di usare questo linguaggio perché prendo in giro per primo me stesso. Come quando cantavo: “Tu sei un... cantautore”».
E a Staranzano cosa canta?
«Sarà un concerto ad alto contenuto rock-blues. Forse il migliore di tutti. Anzi, senza forse...».

domenica 28 agosto 2016

ANDIAMO A COMANDARE, FABIO ROVAZZI, TORMENTONE ITALIANO

Che “Sofia” di Alvaro Soler sarebbe stato il tormentone dell’estate era facile da prevedere. E infatti lo avevamo previsto. Ma all’inizio della stagione non molti avrebbero scommesso su quello che è diventato il vero tormentone italiano: “Andiamo a comandare”, di Fabio Rovazzi.
Ventiduenne, milanese, fino a pochi mesi fa era un illustre sconosciuto. Lui specifica di non essere un cantante ma si è tolto lo sfizio di conquistare la vetta delle classifiche, lasciandosi alle spalle fior di gruppi e interpreti. Compreso Soler (che fra l’altro sarà a Trieste, al Barcolana Festival, il 7 ottobre).
Mezzo videomaker e mezzo rapper, realizzava video musicali per altri artisti e collaborava con Fedez (che appare nel video di “Andiamo a comandare”, nel quale c’è un cameo anche di J-Ax). Poi ha sfruttato il web per farsi conoscere, postando sui vari social video comici subito diventati virali.
Lo stesso tormentone ironico con cui ha fatto bingo nasce in rete. «La frase - ha spiegato Rovazzi - l’avevo letta in rete già un paio d’anni fa, e mi piaceva. A inventarmi la canzone ci ho messo un anno, tanto non avevo fretta. L’ho lanciata a febbraio, è diventata virale a maggio». E con l’estate è diventata un successone. Il singolo è disco d’oro e di platino, primo caso con le sole riproduzioni sulle piattaforme di streaming, grazie ai social.
Fra gli italiani, dietro Rovazzi da segnalare il successo di “Vorrei ma non posto”, dell’accoppiata Fedez e J-Ax che come detto appaiono, rispettivamente all’inizio e alla fine, nel video di “Andiamo a comandare”. E il crescente consenso del singolo “Le ragazze”, del duo Lemandorle (scritto così, tutto attaccato). Si definiscono «un progetto di pop daltonico che si muove tra ricordi geolocalizzati e ambizioni globali. Un Mac, un microfono e tre-minuti-tre per raccontare delle storie qualunque, descritte per immagini, come se la vita fosse una bacheca di Pinterest».
Ma la vita, purtroppo, è altro. Per esempio il dramma del terremoto. E Fedez ha appena annunciato: «Noi artisti di Newtopia, insieme alle nostre case discografiche, abbiamo deciso di fare un piccolo gesto immediato: oltre alle nostre personali donazioni abbiamo deciso di devolvere il 100% dei ricavati di “Vorrei ma non posto” e di “Andiamo a comandare” dei prossimi tre mesi per la ricostruzione della scuola elementare e dell’asilo di Amatrice».

FREE, di STEPHEN WITT / DISCHI E PIRATERIA

Parafrasando Vladimir Ilic Uljanov detto Lenin, il saggio di Stephen Witt si sarebbe potuto intitolare “Pirati di tutto il mondo unitevi”. Troppo provocatorio, forse. Si è preferito “Free. Cosa succede quando un’intera generazione commette lo stesso crimine?” (Einaudi, Stile Libero Extra, pagg. 336, euro 19), laddove il titolo originale più correttamente era “How music got free: the end of an industry, the turn of the century, and the patient zero of piracy”.
Si parla ovviamente della rivoluzione che ha sconvolto negli ultimi due decenni l’industria discografica e il modo stesso di intendere la fruizione della musica. Un tempo era il vinile: negli anni Settanta supergiù con tremila lirette acquistavi il tuo ellepì, sì il long playing che poi è diventato l’album, e la storia era (quasi) finita. Con guadagni miliardari per artisti, discografici e compagnia cantante. La diffusione delle cassette, con la possibilità di copiare a livello più o meno casalingo i dischi, apriva una prima minuscola crepa in un sistema che sembrava comunque inattaccabile e inaffondabile.
Alba degli anni Ottanta. L’arrivo del cd sembra già una rivoluzione. Ma nessuno può immaginare il cataclisma che sta per scoppiare. Dall’analogico al digitale, dal disco al file, dal download illegale a quello legale, dalla pirateria ai servizi di streaming. Attraverso sigle, nomi e acronimi come mp3, Napster, BitTorrent, iTunes, YouTube, Apple Music, file-sharing, Vevo, Deezer, Spotify... Tutti figli e figliastri di internet.
Witt, classe ’79, originario del New Hampshire, laurea in matematica e master in giornalismo, ricostruisce e racconta tutta la storia con i toni del saggio e l’accuratezza del giornalismo d’inchiesta. Il risultato? Trecento e rotte pagine che si leggono come un romanzo.
L’incipit dice già molto. «Faccio parte della generazione pirata. Quando ho iniziato l’università, nel 1997, non avevo mai sentito parlare degli mp3. Alla fine del primo semestre, nel mio hard disk di 2gb c’erano centinaia di canzoni piratate. Alla laurea avevo sei hard disk da 20gb, tutti pieni. Nel 2005, quando mi sono trasferito a New York, avevo raccolto 1500gb di musica, quasi 15000 album...». Tutto gratis, ovviamente.
Dietro la caccia al “paziente zero” della pirateria, prende forma la storia stessa della discografia americana e mondiale degli ultimi tre decenni. All’inizio le major sottovalutarono il passaggio dall’analogico al digitale. Meglio: qualcuno forse si rendeva anche conto delle potenzialità delle nuove tecnologie, intuiva che un mondo stava finendo e un altro stava per cominciare, anzi, era già cominciato. Ma non sapeva come affrontare il cambio d’epoca, ignorava quali armi schierare per difendere il fortino. Non a caso le cose, per l’industria discografica, lungi dal tornare quelle dei tempi d’oro, hanno almeno cominciato a migliorare quando al download illegale è stato affiancato quello legale, quando sono stati offerti gli abbonamenti ai servizi di streaming, quando i video musicali nati come strumento meramente promozionale sono diventati a loro volta asset produttivi grazie alla pubblicità.
Da ultimo, due notazioni. Un tempo i guadagni miliardari degli artisti (e dei discografici) arrivavano dalle vendite dei dischi, dalle royalty, dai diritti d’autore. Oggi, almeno per i primi, sempre più dalle tournèe, dai concerti dal vivo. Dei quali i dischi - da alcuni offerti sul web gratis, o quasi - sono diventati quasi strumenti promozionali.
La seconda denota un fattore comportamentale. Chi è stato ragazzo fino agli anni ’70-’80 voleva possedere materialmente un disco, acquistava, collezionava, registrava, scambiava. Ambizioni che le generazioni successive ignorano. Dai primi iPod fino agli attuali ascolti in streaming, del “possesso” della musica non interessa più a nessuno.
Che poi il discorso andrebbe allargato ai film, alle serie tv, ai videogiochi, ai libri, ai giornali... Ma sarebbe già un’altra storia.

domenica 14 agosto 2016

ZUCCHERO 8-10 a Lubiana

Undici prenotatissimi concerti all’Arena di Verona, fra il 16 e il 28 settembre. Poi via al tour mondiale: il Black Cat World Tour 2016, dal titolo dell’ultimo album uscito a fine aprile, che staziona da tempo ai vertici delle classifiche di vendita. Debutto il primo ottobre, a Stoccarda. E quasi subito una tappa vicina, sabato 8 ottobre a Lubiana, al palasport di Stožice. Spiccano due concerti a Londra, il 20 e 21 ottobre alla Royal Albert Hall. Ben tre a Parigi, il 6, 7 e 8 novembre all’Olympia.
Insomma, le cose continuano ad andare alla grandissima, per Adelmo Fornaciari in arte Zucchero, il nostro massimo blues-rocker da esportazione. Attualmente concentrato sulla scommessa delle undici date nell’anfiteatro romano di Verona. «L’Arena è un posto magico - ha detto in occasione del disco d’oro, che poi è diventato di platino, ricevuto ai Wind Music Awards per le vendite di “Black cat” -, è fatta in un modo tale che, nonostante la capienza di 12mila persone, ti sembra di toccarle tutte. È una mia suggestione. Ci sono altri teatri romani bellissimi, un altro a Nimes in Francia dove suoneremo nel 2017, ma non sono disposti come questo. Per me è come suonare a casa...».
Per l’occasione, il sessantunenne artista nato a Reggio Emilia ha pensato a una grande festa. «Sarà lo “Zucchero day”, con band che suoneranno blues nelle strade, una mostra fotografica. La mia parte però è solo artistica e non logistica; metterò a disposizione tutte le cose che ho, le foto più strane, dei filmati».
Con lui una band di tredici musicisti (quelli suoi storici, ma anche prestigiose new entry da New Orleans, Memphis, Nashville...), con cui sta provando sessanta canzoni: ne verrà fuori «la scaletta del concerto di due ore e mezzo, che cambierà ogni sera e sarà imperniata più o meno su una trentina di brani».
Sessanta milioni di dischi venduti in carriera, Zucchero torna con “Black cat” al sapore e alle atmosfere rock-blues di “Oro, incenso e birra”, il suo album più venduto (oltre otto milioni di copie nel mondo). Per farlo, si è avvalso della collaborazione dell’amico Bono, che ha scritto per lui il testo di “Streets of surrender (Sos)”, canzone contro l’odio scritta dopo la strage del Bataclan. Nel brano, la chitarra di Mark Knopfler, che compare anche in “Ci si arrende”. Produzione de luxe, che vede alternarsi T Bone Burnett, Brendan O’Brien e Don Was.
In carriera, “Sugar” ha collaborato con - in ordine alfabetico... - Bryan Adams, The Blues Brothers, Bono, Jeff Beck, Ray Charles, Eric Clapton, Joe Cocker, Miles Davis, Peter Gabriel, John Lee Hooker, B.B. King, Mark Knopfler, Brian May, Iggy Pop, Alejandro Sanz, Sting...
Nei concerti veronesi e nel tour mondiale che farà tappa a Lubiana, Zucchero presenterà dal vivo l’intero album. Dunque sotto con “Partigiano reggiano” (il brano che ha anticipato il disco), “13 buone ragioni”, “Ti voglio sposare”, “Ci si arrende”, “Ten more days”, “L’anno dell’amore”, “Hey Lord”, “Fatti di sogni”, “La tortura della luna”, “Love again”, “Terra incognita”, “Voci” e la citata “Streets of surrender (Sos)”. Ma i fan possono stare tranquilli: non mancheranno i grandi successi di una eccezionale carriera.
Nella band, preannunciata una nutrita sezione fiati. Scelta obbligata visto il tenore dell’album. «Mentre su “Chocabeck” - ha spiegato l’artista - erano altri tipi di fiati, non associati a quelli tipici del rhytm’n’blues, ed erano espressione del periodo “progressive”, beatlesiano come il corno francese, il basso tuba».
Ancora Zucchero: «La formazione prevede anche una violinista di fiddle che apporterà uno stile country alle canzoni. Riarrangerò i brani con questo nuovo sound, inserendo poi due coriste di New Orleans che vengono da un gruppo gospel, due batterie. Ci saranno anche due tastieristi, uno che si occupa solo dell'organo Hammond, e l’altro al pianoforte acustico “da muro”, che ha un suono molto ruvido».

sabato 6 agosto 2016

MALEDETTI RITMI DISPARI...

Maledetti ritmi dispari. Il nostro pigro orecchio occidentale era in fondo abituato bene, con i comodi ritmi pari: i classici quattro quarti nella musica leggera, nel rock, persino nel jazz. Più rari i due quarti o i sei ottavi, spesso nella musica popolare. Per non parlare dei classicissimi tempi ternari, i tre quarti del valzer (zum-pa-pà, che poi sarebbe come dire: ùn-due-tre...).
Poi un giorno l’assuefatto orecchio occidentale inciampò nei ritmi dispari, detti anche composti. E nulla fu più come prima. Risalivano fino a noi dall’area balcanica e mediorientale. Per forza di cose geografiche, dalle nostre parti li scoprimmo prima dei musicofili di altre zone. E allora via con un’ubriacatura di sette ottavi, undici ottavi, tredici ottavi... Roba apparentemente complicatissima. Ma era solo un’impressione.
Per la verità, negli anni Settanta il “progressive” italiano (Area, Banco, Pfm, persino New Trolls...) osava spesso i cinque quarti, i sette quarti, i citati sette ottavi e tredici ottavi. Ispirati dal “progressive” britannico (King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Gentle Giant, Genesis...), che al solito aveva indicato la strada. Ma era per lo più l’eccezione alla regola, quasi una sfida alle scansioni canoniche. E comunque poco dopo arrivò il punk, con i suoi quattro quarti serrati, a chiudere sperimentazioni rockettare.
Campo libero allora alla musica popolare, alla cosiddetta “world music”: arie indiane, nenie arabe, melodie persiane, danze popolari balcaniche, greche, ottomane. Moni Ovadia, massimo divulgatore della musica yiddish nel nostro Paese, ammette di essere stato svezzato su questo fronte dal triestino Alfredo Lacosegliaz, giusto una quarantina d’anni fa. Ne fece tesoro prima nel Gruppo Folk Internazionale, poi con l’Ensemble Havadià, infine nella carriera solista fra musica e teatro.
Passati doverosamente agli archivi i repertori da night del socialismo reale, ecco allora sgorgare i suoni dell’Est, miscele della frontiera balcanica, dove si incrociano musiche e culture e religioni cattoliche, ortodosse, musulmane. Goran Bregovic, da Sarajevo, fu il primo a portare in Occidente (anche grazie alle colonne sonore per il concittadino Emir Kusturica) un bagaglio fascinoso e ricchissimo. Poi vennero tutti gli altri: fanfare serbe, brass band ottomane, cori bulgari. Portatori di sonorità selvagge, atmosfere meticce (e alticce), suggestioni slave. Con ritmi rigorosamente cosmopoliti. E dispari.

mercoledì 3 agosto 2016

BASTIANICH MUSIC FESTIVAL ven/sab a Cividale

«Da quando abbiamo inaugurato questa esperienza, nel 2014, scegliere di realizzare un festival in stile Usa tra i nostri vigneti a Cividale del Friuli, che unisca performance musicali, artisti, amici e la cultura gastronomica di prodotti e artigiani del gusto, è stato un crescendo di emozioni...».
Parla Joe Bastianich, manager della ristorazione e giudice di “MasterChef”, sia versione italiana che a stelle e strisce. È lui il patron del Bastianich Music Festival, la cui terza edizione si terrà venerdì e sabato a Cividale del Friuli. Lì, il manager nonchè musicista istroamericano possiede le terre e i vigneti della Bastianich Winery e il Ristorante Orsone. Saranno due giorni all’insegna di musica, eccellenze enogastronomiche e solidarietà.
Ma vediamo il programma musicale. Si comincia venerdì con tanta musica italiana, grazie alle sonorità che uniscono il rock vintage e quello odierno dei “Panicles”, ma anche con i Mascarimirì, il gruppo che dalla Puglia porterà la sua personale versione delle tradizionali ballate salentine. Nel corso della serata sono annunciati altri contributi vocali a sorpresa.
Sabato arriva direttamente dagli Stati Uniti la cantautrice e bassista Nik West, che è stata una delle migliori amiche del compianto Prince. Dalla nona edizione di “X Factor” sono annunciati i riminesi LandLord. Da Trieste è prevista la partecipazione del trio vocale Les Babettes, “scoperto” da Bastianich in una serata al Caffè San Marco. Dalla Puglia arriva il pianista Roberto Esposito. E ovviamente non potrà mancare il padrone di casa: Joe Bastianich si esibirà infatti sabato sera nel suo classico repertorio di “american standard” assieme al cantautore Mike Seay, suo compagno di viaggio nel programma recentemente visto su Sky Arte “On The Road”. Chiuderà la serata il dj set degli M+A.
Entrambe le serate saranno coordinate da Ringo, il noto dj che è anche direttore artistico di Virgin Radio. Come si diceva, oltre alla musica anche cibo e vini di qualità, lungo la rotta Italia e Stati Uniti.
«Sono felice - conclude Bastianich - di aver scelto di realizzarlo in una terra alla quale la mia famiglia è così legata e soprattutto quest’anno... Tutto il ricavato verrà destinato infatti sul territorio, all’ospedale per bambini Burlo Garofolo di Trieste. Spero davvero che assieme riusciremo a realizzare un bell’obiettivo. Poi gli artisti sono tanti e ci divertiremo tra i vigneti, non vedo l’ora arrivi questa terza edizione...».
Informazioni su www.bastianichmusicfestival.com