giovedì 25 maggio 2006

di Carlo Muscatello
TRIESTE Il Festivalbar torna a Trieste dopo ventun anni. E in attesa delle due serate - giovedì 15 e venerdì 16 giugno in piazza Unità - gli organizzatori fanno le cose in grande. A sole ventiquattr’ore dalla presentazione ufficiale, ieri mattina a Milano, stamattina Andrea Salvetti sarà infatti a Trieste, nel palazzo della Regione, in via Carducci, per spiegare i dettagli. Molte cose sono già state dette ieri a Milano. «Sarà l'anno del grande ritorno della musica e dei cantautori italiani», ha promesso Salvetti. Snocciolando poi una serie di nomi che parlano da soli: Ligabue, Jovanotti, Ivano Fossati, Gianna Nannini, Raf, Carmen Consoli, la nuova coppia Alex Britti-Edoardo Bennato, Piero Pelù, Samuele Bersani, Cesare Cremonini, i Baustelle, i Negramaro...
Ma ci saranno anche le star straniere. Gente del calibro di Black Eyed Peas, Muse, Lee Ryan, Skye e Skin, Mark Knopfler e Emmylou Harris, Richard Ashcroft, Corienne Bailey Rae, Hard-Fi, Sergio Mendes... E scusate se è poco.
L’edizione 2006 del carrozzone itinerante sarà affidata alle cure di un trio inedito, formato da Ilary Blasi (reduce da Sanremo), Cristina Chiabotto (l’ex Miss Italia rilanciata dalle ”Iene” televisive) e il Mago Forrest, icona della nuova comicità televisiva di casa nostra.
Il Festivalbar, come da tradizione, comincia con un gala giovedì primo giugno a Napoli, con ingresso gratuito, nella stupenda cornice di piazza del Plebiscito. Le immagini della folla partenopea le vedremo in tivù, su Italia 1, divise in due serate: il 6 e il 13 giugno.
Quella triestina sarà la prima vera tappa, dopo il gala. Come si diceva il 15 e 16 giugno in piazza Unità (a pagamento), e poi sul piccolo schermo il 20 e 27 giugno, ma anche il 4 luglio. Ben tre serate televisive saranno dunque tratte dagli spettacoli triestini.
Dopo Trieste, il Festivalbar farà tappa verso Chieti, dove l’appuntamento dal vivo è fissato per il 6 e 7 luglio (con trasmissione in tivù l’11, il 18 e il 25 dello stesso mese). Agosto, come da consolidata tradizione, è occupato dalle cosiddette «pillole» televisive e dalla trasmissione del vario materiale, canoro e non, realizzato fra Napoli, Trieste e Chiesti. E sempre come da consolidata tradizione, l’appuntamento con la finalissima è a settembre, lunedì 4 e martedì 5, all’Arena di Verona. Stavolta in diretta televisiva su Italia 1.
La macchina del Festivalbar, da quando Andrea Salvetti l’ha rilevata, alla morte del padre (l’indimenticato patron Vittorio Salvetti, che negli anni Sessanta ebbe l’intuizione di questa rassegna, all’epoca collegata ai juke-box...), viaggia che è una bellezza. Funziona nelle serate dal vivo, che poi non sono altro che registrazioni televisive. Ma funziona anche in tivù.
Quest’anno c’è il problema della concomitanza coi Mondiali di calcio. «Abbiamo fatto ogni sforzo per evitare pericolose coincidenze - ha sottolineato Salvetti ieri a Milano - ma quattro puntate su dieci andranno in onda in contemporanea con partite internazionali, ma mai con quelle dell'Italia....
L’edizione 2005 della manifestazione, come si ricorderà, è stata vinta da Nek con «Lascia che io sia». E ha avuto tra i suoi protagonisti i Negrita, Simone Cristicchi (che proprio dal Festivalbar ha lanciato il suo tormentone «Vorrei cantare come Biagio»...), Biagio Antonacci, Irene Grandi, Craig David, Gianluca Grignani, Negramaro, Le Vibrazioni, Jovanotti, Alex Britti, Cesare Cremonini...
La tappa triestina - organizzato da Azalea Promotion in collaborazione con l’assessorato al turismo della Regione e l’assessorato cultura e sport del Comune - dovrebbe ospitare quasi tutti gli artisti, italiani e stranieri, citati all’inizio. Prevendite dei biglietti già in corso. Informazioni su www.boxoffice.com, www.ticketone.it e sui siti del Festivalbar e di Azalea.

mercoledì 24 maggio 2006

diCarlo Muscatello                  UDINE Apertura dei cancelli alle 15. Oltre 15 mila biglietti già venduti, ma un congruo numero ancora a disposizione dei fan oggi pomeriggio allo Stadio Friuli di Udine. I<IP9>nsomma, tutto è pronto per il concerto di Ligabue, inizio alle 21.30, il cui tour negli stadi è partito l’altra sera da Ancona, dinanzi a quindicimila spettatori. Un tour particolare, diviso in quattro parti, come ci ha raccontato lo stesso Liga: «Prima i club, poi i palasport, ora gli stadi e in autunno i teatri. L’idea mi era venuta prima di Campovolo, nel settembre scorso, ma risponde in effetti alla stessa logica. Il tour diviso in quattro sezioni è un modo di approfondire il discorso».
LIVE. «Io amo molto suonare dal vivo, è la cosa che mi piace di più in questo lavoro. Ero rimasto fermo un sacco di tempo: in due anni e mezzo avevo fatto solo il concertone di Campovolo e, poche settimane prima, l’apparizione acustica al Live8».
ROUTINE. «Voglio mettermi sempre alla prova. Anche con questo tour strano, particolare, nel quale le canzoni sono le stesse, ma allestimenti, suoni e compagni di avventura cambiano. Col risultato di produrre una sana tensione, che mi tiene lontano dalla routine».
AUTORITRATTO. «Questo tour forse mostra quattro parti di me. Qualcuno ha detto che ogni artista, ogni persona che comunica, alla fine, fa sempre il proprio autoritratto. È un po’ come mettere a nudo la propria anima, scattare una fotografia della propria anima e farla vedere a chi ti sta davanti».
CLUB. «Sono tornato nei club vent’anni dopo. Era il febbraio dell’87, quando feci il mio primo concerto, in un centro sociale di Correggio. E ho continuato a girare per club per più di tre anni, fino al successo del mio primo album, uscito nel ’90. Diciamo che è bello rivedere le facce della gente da vicino, non avere davanti una massa ma delle singole persone. Mi è piaciuto anche rivivere certe esperienze con i Clandestino, con cui l’intesa non si è mai interrotta...».
DIVERTIRSI. «C’è la possibilità di divertirsi sia nei club sia negli stadi. E oggi sono contento di poter scegliere, di potermi godere l’emozione di suonare in luoghi così diversi. Poi il successo è una cosa strana: quando lo raggiungi ti accorgi che non è come te l’aspetti, l’equazione ”successo uguale felicità” non è vera...».
MEDIANO. «In quella metafora mi riconosco ancora: per me stava a significare che ci vuole umiltà, che c’è sempre tanto lavoro dietro a ogni risultato. Ed era anche un modo per giustificare a me stesso il successo che avevo ottenuto. Un po’ come dire: guardate che il successo non mi è caduto addosso dal cielo, ho faticato per ottenerlo... Quando anni fa Prodi la usò come sigla, ho pensato: se uno che tutto sommato gode della mia fiducia, come Prodi, decide di dichiararsi così, che lo faccia... Poi, nel tempo, ci faccia vedere che terrà fede a quelle parole».
SINCERITA’. «Dicono che il mio ultimo disco, ”Nome e cognome”, sia il più sincero, più personale. Io penso che il mio modo di comunicare sia sempre diretto e personale. E penso che ciò sia un obbligo nei confronti di chi ascolta. Ognuno di noi è il risultato della vita, delle esperienze che ha avuto. Detto questo, è vero, molti mi hanno fatto notare che stavolta sono stato ancor più chiaro e diretto nel raccontarmi. Ma non so per quale motivo».
ROCK. «Non so se il rock mi ha salvato la vita. Diciamo che le ha dato molto più senso, l’ha migliorata, e non solo perchè faccio musica professionalmente. Mi piace pensare che è per quello che riesce a trasmettere, il rock a me e io alla gente attraverso il rock...».
SPECCHIO. «Penso che nelle persone c’è già tutto, il rock è un ottimo specchio. Nelle canzoni c’è uno specchio che ti permette di guardarti dentro, di leggere qualcosa che hai dentro. Davanti allo specchio a volte ci fermiamo, altre volte tiriamo dritto. È quel che significa suonare qualcosa che hai dentro: fa parte di te, devi solo farla sbocciare».
INCIPIT. «L’attacco, l’incipit è molto importante. È importante entrare subito nel senso narrativo di una storia, di una canzone. Io scrivo tanto, molte cose le metto via e poi mi tornano fuori più avanti nel tempo. Allora accade che alcune immagini mi tornano utili per partire nella maniera giusta, con l’entusiasmo giusto. Non a caso alcune mie canzoni, ”Certe notti” ma non solo, prendono il titolo proprio dalle prime parole del testo...».
SUCCESSO. «Ho avuto il successo tardi, a trent’anni, e ho sempre detto che è stata una grande fortuna, perchè se ce l’avessi fatta a vent’anni avrei perso la testa. Arrivarci più maturo, dopo aver fatto molti lavori ed esperienze, mi ha permesso di partire con maggior ironia e soprattutto autoironia, con il giusto distacco, senza prendermi troppo sul serio».
OPERA ROCK. «Questa storia è venuta fuori da una battuta fatta in un’intervista. La verità è che a volte con Domenico Procacci (produttore dei due film di Ligabue; ndr) scherziamo sui progetti futuri. E poichè che io sono masochista, sempre pronto alle sfide più difficili, dopo aver scritto i libri e aver girato i film, viene sempre fuori questa storia dell’opera rock. È una battuta, o forse anche no, chissà...».
FILM. «”Radiofreccia” è stato inserito fra i 14 film italiani scelti per l’archivio del Moma di New York. La cosa mi ha fatto molto piacere, anche se mi sfugge cos’hanno capito gli americani di quel film... Il terzo film lo farò solo se arriva un’idea forte, perchè comunque faccio un altro lavoro, faccio musica. Però ho pensato che, dopo due film nei quali c’è l’idea e la presenza della morte, mi piacerebbe raccontare una storia leggera, una commedia, magari far ridere».
RELIGIONE. «Mi considero ”un credente non religioso”. Vuol dire che sento un bisogno spirituale, ma non sono cattolico. La mia spiritualità non è rappresentata dal bisogno di un dio. E guardo con preoccupazione al crescendo di attriti per colpa di diversi credi religiosi. Ogni integralismo è dannoso, è causa di conflitti...».
TRIESTE. «Ci tornerei molto volentieri. Magari nella parte autunnale del tour. Mi ricordo un concerto a San Giusto dal clima quasi magico. E poi quando siamo venuti a girare il video di ”Eri bellissima”: stavamo su una terrazza dalla quale si vedeva il mare, c’era una luce particolare, che ha regalato un tocco in più a quel video...».

domenica 21 maggio 2006

Ramazzotti, Pausini, ovviamente Bocelli... Ma non soltanto loro. Sono infatti sempre più numerosi i cantanti italiani che si ritagliano un proprio spazio di rilievo anche all’estero. Europa, Sud America, persino Stati Uniti. Cose che fino a pochi anni fa erano quasi impossibili, oggi sono diventate un fatto normale.
Fra questi «emigranti di lusso» della nostra canzone, c’è anche Tiziano Ferro. Che in Sud America e in tutti i paesi di lingua spagnola è ormai un’autentica star. Comprensibile dunque la grande attesa che avvolge l’uscita del suo nuovo album, che arriva a tre anni dal grande successo di «111» (cifra che indicava il peso massimo che aveva raggiunto da adolescente, quando la carriera nella musica era poco più di un sogno...). Il nuovo album di Tiziano s’intitola «Nessuno è solo», esce il 23 giugno in contemporanea mondiale (la lista dei paesi è a quota 44...) e sembra avere tutte le carte in regole per ripetere gli exploit dei dischi precedenti, dentro e fuori dai confini nazionali.
Da un paio di settimane è già in circolazione «Stop! Dimentica!», il singolo apripista che si fa notare per l’abbinamento fra forma canzone e sonorità tipiche dell'electropop degli anni Ottanta. «Il singolo è controverso, all'inizio spaventava chi lavora con me che - racconta l'artista di Latina - temeva un giudizio spietato, però lo ritengo un cambio coerente con la mia personalità e mi piace l'idea di iniziare un nuovo lavoro con qualcosa di prorompente».
Ma nel disco ci sono altre dieci canzoni, che allargano lo spettro musicale del lavoro in direzione delle ballad, di brani che mettono in luce le grandi potenzialità soul del nostro (basti ricordare come ha saputo trasformare, nel duetto sanremese, il brano di Michele Zarrillo...), e di altri che indulgono sulle atmosfere acustiche. La produzione è all’altezza delle aspettative: orchestra registrata a Londra, musicisti internazionali, campagna promozionale da star. E la seconda metà del 2006 Ferro la dedica per l’appunto al tour promozionale in giro per il mondo. Il tour vero, invece, comincia a gennaio 2007.
«L’aldiqua» (Ricordi Sony Bmg) è invece il titolo del nuovo album di Samuele Bersani. Decisamente il più politico della sua carriera. Il cantautore di Cattolica, scoperto da Lucio Dalla, canta infatti il dramma dell'uccisione di Enzo Baldoni,si schiera con i giovani precari, descrive la realtà vista da un pollo trafitto da un girarrosto («La soggettiva del pollo arrosto»). Di politica si parla apertamente in «Lo scrutatore non votante», dedicata a tutti quelli che «svengono per un po’ di sangue ma poi sono per la sedia elettrica». Bersani (candidato alle ultime politiche con la Rosa nel Pugno), a tre anni dalle atmosfere retrò di «Caramella Smog», realizza con queste canzoni «un omaggio agli amici ritrovati e alle radici che pensavo di aver perduto». «Maciste» e «Come due somari» sono fra i brani più riusciti.
Ultima segnalazione per Rudy Riotta e il suo «Winds of Louisiana» (Zyx Music). Chitarrista con il blues nel cuore, ha collaborato in passato con gente del calibro di John Mayall e Brian Auger. Qui sforna una dozzina di brani di sua composizione, che sembrano animati dai «venti della Louisiana»...


Gli auguri telefonici di Carlo Azeglio Ciampi (quello vero...) per i suoi quarantasei anni, l’altro giorno, in diretta, a «Viva Radio 2», sono forse l’ultima ciliegina sulla torta di un successo che è da tempo diventato un fenomeno. Ora arriva anche il cd, s’intitola «W Radio 2 2006» (Rca Sony Bmg), e Fiorello lo firma con i suoi soci Marco Baldini ed Enrico Cremonesi. Si apre e si chiude con un pernacchione, ebbene sì, ma in mezzo ci sono le perle di questo programma di culto: da Ciampi (quello finto...) a Mike Bongiorno, da Gianni Minà allo «smemorato di Cologno» (alias Silvio Berlusconi...), da Monica Bellucci a Oliviero Toscani. Che dire: goliardia allo stato puro, ma lieve, gradevole, oseremmo dire: intelligente. Ed è per questo che funziona, e contribuisce a fare dello showman siciliano, ex re del karaoke, il numero uno dello spettacolo leggero, oggi in Italia.
Anche Flavio Oreglio, nel suo «Siamo una massa di ignoranti. Parliamone» (Catartica Edel), è uno che si prende assai poco sul serio. Ma per questo suo lavoro ha chiamato a raccolta signori musicisti come Keith Emerson, Clie Bunker, Fabio Treves... Il cd è solo una delle tre parti della nuova produzione dell’artista. Le altre due sono il libro e lo spettacolo, tutti con lo stesso titolo. Dentro c’è quella vena surreale, mezza satirica mezza umoristica, che ha fatto apprezzare questo personaggio anche al di fuori del piccolo e scontato circo televisivo.
Per concludere facciamo un salto indietro di mezzo secolo e più. E ci sintonizziamo sull’umorismo del grande Aldo Fabrizi (1905-1990). «La radio di Aldo Fabrizi» (Twilight Music) è la nuova uscita della collana «Via Asiago 10» e ripropone, dai ricchissimi archivi Rai, «scenette, gags, monologhi, interviste, stornelli e canzoni». L’episodio più antico è del ’38, il più recente del ’80. Racconta di una radio - e di un mondo - che non c’è più. Popolare, bonario, sincero...


L’attesissimo film tratto dal romanzo di Dan Brown, «Codice da Vinci», è finalmente uscito nelle sale di tutto il mondo. Portando con sé anche tutta una serie di «prodotti derivati», tra cui videogiochi, magliette, poster, visite turistiche a tema... E i cd. Oltre alla colonna sonora, da segnalare questa esoterica raccolta «ispirata da...», realizzata dal compositore e produttore olandese Jan Kisjes. Quattordici brani d’atmosfera new age, che mischiano musica classica ed elettronica, ma anche inglese, francese, latino... Per parlare ovviamente di amore, fede, speranza. E dei misteri di cui libro e film grondano. Pathos e misticismo, insomma.  


 Morricone è forse il più grande autore di colonne sonore al mondo. Secondo alcuni, è addirittura quello che le ha inventate. Questo «dual disc» (cd più dvd) ripropone alcuni dei brani più rappresentativi della sua carriera. Registrati dal vivo negli ultimi due anni, in luoghi tipo l’International Forum di Tokyo, la Royal Albert Hall a Londra, la Sports Arena di Budapest, il Palais de Congres di Parigi, l’Arena di Verona... Ascoltiamo «C'era una volta il West», «Mission», «Malena», «Here's to you», «Nuovo Cinema Paradiso», «C'era una volta in America», «Il buono, il brutto, il cattivo»... Nel filmato Morricone si racconta: parla degli esordi, della sua carriera, della musica che ha scritto, degli incontri coi registi...

venerdì 19 maggio 2006

di Carlo Muscatello      TRIESTE Lui si chiama Marco Conforti, è milanese, ha quarantaquattro anni. Dopo aver lavorato con artisti come Pitura Freska, Casinò Royale, Neffa, Sottotono, da qualche anno è l’amministratore della Hukapan, la società di Elio e le Storie Tese. Stamattina alle 11, nell’aula magna del Liceo Galilei, parlerà di «Internet e creatività». All’incontro partecipa anche il triestino Enrico Milic, fondatore del portale Studenti.it, oltre che ricercatore per la Swg.
«Le grandi opportunità di Internet - dice Conforti - erano ben chiare a Elio e soci già da tanto tempo. Ma tre anni fa, quando è scaduto il loro contratto discografico, hanno pensato che non era necessario cercarne un altro. Che magari si poteva provare a far da soli, senza affidarsi a una nuova etichetta».
Problema di costi o che altro?
«Certo, le nuove tecnologie permettono di abbattere i costi, di accorciare la cosiddetta filiera fra produttore e consumatore. Ma c’è anche un valore aggiunto che è quello dell’assoluta indipendenza dell’artista, che così non deve rispondere a nessuno...».
Dunque tre anni fa...
«Il modello a cui abbiamo pensato aveva bisogno, come premessa, di digitalizzare sia la produzione che la distribuzione. Per giocare questa carta c’era bisogno di avere tutto il repertorio ”on line”, e oggi Elio e le Storie Tese sono gli unici ad avere tutto il catalogo sul sito, con la formula dell’abbonamento».
Come funziona?
«Funziona che uno si abbona, a tempo, e può accedere dal sito a tutto quel che riguarda il gruppo: repertorio, filmati, interviste, merchandising, biglietti per i concerti senza diritti di prevendita... Abbiamo chiuso anche un accordo con Mtv: presto avremo a disposizione quindici anni di storia televisiva, tutta scaricabile...».
E gli instant cd?
«A ogni concerto registriamo la prima ora, con l’aggiunta di alcune altre cose precedenti. Abbiamo 24 masterizzatori su quattro torrette. E mentre il pubblico ascolta la seconda parte del concerto, facciamo l’editing, stampiamo le copie (una sera ne abbiamo fatte seicento...), che sono pronte alla fine della serata. A dodici euro. Otto se uno si presenta con la sua chiavetta o l’iPod...».
Prossima frontiera?
«L’instant dvd. Facciamo un esperimento a Pisa nei prossimi giorni».
Prossimo impegno?
«Il tour di Elio e soci con Claudio Bisio. Un mix fra musica, teatro e comicità. Partiamo il 28 giugno da Lignano Sabbiadoro...».

mercoledì 17 maggio 2006

di Carlo Muscatello    TRIESTE Poca gente, ieri sera al Politeama Rossetti, per il bel concerto di Michele Zarrillo. Che poi si sa: non c’è (quasi) niente di più triste di un teatro mezzo pieno. O mezzo vuoto, a seconda dei punti di vista. Colpa della crisi economica, colpa della tanta musica gratuita che c’è in giro, chissà... Fatto sta che le grandi platee, gli stadi e i palasport e i teatri pieni sono ormai prerogativa soltanto delle grandi star. Gli altri, gli onesti e dignitosi lavoratori della canzone, gli operai - si fa per dire - della musica, devono accontentarsi di platee ridotte.
È il caso di Michele Zarrillo, quarantanovenne cantautore romano con un lontano passato di rocchettaro, frequentatore abituale dei Festival di Sanremo, che da un mese sta portando in giro per i teatri questo spettacolo intitolato «L’alfabeto degli amanti». Come il disco appena uscito, come la canzone portata con successo all’ultimo festivalone.
Si presenta in scena quasi puntuale, camicia e giacca scure, jeans, capello brizzolato, occhiali alla moda. Aspetto normale, quasi da (ex) ragazzo della porta accanto, praticamente l’antitesi della popstar. Attacca con «Soltanto un attimo», dall’ultimo album. Da cui subito dopo arrivano anche la title-track e «Se l’amore ha scelto noi». E poi ancora «Tutta la vita che c’è», con il nostro che imbraccia per l’occasione una chitarra acustica nera.
La scenografia divide la band su due piani: quattro musicisti in alto, gli altri due, assieme a Zarrillo, sulla scena. È un attimo. La pedana si apre e arriva al centro del palco un pianoforte nero a mezzacoda: l’artista prende posto, le sue mani corrono sulla tastiera ed è il momento de «L’acrobata», portata al Sanremo del 2001.
Grande cesellatore di melodie, l’uomo ha adottato da molti anni il linguaggio dei sentimenti. Offre all’ascoltatore un calibrato mix di emozioni che ciascuno prova, chi prima chi dopo, nella sua vita. Apre pian piano il suo scrigno di parole e suoni e ricordi, e vi fa accomodare il pubblico. Che si sente sempre a suo agio. Una sorta di «mediano della melodia», se vogliamo adattare l’immagine di Ligabue con la sua «vita da mediano» del rock.
Il concerto prosegue. Successi di ieri e di oggi. «Gli angeli» e «L’amore vuole amore», «Un nuovo giorno» e «Maddalena», «Il vincitore non c’è», ovviamente «La notte dei pensieri», «Una rosa blu», «L’elefante e la farfalla»... A un certo punto il nostro fa volare la giacca e imbraccia una rossa chitarra elettrica, che dimostra di padroneggiare alla perfezione. E quando va a duettare col «chitarrista titolare», chissà, torna indietro di trenta e passa anni, alle periferie della sua Roma, quand’era il giovanissimo cantante e chitarrista prima dei Semiramis e poi del Rovescio della Medaglia, gruppo di un certo nome nel rock d’avanguardia italiano dei primi anni Settanta.
Poi Zarrillo si scatena, con le movenze del vecchio rocker. All’ennesima piroetta perde l’equilibrio e rischia di franare per terra. ma si salva in tempo. E il pubblico triestino - pochi ma buoni, come si dice in queste occasioni - è tutto per lui...

martedì 16 maggio 2006

S’intitola «L’alfabeto degli amanti» lo spettacolo che Michele Zarrillo propone questa sera al Politeama Rossetti, nell’ambito di un tour partito un mese fa e che ha fatto tappa sabato sera a Zurigo e ieri a Verona, al Teatro Filarmonico. Il titolo è quello dell’ultimo album ma anche della canzone - scritta con l’abituale socio Vincenzo Incenzo - con cui il quarantanovenne cantautore romano ha partecipato all’ultimo Festival di Sanremo, finalista nella categoria Uomini, nella quale è stato battuto soltanto da quel Povia che poi si è aggiudicato anche la vittoria finale.
Un concerto che promette momenti emozionanti, grazie alle doti interpretative e alla indiscussa classe dell’artista, che ha saputo affinare nel corso degli anni la sua miscela fatta di canzone d’autore, pop e melodia.
Una carriera ormai lunga, quella di Zarrillo. Classe 1957, comincia giovanissimo a mettersi in luce come cantante e chitarrista sulla scena musicale romana degli anni Settanta. Nel ’72 è già allo storico raduno di Villa Pamphili con i suoi Semiramis, nel ’74 è il cantante e chitarrista del Rovescio della Medaglia, gruppo rock d’avanguardia. Conclusa questa esperienza, firma come autore canzoni per interpreti del calibro di Ornella Vanoni e Renato Zero. Nell’81 lo ritroviamo a Sanremo, con «Su quel pianeta libero». Al festivalone è il vincitore delle Nuove Proposte nell’87 col brano «La notte dei pensieri».
Il «nuovo Zarrillo» a questo punto è già nato: non più il cantante rock degli esordi, ma il dotato interprete melodico che fa tesoro delle esperienze passate. Torna a Sanremo varie volte. Per esempio nel ’92, con una «Strade di Roma» scritta a quattro mani con Venditti. E poi nel ’94, con quella «Cinque giorni» che rimane un classico del suo repertorio e traina al successo l’album «Come uomo tra gli uomini». Ma anche nel ’96, con «L’elefante e la farfalla» (album omonimo).
Nel corso degli anni il canzoniere dell’artista romano si è arricchito di vari capitoli («L’amore vuole amore», «La notte dei pensieri», «Una rosa blu»...), e la sua popolarità è uscita dai confini nazionali. I suoi dischi vengono infatti distribuiti e apprezzati in vari paesi europei. E soprattutto in Spagna, dove la sua «Cinco dias», traduzione letterale di «Cinque giorni», diventa un successo da primi posti in classifica.
Gli anni recenti sono ancora legati al Festival di Sanremo, dove Zarrillo torna nel 2001 con «L’acrobata», nel 2002 con «Gli angeli», quest’anno - come si diceva - con «L’alfabeto degli amanti».
Nel concerto che arriva questa sera a Trieste, il cantautore presenta le canzoni del nuovo album e ovviamente tutti in suoi classici. Sul palco, con lui, che si alterna fra pianoforte e chitarre, ci saranno Alfredo Golino alla batteria, Cesare Chiodo al basso, Lorenzo Maffia alle tastiere, David Pieralisi e Roberto Di Virgilio alle chitarre, Giuseppe Bono al violino.

martedì 9 maggio 2006

ROMA Pietro Garinei è morto ieri notte in un ospedale romano, dove era ricoverato da qualche giorno. Il padre - con Sandro Giovannini - della commedia musicale italiana era nato a Trieste nel 1919.


Ottobre del 2004. Pietro Garinei è a Trieste - nella «sua» Trieste... - per seguire l’ennesimo debutto del suo «Vacanze romane» al Politeama Rossetti. E l’amministrazione comunale, assieme allo Stabile del Friuli Venezia Giulia, coglie l’occasione per organizzare nel salotto azzurro del municipio una piccola cerimonia per la consegna del sigillo trecentesco della città a quell’illustre «triestino per caso».
Garinei era uno degli ultimi gentiluomini dello spettacolo italiano. Un vero signore, di quelli di cui si è perso lo stampo. Lo dimostrò anche in quell’occasione. Lusingato ma anche un po’ sorpreso, almeno apparentemente, per quell’interesse, quella dimostrazione d’affetto. Pronto a schermirsi alla fine dell’intervista: «Ma tutte queste cose, non vorrà mica scriverle sul giornale... A chi vuole che interessino... Bastano dieci righe su questo sigillo del Comune».
Pietro Garinei era nato a Trieste il 25 febbraio 1919. Nella città di San Giusto rimase solo trentanove giorni. «Non so se sia vero - raccontò in quell’occasione il re, con Giovannini, della commedia musicale italiana - ma mio papà mi raccontava sempre che ero stato il primo italiano nato a Trieste e battezzato a San Giusto dopo la Grande guerra. Fra l’altro il mio padrino fu Rino Alessi, che poi sarebbe diventato proprietario e direttore del ”Piccolo”, molto amico di papà...».
«Mio padre era romano, faceva il giornalista per il ”Secolo” ed era stato inviato qui, sul fronte nordorientale. Fra l’altro fu lui che trovò la salma di Francesco Baracca sulle pendici del Montello: una sorta di scoop, per l’epoca. Mia mamma era nata a Udine, lo raggiunse a Trieste e io nacqui qui. La mia permanenza in città durò in tutto trentanove giorni, quella dei miei genitori qualche settimana in più...».
Ma il legame di Garinei con la città non si limitava ai natali. Sua moglie, di cui parlava ancora al presente, anche se da tempo «ci guarda da lassù», era infatti triestina: si chiamava Gabriella Turco «ed è stata lei a farmi amare veramente quella che chiamo comunque ”la mia città”...».
«La mia famiglia era proprietaria di una delle più antiche farmacie di Roma: fondata nel 1595, sta ancora scritto in una targa. Ogni trent’anni bisognava rinnovare la licenza comunale e c’era bisogno di un Garinei laureato in farmacia. Toccò a me, e quello fu il mio primo lavoro. Conobbi Gabriella perchè faceva l’impiegata in una ditta in Galleria Colonna, a due passi dalla nostra farmacia, che stava a piazza San Silvestro, al numero 15...».
«Ma io in farmacia stavo stretto. E ben presto scaricai quell’onere familiare sulle spalle di mio fratello e mi lasciai sedurre dall'ambiente giornalistico che frequentava mio padre: dopo il Secolo aveva lavorato in un giornale che era stato chiuso dai fascisti, e dopo ancora alla Gazzetta dello Sport. Vicino alla farmacia c’era la grande sala stampa, dove arrivavano tanti giornalisti. E io cominciai proprio per la Gazzetta».
«A Trieste ci tornavo raramente. Una volta nel ’46, al seguito del Giro d’Italia, per un programma radiofonico della Rai che si chiamava ”Giro in Giro”: la sera dopo ogni tappa facevamo una piccola rivista di mezz’ora, con Mario Riva e il Quartetto Cetra. Fu l’anno in cui il Giro doveva arrivare a Trieste ma fu bloccato prima di Duino, con filo spinato e bidoni di catrame sull’asfalto. Ci furono degli incidenti, alla fine vinse Giordano Cottur, che arrivò a Trieste con altri diciassette, scortati dalle jeep americane...».
«L’amore per lo spettacolo? Vicino alla farmacia, oltre al luogo di lavoro di mia moglie e la sala stampa, c’era anche il Cinema Galleria, regno dell’avanspettacolo, della rivista. E io, appena finivo il mio turno, non mi perdevo uno spettacolo. Fu lì, in quelle lunghe serate, che mi innamorai di questo genere teatrale...».
Insomma, possiamo dire che <WC1>la commedia musicale italiana è nata tra i banchi di una farmacia. <WC>Quella<WC1> farmacia <WC>che<WC1> rimaneva aperta tutta la notte<WC>, e che di notte<WC1> diventava il luogo d'incontro di gente come Flaiano, Age, Scarpelli, <WC>«<WC1>che passavano in farmacia a bere un bicchierino»<WC>.
<WC1>Si trattava di liquorini speciali, elisir a base di rabarbaro e china preparati prevalentemente dal fratello di Garinei<WC>.<WC1> Di giorno l'elisir funzionava regolarmente da tonico e lassativo<WC>,<WC1> di notte diventava bevanda da proibizionismo.
<WC>N<WC1>el retro di quella farmacia cominciarono a riunirsi artisti, letterati, giornalisti<WC>,<WC1> scrittori<WC>... C<WC1>ontatti e amicizie decisivi per la carriera del futuro commediografo<WC>, <WC1>che intanto aveva conosciuto quello che sarebbe diventato l'inseparabile compagno di tante avventure artistiche<WC>.
Ma ricordiamo ancora le parole di Garinei: «Nella tribuna stampa dello Stadio Flaminio conobbi Sandro Giovannini. Lui lavorava per il Corriere dello Sport, io per la Gazzetta. Fra i giornali c’era una grande rivalità, noi diventammo amici. Avevamo due amori in comune: la Roma e il teatro».
«All’inizio ci facevamo degli scherzi feroci. Una volta lui mi fece credere che era morto Muscletone, un cavallo molto famoso negli anni Trenta: io pubblicai la notizia e ovviamente non era vero nulla. Bella figura... Per la vendetta lasciai passare un po’ di tempo e un giorno riuscii a fargli arrivare un comunicato del Coni, contraffatto, in cui c’era scritto che un tal ciclista olandese aveva battuto il record mondiale dell’ora che apparteneva a Coppi. Lui passò la notizia e quella volta risi io...».
«Ma lo spettacolo era la nostra vera passione. Scrivemmo un testo, ”Sono le sette e tutto va bene”, che non fu mai rappresentato. C’era la guerra, e le sette era l’ora del coprifuoco. Finita la guerra rifondammo ”Cantachiaro”, un giornale satirico che era stato soppresso dai fascisti. E poi ne facemmo una rivista teatrale, con lo stesso titolo: debuttò il primo settembre del ’44, al Teatro Quattro Fontane. C’erano Anna Magnani, Marisa Merlini, Olga Villi...».
«Fummo accolti bene. E andò meglio l’anno dopo, con ”Cantachiaro n.2”, al Teatro Valle, sempre con la Magnani, ma anche con Gino Cervi, Aroldo Tieri, Ave Ninchi, un debuttante Raimondo Vianello che si faceva chiamare Raimondo Viani...».
«Insomma, era nata la ditta ”Garinei & Giovannini”. La prima volta che i nostri nomi campeggiavano solitari sulle locandine fu per lo spettacolo ”Soffia, so’”. C’era ancora la Magnani con noi, e il fatto che lei, donna straordinaria, non ci avesse lasciato era la prova del nostro successo».
Wanda Osiris. «Lavorare con lei rappresentò il passaggio dalla rivista satirica, con compagnie di otto, massimo dieci attori, alla grande rivista, che significava anche grandi compagnie. Con la Wandissima debuttammo con ”Si stava meglio domani”, doveva essere il ’46, e l’anno dopo facemmo anche ”Domani è sempre domenica”...».
La commedia musicale italiana. «Nacque dopo. Eravamo stanchi della rivista, sapevamo che in America era nata la musical comedy, cioè la commedia musicale, ed eravamo impazienti di andarla a vedere. Con Sandro facemmo una scommessa, su chi per primo sarebbe riuscito ad avere il visto e a volare oltreoceano. Vinsi io, sbarcai a New York e la sera stessa andai a vedere ”Guys and dolls” a Broadway. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi: Sandro, dobbiamo cambiare tutto... Avevo capito che c’era un altro modo di fare uno spettacolo musicale. E che era molto più accattivante, agile, divertente, adatto al grande pubblico».
La rivista. «Era un susseguirsi di immagini, senza una storia vera. Sì, c’era una trama, ma era leggera, quasi un pretesto per le immagini. Nella commedia musicale invece la storia c’era, ed era molto importante».
«Tornato in Italia cominciammo a lavorare alla prima commedia musicale del dopoguerra: ”Attanasio, cavallo vanesio”, con Renato Rascel e Lauretta Masiero. Musiche di Gorni Kramer. Debuttammo a Roma, nel ’52...».
Poi, Garinei spiegava perchè non amava il termine ”musical”: «Non mi piacciono i termini italiani, e ”musical” non è altro che la contrazione di ”musical comedy”, ovvero commedia musicale. Poi l’Italia oggi è abbastanza frequentata da spettacoli americani che si chiamano musical, quindi è bene che quelli italiani si chiamino commedia musicale: l’erede dell’operetta, la modernizzazione del melodramma...».
Un lampo di orgoglio negli occhi al ricordo delle tournèe all’estero: «In tutti questi anni i nostri spettacoli sono stati rappresentati in mezzo mondo. Ma vedere il nostro ”Rugantino” a Broadway, nel ’64, nella patria della ”musical comedy”, è stata davvero una soddisfazione impagabile: era come andare all’università del musical...».
Il forte legame di Garinei con Trieste - che nel ’96 gli conferì anche il Premio Operetta - è stato ricordato ieri anche dal sindaco Dipiazza: «Anche se a Trieste aveva vissuto solo pochi giorni, Garinei chiamava Trieste ”la mia città”. Legami rinsaldati dalla moglie triestina e da un amore verso questi luoghi in realtà mai nascosto».
È vero, i natali triestini li ricordava sempre, in ogni occasione. Anche cinque anni fa, quando gli amici più stretti lo festeggiarono al Sistina. E lui disse, con quel sorriso garbato: «Pensate, questo omaggio di Roma... va a uno che è nato a Trieste...».

domenica 7 maggio 2006

Anticipato dal singolo «Signor Tentenna», spietato ritratto di un uomo che non sa assumersi le sue responsabilità e coltiva ambizioni superiori alle proprie capacità, esce venerdì il nuovo album di Carmen Consoli. «Eva contro Eva» (titolo ispirato dal film del 1950 con Bette Davis) è un disco che ripropone lo stile originale della «cantantessa» catanese, che per l’occasione ha scritto una manciata di storie al femminile e di ritratti di personaggi tipici di una realtà provinciale.
E domani parte da Palermo il tour, che la porterà, attraverso un viaggio in autobus, in molte città italiane e capitali europee: Catania, Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano... Poi l’Europa: Madrid, Barcellona, Amsterdam, Berlino, Lussemburgo, Zurigo, Parigi, col gran finale dell’8 giugno a Londra.
Il disco (etichetta Universal) comincia con «Tutto su Eva», storia di un tradimento ma anche riflessione sul peccato originale. «Maria Catena» racconta di maldicenze e di una ragazza vittima delle calunnie dei suoi compaesani. Mentre la protagonista de «La dolce attesa» ha una gravidanza isterica causata dalla pressione sociale, anche qui della gente. «Piccolo Cesare» (il copyright va però riconosciuto a Giorgio Bocca...) è un’allegoria del potere nella quale non è difficile cogliere riferimenti a Berlusconi. «Fiori di campo» ricorda Peppino Impastato, il militante di Lotta Continua ucciso dalla mafia nel ’78. E poi «Sulle rive di Morfeo», ispirata dal «1984» di Orwell, con un Romeo e una Giulietta costretti a fuggire dalla gente. E ancora «Il sorriso di Atlantide», vista come città ideale, una sorta di «luogo dell’anima» dove si può sfuggire alle troppe aspettative che ognuno si trova addosso...
Carmen Consoli veste queste universali storie di provincia - una sorta di Spoon River siciliana - con una rinnovata sensibilità acustica, fra suoni etnici, con strumenti come mandolino, flicorno, banjo, bouzouki... Dopo anni di rock e suoni elettrici, l’artista sembra impegnata in una sorta di ritorno alle radici, alla sua terra, alla sua Sicilia. Confermandosi la miglior protagonista femminile della scena musicale italiana.
Cambiamo continente per parlare di due album accomunati da un esplicito attacco a Bush e alla guerra apparentemente senza fine in cui il presidente staunitense ha fatto sprofondare il mondo. Il primo è «Living with the war» (Warner), firmato da un grande vecchio che risponde al nome di Neil Young. Il musicista canadese (che dopo l’11 settembre in un primo momento aveva appoggiato Bush) in «Let’s impeach the president» canta fra l’altro: «Mettiamo sotto accusa il presidente, per aver mentito e aver portato il nostro paese in guerra...». Parole dure, forti, dirette. Che ritroviamo anche negli altri nove brani del disco, tutii centrati sul tema della libertà, della guerra, della speranza e della necessità di un cambiamento. Per l’America e per il mondo.
Sentimenti analoghi li troviamo in «All the roadrunning» (Mercury), il disco firmato dall’inglese Mark Knopfler (già Dire Straits) e l’americana Emmylou Harris (già musa del country rock). Suoni folk e country, con la chitarra di lui a far da splendido contraltare alla voce di lei. Suoni e parole di pace, in un mondo impegnato a far la guerra. «If this is goodbye» è ispirata a uno scritto del romanziere Ian McEwan sulle telefonate dalle Torri Gemelle, nei momenti drammatici dell’11 settembre. Il 3 giugno Knopfler e la Harris saranno in concerto all’Arena di Verona, unica tappa italiana del tour mondiale.


Sono passati tre anni e mezzo da «Riot act», e i <CF32>Pearl Jam</CF> ci mandano a dire che esistono ancora. E lottano insieme a noi. Il nuovo album si intitola semplicemente «Pearl Jam» (SonyBmg) e segna quasi un ritorno alle origini per la band di Seattle. Brani come «Life wasted», «Marker in the sand» o «World wide suicide» (già su singolo) sembrano la quintessenza del rock contemporaneo. Riff secchi, diretti, con la voce di Eddie Vedder più ispirata e rabbiosa che mai. Ma anche tentazioni soul e inaspettate aperture melodiche, come nella ballata «Come back». Un po’ alla maniera della scuola punk, che univa rabbia e melodia. «È nel sogno americano che sto smettendo di credere...», canta Vedder in «Gone». Appunto.
Ve li ricordate quei mattacchioni dei <CF32>Leningrad Cowboys</CF>? La band finlandese di culto degli anni Ottanta, grazie anche a un film, ritorna con un album intitolato «Zombies Paradise» (Rca SonyBmg). Continuano a prendersi gioco dei clichè, musicali e non, e si definiscono «la peggior rock’n’roll band del mondo». Fra le loro cover di questo disco: «manic monday», «My sharona», «What is love»... C’è anche «Happy together», vecchio brano dei Turtles, diventato nella loro versione un tormentone dello spot Vodafone.
Segnalazione francese, per concludere. Lei si chiama <CF32>Camille</CF>, era la cantante dei Nouvelle Vague. Al suo secondo album solista, intitolato «Le Fil» (Emi Virgin), si colloca a metà strada fra il pop d’oltralpe e la miglior musica leggera internazionale. Con l’eleganza di una Francoise Hardy di tanti anni fa e lo stile vocale che non ha nulla da invidiare alle attuali celebrate protagoniste del rock anglosassone, la ragazza sembra timida, defilata. Ma ha grinta e classe da vendere. Fra i brani: «Ta douleur», «Au port» e i tre capitoli di «Janine».


QUEEN A night at the opera» fu l’album che nel ’75 lanciò i Queen nell’olimpo dei grandi del rock. Il gruppo che fu di Freddie Mercury rivive in questi filmati attraverso le testimonianze di Brian May (nella foto), di Roger Taylor, di John Deacon, ma anche i commenti dei critici, dei discografici, dei colleghi... Della serie: dietro le quinte della realizzazione d’un capolavoro, fra storie, aneddoti, curiosità (come l’incontro del gruppo con Groucho Marx), piccoli segreti... Tutto sottotitolato in italiano, con l’aggiunta di godibili spezzoni dal vivo. Non mancano «Death on two legs», «Lazing on a sunday afternoon», «Sweet lady», ovviamente il capolavoro «Bohemian Rhapsody»...


MAGONI-SPINETTI Voce e contrabbasso. Per rileggere una manciata di successi di sempre. Due anni fa il primo volume ebbe successo soprattutto in Francia. Ora il secondo capitolo (altri due cd, per un totale di ventisette canzoni e una ghost track) sta dando ai due artisti le giuste soddisfazioni anche in patria. Si va da Brel a «Splendido splendente» della Rettore. Dai Beatles a «Like a virgin» di Madonna. Da Billy Joel a Ivan Graziani, da Elvis Costello al primo Giorgio Gaber, a una manciata di inediti. Ma proprio in questa apparentemente incredibile varietà di temi, stili e livelli, sta il grande fascino di questo lavoro.  


 

giovedì 4 maggio 2006

È considerato ormai a pieno titolo uno dei padri nobili della nostra canzone d’autore. E a cinquantacinque anni Ivano Fossati - il cui tour fa tappa stasera alle 21 al Deposito Giordani di Pordenone - sceglie di lasciare per una volta da parte le atmosfere intimiste, alle quali ci aveva abituati soprattutto dal vivo, per una sterzata rock che sorprenderà più d’uno. Abbandona i teatri e torna nei club. Lascia da parte persino il pianoforte a coda e «si accontenta» di un piccolo piano nero, che peraltro usa con parsimonia.
Voglia evidentemente di rimettersi in discussione, dopo trentacinque anni di carriera e tanta musica passata sotto i ponti. Era infatti il ’71, quando l’allora ventenne cantante e flautista genovese debutto nei suoi Delirium con l’album «Dolce acqua». Una vita e ventuno album dopo, il recente «L’arcangelo» lo ha confermato come una delle figure centrali della miglior musica italiana.
Dal vivo, in questo tour partito dieci giorni fa da Senigallia, in provincia di Ancona, e che con l’estate si trasferirà nelle piazze, l’artista propone solo quattro canzoni del nuovo album: «Ho sognato una strada», «Danny», «L’arcangelo» e ovviamente «Cara democrazia», ballata rock ma anche esortazione civile e atto d’accusa politico giunto quattordici anni dopo «La canzone popolare», che in questo spettacolo viene proposta fra i bis, «ma soltanto quando viene...».
Parole pesanti come macigni: «Cara democrazia, sono stato al tuo gioco anche quando il gioco si era fatto pesante, così mi sento tradito, o sono stato ingannato, mi sento come partito e non ancora approdato, sento un vuoto, sento un vuoto al mio fianco, e nessuna certezza messa nero su bianco...».
Parole che Fossati ha spiegato così: «Mi sono reso conto, leggendo anche i giornali stranieri, che c'è una preoccupazione in giro per il mondo. Quella dello svuotamento delle parole. Si fanno dei sensatissimi dibattiti tra persone serie, tra persone preoccupate, in Francia o in America, su questo svuotamento dall'interno della parola democrazia e della parola libertà».
«Sembra, e sottolineo sembra, che queste parole contengano meno di prima. C'è il timore che questi termini tanto sbandierati alla fine si riducano a un simulacro e poi contengano altro. Leggendo costantemente queste cose, mi è venuto in mente il testo. Mi sembrava naturale cantarlo, perché io sono fra quelli che si preoccupano. È una questione sovrannazionale e dunque ancora più grave».
Ancora l’artista genovese: «A me hanno insegnato che la democrazia è una cosa precisa. Ha dei limiti, non è un sistema perfetto, ma sappiamo che fino ad oggi è il migliore che siamo riusciti a inventare. Ha una figura non perfetta, ma precisa. Da Atene a noi non è cambiata. La grande preoccupazione degli ultimi anni - non so quanti, almeno venti - è che l'economia cambi dall'interno le regole della democrazia. E siccome questo è l'unico ombrello cui possiamo aggrapparci, io, insieme a molti milioni di altre persone, credo che vada difesa con più attenzione. ”Cara democrazia” parla di questo. È molto chiara...».
Nello spettacolo non mancano i classici di Ivano Fossati: da «Panama» a «La pianta del tè», da «Lindbergh» a quella «Smisurata preghiera» scritta a quattro mani con De Andrè. Non manca nemmeno un omaggio a Luigi Tenco, con l’appassionata «Ragazzo mio». Con Fossati, sul palco, Pietro Cantarelli (tastiere), Riccardo Galardini e Fabrizio Barale (chitarre), Daniele Mencarelli (basso), Mirko Guerrini (fiati e tastiere), Marco Fadda (percussioni) e il «figlio d’arte» Claudio Pascoli, alla batteria.