lunedì 30 maggio 2011

ZUCCHERO


Sabato sera alla Royal Albert Hall, a Londra, risuonava l’Emilia blues di Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero. Il cui tour europeo - partito un mese fa dall’Hallenstadium di Zurigo, con un tutto esaurito da dodicimila presenze - ha fatto tappa ieri sera, accolto con lo stesso entusiasmo, alla Stadthalle di Vienna. E nei prossimi giorni arriva dalla nostre parti.

Debutto italiano dal 2 al 7 giugno all’Arena di Verona: sei date già esaurite in prevendita, alle quali ne sono state aggiunte altre due il 25 e 26 settembre. E fra metà giugno e luglio ben tre opportunità, fra Italia, Slovenia e Croazia, per vedere dal vivo il bluesman di casa nostra: sabato 18 giugno alle 21 all’Arena di Pola, mercoledì 22 giugno alle 20 alle Krizanke di Lubiana, giovedì 7 luglio alle 21 a Villa Manin di Passariano, Codroipo (prevendite nei circuiti abituali).

Ma torniamo per un attimo al trionfo londinese di sabato. Il concerto, che arrivava a sette anni di distanza dalla mitica serata di duetti immortalata nel cd e nel dvd “Zu & Co - Live at the Royal Albert Hall”, si è aperto con dieci canzoni tratte dall’ultimo album “Chocabeck”. Fra cui ovviamente i tre singoli “E’ un peccato morir”, “Vedo nero” (tormentone annunciato dell’estate ormai già cominciata) e la stessa “Chocabeck”.

La scelta di proporre le canzoni nuove all’inizio, teoricamente rischiosa soprattutto dinanzi a un pubblico internazionale, è stata premiata da un entusiasmo crescente. Cresciuto ancora all’arrivo di classici del calibro di “Così celeste”, “Diamante” e “Il volo”. Assieme ad altri ancora, cantati in inglese per “dovere di ospitalità”, come “Everybody’s got to learn sometime”, “From out of nowhere” (cantata assieme alla chitarrista e corista Kat Dyson) e la classicissima “Without a woman”, che a distanza di tanti anni rimane il brano di Zucchero più conosciuto all’estero.

Più di “Miserere”, proposta per il pubblico londinese in un duetto virtuale con Luciano Pavarotti, evocato dal video girato insieme ormai quasi vent’anni fa: «Un amico entrato nella mia vita con grande genuinità e semplicità, senza farmi mai pesare il macigno, la montagna che era. Un amico che non c’è più fisicamente, ma che è sempre vicino a me».

Altri brani in scaletta? “Il mare impetuoso al tramonto” e “Dune mosse”, “Solo una sana e consapevole libidine...” e “Accendi un diavolo in me”, “Bacco perbacco” e “Nel così blu”, “Baila” e “Overdose d’amore”, “Funky gallo” e “Per colpa di chi”. Ma anche la cover di “A salty dog” dei Procol Harum. Con qualche piccolo aggiustamento, è il programma dei concerti che vedremo nel Nordest.

Sul palco, con Zucchero, una band di undici musicisti e molti strumenti acustici sul palco. Dove la scenografia è formata da un’enorme valigia, larga venti metri e alta tre, che simbolicamente - ma anche materialmente - contiene tutto. Una sorta di baule dei ricordi, da aprire assieme al pubblico per svelare il “piccolo mondo antico” di Adelmo.

«In quella valigia - ha detto l’artista in occasione del debutto a Zurigo - c’è tutto il mio mondo. Il mio piccolo mondo fatto di cose semplici, persone che ho amato e che amo, il mio paese. Questo tour è una sfida, ma certe volte un artista deve prendersi i suoi rischi e io lo sto facendo. Ci sono momenti in cui un musicista sente di essere avanti rispetto al suo pubblico, è convinto di intravedere una strada nuova. Io sto vivendo un momento così».

Ancora Sugar: «Per me “Chocabeck” è oltre, non tutti l’hanno capito, non tutti lo capiranno. Inevitabile che ai miei concerti in molti si aspettino da me la stessa vecchia canzone, lo stesso vecchio arrangiamento, sempre la stessa festa. Ma io nel concerto voglio gioire, e se gioisco io, gioisce anche il mio pubblico. Oggi io sono “Chocabeck”, il nuovo album è intimamente mio nei suoni, nelle melodie, nelle parole».

“Ciocabec” - nella traslitterazione pensata per renderne la pronuncia uguale anche in inglese, cioè “Chocabeck” - in dialetto emiliano rappresenta il rumore, lo schiocco del becco di un animale che non ha nulla da mangiare e dunque fa questo rumore con il becco che non ha nulla da addentare. Ha spiegato una volta Zucchero: «Mio padre, quando io andavo da lui a chiedergli cosa c’è da mangiare, rispondeva “di ciocabec”, ovvero nulla. Ed io non capivo cos’era sta roba e dicevo “dammeli allora ’sti ciocabec, che non me li dai mai...».

Ricordi di un’Emilia povera, ruspante e vera. Che ritorna oggi nell’epopea blues di Zucchero Fornaciari.

domenica 29 maggio 2011

PANSA


Sostiene Giampaolo Pansa: la maggior parte di giornali e giornalisti italiani è antiberlusconiana, ma ciò non ha impedito e non impedisce al Cavaliere di essere il protagonista assoluto della politica italiana da quasi vent’anni, dunque giornali e giornalisti contano poco o nulla.

Provocazione interessante. Che va di pari passo con un altro dubbio che sorge leggendo “Carta straccia - Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli, pagg 425, euro 19,90), il “libro carogna” - definizione dell’autore - di Pansa, uscito da poco e già balzato in testa alle classifiche di vendita: al livello mai così basso della politica si è adeguato anche il nostro giornalismo?

Fosse un politico, al nostro darebbero probabilmente del voltagabbana. Ma fra giornalisti non si usa. Rimane il fatto che, dopo una vita da “giornalista d’assalto”, parole sempre dell’autore, dopo quattordici anni a Repubblica e diciassette all’Espresso, oggi Pansa scrive su Libero anzichè su Panorama articoli che farebbero arrabbiare i suoi lettori di un tempo.

A scontentare molti aveva cominciato con i libri revisionisti sulla Resistenza, da “Il sangue dei vinti” in poi. Ora torna al settore che conosce meglio: quello dei giornali, dei giornalisti, dell’editoria. Cui aveva già dedicato “Comprati e venduti” nel ’77 e “Carte false” nell’86.

Dice subito che questo «non è un pedante trattato sui media. È un racconto all'arma bianca, sornione e beffardo, pieno di ricordi. Mette in scena una quantità di personaggi, tutti attori di una recita alla quale ho partecipato anch'io: l'informazione stampata e televisiva, di volta in volta commedia o tragedia. Sono un signore che ha trascorso cinquant'anni nei giornali, lavorando in molte testate con incarichi diversi».

Poi si domanda: «Che cosa ho capito della mia professione? All'inizio pensavo che avesse la forza di un gigante, in grado di vincere su chiunque. Poi ho cambiato opinione: in realtà, il nostro è un potere inutile, serve a poco, non conta quasi nulla rispetto a quello politico, economico e giudiziario». Ancora Pansa: «Dopo un'occhiata al passato, la mia prima macchina per scrivere e l'apprendistato ferreo imposto da direttori senza pietà, vi compaiono i capi delle grandi testate di oggi. E i misfatti delle loro truppe. La faziosità politica dilagante. Gli errori a raffica. Le interviste ruffiane. Le vendette tra colleghi. Lo schierarsi in due campi contrapposti, divisi da un'ostilità profonda. Il centrodestra, dove si affermano Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri, con le campagne di stampa condotte senza guardare in faccia a nessuno. E il centrosinistra, dominato dalla potenza guerrigliera di Ezio Mauro e dalle ambizioni politiche di Carlo De Benedetti, nemici giurati di Berlusconi».

C’è molto livore, molto rancore fra le pagine. Gli ex colleghi, accusati di aver abbandonato le notizie per l’invettiva politica, vengono raffigurati senza indulgenza. Ma se le cose stanno così, com’è che Pansa ha aspettato di arrivare alla sua età (ne fa settantasei a ottobre) per capire ch’era tutto sbagliato, tutto da rifare...?

Fra i tanti ricordi, fra le tante riletture della storia recente italiana, spicca la notazione riportata all’inizio, che giustifica il sottotitolo sul “potere inutile dei giornalisti italiani”. In effetti, ai tanti quotidiani schierati con il centrosinistra, sul versante opposto bastano tre dita di una mano per contare le eccezioni (ovviamente Il Giornale, Libero, Il Tempo). Ma Berlusconi è ancora lì.

Il resto appartiene alle idee delle persone, che a volte si cambiano. Ed è normale sia così. Quattro anni fa, intervistandolo in occasione dell’uscita del suo “I gendarmi della memoria”, gli chiedemmo se con gli anni non fosse semplicemente diventato “un po’ di destra”. Risposta: «Magari fossi diventato di destra. Vorrebbe dire che in Italia c’è una destra ragionevole, e io almeno avrei una parte in cui riconoscermi».

Aggiungendo dopo un attimo di riflessione: «No, non sono diventato di destra. Purtroppo sono ancora di sinistra. Sono un cane sciolto senza collare, che non trova più la sinistra che vorrebbe. Ha presente quei vecchi cani da caccia che vanno in giro annusando, col muso basso, cercando un odore che gli somigli? Ecco, io sono così. Vado annusando dappertutto, ma non trovo un odore che mi piaccia. Anzi, sento in giro un fetore sempre più insopportabile...». Chissà se la pensa ancora così.

domenica 22 maggio 2011

BOB DYLAN 70


Hey, mister Tambourine, domani fai settant’anni, ma pare che i tempi stiano cambiando un’altra volta, proprio come quand’eri ragazzo. Ad aprile hai suonato in Cina (per la prima volta, con contorno di polemiche), Vietnam, Australia. A maggio il tuo “never ending tour” (un centinaio di concerti all’anno, dalla metà degli Ottanta a oggi) è fermo. Ma a metà giugno riprende: Irlanda, Inghilterra, Israele...

Robert Allen Zimmerman, per tutti Bob Dylan, giunge a un’età che per quasi tutti è quella della pensione, dell’appagamento, dei bilanci, delle pantofole. Non per lui, non per l’eterna anima errante sempre in giro per il mondo, sempre in cerca di un pubblico dinanzi al quale strapazzare vecchi classici fino a renderli a volte irriconoscibili.

Tracce di grandezza, di genialità anche in questa apparentemente incomprensibile bulimia di spettacoli, di genti e luoghi nuovi, di emozioni da far rinascere. Anche perchè Dylan poteva benissimo chiudere baracca e burattini anche venti o trent’anni fa, che il suo segno nella storia della musica e della letteratura del Novecento l’aveva già lasciato. E bello profondo.

Per fortuna non è andata così, e altra bellezza è sgorgata dalla sua creatività. Altre canzoni, altri dischi sono arrivati. Alcuni non fondamentali, altri all’altezza del mito. Come “Modern times”, uscito cinque anni fa, che al di là della citazione chapliniana dei “tempi moderni” suonava come una garbata presa in giro ma anche una netta presa di distanze dal nostro presente così brutto, volgare e confuso. Come dire: in questo caos, in mezzo a questa follia, l’unica salvezza è il ritorno alla semplicità, alle origini, alle radici.

Mezzo cowboy e mezzo signore del sud degli States, dopo essersi tolto lo sfizio di fare il dj e di pubblicizzare biancheria intima e automobili, Bob Dylan con quel disco si rimise al centro della scena con musiche senza tempo, fra blues e honky tonk, fra jazz e country, fra classici rock’n’roll e ballate, fra valzer e appassionati ritratti della classe operaia e ancora velati messaggi religiosi.

Canzoni ricche di suoni scarni, semplici, essenziali, puliti. Interpretate con quella voce roca che sembra in grado di scolpire la roccia, che da tanto tempo indica la strada, la rotta, canta le nostre contraddizioni, la confusione e il disincanto di questi scassatissimi “tempi moderni”.

Domani in tutto il mondo - anche a Trieste e ovviamente anche su youtube - ci saranno giovani di ieri e di oggi che festeggeranno i settant’anni di un artista senza il quale la musica e la cultura e dunque anche il mondo oggi sarebbero diversi. Happy birthday, mister Tambourine. Geniale ed enigmatico come solo i grandissimi.

martedì 10 maggio 2011

BOB MARLEY 30


John Lennon e Jimi Hendrix, Elvis Presley e Michael Jackson. Ma anche Jim Morrison, Janis Joplin, Brian Jones, Kurt Cobain. E di certo Bob Marley, la prima rockstar del terzo mondo, il profeta planetario del reggae e della spiritualità rasta.

Nel pantheon del rock e della musica popolare dell’ultimo mezzo secolo, affollato di artisti scomparsi troppo presto e dunque consegnati all’immaginario collettivo “per sempre giovani”, un posto al sole giamaicano è sicuramente di Robert Nesta Marley, per tutti Bob, nato il 6 febbraio 1945 a Nine Mile, colline di Saint Ann, Giamaica settentrionale, e morto a Miami l’11 maggio 1981. Trent’anni fa.

Aveva un sogno cullato a lungo: quello dell'Africa unita. Seguiva il rastafarianesimo, culto molto diffuso in Giamaica. L'Etiopia è per i Rasta la terra promessa, quella dove, secondo la profezia di Marcus Garvey, si sarebbe seduto sul trono il primo imperatore nero, Haile Selassiè, che avrebbe riunificato tutte le donne e gli uomini di colore sparsi per il mondo e li avrebbe riportati in Africa. Il musicista divenne il portavoce dei Rasta e, attraverso le sue canzoni, fece conoscere la sua fede in tutto il mondo.

Aveva madre giamaicana e padre inglese, un capitano della Marina britannica che non aveva mai conosciuto. Infanzia povera e vita di strada nel ghetto di Trenchtown, a Kingston. Si appassiona alla musica. Nel ’62, adolescente, registra con lo pseudonimo di Bobby Martell due dischi singoli che non lasciano traccia. Nel ’64 fonda The Wailers con Peter Tosh e Bunny Wailer: è l’inizio di una carriera che ben presto esce dall’isola.

Dopo un periodo negli States, dove segue anche corsi di teologia, torna in Giamaica e scrive testi che parlano di pace, giustizia sociale, povertà, storia dell’Africa. Incontra il produttore discografico Chris Blackwell (fondatore di quella Island Records per cui incidevano King Crimson, Traffic, U2...), cui va il merito di inserire nel circuito internazionale Marley e i suoi Wailers, che ormai avevano cambiato formazione rispetto agli esordi. Puntando sul legame storico esistente tra Giamaica e Inghilterra, e intuendo le potenzialità della musica reggae, riesce a contaminare pop e rock con quei ritmi, grazie anche al coinvolgimento di rockstar come Rolling Stones ed Eric Clapton.

Con album come “Catch a fire” e “Burnin’”, Bob Marley diventa una star planetaria perchè riesce a reinventare il reggae, musica tradizionale, mettendo l’accento sulle componenti soul, rhythm’n’blues e persino pop che ascoltava da ragazzo alla radio con i suoi amici nel ghetto di Kingston. Il tocco in più è rappresentato da testi quasi profetici che sono diventati inni universali alla pace, alla fratellanza, all’uguaglianza, alla giustizia sociale.

Nel ’78, da anni al top, Marley scopre di avere un melanoma maligno alla pelle. Per quasi tre anni, mentre il cancro si diffonde a cervello, polmoni, fegato e stomaco, continua a suonare in giro per il mondo (storico il concerto a Milano, allo stadio di San Siro, il 28 giugno 1980, davanti a centomila persone...) e a incidere. Gli ultimi due album sono “Survival” e “Uprising”, nel quale “Forever loving Jah” e soprattutto “Redemption song” suonano come una sorta di addio al suo popolo, alla sua gente. E vanno ad aggiungersi a classici senza tempo come “Jammin”, “One love”, ovviamente “No woman no cry”, “Get up stand up”, ”I shot the sheriff”...

L’ultimo concerto è del 23 settembre 1980, a Pittsburgh (che torna proprio in questi giorni nel dvd “Live Forever”). Poi il ricovero in un centro specializzato a Monaco di Baviera, infine il trasferimento all’ospedale di Miami, quand’ormai non c’era più nulla da fare. E a Miami, l’11 maggio 1981, la morte.

In Giamaica, oggi, Bob Marley è una sorta di santo. Per la sua adesione alla religione rasta ma anche per aver tentato di portare parole di pacificazione nella sua isola. Dove non a caso, nel dicembre ’76, subì un tentativo di omicidio.

Nel resto del mondo, come si diceva, è un mito. Ha aperto la strada alla “world music”, ha influenzato e influenza generazioni di musicisti, la sua eredità non si limita a quanto proseguito anche in suo nome dalla moglie Rita (che nel 2005 ha riportato i suoi resti in Africa, ad Addis Abeba) o dai figli Ziggy, Stephen e Damian. A ottobre lo rivedremo al cinema, in un docufilm biografico firmato dal regista scozzese Kevin Macdonald. Per sempre giovane.

martedì 3 maggio 2011

JOHN WAITE ven a TS


Strana sorte, quella di John Waite, rocker inglese dalla personalissima voce blues che venerdì alle 21 tiene il suo primo e per ora unico concerto italiano al Teatro Miela di Trieste. Ha firmato due singoli che tanti anni fa hanno conquistato la vetta delle classifiche inglesi e americane: ”Missing you” nell’84 (dall'album “No brakes”) e “When I see you smile” nell’89 (dall'omonimo album dei suoi Bad English). Pare che la sua “Don’t stop believin’”, nella versione dei Journey, sia la canzone più scaricata su iTunes, grazie alla serie tv “Glee” che l’ha recentemente rilanciata. Aggiungiamo che il nostro - classe ’52, originario del Lancashire - anni fa è stato chiamato da Ringo Starr nella sua All Starr Band. Eppure, il suo nome è noto agli appassionati ma certo non al grande pubblico.

Tant’è. Godiamoci questa prima assoluta, evento più unico che raro in una città storicamente ai margini dei circuiti rock (e non solo rock). Ricordando che Waite ha debuttato nell’80, appena diciottenne, come cantante e bassista dei Babys, con i quali ha poi realizzato cinque album. Dopo il successo di “Missing you” (di cui si ricorda una versione italiana non fondamentale a cura della romana Paola Turci...) e lo scioglimento del gruppo, nell’88 è fra i protagonisti dei Bad English. Ma dura poco. Il nostro torna solista e produce cinque album, prima di andare in tour nel 2003 con Ringo Starr e due anni dopo con i Journey.

Nel 2008 “Missing you” riappare nelle classifiche statunitensi grazie a una nuova versione interpretata assieme ad Alison Krauss. Nel 2009 esce il live “In real time”, mentre è di pochi mesi fa la pubblicazione del nuovo album, intitolato “Rough & Tumble” e già presente nelle classifiche radiofoniche americane.

“Sono già stato in Italia - ha detto John Waite al sito degli organizzatori del concerto - per fare degli spot alla radio e ho vissuto a Milano per un mese dopo che ho lasciato i Bad English. Ma da voi non ho mai suonato dal vivo. L’Italia mi piace per la gente, il modo di vivere, l’architettura. Nella musica amo soprattutto il blues, da cui sono stato influenzato da ragazzo, e il country. Leggo tutto quello che mi capita. E sono contento del mio passato”.

Ancora Waite: ”Oggi mi sento libero: faccio quel che mi pare. Se al pubblico piace, bene. Se no, continuo a fare quel che faccio. In questo internet aiuta molto: oggi puoi pubblicare un disco senza dover andare da una casa discografica, puoi fare il disco che vuoi, metterlo in rete e farlo arrivare alla gente. Grazie a questo c’è in giro della buona musica...”.

Stasera il tour di Waite fa tappa ad Augsburg, in Baviera. Dopo la data triestina, domenica è a Londra, mentre dal primo giugno si trasferisce negli Stati Uniti. Nella band che lo accompagna al Miela c’è anche Kyle Cook, degli americani Matchbox 20. Il concerto triestino, organizzato dall’associazione Trieste Is Rock, si terrà venerdì alle 21 e sarà anticipato alle 19 da un incontro con il pubblico, sempre al Miela. Info e prevendite su www.vivaticket.it, www.triesteisrock.it, Knulp (via Madonna del mare 7) e Seconda stella a destra (via Cadorna 9).