Quando nel ’75 ha lasciato Napoli aveva diciotto anni. Prima tappa Londra, poi il salto oltreoceano: Colorado, Los Angeles, San Francisco. Dove vive tuttora. E nel frattempo è diventato uno dei più importanti produttori discografici internazionali. Ha lavorato fra gli altri con Herbie Hancock, Whitney Houston, Aretha Franklin, George Benson, Elton John. Fra gli italiani: Zucchero, De Gregori, Baglioni, Ligabue, Bocelli, Elisa, Negramaro...
Corrado Rustici è stasera a Udine, dove alle 21, al Palamostre, fa tappa il tour di presentazione del suo album “Aham”. Con lui sul palco due ex Simple Minds: Peter Vettese alle tastiere (anche con Jethro Tull, Annie Lennox, Carly Simon, Clannad) e Mel Gaynor alla batteria (Elton John, Lou Reed, Tina Turner, Peter Gabriel, Brian May). Apre il concerto un set acustico del giovanissimo talento chitarristico croato, Frano Zivkovic, appena undici anni, pupillo di Tommy Emmanuel.
“Aham” in sanscrito significa “Io sono”: e lei, Rustici, chi è oggi?
«Partendo da questa parola ho cominciato a indagare, seriamente e profondamente, sulla natura del mio essere e, di conseguenza, sull’essenzialità di ciò che percepisco come “musica”. È un percorso complesso, ancora non ultimato, per giungere al senso di tutto».
L’album?
«Ci ho lavorato sei anni. Quando ho cominciato ho deciso di esplorare sonorità e contesti musicali avvalendomi della chitarra come unica fonte sonora e come unico campo di sperimentazione, nel quale scoprire fino a che punto questo strumento, e io stesso, saremmo potuti arrivare. Due brani cantati, gli altri sono strumentali».
Perchè lasciò l’Italia?
«Con il gruppo Il Cervello avevamo fatto un album che non aveva avuto alcun riscontro, c’era il pop italiano, il “neapolitan power”, mio fratello Danilo suonava negli Osanna. Mi rendevo conto che l’Italia era periferia musicale, volevo capire, conoscere. Londra fu il primo passo, ma il vero salto furono gli Stati Uniti: all’epoca era come dire “andiamo su Marte”, mi sentivo un po’ Cristoforo Colombo, c’erano molte difficoltà, non ci si spostava e non si comunicava mica come adesso».
L’incontro fondamentale?
«Quello con Aretha Franklin, mi ha cambiato la vita. Prima di lei la musica era diversa, lavorando con lei ho imparato tantissimo».
Poi vennero a cercarla gli italiani.
«Il primo fu Zucchero. La sua carriera non ingranava. Venne a Los Angeles, gli misi a disposizione quel che avevo imparato, scoprimmo assieme che potevamo proporre un sound internazionale che aveva una marcia in più. Poi col passaparola arrivarono gli altri: diciamo che sono diventato un ponticello di legno fra Italia e Stati Uniti. In tempi di muri non mi sembra male...».
Fra i tanti, anche Elisa.
«Me la mandò Caterina Caselli, era giovanissima, rimase sei mesi in California. Il suo album d’esordio è nato lì, poi è successo tutto il resto. Le sono molto affezionato».
Ora che farà?
«Con le megaproduzioni sono fermo. Viviamo un momento di buio epocale, di riciclaggio continuo, nel quale il copia-incolla vuol diventare creazione. Al punto in cui sono arrivato faccio le cose per affetto o perchè ci credo. Per questo mi sono un po’ fermato, mi dedico a mio figlio che ha quattro anni, a questo album e poi...»
Dica.
«A luglio andiamo a Tokyo con i vecchi ragazzi del Cervello. Come tanto “prog” italiano degli anni Settanta, abbiamo scoperto che il nostro album lì è molto amato. Incredibile, non trova?»
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