domenica 30 marzo 2014

ELISA, trionfo al PalaTrieste

TRIESTE Un grande, rutilante, per tanti versi sorprendente show. Una grande, appassionata, completa artista. Emozionante e al tempo stesso incendiaria. A un paio di chilometri in linea d’aria dal Burlo, dove emise i primi urletti nel dicembre ’77, Elisa ieri sera ha (ri)portato a casa un autentico, meritato, affettuoso trionfo di pubblico. La tappa regionale di questo “L’anima vola tour” ha riempito di oltre quattromila fan il PalaTrieste, per un concerto che ha idealmente abbracciato tutta la carriera della popstar monfalconese: una trentina di brani in scaletta, dagli esordi fino alle nuove cose, per un totale di oltre due ore e mezzo di musica. “Non fa niente ormai” e “Un filo di seta negli abissi”, "Lontano da qui" e "Pagina bianca", dall’ultimo album, il primo tutto in italiano, aprono le danze. L’allestimento innovativo e tecnologico dello show avvicina artista e band il più possibile al pubblico, sul megaschermo scorrono immagini, giochi di luce, un’animazione stile Vecchio West accompagna “Ancora qui” (scritta su musica di Ennio Morricone per “Django unchained”, di Quentin Tarantino). Quando arriva il turno di “A modo tuo” (scritta da Ligabue per la figlia) lei la interpreta con sensibilità di madre. L’anima sonora si intreccia con quella visiva. E ovviamente vola. Elisa è un diesel, conquista lo spazio un po’ per volta. Parte dal fondo del palco, poi man mano conquista metri e territorio, crescono l’energia dello spettacolo e la grinta della performer, che alla fine sembra quasi sciogliersi nell’abbraccio del suo pubblico. Accompagnata dalle tre coriste Lidia Schillaci, Roberta Montanari e Bridget Cady (all'inizio collegiali anni Cinquanta, poi vestali e geishe) e dalla nuova band, composta dal chitarrista/compagno di vita Andrea Rigonat, da Curt Schneider al basso, Victor Indrizzo alla batteria, Cristian Rigano e Gianluca Ballarin a tastiere e programmazioni, l’ex ragazzina scoperta da Caterina Caselli canta, balla, apre in viola con ombelico al vento e poi si cambia spesso d’abito, spazia fra chitarra e percussioni, si siede al pianoforte e, fasciata da un kimono rosso, sorprende tutti intonando “Madama Butterfly” di Puccini. Alterna momenti quasi intimisti, sgroppate cariche di energia rock e accorate confessioni "civili". Cita l'articolo 1 della Costituzione e ringrazia l’Italia «per quello che ha, non capisce di avere e non difende abbastanza», con dedica pensata «a chi si butta e non ha tempo di lamentarsi, a coloro a cui basta la luce del giorno per ricominciare, a chi agisce con coraggio anche se ha paura». Elisa incoraggia la sua gente a non fermarsi mai, come ha fatto e fa tuttora lei stessa. Suggerisce di non accontentarsi di situazioni che invece possono cambiare, volendolo, impegnandosi, partendo da se stessi. C’è spazio, come annunciato, per le richieste del pubblico, quasi “alla Springsteen”: spuntano cartelli e striscioni, e allora la piccola grande Elisa imbraccia la chitarra acustica e accontenta i desiderata del pubblico. Si riparte. "Luce" (con passeggiata fra la folla) e "Eppure sentire", “Heaven out of hell" e "Broken”, "Ti vorrei sollevare” e "Una poesia anche per te”, “Gli ostacoli del cuore” e “Together”, fino a perdersi nel “Labyrinth” della memoria. Questo e tanto altro è il concerto, il più bello fra quelli proposti negli ultimi anni, anche a Trieste, da questa piccola grande artista nata nelle nostre terre. "Grazie Trieste" risuona tante volte, dopo la concessione local a un "Femo un'altra cantada, muli...?". Autentico trionfo di pubblico, fra puzza di popcorn bruciato e mille smartphone intenti a cogliere un'immagine da portare a casa. I concerti pop, nel 2014, si vivono così.

mercoledì 26 marzo 2014

Album ROCCO HUNT

ROCCO HUNT «’A VERITÀ» (Sony Music) Un mese fa ha trionfato a Sanremo Giovani con “Nu juorno buono”, ieri è uscito il suo album «’A verità», domani tiene il suo primo concerto “da star” al Teatro Trianon, rione Forcella, nel cuore di Napoli. La vita corre in fretta per il rapper salernitano dalla faccia pulita, diciannove anni e commozione facile. Al disco, oltre a Enzo Avitabile, Clementino e alcuni produttori di vaglia, ha collaborato nientemeno che Eros Ramazzotti, che canta nel brano che dà il titolo al disco. Pare che fosse nello stesso studio di registrazione e, si sa, da cosa nasce cosa... «La collaborazione con Ramazzotti è stata a dir poco incredibile, lui stesso ha scelto il brano in cui cantare e poi ha voluto darmi qualche consiglio. Il primo: impara a suonare uno strumento perché voi rapper date troppa importanza alle parole e dimenticate la musica...». Il disco comprende diciotto brani, compresi due bonus, tutti freschezza e spontaneità. Il rap dal volto buono, mezzo in italiano e mezzo in napoletano. Che a quanto pare funziona.

COSTELLAZIONI, nuovo album VASCO BRONDI, Luci Centrale Elettrica

La precarietà del lavoro e quella dei sentimenti, la crisi e il disagio del vivere e del sopravvivere, l’urgenza del comunicare attraverso una sorta di straniata e straniante poesia urbana contemporanea. Questo e tanto altro è Vasco Brondi, il cantautore ferrarese classe ’84, che ha il vezzo di celarsi dietro il nome Le luci della centrale elettrica, emerso anni fa con due album come “Canzoni da spiaggia deturpata” (2008) e “Per ora noi la chiameremo felicità” (2010), cui era poi seguito anche il mini-cd “C’eravamo abbastanza amati” (2011). Santificato al debutto, criticato al secondo album (l’accusa più comune: le sue canzoni si somigliano tutte, anzi, sono un po’ tutte uguali...). Insomma, tutto previsto. Quello che non era previsto è questo “Costellazioni”, il terzo album appena uscito per l’etichetta pordenonese La Tempesta. Che è un grande disco: pensato, ragionato, probabilmente voluto e amato. Dopo tantissimi concerti e un periodo vissuto a Milano, il nostro è tornato a casa e ha rimesso in ordine ricordi, idee, sensazioni. Ha ripreso ad annusare la gente, i suoi coetanei e non solo loro. Ne sono venuti fuori quindici brani molto curati, che vivono del linguaggio crudo e diretto, delle frasi asciutte e infarcite di parole che conoscevamo, ma ora sono anche adeguatamente supportati da abiti e basi sonore di prim’ordine. Basta insomma con lo spartano stile cantautorale “chitarra e voce” quasi ostentato in passato, e finestre aperte a fiati, archi, ricchi arrangiamenti, elettronica quando serve, impasti armonici di prim’ordine. «Questa è stata la prima volta, da quando ho iniziato a fare musica, che mi sono preso così tanto tempo per lavorare a un disco. Alla fine del 2012, dopo essermi esibito per l’ultima volta dal vivo, ho avvertito l’esigenza di staccare la spina e partire, soprattutto per metabolizzare tutte le esperienze che avevo vissuto dalla pubblicazione del primo album autoprodotto in poi...». Il disco è stato registrato fra Ferrara, Bassano del Grappa e Milano. Nella produzione e nell’assemblamento musicale del tutto un contributo importante è arrivato da Federico Dragogna dei Ministri (che firma con Vasco la produzione) e Giorgio Canali (già con Cccp, Csi, Pgr), suo primo produttore, che firma con lui “Le ragazze stanno bene”, uno dei due brani di lancio dell’album, l’altro è “I destini generali”. “40 km” e “Punk sentimentale” sembrano i momenti più riusciti, ma funzionano alla grande anche “Ti vendi bene”, “Una cosa spirituale” e l’iniziale “La terra, l’Emilia, la luna”. Ancora l’altro Vasco: «Dentro questo mio nuovo album c’è un lungo periodo di scrittura e ogni canzone è nata in un momento diverso della mia vita: in questo senso le soluzioni musicali variano, così come variano anche gli argomenti trattati nei testi».

martedì 25 marzo 2014

domani NOMADI a Udine, intervista a Beppe Carletti

Un festeggiamento importante come quello del mezzo secolo di attività merita di durare un anno intero. È così che Beppe Carletti e i suoi rinnovati - ma sempre fedeli agli ideali originari - Nomadi proseguono nei teatri il tour che l’anno scorso li ha portati in giro per piazze, stadi e palasport su e giù per la penisola. Domani alle 21 sono di nuovo nel Friuli Venezia Giulia, al “Nuovo” di Udine, e c’è da scommettere che il loro pubblico transgenerazionale, equamente diviso fra giovani di oggi e giovani di ieri, non mancherà all’appello. Carletti, come va l’inseguimento ai Rolling Stones? «Eh, lei scherza e ha ragione. Ma i dati parlano chiaro: secondo Wikipedia siamo il gruppo più longevo al mondo dopo i Rolling Stones. Ci battono solo di pochi mesi. E se Jagger, dopo il recente lutto, decide di chiudere la baracca, entriamo dritti nel Guinness dei primati. Ma non credo che il vecchio Mick mollerà nemmeno stavolta». A lei, di mollare, non passa nemmeno per la testa. «Quando suoniamo incontro tanto entusiasmo, i ragazzi che sono entrati in questi anni nel gruppo hanno portato tanta freschezza, tante idee nuove, che in effetti no, nonostante i miei sessantotto anni, i figli e i nipoti, a mollare non ci penso proprio». Com’era quell’Italia del ’63? «Avevo sedici anni, non sapevo nulla del mondo, avevo solo tanto entusiasmo e amore per la musica. Nel bene e nel male era un’altra Italia. Non so se migliore o peggiore. So che c’era tanta voglia di fare, di stare assieme. Si era felici davvero con poco. Eravamo tutti meno ricchi, ma c’era una ricchezza interiore che era più importante. Oggi abbiamo tutto, ma un cellulare nuovo non potrà mai sostituire un libro, un disco, una chiacchierata con gli amici». Basterà Renzi per riportare un po’ di speranza? «Siamo costretti a sperarlo. Anche perchè l’uomo ha creato così tante aspettative nella gente, che ora quasi mi spaventa: spero che non segua una bruciante delusione. Il rischio c’è, tutte le volte che bisogna passare dalle parole ai fatti. Ma sia chiaro: sarei felice se riuscisse nell’impresa». La crisi tocca anche la musica? «Ovvio. A parte quei due o tre che in Italia possono fare gli stadi, per tutti gli altri il calo del lavoro c’è, ed è forte. Prima c’erano i Comuni, le Aziende di soggiorno che davano i contributi. Oggi viviamo un’altra storia, ognuno cammina sulle proprie gambe. Abbiamo calato i prezzi dei biglietti, ma non sempre basta». Il vostro ultimo album s’intitola “Terzo tempo”. «Volevamo indicare il nostro “terzo tempo”, il fatto che continuiamo a cantare e suonare dopo tanto tempo. Ma anche il “terzo tempo” che si usa nel rubgy, quello degli abbracci dopo la battaglia. Tempo fa hanno provato a importarlo anche nel calcio, ma mi sembra che l’esperimento non abbia avuto molto successo». Sono passati ventidue anni dalla scomparsa di Augusto Daolio. «E per me, per noi è sempre un dolore grandissimo. Lui è sempre al nostro fianco. Quando è mancato nessuno avrebbe scommesso una lira sulla nostra sopravvivenza. Invece siamo qui, e una delle soddisfazioni maggiori è vedere oggi ai nostri concerti tanti ragazzi giovani e giovanissimi. Ci sono anche tanti capelli bianchi: il nostro pubblico è una grande famiglia senza età, anagraficamente trasversale. E il nostro è un successo basato sul passaparola». Trasversali anche sul palco. «Certo, fra me e il più giovane ci sono quasi trent’anni di differenza. Ma viviamo e lavoriamo in buon accordo, come una grande famiglia. Penso che ogni generazione abbia qualcosa da imparare da quella precedente ma anche da quella successiva. Ci vuole umiltà, semplicità». Prossimo disco? «Esce fra un mese, s’intitola “50 più uno”: una manciata di inediti e quei classici che il nostro pubblico ama sempre risentire. È stato anticipato proprio nei giorni scorsi dall’inedito “Come va la vita”...».

lunedì 24 marzo 2014

TRETRECINQUE, primo libro di IVANO FOSSATI

“Tretrecinque” non è un prefisso telefonico, come i più potrebbero pensare. È il modello di una storica chitarra semiacustica Gibson, a cui si è ispirato Ivano Fossati - ospite ieri sera di Fabio Fazio, a “Che tempo che fa”, su Raitre - per il titolo del suo primo romanzo, edito da Einaudi (pagg. 411, euro 18,50). Racconta la storia di un musicista, Vittorio Vicenti, che comincia nel Piemonte degli anni Cinquanta e finisce negli Stati Uniti (dove lo chiamano Vic Vincent) dei giorni nostri. Un musicista la cui vita è segnata, nel bene e nel male, da un gran talento musicale e dalle indubbie doti di chitarrista. Ma rimane suonatore da sale da ballo. E la compagna della sua vita, quella che lo porta in giro per il mondo, è appunto la Gibson 335. Vicenti è un uomo qualsiasi, fondamentalmente un uomo solo. La sua è “una vita imperfetta” (come recita il lancio del libro), avventurosa ma al tempo stesso ordinaria, che gli fa sfiorare fatti ed eventi importanti, senza esserne mai protagonista. È uno al quale le cose accadono attorno, lo sfiorano senza mai toccarlo né coinvolgerlo direttamente. Il libro è insomma la storia di un musicista scritta da un grande cantautore da poco dimessosi non dalla musica ma da una quarantennale carriera di successo fatta di dischi e concerti. Ma non si pensi che Fossati racconti la storia di se stesso. Non è una storia autobiografica. L’eroe - anzi, sarebbe meglio dire l’antieroe - del libro sembra in realtà essere ai suoi antipodi. C’è, fra le righe, un invito a muoversi, a viaggiare, a lasciare le sicurezze conosciute per sfidare l’ignoto. «Sì, il libro - dice Fossati, genovese, classe ’51 - è una specie di invito a non avere paura della distanza, specialmente per i giovani. Io ho viaggiato moltissimo e lo so. La vita può anche non girare bene dove tu ti trovi, ma se ti muovi può essere che vada meglio. In tempi come questi in cui bisogna essere pronti a spostarsi, a non avere paura dell’altro, i ragazzi non dovrebbero più considerare la frontiere. Vittorio lo fa in anni in cui viaggiare era difficile, non c’era la globalizzazione, e dice: si può avere paura degli uomini ma mai delle distanze». Ancora l’artista: «Ho scritto per quarant’anni canzoni che richiedono sintesi e la capacità di dire le cose nel più breve spazio possibile. Sono due mestieri completamente diversi, per nulla contigui. Finchè è venuta fuori questa storia e mi sono inaspettatamente appassionato. Non essendo scrittore il solo modo che avevo era scrivere da lettore, pensando a quello che avrebbe emozionato me. E così è stato. Ci ho impiegato un anno, fra correzioni e tutto». Il suo Vittorio gira il mondo e, passati i settanta, decide di raccontare la propria vita. Sente che i ricordi cominciano a evaporare e vuol far sapere al figlio e al nipote cosa è stata la sua esistenza sempre lontano dalla famiglia. Un bell’esordio.

sabato 22 marzo 2014

MARIA ANTONIETTA apre MART rassegna teatro miela, trieste

Lei è una delle voci femminili più interessanti e originali della nuova scena rock italiana. Si chiama Maria Antonietta e nel brano “Ossa” (dal suo terzo album, “Sassi”) canta della violenza e dei maltrattamenti subiti da un uomo. «Oggi sono diventata forte - dice - perchè non accetto quello che accettavo un tempo. E le mie ossa non le spezzeranno mai più. Spero che questa canzone sia da stimolo per le altre ad agire e reagire...». Maria Antonietta, vero nome Letizia Cesarini, nata a Pesaro nel 1987, apre martedì sera al Teatro Miela, a Trieste, la rassegna “Spring break Miela” (apertura della serata affidata a Uendi). Dopo di lei arrivano venerdì 28 gli italiani Train to roots e il 7 aprile il duo svedese Kristal and Jonny Boy. Dopo essersi autoprodotta fra il 2009 e il 2010 il suo primo album, intitolato “Marie Antoinette wants to suck your young blood” (graffianti testi in inglese, una certa ruvidezza punk, tema: il coraggio delle donne), la cantautrice pesarese ha realizzato il suo secondo album, il primo in italiano, “Maria Antonietta”, registrato e prodotto da Dario Brunori, suo compagno di vita e musicista anch’egli (Brunori Sas, quello del recente album “Il cammino di Santiago in taxi”). Un lungo tour, l’anno scorso il brano “Animali” e una personalissima cover di “Non ho l’età” (il classico di Gigliola Cinquetti, Sanremo 1964), ora è arrivata la sua terza prova discografica, per l’etichetta pordenonese “La Tempesta”. «Dieci brani, un disco minimale fra punk e rock - dice ancora l’artista -. Ho condiviso tutto con il mio fidanzato e suo fratello. Dario mi ha insegnato molto, ma adesso sono finalmente me stessa». L’estate scorsa la cantante ha aderito al progetto “Hai paura del buio?”, promosso dagli Afterhours: un festival culturale itinerante con altri musicisti (Marta sui Tubi, Il Teatro degli Orrori, Daniele Silvestri, Verdena...), ma anche attori (Antonio Rezza con Flavia Mastrella, Michele Riondino), scrittori (Chiara Gamberale, Paolo Giordano), disegnatori e ballerini. Per quanto riguarda gli altri due appuntamenti della rassegna al Teatro Miela, i Train to roots (28 marzo, aprono la serata Mr. Skavillage & Dejah Selecta)) sono una delle realtà più importanti e conosciute del panorama reggae nazionale, mentre Kristal and Jonny Boy (7 aprile, aprono gli Etoile Filante) sono un duo svedese composto da Kristina Hanses (voce e danza contemporanea) e Jonny Eriksson (chitarra e “drum machine”).

venerdì 21 marzo 2014

VANILLA FUDGE 28-3 a pordenone, intervista a Carmine Appice

Vabbè, sono un po’ invecchiati. Ma non lasciatevi ingannare dalla foto qui a fianco. Perchè tre di questi quattro ex ragazzi sono stati, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, fra i maggiori protagonisti del rock psichedelico. Stiamo parlando dei Vanilla Fudge, che saranno il 27 marzo a Torino ma soprattutto venerdì 28 a Pordenone, al Naonian City Hall (ex Deposito Giordani). In scena il batterista Carmine Appice, il tastierista Mark Stein e il chitarrista Vince Martell, membri originali e fondatori (con Tim Bogert) della band, ora affiancati da Pete Bremy al basso. Di loro, i meno giovani ricordano senz’altro le personalissime cover di brani come “You keep me hangin’ on” (originariamente delle Supremes), “Ticket to ride” e “Eleanor Rigby” dei Beatles, “Bang bang” (successo di Nancy Sinatra e in Italia dell’Equipe 84), ma soprattutto “Some velvet morning”, brano originariamente composto da Lee Hazlewood ed eseguito dall’autore in duetto con Nancy Sinatra: i Vanilla Fudge ne fecero una versione personalissima e psichedelica, che ebbe successo in tutto il mondo, arrivando al primo posto in hit parade anche in Italia. Carmine Appice, perchè soprattutto cover? «Perchè in quel periodo, a New York, la moda era quella. Noi abbiamo scritto musiche originali per gli arrangiamenti, non canzoni originali. Prendevamo brani di altri artisti e li arrangiavamo con nostre musiche originali, usando nuovi tempi, strutture e parti vocali adatti al nostro rock psichedelico». Com’è cominciata la vostra avventura? «Nel ’66 suonavamo tutti e quattro a New York e dintorni. Il primo nucleo del gruppo fu con Mark, Vinny e Tim. Io mi aggregai per ultimo. Cominciammo con le cover. E appena nove mesi dopo i nostri inizi “You keep my hangin’ on” era già un successo internazionale» Perchè questo nome? «Abbiamo scelto di chiamarci così per indicare il “soul bianco”. Suonavamo molta musica rhythm’n’blues, in quegli anni era pieno di cantanti e musicisti che suonavano musica nera. E il pubblico rispondeva». Quanto dovete ai Beatles? «Non siamo stati fan dei Beatles fino all’uscita dell’album “Revolver”. Eravamo e siamo molto più legati alla Motown, con cui abbiamo ottenuto i nostri maggiori successi. Anche se i Beatles hanno segnato tutti noi». E l’album-omaggio ai Led Zeppelin? «Siamo nati prima di loro, che sono arrivati dopo. È capitato che abbiamo suonato assieme e siamo diventati buoni amici. Poi è successo, molti anni dopo, che il nostro discografico ci ha proposto di fare un album di cover. Piuttosto che pescare un po’ da tutte le parti, abbiamo preferito dedicarci al repertorio di un solo gruppo. Abbiamo scelto i Led Zeppelin perchè le dinamiche della loro musica erano simili alle nostre. Così è nato “Out through the in door”». Perchè vi siete sciolti? «Dopo il 1970 Tim Bogert e io andammo a suonare con Jeff Beck, i trend musicali stavano cambiando, andavano forte i supergruppi. Volevamo essere parte di questa nuova situazione». Cosa avete fatto prima di ritrovarvi? «Ognuno ha suonato con tanti musicisti e gruppi. Io con Rod Stewart, i Cactus (che formai con Tim Bogert), Jeff Beck, Ozzy Osbourne, i Pink Floyd (per l’album “A momentary lapse of reason”, uscito nel 1987), Stanley Clarke, Ozzy Osbourne, Ted Nugent, John Entwistle, i Blue Murder, Edgar Winter. Ho avuto anche un mio gruppo: i King Cobra. Fra concerti in giro per il mondo, sedute di registrazione e seminari sono sempre stato molto impegnato». Poi? «Ci siamo ritrovati e abbiamo scoperto che c’era ancora voglia di suonare assieme. Cosa che abbiamo fatto a partire dal 1999, negli Stati Uniti e in varie parti del mondo. Ma questo è il primo, vero tour europeo che facciamo da quando ci siamo rimessi assieme». E ora? «Stiamo preparando un nuovo album, uscirà entro la fine dell’anno. C’è già il titolo: “Spirit of ’67”, lo spirito del ’67, un anno per noi fondamentale». Le sue origini italiane? «La mia famiglia - conclude Carmine Appice, italoamericano di Staten Island, classe 1946 - ha origini sparse fra Bari, Napoli e la Calabria. I miei nonni arrivarono in America nei primi anni del Novecento. Ma purtroppo, nonostante queste origini e il mio nome, non so parlare in italiano...».

giovedì 20 marzo 2014

domani a Trieste ZAVOLI e DELL'ACQUA su libro Piccione: COSTITUZIONE E BASAGLIA

La chiusura dei manicomi fu un fatto di civiltà, le cui radici si trovano nella Costituzione. Una conquista che oggi va difesa in questo clima quasi da controriforma. Ne scrive Daniele Piccione nel libro “Il pensiero lungo, Franco Basaglia e la Costituzione”. Se ne parlerà domani alle 18 a Trieste, all’Auditorium del Revoltella, con Sergio Zavoli - giornalista, scrittore, senatore da quattro legislature, che firma l’introduzione del volume - e lo psichiatra Peppe Dell’Acqua. Senatore, che rapporto c’è fra la Costituzione e la “rivoluzione basagliana”? «La chiusura dei manicomi - risponde Zavoli, nato a Ravenna, classe 1923 - rappresentò un passo in avanti di civiltà; il superamento di un’istituzione violenta e opprimente, assoluta nel confinare le vite in ambiti ristretti, isolati e poveri. I malati appassivano negli ospedali psichiatrici; le loro vite si consumavano in modo struggente nell’inseguire domande che non trovavano risposta: quando esco, perchè mi hanno abbandonato...». La Costituzione, invece... «La Costituzione si prefigge di non lasciare indietro nessuno, di rimuovere le esclusioni e gli abbandoni. Nel limitare i poteri assoluti, la nostra Carta protegge e riafferma il valore dell’individuo e non soltanto nella materialità dei suoi beni e della condizione in cui vive, ma anche, perchè no, in quanto c’è di spiritualità e idealità in ognuno di noi. E così si spiega quella tacita, forte, implicita alleanza tra l’opera di Basaglia e l’apertura dei manicomi, il loro superamento come istituzione di sopraffazione e oppressione dei singoli, dei diversi, confinati nell’etichetta speso frettolosa e incongrua dei folli pericolosi». Quali sono gli articoli sui quali si è in qualche modo innestato il lavoro di Basaglia? «Tendo a credere - e il libro di Piccione non manca di illustrarlo - che il lavoro a Gorizia e Trieste di Basaglia si ponesse in sintonia con lo spirito della Carta del 1948. Credo si possa parlare di un’unitarietà di afflato umanitario che i Costituenti seppero far confluire nella nostra Costituzione. La centralità dell’individuo, delle sue aspettative, dei diritti inalienabili si incarna in molte disposizioni, a cominciare dall’articolo 2». Il merito di Basaglia? «Comprendere che questi valori, questi concetti venati di alta idealità potevano fare breccia nei muri dei manicomi. Ma la sua opera non sarebbe giunta a compimento senza una pratica quotidiana della liberazione del malato dall’etichetta del diverso che ci spaventa e da cui proteggerci. Un’intuizione che poi originava dalla curiosità dell’uomo Basaglia, dalla sua capacità di comprendere i fenomeni, concreti e reali che incidono sulla vita delle persone che soffrono di disturbi mentali. Torna alla mente quel suo riferimento a un proverbio calabrese, una citazione che mostra come ogni aspetto del singolo nella società fosse, per lui, oggetto di comprensione, analisi, riflessione critica: chi non ha non è, amava ripetere». Povertà e miseria emarginano... «E immergono il singolo in un cono d’ombra, lo escludono dalla vista. Sapeva che la strada per superare il manicomio come risposta opprimente consisteva nel credere nell’assistenza a chi soffre, nella tutela della persona, nei suoi bisogni. Insomma, vincere la domanda di bisogni reali, la miseria». Quando nel ’67 ha realizzato “I giardini di Abele”, a che punto era quel processo? «Era in corso, nel senso che Basaglia a Gorizia e Trieste sviluppò un’esperienza sul campo di straordinaria importanza. Non saprei dire se l’idea di una legislazione nazionale fosse solo un anelito, uno spunto in cui credeva, oppure fosse un orizzonte realistico di cui intuiva in anticipo la praticabilità. Certo il clima che si viveva durante la realizzazione del reportage era di novità, di attenzione all’essere umano che soffre. Si apprezzava, tuttavia, l’atmosfera di naturalezza. Come se quello che si stava compiendo nei fatti fosse dirompente e ineluttabile ma, ancora una volta, in un certo modo semplice. Una verità che viene alla luce. E questa verità era che chi soffre per la malattia mentale va ascoltato e non rinchiuso». Che ricordi ha di Basaglia? Che uomo era? «Un uomo consapevole dei problemi, di quelle persone che rifuggono le semplificazioni. Forse - ma non l’ho conosciuto abbastanza per parlarne in termini tanto diretti - il suo fascino aveva a che fare con la vulnerabilità, con la capacità di accettare che il disturbo mentale è arduo da comprendere, pretende un atteggiamento umile, non classificatorio o diagnostico. Però rispetto al modo in cui si trattavano le persone che soffrivano, su quello era determinato, forte, sicuro di quello che occorreva disfare e di quanto era necessario compiere». La “180” è stata - ed è - una legge molto contestata e avversata. Perchè? «L’immaginario collettivo è stato assalito dall’allarmismo, dal mito della pericolosità sociale e poi dalla litania per cui la legge ha abbandonato famiglie e malati. In Italia si incorre spesso in questi equivoci tra giudicare le leggi e la loro qualità, e accettare che i limiti sono quasi sempre connessi con l’attuazione, con il seguito da dare alle grandi pagine di legislazione sociale. Per la legge 180 tutto questo è stato amplificato dalle ideologie imperanti e contrapposte, dal riflusso nel privato. Sicuramente è stata una pagina parlamentare - se ne parla a fondo, nel libro - di assoluto valore. Ma richiedeva da parte di operatori e classi sociali un mutamento di prospettiva e di approccio culturale non banale e anche, in certa misura, scomodo». Trentasei anni dopo la “180” (e 34 dopo la morte di Basaglia) rischiamo di tornare indietro? «Penso lo si debba impedire. In tanti modi. In primo luogo dobbiamo chiederci - non di rado ce ne dimentichiamo - cosa significa tornare indietro. Per esempio, torniamo indietro quando immaginiamo nuovi luoghi di internamento, di esclusione. Regrediamo anche quando smarriamo la capacità di ascolto; quando non porgiamo la debita attenzione ai bisogni da soddisfare. Talvolta imboccare le scorciatoie può apparire comodo, ma poi si rivela controproducente. In fondo, le Costituzioni - è scritto nel libro - aiutano appunto a guardare lungo, allo sguardo presbite, come scriveva un grande giurista, Piero Calamandrei. Soggiungo che su tutti noi grava il compito di preservare le acquisizioni sociali, anche quelle sofferte e difficili. Per esempio, quella per cui un malato di mente non è una persona cui si può offrire risposte con l’internamento e l’abbandono». Che cosa l’ha colpita del libro di Daniele Piccione? «La curiosità verso questa sintonia implicita, questa alleanza silenziosa tra la Carta e un fenomeno sociale così particolare e importante, ma in apparenza estraneo al mondo del diritto, come il movimento antimanicomiale. Una sintonia che ha radici personali nella storia dell’autore, certo. Non di rado questi spunti innescano ricordi, emozioni, sentimenti. A tratti nel libro riecheggia, sullo sfondo, la mia curiosità quando varcai i cancelli di quell’ospedale psichiatrico e mossi qualche passo nei “giardini di Abele”. Curiosità e sensibilità che pervadono il libro coincidono anche un po’ con la riscoperta di pagine di vita personale intense». «È un libro - conclude Zavoli - che evoca e suggerisce, non pretende di imporre certezze e giudizi assoluti. Il che capita di rado, purtroppo».

lunedì 17 marzo 2014

domani mart GROOVE MACHINE al teatro miela, trieste

La “macchina del groove” va in moto domani sera al Teatro Miela. Due fra i migliori jazzisti italiani assieme a due colonne del jazz statunitense contemporaneo formano quello che un tempo si sarebbe chiamato un supergruppo. Il sassofonista Gaspare Pasini, il pianista Dado Moroni, il contrabbassista Dave Zinno e il batterista Adam Nussbaum rappresentano ognuno per il proprio strumento una certezza assoluta. Hanno scelto di chiamarsi Groove Machine in omaggio a questo termine inglese di cui si fa un gran uso, a volte anche a sproposito, e che sta a indicare una serie ritmica che si ripete ciclicamente, di solito a ogni battuta. Indica la ripetitività di una sequenza ritmica, anche se in realtà è un termine - molto popolare e in uso già negli anni Sessanta, soprattutto nella black music - che significa tante cose: dal solco del disco in vinile al concetto del divertimento (gli Earth Wind & Fire cantavano “Let’s groove”, e intendevano proprio “divertiamoci”), passando per l’equivalente di quello che in campo melodico è definito riff, ma anche per la capacità di un musicista di entrare in contatto con l’ascoltatore tramite il solo linguaggio ritmico. Ma non divaghiamo troppo e torniamo ai nostri eroi. Pasini è un sassofonista di tecnica ed esperienza (classe 1958), che ha suonato fra gli altri con George Cables, Billy Higgins, Cedar Walton, Ray Mantilla e Carl Burnett. Recentemente ha realizzato un progetto dedicato alla musica di Art Pepper. Edgardo “Dado” Moroni ha suonato con grandi americani come Ray Brown, Ron Carter, Johnny Griffin, Clark Terry, Peter Erskine, Alvin Queen. Classe 1962, vive e lavora fra l’Europa e gli Stati Uniti. L’oriundo Zinno (classe 1960) è stato allievo di Gary Peacock, ha suonato con gente come Shawnn Monteiro, Diane Schuur, Sonny Fortune, Jimmy Cobb. Da anni alterna l’attività concertistica e discografica a quella didattica. È una sorta di predestinato, essendo nato esattamente nella casa confinante con l’area nella quale George Wein organizzò i suoi primi leggendari festival. Siamo a Nussbaum, il veterano del gruppo, essendo nato nel 1955. Ammirato recentemente in Europa con Dave Liebman e Steve Swallow, ha suonato fra gli altri con Stan Getz, Michael Brecker, Jerry Bergonzi, Joe Lovano, fino a John Scofield e Carla Bley. Siamo insomma nei pressi delle leggende del jazz. L’avventura musicale a quattro nasce dalla conoscenza e dall’amicizia fra questi artisti. Il ritmo è la chiave di volta della loro scommessa, della loro proposta dal vivo. Che nasce dall’immortale lezione di Duke Ellington, che sosteneva - quando parlava di jazz - che «non significa nulla se non ci metti quello swing...». In programma, domani sera a Trieste, una serie di composizioni originali ma anche alcuni tra gli standard più affascinanti anche se meno frequentati dal repertorio contemporaneo dei concerti jazz.

domenica 16 marzo 2014

LELIOSWING, MOSTRA LUTTAZZI A TRIESTE

Quattro anni dopo le ceneri disperse nel mare della sua Trieste, Lelio Luttazzi vive ancora. Vive con la sua musica, le sue canzoni, il suo stile. Vive nel ricordo dei sabati sera televisivi in bianco e nero, gli “Studio Uno” con a fianco Mina, e delle sue “hiiiiiit parade” radiofoniche. Vive anche grazie a questa bella mostra, arrivata finalmente nella città da cui doveva partire. “Lelioswing, 50 anni di storia italiana” ha invece debuttato a novembre a Roma, ai Mercati di Traiano, a due passi da piazza Venezia e dai Fori imperiali. Quasi ventimila spettatori in tre mesi. Saranno di più a Trieste, dove la mostra è stata inaugurata ieri negli spazi del Magazzino idee. A due passi dal suo mare e da quel gioiello cadente del porto vecchio, a poche centinaia di metri dall’ex Hotel de la ville dove “el giovanoto mato” suonava il piano per i soldati americani finita la guerra, a qualche centinaia di metri in più dalla “sua” piazza Unità, dove scelse di venire a chiudere la sua vita meravigliosa (“Adesso basta, meglio di così la mia vita non poteva essere”, si legge in un angolo della mostra). A sollevare lo sguardo verso nord, dietro il ciglione carsico s’immagina anche la Prosecco della sua infanzia, orfano di padre e alunno della madre maestra, unico bambino italiano in una classe di sloveni. «La persona più felice oggi è Lelio - ha detto la vedova Rossana, presidente della fondazione intitolata all’artista -, ha amato Trieste tutta la vita e qui ha voluto tornare. L’ambizione della mostra è parlare della sua arte, del suo lavoro, ma anche di mezzo secolo di storia italiana. È una mostra fatta con amore, da parte di tutti». «È un omaggio dovuto - ha aggiunto Maria Teresa Bassa Poropat, presidente della Provincia - a un protagonista del nostro tempo, a un triestino del mondo, partito da qui e poi rientrato. Ha saputo interpretare la storia e il costume del nostro Paese, della nostra città. Senza nulla togliere alla capitale, questa mostra doveva partire da qui. Abbiamo rischiato di perderla ma abbiamo rimediato in tempo». La mostra multimediale - curata da Cesare Bastelli, Silvia Colombini e Leonardo Scarpa, con la collaborazione di amici e colleghi come Enrico Vaime per la supervisione ai testi, Pupi Avati per quella artistica, Piera Detassis per la parte cinematografica - racconta il Luttazzi musicista e compositore, showman e attore, scrittore e regista. Varie anime, da lui vestite sempre con quella leggerezza che ne costituiva una sorta di marchio di fabbrica. Il racconto accosta vita, carriera artistica e avvenimenti storici triestini e italiani, partendo dall’infanzia a Prosecco con il pianoforte dei primi esercizi, dai ricordi del primo complesso, I gatti selvatici. Dopo Trieste, il trasferimento a Milano per la direzione artistica della Cgd fondata dall’amico e concittadino Teddy Reno. Poi Torino per la prima orchestra d’archi ritmica della Rai. Due tappe, prima dell’approdo a Roma negli anni del boom, dei juke box, delle scritte al neon. I varietà dei sabato sera televisivi rigorosamente in bianco e nero, il cinema come attore ma soprattutto come autore di colonne sonore, la radio con la citata rubrica dei dischi più venduti. Nella quale un bel giorno “el mulo Lelio” si trovò a dover annunciare con compiaciuto imbarazzo l’ascesa della sua “El can de Trieste”. Tutto rivive fra gli spazi del Magazzino delle idee, tra un salotto anni Sessanta con televisore Geloso, una sala multimediale nella quale duettare al piano con lo stesso Luttazzi, dischi, locandine, foto, manoscritti, un esemplare del leggendario juke box Wurlitzer, cimeli d’epoca... Alcune cose, fra cui il pianoforte verticale su cui l’artista ha suonato per tutta la vita, rimarrano a Trieste, nei locali della biblioteca statale Stelio Crise. Rispetto al debutto romano, la versione triestina della mostra offre alcune cose in più. Innanzitutto la Mercedes cabrio d’epoca ch’era stata per alcuni anni di Luttazzi, e ora fa bella mostra di sé davanti all’ingresso e in una gigantografia all’interno. Poi altri oggetti e foto, fra cui un album dell’artista uscito in Argentina e una foto dello stesso a Broadway, la via dei teatri a New York. «L’auto - racconta Cesare Bastelli, vicepresidente della fondazione - l’abbiamo ritrovata per caso. Lelio l’aveva comprata in Germania negli anni Sessanta, su segnalazione delle gemelle Kessler che sapevano di quella sua passione. La tenne per alcuni anni, poi la rivendette. Per uno strano gioco del destino ora appartiene a un triestino, che ce l’ha prestata per la mostra». Ancora Bastelli: «L’album argentino l’abbiamo recuperato su eBay: 25 euro più le spese di spedizione, ora è nostro. La foto, ci risulta l’unica esistente di Luttazzi negli Stati Uniti, risale a un viaggio che aveva fatto con la scusa di accompagnare Walter Chiari impegnato in una commedia musicale, ma ovviamente per inseguire il mito americano della sua giovinezza». La mostra rimarrà aperta fino al 4 maggio.

venerdì 14 marzo 2014

VIRGINIANA MILLER domani a Udine

Loro sono di Livorno, ma oltre vent’anni fa, per cercare il nome del gruppo rock che stavano mettendo su, si fermarono nell’orto botanico di Pisa, sotto l’ombra di una gigantesca quercia americana. Il cui nome scientifico era - ed è tuttora, visto che il maestoso albero esiste ancora - Virginiana Miller. Che dev’esser loro sembrato anche un bel nome per la loro avventura che stava cominciando. Oltre vent’anni dopo, i Virginiana Miller - che domani alle 21 suonano al Palamostre di Udine - sono ancora una delle più belle, originali e fantasiose realtà della musica di casa nostra. Il loro primo album “Gelaterie sconsacrate” uscì nel ’97. Il sesto, pubblicato nell’autunno scorso, è invece “Venga il regno”. Che dà il titolo anche a questo tour. «Non auspichiamo l’arrivo di nessun regno in particolere - dice Simone Lenzi, cantante e autore dei testi, ma anche scrittore di un certo successo -, con quelle parole esprimono un certo senso di accettazione del presente, della vita che in questi anni hai costruito». Quasi un discorso da reduce... «No, ma capita che passati i quaranta capisci che le strade davanti a te non sono più tutte aperte. Dunque non è assolutamente una folgorazione sulla via di Damasco, piuttosto una nuova consapevolezza della vita, del presente, da affrontare comunque con determinazione». Nel disco ci sono dei brani molto politici. «Se allude a “Anni di piombo” e “Lettera di San Paolo agli operai”, sì, decisamente. Il disco è rivolto al presente ma parla anche di anni Settanta. Rimango convinto che avvenimenti come il sequestro Moro e l’intera stagione del terrorismo abbiano segnato la storia d’Italia ancor più di quanto si creda. I nostri ritardi partono da lì». Ripensando a quei ragazzi sotto la quercia? «Siamo contenti. È bello suonare ancora assieme, con le stesse persone, anche se gli anni sono passati e la nostra vita è cambiata. Ma il nostro progetto ha resistito, al di là di tutto e di tutti. Ognuno fa anche altre cose, ma abbiamo tenuto in vita questa nostra cosa pensata e realizzata assieme». La scena musicale attorno a voi? «Assistiamo a un paradosso: la scena musicale è cresciuta, ma il mercato si è ristretto. In giro vedo e sento maggior maturità artistica, i gruppi che escono sono più preparati, c’è più qualità in giro. Oggi è più facile produrre ma anche pubblicizzare la musica nuova che esce, l’offerta è abbondante, ma c’è meno attenzione da parte della gente, del pubblico». Avete ristampato il vostro primo album. Perchè? «Ci eravamo accorti che “Gelaterie sconsacrate” non si trovava più in giro. Su eBay c’era persino qualcuno che lo vendeva a sessanta euro a copia. Non ci sembrava giusto. Allora lo abbiamo ristampato così com’era, senza modifiche o rimissaggi di sorta». Ancora attuale o datato? «L’una cosa e l’altra. Suona ancora bene perchè ci avevamo messo dentro tante cose. Tutti, nel primo disco, infilano anni di idee, emozioni, tentativi. Però è chiaro che è un disco figlio di quegli anni: riascoltandolo oggi avverti delle ingenuità, ti accorgi che alcune cose le avresti fatte diversamente». Avete vinto un David di Donatello. «Una grande soddisfazione, arrivata per “Tutti i santi giorni”, canzone inserita nell’omonimo film di Paolo Virzì, fra l’altro tratto dal mio libro “La generazione”. Ottenere un riconoscimento dal mondo del cinema ci ha fatto particolarmente piacere». Sembra quasi che di voi si accorgano più gli altri mondi... «È vero, anche nella narrativa. Sandro Veronesi e altri hanno detto cose molto lusinghiere su di noi. Vuol dire che siamo trasversali». Livorno? «Ha una scena musicale vivacissima, centinaia di gruppi che suonano, ma scontiamo un certo isolamento provinciale, c’è la tendenza a chiudersi. E una crisi economica che anche da noi picchia forte». Il prossimo disco? «Ora facciamo questo tour, che proseguirà d’estate. Poi riordiniamo le idee e cominciamo a pensarci. Non penso che uscirà prima del 2015». E il prossimo libro? «Il libro esce a giugno per Laterza. S’intitola “Mali minori”, parla di quelle piccole delusioni, quei piccoli incidenti che hai da bambino, non sembrano importanti, ma segnano il tuo destino».

giovedì 13 marzo 2014

ROY PACI sabato a Trieste

«Ricordo quando a vent’anni sono andato per la prima volta in Brasile, attirato dai grandi trombettisti sudamericani, con i loro suoni belli e potenti, con la loro tecnica. Volevo imparare, mi ero portato un sacco di carte, diplomi, presentazioni... Ma il capo di un’orchestra al quale mi ero rivolto non volle vedere nulla: mi disse soltanto di suonare. Lo feci. E cominciò la mia avventura». Roy Paci, siciliano di Augusta, classe 1969, torna sabato sera a Trieste, dove lo ricordiamo in un emozionante concerto in piazza Unità, nell’estate 2010. Quella volta suonò vicino al mare, stavolta la sua musica va in scena sull’altipiano, per l’esattezza nel teatro tenda di Borgo Grotta Gigante, nell’ambito della “Guca sul Carso 2014, Winter edition”. Il trombettista sarà ospite nel concerto della Municipale Balcanica, gruppo pugliese con cui sta registrando nei suoi studi vicino Lecce. «Ecco - prosegue Roy Paci -, guardando i ragazzi di oggi, le loro speranze, i loro entusiasmi nonostante la situazione difficilissima, mi torna in mente quel mio primo viaggio in Sudamerica di tanti anni fa. Fu un viaggio all’avventura, per uscire dall’ambiente che conoscevo e che mi stava stretto». I ragazzi di oggi? «Rispetto a qualche anno fa io vedo in giro tante piccole fiaccole di speranza. Fra i nuovi ora comincia finalmente a emergere chi vale veramente. Ci sono cose interessanti in questa generazione di nativi digitali, di ragazzi che girano l’Europa con Erasmus e con i voli low cost. Quando tornano a casa, hanno maggiore apertura mentale rispetto alle generazioni precedenti. Hanno un pensiero “glo-cal”, sono più saggi» Nella musica? «Grande movimento anche lì. Sono reduce da alcuni concerti negli Stati Uniti, a New York, a Los Angeles. Ho trovato una scena molto ricca, in perenne movimento, aperta alle contaminazioni. C’è un movimento in atto dalla East verso la West Coast. Los Angeles, ma anche città come Austin, in Texas, sono diventate vere e proprie capitali della nuova musica. Ho trovato più movimento lì, che nella nostra vecchia Europa». I suoi miti sono sempre Louis Armstrong e Roy Eldridge? «Certo, ma ora ce ne sono anche altri. Penso al sudafricano Mongezi Feza, al franco-libanese Ibrahim Maalouf, all’americano Dave Douglas... Gente che pesca dal jazz, dalla musica etnica, dalla musica popolare, da mille altri generi. Gente da cui possiamo solo imparare». Con la televisione come va? «Mi sono preso una pausa di riflessione. A “Zelig” e con Chiambretti mi ero divertito, a “Star Academy” ho rischiato di finire stritolato. Il punto è che a me la televisione piace, ma non mi interessa fare una carriera televisiva. Dunque finchè potevo portare la mia musica senza condizionamenti, okay. Quando mi sono accorto che stavo soffocando in un meccanismo, arrivederci e grazie». Cosa l’ha colpita dei Gogol Bordello, e del loro leader Eugene Hütz, con cui ha collaborato? «Portano nella loro musica il sapore nudo e crudo della strada. Mischiano il sudore, la rabbia, la ribellione, la polvere, i sorrisi delle genti nomadi...». Prossimo disco? «Esce quest’estate. Ci stiamo lavorando qui, nella mia base creativa e di lavoro vicino Lecce. Quando sono in Italia ormai mi divido fra Roma e la Puglia, con qualche puntata in Sicilia, dove ho ancora la famiglia. L’album non ha ancora un titolo. Sarà l’evoluzione di Aretuska, anzi, una sorta di Aretuska 2.0...».

mercoledì 12 marzo 2014

SAVORETTI domenica a Udine

Inglese di origini genovesi, Jack Savoretti non poteva che cominciare dal capoluogo ligure il suo primo tour italiano. L’ha fatto nei giorni scorsi, ottenendo una splendida accoglienza: la stessa avuta ieri sera al “Blue Note” di Milano. Stasera è a Bologna, venerdì a Torino, sabato a Firenze. E domenica alle 21.30, a Udine, all’Honey Money di viale Palmanova, unica data regionale del tour. Come ha cominciato con la musica? «È stata una cosa naturale, che ho scelto di fare. Verso i sedici/diciassette anni mi piaceva scrivere e poi ho avuto la fortuna di trovare sempre una chitarra in casa. Prima era solo un sottofondo, un motivo di divertimento. Man mano è diventata una cosa importante. E devo dire che ho sempre reputato più facile scrivere canzoni mie, piuttosto che cantare quelle degli altri». Le sue origini italiane? «Per me l’Italia ha sempre avuto una grande importanza. Mio padre, italiano, ascoltava sempre moltissime canzoni italiane, quando ci siamo trasferiti all’estero per lui era sempre un moneto di nostalgia e malinconia riascoltare la musica italiana. Mi è rimasto dentro questo modo cantautorale italiano di raccontare una storia, di descrivere quasi un film. E quando posso cerco sempre di tradurre questo metodo nella mia musica». Com’è stato aprire il concerto di Springsteen? «Eravamo all’Hard Rock Calling di Londra. Suonare prima di uno dei migliori, se non il migliore, performer della storia del rock è stata una lezione educativa. Sono rimasto letteralmente a bocca aperta nell’ammirare per tre ore il suo concerto. Abbiamo passato molto tempo con la sua band ed essere parte di quella giornata è stato un onore. Sono riuscito ad incontrare anche lui personalmente, ma solo per un tempo brevissimo». Le suona in molti festival: meglio dei concerti? «Sono due cose diverse. Il concerto è una cosa intima, dove la gente ti conosce e la maggior parte delle volte ha scelto di venirti ad ascoltare. È come se si instaurasse un rapporto d’amicizia anche senza conoscersi, è un modo per presentare le cose nuove, vecchie e a volte entrambe assieme. Ai festival non sai chi ti conosce e chi invece sì. La maggior parte delle volte, soprattutto inizialmente, non ti conosce nessuno, quindi è una battaglia diversa, però allo stesso tempo è li che capisci cosa funziona del tuo repertorio e cosa meno. Adoro entrambe le dimensioni. Sono semplicemente due sport diversi». L’esperienza nel video di Paul McCartney? «Abbiamo girato “Queenie eye” negli Abbey Road Studios di Londra, con Meryl Streep, Johnny Depp, Kate Moss, Sean Penn, tanti altri. È stata una cosa stupenda, sono stato colpito dalla sua umiltà e dal suo entusiasmo. Quello che è successo in quella stanza è qualcosa di inspiegabile. Ci ha anche cantato “Lady Madonna” al pianoforte. Siamo rimasti in contatto con Paul, con Springsteen purtropo no, ma con Paul ci siamo scritti qualche volta». Com’è nato l’album “Before the storm”? «È il mio terzo album, racconta della fase che va dall’adolescenza all’età adulta. Quel periodo di confusione quando sai che stai andando incontro alla tempesta e devi farti trovare preparato e pronto». A Casa Sanremo com’è andata? «Sono stato invitato dall’organizzazione e apprezzo molto cosa stanno facendo a Casa Sanremo, gli auguro molta fortuna e successo, perché stanno dando un sacco di opportunità agli artisti italiani giovani. Creano l’atmosfera giusta dove si possono esibire, magari davanti a gente che può aiutarli a portare avanti la loro musica». Conosceva il Festival? «Non vivendo in Italia, non l’ho mai seguito molto, ma lo conoscevo bene e ne sentivo parlare molto. Spero che nei prossimi anni ci sia sempre più spazio per la musica giovane italiana». Dopo questo tour italiano? «Saremo in tournèe in Inghilterra, poi andiamo un po’ in giro per il resto d’Europa per i vari festival. Passeremo per Londra dove il 12 luglio aprirò il concerto di Neil Young & Crazy Horse ad Hyde Park. Suonare il più possibile, insomma...».

sabato 8 marzo 2014

NEGRAMARO 15-7 palmanova

Annata musicalmente coi fiocchi per la Bassa friulana. Dopo l’annuncio del concerto di Ligabue il 4 aprile a Latisana, ora arriva anche un appuntamento per l’estate: il 15 luglio, a Palmanova, in Piazza grande, farà infatti tappa il tour dei Negramaro, nell’ambito della rassegna Onde Mediterranee 2014. La band di Giuliano Sangiorgi è da più di un anno nelle classifiche di vendita con “Una storia semplice”, la loro prima raccolta di successi, pubblicato alla fine del 2012 in occasione del proprio decennale. L’album comprende ventidue successi e sei inediti, fra cui i quattro singoli “Ti è mai successo”, “Una storia semplice”, “Sole” e “Sei”. E ha dato inoltre il titolo ai megaconcerti dell’estate scorsa negli stadi di Roma e Milano, con la coda autunnale nei palasport, all’insegna di una lunga serie di “tutto esaurito”. Ora arriva questo “Un amore così grande Tour 2014”, che propone una decina di date in luoghi particolari: il 5 luglio all’Arena della Regina, a Cattolica; il 6 luglio all’Hydrogen Festival, Piazzola del Brenta, Padova; l’luglio all’Arena del Mare, a Genova; il 10 al Pistoia Blues Festival, il 13 all’Arena di Verona. E dopo la tappa in Friuli, il 19 luglio al Giffoni Film Festival, a Salerno; il 22 luglio al Teatro Antico di taormina; il 26 allo stadio di Lecce, nel loro Salento. Il tour prende il nome dall’omonimo brano scritto per Mario Del Monaco e portato al successo da Claudio Villa (ospite fuori gara a Sanremo ’84): una nuova cover dei Negramaro, dopo il “Meraviglioso” di Modugno. Biglietti in vendita a partire dalle 12 di oggi su Ticketone.it e nei punti vendita Azalea Promotion.

Stasera VEN 7 SARAH JANE MORRIS a Cervignano

Sarah Jane Morris e Antonio Forcione arrivano stasera alle 21 al Teatro Pasolini di Cervignano, reduci dal successo ieri sera a Padova e nei giorni scorsi al Blue Note di Milano. La rossa di Southampton e il chitarrista molisano si sono conosciuti un paio di anni fa a Londra, ed è scattato il feeling musicale che ha portato a questo progetto dal vivo in comune e porterà quanto prima anche a un disco assieme. La Morris ha cominciato nell’86 con il gruppo britannico Communards, con cui cantava “Don’t leave me this way”, anche se alcuni la ricordano ancora corista dei primissimi Eurythmics. «Gli anni '80 - dice - sono stati un gran bel periodo per essere creativi. Ero socialista e quindi contro Margaret Thatcher, nonostante fossi lusingata di avere nel mio Paese una donna al potere». All’inizio degli anni Novanta ha collaborato all’opera rock “The fall of the house of usher”, musica di Peter Hammill e testi di Judge Smith. Nel ’91 vince a Sanremo in coppia con Riccardo Cocciante in “Se stiamo insieme”. Al Festival è poi tornata ospite nel 2006 di Simona Bencini e nel 2012 di Noemi. Ma oltre al pop in tutti questi anni ha frequentato anche Brecht e Weill. Con Forcione propone una miscela di pop, jazz e blues, alternando brani originali (alcuni composti con il chitarrista) a cover di Bob Dylan, Leonard Cohen, Captain Beefheart, Stevie Wonder, Sly and the Family Stone e Tracy Chapman. «Se fai la cover di un pezzo hai bisogno di farla tua», afferma la cantante, da sempre ispirata da Billie Holiday.

mercoledì 5 marzo 2014

ELISA, stasera a rimini data zero tour, che parte ven da Conegliano e arriva il 29 a trieste

Il biglietto da visita? Oltre sessantamila copie vendute di “L’anima vola”, l’album uscito a ottobre. Che da diciotto settimane staziona fra i dieci dischi più venduti in Italia. Assolutamente niente male, insomma. «Sì - ammette Elisa, che stasera a Rimini è attesa dalla “data zero” del tour, che parte venerdì da Conegliano e arriva il 29 marzo a Trieste -, l’album sta funzionando molto bene. Avevo paura che il mio pubblico, davanti al primo album tutto in italiano, rimanesse disorientato. C’era anche il timore di deludere quelli che mi seguono dall’inizio. Invece...». Anni fa non l’avrebbe mai fatto. «Il momento non era maturo. Ed è arrivato dopo sedici anni dai miei inizi. E dodici dopo “Luce (Tramonti a Nordest)”. È stato tutto molto sereno, spontaneo, quasi naturale. Fra l’altro è un disco ispirato, scritto velocemente, quasi getto. E comunque ciò non vuol dire che non scriverò più in inglese». Ora la prova dal vivo. «Già. Con il nuovo gruppo abbiamo fatto diverse settimane di prove a Cervignano, seguite a un periodo di lavoro quasi casalingo, nel quale ho sistemato arrangiamenti, singole parti degli strumenti, insomma, l’abito sonoro con il quale le canzoni verranno proposte al pubblico. L’allestimento vero e proprio dello spettacolo è invece avvenuto a Rimini, prima di questa “data zero” che è una sorta di grande prova generale». Lo show? «Tre ore di musica con le canzoni del nuovo album, ma anche quella manciata di classici che il pubblico si aspetta quando viene a un mio concerto. Senza particolari riletture, però. Ogni brano, ogni disco appartiene a un determinato momento, a una fase della mia vita. Inutile e forse sbagliato azzardare rivisitazioni che poi rischiano di portare a stravolgimenti». Nessuna sorpresa, allora. «No, forse una piccola sorpresa c’è. E mi è venuta in testa proprio a Trieste, quando ho visto il concerto di Bruce Springsteen allo Stadio Rocco. Avevo molto apprezzato quella parte dello show nella quale il pubblico chiede i brani al Boss. E ho pensato di creare un momento simile». Insomma, preparate gli striscioni. «Sì, suoneremo le canzoni che il pubblico ci chiederà, o a voce o con i titoli scritti su striscioni e cartelloni. Ovviamente non mi passa nemmeno per la testa di paragonarmi al grande Bruce, ma mi sembrava una cosa carina. Fra l’altro nei suoi concerti-maratona questa parte dura quasi un’ora. Nel mio spettacolo sarà molto più breve». Emma e Sebastian saranno in tour con lei? «Ovvio, non potrei lasciare i miei figli a casa. La bambina ha quattro anni e mezzo. È già alla sua quarta tournèe, l’ho sempre portata con me. Qualche volta vede anche l’inizio del concerto. All’inizio le faceva un po’ effetto vedermi sul palco, cantare, suonare, le luci... Ora è un po’ più grande, comincia a capire, ad accettare questa cosa». Il piccolo? «Sebastian è ancora molto piccolo. Vedremo come organizzarci. La mia famiglia ha avuto un ruolo importante in questo lavoro, la maternità mi ha cambiato molto. Ogni opera è influenzata dalla propria vita personale». In questi anni ha duettato, o ha conosciuto, tanti suoi idoli di quand’era ragazza. «Sì, e certo volte non mi sembrava vero. È successo per esempio al Concerto di Natale, a Roma, con Dolores O’Riordan. Lei, da sola ma anche da solista, è stata davvero fra i miei miti. Posso dire di essermi formata musicalmente e vocalmente ascoltando i suoi dischi». Altri miti? «Beh, quando ho duettato con Tina Turner è stata un’esperienza davvero incredibile. Ma anche conoscere Alanis Morissette, Eddie Vedder... E tutto questo senza nulla togliere ai grandi artisti italiani con cui ho diviso il palco, e che ormai sono degli amici: Ligabue, Negramaro, Zucchero...». Che non si dimenticano mai di lei... «Si tratta di artisti amici, con i quali si è stabilito da tempo un feeling particolare. Penso a Luciano, che aveva da parte questa canzone scritta per sua figlia Linda, “A modo tuo”, ma non la cantava perchè voleva che a farlo fosse una donna. E madre. Il brano descrive bene il difficile ruolo del genitore che vede crescere i propri figli: vorrebbe proteggerli tutta la vita e tenerli lontani dal dolore e dai problemi, ma sa bene che un giorno dovrà lasciarli andare». Giuliano Sangiorgi dei Negramaro? «Ha scritto le parole di “Ecco che”, rileggendo il personaggio principale del film “L’ultima ruota del carro”, di Giovanni Veronesi, che con il suo camion di traslochi rappresenta la classe operaia e il sogno di diventare qualcuno. Poi scopre che la ricchezza della vita è avere qualcuno da amare, una famiglia...». Nel disco c’è anche Tiziano Ferro. «Era da tempo che volevo collaborare con lui. Aspettavo di avere la musica giusta da proporgli. “E scopro cos’è la felicità” ha una melodia calda, soul, mi sembrava giusto per lui. Che ha scritto un testo sul rapporto fra me e mia figlia, di come sia cambiata la mia vita, dopo aver visto delle immagini di noi due e Andrea (Rigonat, compagno dell’artista e suo chitarrista - ndr) assieme in tour». Il suo prossimo sogno? «Lavorare all’estero in maniera più continuativa. Ho suonato un po’ dappertutto: dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Spagna alla Norvegia, dalla Germania all’Olanda... Ma si è trattato sempre di brevi tour, presentazioni legate a un’uscita discografica, a un successo radiofonico». Invece? «Invece credo che per farsi un nome fuori dall’Italia sia necessario suonare molto dal vivo, anche in città piccole, senza seguire la logica della promozione discografica. È per questo che, finito questo tour italiano, e ricaricate le batterie, quest’estate ho intenzione di andare in giro per l’Europa, partecipare a qualche festival». Elisa, cosa pensa di questa Italia? «Da ragazza non mi sono mai interessata alla politica, ho sempre pensato alla musica. Ero un po’ naif, con un approccio bohemien alle cose della vita. Ora che ho dei figli mi informo di più. Mi rendo conto che la situazione è molto difficile, non è solo un fatto di crisi. Serve equilibrio, senso di responsabilità, non può valere la legge del più forte. Nel nostro Paese esiste un sistema di tutele, di aiuto alle fasce più deboli che non può e non deve essere smantellato».

domenica 2 marzo 2014

DUE ANNI SENZA LUCIO DALLA, nasce la fondazione

Nasce la Fondazione Lucio Dalla. Sembrava tutto in alto mare. Sembrava che gli eredi dell’artista scomparso esattamente due anni fa non riuscissero a trovare un accordo, considerata anche la mole (si parla di oltre cento milioni di euro) dell’eredità piovuta loro addosso. E invece, quasi a sorpresa, l’annuncio: martedì 4 marzo, settantunesimo “compleanno” dell’autore di decine di classici della canzone italiana, nasce la fondazione di cui si era parlato subito, dopo la scomparsa, per dare continuità e preservare la genialità della sua opera artistica e musicale. Ma anche per diffondere e valorizzare la sua storia artistica, umana e culturale. «La fondazione - spiega Michele Mondella, storico ufficio stampa del cantante, cui gli eredi hanno affidato il lavoro preparatorio - sarà il motore di una narrazione a 360 gradi di Lucio, uno strumento teso a ricordare e valorizzare le sue qualità di compositore, musicista, cantante, il suo amore per l’arte e la bellezza». Si vuol ricordare anche la sua grande capacità di comunicare, la naturale attenzione e curiosità per gli esseri umani, per il passaggio tra presente e futuro. Ancora Mondella: «L’ambizione della fondazione sarà anche di colmare il vuoto culturale che si è creato con la sua immatura scomparsa, dando nuova linfa a tutte quelle attività che hanno rappresentato la sua vera ragione di vita: la ricerca in molteplici campi, oltre naturalmente quello musicale, come il teatro, l’arte, la pittura, la letteratura, la poesia, la fotografia e nella regia cinematografica, con cui si stava misurando personalmente. Riannodare quindi il legame tra la sua genialità e la creatività di nuovi artisti in varie discipline». Tante le idee iniziative in arrivo. L’apertura al pubblico della casa-museo in via D’Azeglio, a Bologna, a due passi da piazza Maggiore; l’istituzione di borse di studio, la realizzazione di pubblicazioni editoriali, la realizzazione di eventi, iniziative e spettacoli in suo nome. La fondazione nasce il 4 marzo, ma molte procedure burocratiche vanno ancora ultimate. Entro giugno partirà la fase operativa e verrà diffuso il calendario delle attività. Nel consiglio direttivo gli eredi, cioè i cugini di Dalla. Non ci sarà Marco Alemanno, il giovane attore pugliese molto vicino all’artista negli ultimi anni della sua vita. Ieri, ospite di un programma tv per presentare l’album “Un abbraccio unico”, Ron ha detto: «Alemanno non era il compagno di Dalla. Era una figura molto importante per lui perché gli risolveva dei problemi enormi. Era il suo segretario ed era il suo produttore. Non so perché alla morte di Lucio abbiano tirato fuori questa cosa». Ancora Ron: «Non si può alla morte di una persona importante per l’Italia andare a toccare una sfera così privata e intoccabile, perché, prima di tutto non era vero e, secondo, perché così hanno tolto a Lucio un pezzo di dignità».