La corruzione, ai piccoli e ai grandi livelli, è uno dei mali apparentemente inestirpabili del nostro tempo. E ovviamente non si tratta di un problema solo italiano, alligna infatti sotto ogni latitudine. John Grisham ne ha fatto il fulcro del suo nuovo romanzo, intitolato “L’informatore” (nell’originale “The whistler”), edito in Italia da Mondadori (pagg. 332, euro 22).
Una giudice intasca mazzette con molti zeri da un’organizzazione mafiosa, proprietaria di un casinò costruito illegalmente su un terreno di proprietà dei nativi americani, gli indiani, insomma. In cambio della paghetta, la donna è abituata a chiudere un occhio sulle illegalità che l’organizzazione regolarmente pratica. E le sue sentenze finiscono sempre con l’avvantaggiare il gruppo criminale che la stipendia.
Ma c’è un avvocato radiato dall’albo che è tornato al lavoro sotto falso nome. Un giorno si presenta nello studio di un’investigatrice di una commissione deputata proprio a controllare la condotta dei giudici. Vuole infatti porre fine alla terribile teoria di corruzione e illegalità, condita quando occorre anche da omicidi, che dura da anni. Vuole farlo con l’aiuto di un informatore che sembra essere a conoscenza di parecchi particolari sulla vita privata della giudice. E visto che c’è, intende anche intascare il premio di legge, come previsto dallo stato della Florida. Ma la faccenda si rivelerà molto più pericolosa del previsto.
L’inventore del legal thriller, che ha costruito la sua fortuna letteraria anche attingendo agli anni ormai lontani trascorsi come avvocato nelle aule di tribunale, torna dunque alla carica con una di quelle storie cariche di adrenalina alle quali ci ha ormai abituati, sin dai tempi dell’esordio nel 1988 con “Il momento di uccidere”. Sono passati ventotto anni e anche il cinema ha pescato negli oltre trenta romanzi che ha scritto (compresi alcuni titoli per ragazzi), venduti in milioni di copie in tutto il mondo.
“L’informatore” s’iscrive nella miglior tradizione della casa. Assieme ai precedenti “I segreti di Gray Mountain” (2014) e “L’avvocato canaglia” (2015), il romanzo riporta Grisham ai livelli che conoscevamo. Niente di più facile che Hollywood stia già pensando a una trasposizione cinematografica.
...sogni e bisogni fra musica e spettacolo, cultura e politica, varie ed eventuali... (blog-archivio di articoli pubblicati + altre cose) (già su splinder da maggio 2003 a gennaio 2012, oltre 11mila visualizzazioni) (altre 86mila visualizzazioni a oggi su blogspot...) (twitter@carlomuscatello)
sabato 31 dicembre 2016
martedì 27 dicembre 2016
ANNUS HORRIBILIS DA BOWIE A GMICHAEL
Quasi un bollettino di guerra, questo 2016, per il mondo del pop e del rock. David Bowie scompare ai primi di gennaio, ha sessantanove anni, è appena uscito il suo album “Blackstar”, con il senno di poi un vero e proprio testamento.
Sempre a gennaio altri due addii importanti: Glenn Frey, chitarrista degli Eagles, sessantotto anni, e Paul Kantner, dei Jefferson Airplane, settantaquattro anni. A febbraio scompare a settantaquattro anni Maurice White, degli Earth Wind & Fire.
Siamo a marzo, a novant’anni se ne va George Martin, produttore dei Beatles, al punto da essere chiamato “il quinto Beatle”. A ruota muore Keith Emerson, suicida a settantuno anni per una depressione seguita a una malattia che non gli permette più di suonare, celebre tastierista del trio con Lake e Palmer. Passano nove mesi e ai primi di dicembre scompare anche Greg Lake, sessantanove anni, un passato anche con i primissimi King Crimson. Ma marzo è anche il mese che si porta via Gianmaria Testa, il cantautore capostazione, piemontese amatissimo - sulle orme di Paolo Conte - soprattutto in Francia. Ha cinquantasette anni.
Aprile è il mese di Prince, genietto di Minneapolis, la cui stella ha brillato soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Ha cinquantotto anni. Un suo splendido (e struggente) brano s’intitolava “Sometimes it snows in april”, a volte nevica ad aprile...
Sempre ad aprile tace il sax di Gato Barbieri, argentino, ottantaquattro anni, celebre fra l’altro per la colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi” e, in Italia, per un sontuoso assolo in “Modena” di Venditti.
A novembre muore Leon Russell, settantaquattro anni, americano dell’Oklahoma, pianista che ha collaborato con mezzo mondo. E in particolare con Joe Cocker nel tour “Mad dogs & englishmen”. E se ne va anche Leonard Cohen, il grande poeta, romanziere e cantautore canadese. Ha ottantadue anni, ha appena pubblicato l’album “You want it darker”, pervaso da presagi di morte. Pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, muore Rick Parfitt, chitarrista degli Status Quo.
Sempre a gennaio altri due addii importanti: Glenn Frey, chitarrista degli Eagles, sessantotto anni, e Paul Kantner, dei Jefferson Airplane, settantaquattro anni. A febbraio scompare a settantaquattro anni Maurice White, degli Earth Wind & Fire.
Siamo a marzo, a novant’anni se ne va George Martin, produttore dei Beatles, al punto da essere chiamato “il quinto Beatle”. A ruota muore Keith Emerson, suicida a settantuno anni per una depressione seguita a una malattia che non gli permette più di suonare, celebre tastierista del trio con Lake e Palmer. Passano nove mesi e ai primi di dicembre scompare anche Greg Lake, sessantanove anni, un passato anche con i primissimi King Crimson. Ma marzo è anche il mese che si porta via Gianmaria Testa, il cantautore capostazione, piemontese amatissimo - sulle orme di Paolo Conte - soprattutto in Francia. Ha cinquantasette anni.
Aprile è il mese di Prince, genietto di Minneapolis, la cui stella ha brillato soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Ha cinquantotto anni. Un suo splendido (e struggente) brano s’intitolava “Sometimes it snows in april”, a volte nevica ad aprile...
Sempre ad aprile tace il sax di Gato Barbieri, argentino, ottantaquattro anni, celebre fra l’altro per la colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi” e, in Italia, per un sontuoso assolo in “Modena” di Venditti.
A novembre muore Leon Russell, settantaquattro anni, americano dell’Oklahoma, pianista che ha collaborato con mezzo mondo. E in particolare con Joe Cocker nel tour “Mad dogs & englishmen”. E se ne va anche Leonard Cohen, il grande poeta, romanziere e cantautore canadese. Ha ottantadue anni, ha appena pubblicato l’album “You want it darker”, pervaso da presagi di morte. Pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, muore Rick Parfitt, chitarrista degli Status Quo.
L'ADDIO A GEORGE MICHAEL
L’annus horribilis della musica si è portato via anche George Michael. La popstar inglese è morta il giorno di Natale. Arresto cardiaco mentre si trovava nella sua dimora londinese. Il suo vero “Last Christmas”, insomma, come il mondo dei social ha subito rilanciato ieri mattina, citando quello che era stato il suo più grande successo ai tempi degli Wham! Erano gli anni Ottanta. La carriera del duo più patinato della storia del pop durò appena cinque anni, dal 1981 al 1986. Sufficienti a lasciare un segno indelebile nella memoria musicale che abbiamo di quel periodo.
George Michael - vero nome Georgios Kyriacos Panayiotou, classe ’63, padre di origine greco cipriota - e il suo sodale Andrew Ridgeley, entrambi eleganti e bellocci, scelgono il nome ispirandosi a quelle tipiche onomatopee utilizzate nei fumetti (bang, slam, slurp...). Per un breve periodo, agli inizi, sono anche costretti a farsi chiamare - perlomeno negli Stati Uniti - “Wham! U.K.”, per non confondersi con un’altra band omonima e di precedente formazione che era abbastanza nota nel continente a stelle e strisce.
In una scena musicale stretta fra retaggi punk, cascami new wave e vecchio sano solido rock’n’roll (dall’altra parte dell’oceano le quotazioni di un certo Bruce Springsteen stavano infatti crescendo a vista d’occhio...), i giovanissimi George e Andrew si impongono come dorati testimonial di una vita spensierata, senza problemi, incline al divertimento. I campioni musicali, insomma, di quell’”edonismo reaganiano” raccontato negli stessi anni in Italia da Roberto D’Agostino a “Quelli della notte”. Ascoltare e vedere per credere i primi singoli con relativi videoclip del duo: “Careless whisper”, la citata “Last Christmas”, “Wake me up before you go-go”...
Nella loro breve carriera gli Wham! realizzano quattro album (“Fantastic”, “Make it big”, “Music from the edge of heaven”, “The final”), cui segue una decina d’anni dopo lo scioglimento “If you were there (The best of Wham!)”. Ma i materiali audio e video anche non ufficiali sono tantissimi. Ne abbiamo avuto testimonianza l’estate scorsa in una mostra al Visionario di Udine.
Fra l’altro, nell’aprile dell’85 gli Wham! sono il primo gruppo pop-rock occidentale a suonare nella Cina comunista. Due concerti, a Pechino e a Canton, in un momento in cui il Paese è ancora molto chiuso all’esterno e i due sono all’apice del successo.
Il megaconcerto “The final”, allo stadio di Wembley, nel giugno ’86 chiude col botto la carriera del duo. Soffocato dall’ego proprio di George Michael, impaziente di abbracciare una carriera solista che gli avrebbe portato altrettanti e forse ancor maggiori trionfi.
Da un lato la sua voce straordinaria, aggressiva e suadente, dall’altro una vita quasi “borderline”, vissuta di eccesso in eccesso, fra droga, guida in stato di ebbrezza, arresti, condanne, omosessualità prima nascosta e poi vissuta in maniera spericolata. Il coming out arriva solo nel ’98, quando viene accusato di atti osceni per delle avance a un poliziotto in borghese in un bagno di Beverly Hills. Per i tabloid è ovviamente un invito a nozze.
Soprattutto prima ma anche durante, i tour e gli album milionari si sprecano. Come “Faith” (’87), “Listen without prejudice Vol. 1” (’90), “Older” (’96), “Songs from the last century” (’99), fino a “Patience” del 2004. E senza contare le raccolte e i “live”.
Gli ultimi anni li trascorre più defilato. Nel 2011 a Vienna rischia la vita per una polmonite, si rimette in tempo per l’ultimo tour e la performance alla chiusura delle Olimpiadi londinesi del 2012. Poi l’addio, il giorno di Natale. Last Christmas, appunto.
George Michael - vero nome Georgios Kyriacos Panayiotou, classe ’63, padre di origine greco cipriota - e il suo sodale Andrew Ridgeley, entrambi eleganti e bellocci, scelgono il nome ispirandosi a quelle tipiche onomatopee utilizzate nei fumetti (bang, slam, slurp...). Per un breve periodo, agli inizi, sono anche costretti a farsi chiamare - perlomeno negli Stati Uniti - “Wham! U.K.”, per non confondersi con un’altra band omonima e di precedente formazione che era abbastanza nota nel continente a stelle e strisce.
In una scena musicale stretta fra retaggi punk, cascami new wave e vecchio sano solido rock’n’roll (dall’altra parte dell’oceano le quotazioni di un certo Bruce Springsteen stavano infatti crescendo a vista d’occhio...), i giovanissimi George e Andrew si impongono come dorati testimonial di una vita spensierata, senza problemi, incline al divertimento. I campioni musicali, insomma, di quell’”edonismo reaganiano” raccontato negli stessi anni in Italia da Roberto D’Agostino a “Quelli della notte”. Ascoltare e vedere per credere i primi singoli con relativi videoclip del duo: “Careless whisper”, la citata “Last Christmas”, “Wake me up before you go-go”...
Nella loro breve carriera gli Wham! realizzano quattro album (“Fantastic”, “Make it big”, “Music from the edge of heaven”, “The final”), cui segue una decina d’anni dopo lo scioglimento “If you were there (The best of Wham!)”. Ma i materiali audio e video anche non ufficiali sono tantissimi. Ne abbiamo avuto testimonianza l’estate scorsa in una mostra al Visionario di Udine.
Fra l’altro, nell’aprile dell’85 gli Wham! sono il primo gruppo pop-rock occidentale a suonare nella Cina comunista. Due concerti, a Pechino e a Canton, in un momento in cui il Paese è ancora molto chiuso all’esterno e i due sono all’apice del successo.
Il megaconcerto “The final”, allo stadio di Wembley, nel giugno ’86 chiude col botto la carriera del duo. Soffocato dall’ego proprio di George Michael, impaziente di abbracciare una carriera solista che gli avrebbe portato altrettanti e forse ancor maggiori trionfi.
Da un lato la sua voce straordinaria, aggressiva e suadente, dall’altro una vita quasi “borderline”, vissuta di eccesso in eccesso, fra droga, guida in stato di ebbrezza, arresti, condanne, omosessualità prima nascosta e poi vissuta in maniera spericolata. Il coming out arriva solo nel ’98, quando viene accusato di atti osceni per delle avance a un poliziotto in borghese in un bagno di Beverly Hills. Per i tabloid è ovviamente un invito a nozze.
Soprattutto prima ma anche durante, i tour e gli album milionari si sprecano. Come “Faith” (’87), “Listen without prejudice Vol. 1” (’90), “Older” (’96), “Songs from the last century” (’99), fino a “Patience” del 2004. E senza contare le raccolte e i “live”.
Gli ultimi anni li trascorre più defilato. Nel 2011 a Vienna rischia la vita per una polmonite, si rimette in tempo per l’ultimo tour e la performance alla chiusura delle Olimpiadi londinesi del 2012. Poi l’addio, il giorno di Natale. Last Christmas, appunto.
giovedì 22 dicembre 2016
FIENGO, NEL "CUORE DEL POTERE"
Dalle “interferenze” - per restare all’eufemismo - della P2 a quelle più sottili del marketing. Con tutto quello che c’è stato prima e ci sarà dopo. È la storia recente del Corriere della Sera, raccontata con gli occhi - e la memoria - di Raffaele Fiengo, che per tanti anni ne è stato giornalista e sindacalista. Sempre dalla parte della redazione e dunque dei lettori, dell’indipendenza della testata, dell’autonomia dai poteri forti e meno forti. Un lungo lavoro di ricerca ha prodotto “Il cuore del potere” (pagg. 393, euro 19, edizioni Chiare Lettere). Sorta di biografia “non autorizzata” dei decenni recenti del Corrierone, nato nel 1876.
De Bortoli diceva che il Corriere è “istituzione di garanzia del Paese”. È d’accordo?
«La definizione ha il suo fascino. Ma ha sempre indicato più un orizzonte che una realtà. Anche se nemmeno la P2 è riuscita a espugnare il giornale. Ha preso addirittura la proprietà, l’amministrazione, la direzione con Franco Di Bella. È riuscita a inquinare, a porre delle basi per un progetto: non un golpe, ma il controllo capillare del Paese. Ma non ha saputo e potuto occupare davvero il giornale».
Quando si accorse che la P2 era entrata in via Solferino?
«Le anomalie crescenti si erano presentate un po’ alla volta, nella proprietà e nel giornale stesso. Ma non c’erano elementi per pensare addirittura a una proprietà occulta organizzata. È stato un processo lento, durato quattro anni. Poi Gelli venne allo scoperto con la famosa intervista di Maurizio Costanzo in terza pagina, nell’ottobre 1980. Ma solo con la pubblicazione della lista del 21 maggio 1981, con i 793 nomi degli iscritti trovata a Castiglion Fibocchi, emerse la verità».
Lei è entrato al Corriere nel ’69. Che giornale era?
«Sono arrivato in terza pagina poco prima delle bombe di piazza Fontana. Redazione imbalsamata in modalità di lavoro autoritarie e fuori dal tempo. Ogni redattore “passava” la notizia che gli veniva affidata senza alzare nemmeno lo sguardo dal tavolone della Sala Albertini, costruito come copia di quello del “Times” di Londra. I redattori apprendevano i fatti che venivano pubblicati il giorno dopo nelle altre pagine soltanto dalla prima copia che arrivava dopo la mezzanotte, fresca di stampa dalla tipografia».
La chiamavano il “Soviet di via Solferino”...
«Ci ridevamo sopra. Guido Azzolini, compagno di stanza, cucì una stella rossa di stoffa sul mio berretto alla Lenin. E Paolo Murialdi, storico del giornalismo, da Mosca mi mandò una cartolina con Lenin scrivendo: “stesso cappello, ma che testa diversa”».
Il miglior direttore che ha avuto?
«Sono tre. Alexander Stille (che firma la prefazione del libro - ndr): “Il Corriere della Sera è un quotidiano indipendente con una chiara vocazione europea, libero da ogni condizionamento politico ed economico, sia esterno che interno”; Piero Ottone: “Informare significa, oltre che riferire gli avvenimenti, esplorarne le cause più profonde, indagare sui retroscena, non nascondere nulla”; Alberto Cavallari: “Dobbiamo deve fare un giornale libero, garantire l’informazione più completa, cercare poi la cosiddetta verità possibile, registrare la dialettica tra molte verità per tentare di raggiungere la verità stessa, o almeno la non-menzogna"».
Il recente arrivo di Urbano Cairo?
«È un editore. Capirà che occorrono più giornalisti, e non meno, per superare la forte tendenza alla gratuità in chi legge? Capirà che una vera indipendenza come quella proposta da Luigi Einaudi è il migliore fattore della qualità, anche sul mercato? Lo vedremo presto»
Il rapporto fra marketing e informazione?
«Un forte marketing ha mantenuto un po’ in piedi molti bilanci. Sono diventate “notiziabili” informazioni che prima non lo erano, soprattutto nel weekend. Anche la pubblicità diventa “nativa” e fa contenuti anzichè propaganda. Tutto bene, a condizione che resti anche su questi terreni #journalismfirst, il giornalismo per prima cosa».
Web: tutto oro quel che brilla?
«Mi piace l’allargamento dell’informazione che non si ferma alle élite, con internet, facebook, twitter e instagram, il giornalismo che arriva a tutti. Ma “l’acqua deve raggiungere anche l’ultimo campo di riso” chiara e pulita. Chiudo il libro proprio con una bella regola dell’isola di Bali».
Ce la ricorda?
«Nei villaggi di montagna, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell’ultimo campo a terrazza raggiunto dall’acqua. Questa organizzazione della comunità (il “Subak”) funziona bene e assicura due raccolti l’anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all’aperto, scolmatoi), perché l’acqua possa compiere l’intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi a irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti».
Che nel giornalismo significa?
«Che questo risultato lo può ottenere solo il giornalismo tutelato e responsabilizzato, dovunque sia. Dunque anche il giornalismo dei blog, dei freelance, dei colleghi precari. La questione è molto urgente. Altrimenti abbiamo Brexit e Trump. Per ora».
De Bortoli diceva che il Corriere è “istituzione di garanzia del Paese”. È d’accordo?
«La definizione ha il suo fascino. Ma ha sempre indicato più un orizzonte che una realtà. Anche se nemmeno la P2 è riuscita a espugnare il giornale. Ha preso addirittura la proprietà, l’amministrazione, la direzione con Franco Di Bella. È riuscita a inquinare, a porre delle basi per un progetto: non un golpe, ma il controllo capillare del Paese. Ma non ha saputo e potuto occupare davvero il giornale».
Quando si accorse che la P2 era entrata in via Solferino?
«Le anomalie crescenti si erano presentate un po’ alla volta, nella proprietà e nel giornale stesso. Ma non c’erano elementi per pensare addirittura a una proprietà occulta organizzata. È stato un processo lento, durato quattro anni. Poi Gelli venne allo scoperto con la famosa intervista di Maurizio Costanzo in terza pagina, nell’ottobre 1980. Ma solo con la pubblicazione della lista del 21 maggio 1981, con i 793 nomi degli iscritti trovata a Castiglion Fibocchi, emerse la verità».
Lei è entrato al Corriere nel ’69. Che giornale era?
«Sono arrivato in terza pagina poco prima delle bombe di piazza Fontana. Redazione imbalsamata in modalità di lavoro autoritarie e fuori dal tempo. Ogni redattore “passava” la notizia che gli veniva affidata senza alzare nemmeno lo sguardo dal tavolone della Sala Albertini, costruito come copia di quello del “Times” di Londra. I redattori apprendevano i fatti che venivano pubblicati il giorno dopo nelle altre pagine soltanto dalla prima copia che arrivava dopo la mezzanotte, fresca di stampa dalla tipografia».
La chiamavano il “Soviet di via Solferino”...
«Ci ridevamo sopra. Guido Azzolini, compagno di stanza, cucì una stella rossa di stoffa sul mio berretto alla Lenin. E Paolo Murialdi, storico del giornalismo, da Mosca mi mandò una cartolina con Lenin scrivendo: “stesso cappello, ma che testa diversa”».
Il miglior direttore che ha avuto?
«Sono tre. Alexander Stille (che firma la prefazione del libro - ndr): “Il Corriere della Sera è un quotidiano indipendente con una chiara vocazione europea, libero da ogni condizionamento politico ed economico, sia esterno che interno”; Piero Ottone: “Informare significa, oltre che riferire gli avvenimenti, esplorarne le cause più profonde, indagare sui retroscena, non nascondere nulla”; Alberto Cavallari: “Dobbiamo deve fare un giornale libero, garantire l’informazione più completa, cercare poi la cosiddetta verità possibile, registrare la dialettica tra molte verità per tentare di raggiungere la verità stessa, o almeno la non-menzogna"».
Il recente arrivo di Urbano Cairo?
«È un editore. Capirà che occorrono più giornalisti, e non meno, per superare la forte tendenza alla gratuità in chi legge? Capirà che una vera indipendenza come quella proposta da Luigi Einaudi è il migliore fattore della qualità, anche sul mercato? Lo vedremo presto»
Il rapporto fra marketing e informazione?
«Un forte marketing ha mantenuto un po’ in piedi molti bilanci. Sono diventate “notiziabili” informazioni che prima non lo erano, soprattutto nel weekend. Anche la pubblicità diventa “nativa” e fa contenuti anzichè propaganda. Tutto bene, a condizione che resti anche su questi terreni #journalismfirst, il giornalismo per prima cosa».
Web: tutto oro quel che brilla?
«Mi piace l’allargamento dell’informazione che non si ferma alle élite, con internet, facebook, twitter e instagram, il giornalismo che arriva a tutti. Ma “l’acqua deve raggiungere anche l’ultimo campo di riso” chiara e pulita. Chiudo il libro proprio con una bella regola dell’isola di Bali».
Ce la ricorda?
«Nei villaggi di montagna, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell’ultimo campo a terrazza raggiunto dall’acqua. Questa organizzazione della comunità (il “Subak”) funziona bene e assicura due raccolti l’anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all’aperto, scolmatoi), perché l’acqua possa compiere l’intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi a irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti».
Che nel giornalismo significa?
«Che questo risultato lo può ottenere solo il giornalismo tutelato e responsabilizzato, dovunque sia. Dunque anche il giornalismo dei blog, dei freelance, dei colleghi precari. La questione è molto urgente. Altrimenti abbiamo Brexit e Trump. Per ora».
lunedì 12 dicembre 2016
CORRADO RUSTICI stasera A UDINE
Quando nel ’75 ha lasciato Napoli aveva diciotto anni. Prima tappa Londra, poi il salto oltreoceano: Colorado, Los Angeles, San Francisco. Dove vive tuttora. E nel frattempo è diventato uno dei più importanti produttori discografici internazionali. Ha lavorato fra gli altri con Herbie Hancock, Whitney Houston, Aretha Franklin, George Benson, Elton John. Fra gli italiani: Zucchero, De Gregori, Baglioni, Ligabue, Bocelli, Elisa, Negramaro...
Corrado Rustici è stasera a Udine, dove alle 21, al Palamostre, fa tappa il tour di presentazione del suo album “Aham”. Con lui sul palco due ex Simple Minds: Peter Vettese alle tastiere (anche con Jethro Tull, Annie Lennox, Carly Simon, Clannad) e Mel Gaynor alla batteria (Elton John, Lou Reed, Tina Turner, Peter Gabriel, Brian May). Apre il concerto un set acustico del giovanissimo talento chitarristico croato, Frano Zivkovic, appena undici anni, pupillo di Tommy Emmanuel.
“Aham” in sanscrito significa “Io sono”: e lei, Rustici, chi è oggi?
«Partendo da questa parola ho cominciato a indagare, seriamente e profondamente, sulla natura del mio essere e, di conseguenza, sull’essenzialità di ciò che percepisco come “musica”. È un percorso complesso, ancora non ultimato, per giungere al senso di tutto».
L’album?
«Ci ho lavorato sei anni. Quando ho cominciato ho deciso di esplorare sonorità e contesti musicali avvalendomi della chitarra come unica fonte sonora e come unico campo di sperimentazione, nel quale scoprire fino a che punto questo strumento, e io stesso, saremmo potuti arrivare. Due brani cantati, gli altri sono strumentali».
Perchè lasciò l’Italia?
«Con il gruppo Il Cervello avevamo fatto un album che non aveva avuto alcun riscontro, c’era il pop italiano, il “neapolitan power”, mio fratello Danilo suonava negli Osanna. Mi rendevo conto che l’Italia era periferia musicale, volevo capire, conoscere. Londra fu il primo passo, ma il vero salto furono gli Stati Uniti: all’epoca era come dire “andiamo su Marte”, mi sentivo un po’ Cristoforo Colombo, c’erano molte difficoltà, non ci si spostava e non si comunicava mica come adesso».
L’incontro fondamentale?
«Quello con Aretha Franklin, mi ha cambiato la vita. Prima di lei la musica era diversa, lavorando con lei ho imparato tantissimo».
Poi vennero a cercarla gli italiani.
«Il primo fu Zucchero. La sua carriera non ingranava. Venne a Los Angeles, gli misi a disposizione quel che avevo imparato, scoprimmo assieme che potevamo proporre un sound internazionale che aveva una marcia in più. Poi col passaparola arrivarono gli altri: diciamo che sono diventato un ponticello di legno fra Italia e Stati Uniti. In tempi di muri non mi sembra male...».
Fra i tanti, anche Elisa.
«Me la mandò Caterina Caselli, era giovanissima, rimase sei mesi in California. Il suo album d’esordio è nato lì, poi è successo tutto il resto. Le sono molto affezionato».
Ora che farà?
«Con le megaproduzioni sono fermo. Viviamo un momento di buio epocale, di riciclaggio continuo, nel quale il copia-incolla vuol diventare creazione. Al punto in cui sono arrivato faccio le cose per affetto o perchè ci credo. Per questo mi sono un po’ fermato, mi dedico a mio figlio che ha quattro anni, a questo album e poi...»
Dica.
«A luglio andiamo a Tokyo con i vecchi ragazzi del Cervello. Come tanto “prog” italiano degli anni Settanta, abbiamo scoperto che il nostro album lì è molto amato. Incredibile, non trova?»
Corrado Rustici è stasera a Udine, dove alle 21, al Palamostre, fa tappa il tour di presentazione del suo album “Aham”. Con lui sul palco due ex Simple Minds: Peter Vettese alle tastiere (anche con Jethro Tull, Annie Lennox, Carly Simon, Clannad) e Mel Gaynor alla batteria (Elton John, Lou Reed, Tina Turner, Peter Gabriel, Brian May). Apre il concerto un set acustico del giovanissimo talento chitarristico croato, Frano Zivkovic, appena undici anni, pupillo di Tommy Emmanuel.
“Aham” in sanscrito significa “Io sono”: e lei, Rustici, chi è oggi?
«Partendo da questa parola ho cominciato a indagare, seriamente e profondamente, sulla natura del mio essere e, di conseguenza, sull’essenzialità di ciò che percepisco come “musica”. È un percorso complesso, ancora non ultimato, per giungere al senso di tutto».
L’album?
«Ci ho lavorato sei anni. Quando ho cominciato ho deciso di esplorare sonorità e contesti musicali avvalendomi della chitarra come unica fonte sonora e come unico campo di sperimentazione, nel quale scoprire fino a che punto questo strumento, e io stesso, saremmo potuti arrivare. Due brani cantati, gli altri sono strumentali».
Perchè lasciò l’Italia?
«Con il gruppo Il Cervello avevamo fatto un album che non aveva avuto alcun riscontro, c’era il pop italiano, il “neapolitan power”, mio fratello Danilo suonava negli Osanna. Mi rendevo conto che l’Italia era periferia musicale, volevo capire, conoscere. Londra fu il primo passo, ma il vero salto furono gli Stati Uniti: all’epoca era come dire “andiamo su Marte”, mi sentivo un po’ Cristoforo Colombo, c’erano molte difficoltà, non ci si spostava e non si comunicava mica come adesso».
L’incontro fondamentale?
«Quello con Aretha Franklin, mi ha cambiato la vita. Prima di lei la musica era diversa, lavorando con lei ho imparato tantissimo».
Poi vennero a cercarla gli italiani.
«Il primo fu Zucchero. La sua carriera non ingranava. Venne a Los Angeles, gli misi a disposizione quel che avevo imparato, scoprimmo assieme che potevamo proporre un sound internazionale che aveva una marcia in più. Poi col passaparola arrivarono gli altri: diciamo che sono diventato un ponticello di legno fra Italia e Stati Uniti. In tempi di muri non mi sembra male...».
Fra i tanti, anche Elisa.
«Me la mandò Caterina Caselli, era giovanissima, rimase sei mesi in California. Il suo album d’esordio è nato lì, poi è successo tutto il resto. Le sono molto affezionato».
Ora che farà?
«Con le megaproduzioni sono fermo. Viviamo un momento di buio epocale, di riciclaggio continuo, nel quale il copia-incolla vuol diventare creazione. Al punto in cui sono arrivato faccio le cose per affetto o perchè ci credo. Per questo mi sono un po’ fermato, mi dedico a mio figlio che ha quattro anni, a questo album e poi...»
Dica.
«A luglio andiamo a Tokyo con i vecchi ragazzi del Cervello. Come tanto “prog” italiano degli anni Settanta, abbiamo scoperto che il nostro album lì è molto amato. Incredibile, non trova?»
sabato 10 dicembre 2016
DON'T STOP THE PRESS, sab 10-12 a TRIESTE
Sabato 10 dicembre si terrà a Trieste "Don’t stop the press", iniziativa organizzata per celebrare la Giornata mondiale dei diritti umani dal gruppo Friuli Venezia Giulia del Comitato Giovani della Commissione nazionale italiana per l'Unesco e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste.
Il dibattito si terrà al Caffè Tommaseo sabato dalle 11 alle 13. I relatori – esperti in materia di libertà di stampa, libertà di espressione e di diritti umani – accompagneranno il pubblico alla scoperta di quanto ancora non si conosce, o si conosce poco, relativamente a questo argomento.
Aprirà la giornata Roberto Vitale, professore dell'Università di Trieste, con una relazione su "Diritti Umani, dalla censura alla nuova frontiera dell’informazione". Seguirà Carlo Muscatello, giornalista del quotidiano Il Piccolo e presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia, che parlerà della "Libertà di informazione oggi in Italia, fra carcere per i giornalisti, leggi bavaglio, querele temerarie e giornalisti sotto scorta". Il terzo intervento sarà a cura di Fiodor Nicola Misuri, responsabile circoscrizionale per Amnesty International Friuli Venezia Giulia, il quale creerà un percorso a partire dagli "Human Rights Defenders", passando per una campagna di Amnesty International e terminerà con i casi della Write for Rights 2016.
"Don’t stop the press" si inquadra nell’ambito dei diversi eventi che, in tutta Italia, il Comitato Giovani Unesco ha organizzato per celebrare la Giornata mondiale dei diritti umani, in modo capillare e coordinato, su tutto il territorio nazionale.
«Crediamo che i valori e gli ideali alla base di questa importante iniziativa internazionale, debbano essere promossi anche e soprattutto tra i giovani. Quest’anno abbiamo deciso di affrontare, all’interno della Giornata, il tema particolarmente attuale della libertà di stampa e di espressione». commenta Paolo Petrocelli, presidente del Comitato Giovani.
«Siamo infatti convinti che attraverso l’educazione al confronto e l’accesso diretto alla cultura e all’informazione, si possano formare giovani responsabili più consapevoli dei propri diritti e di quelli degli altri. In questo senso, la Giornata mondiale rappresenta un’importante occasione per favorire questo dibattito in tutto il Paese».
Unesco Giovani promuove l'evento anche sui canali social ufficiali (pagina Facebook, Twitter e Instagram) tramite gli hashtag #UNESCOgiovani, #HumanRightsDay, #Standup4HumanRights, creati appositamente per la giornata.
Previsto anche un contest fotografico su Instagram: per partecipare basta postare un’immagine che esprima il concetto di libertà di stampa e di espressione seguito dagli hashtag della giornata internazionale e @unescogiovani.
giovedì 1 dicembre 2016
JAMES SENESE E "ROSSINTESTA" A CERVIGNANO
La napoletanità verace del “nero a metà” James Senese, l’arte per canzone del compianto Gianmaria Testa riletta da Paolo Rossi. È davvero un’accoppiata musicale di prim’ordine, quella che il Teatro Pasolini di Cervignano propone nel fine settimana. Domani alle 21 si comincia con il fondatore della storica band Napoli Centrale, riunita attorno al leader per rileggere quarant’anni dopo quella musica nera che seppe animare la scena partenopea con brani come “Campagna”. Senese, a lungo collaboratore di Pino Daniele, fra i padri del “neapolitan power”, ha appena vinto una Targa Tenco con l’album “’O sanghe”. È un sassofonista di prim’ordine, figlio di una donna napoletana e di un soldato americano. Il piemontese delle Langhe Gianmaria Testa è scomparso a marzo. Il monfalconese di nascita Paolo Rossi gli rende omaggio con il concerto spettacolo “RossinTesta”, che arriva a Cervignano sabato alle 21. Con lui, sul palco, Emanuele Dell’Aquila alla chitarra e i Virtuosi del Carso. Info www.teatropasolini.it
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