domenica 31 agosto 2014

BOB DYLAN, il seguito dei BASEMENT TAPES

I seguaci di Bob Dylan aspettavano da quasi quarant’anni. Correva infatti il 1975, quando il menestrello del Minnesota dava alle stampe “The Basement Tapes”, pietra miliare dell’arte dylaniana, sedici canzoni registrate nel ’67, nel periodo della convalescenza in una fattoria di campagna della Woodstock Valley dopo il grave incidente in moto del luglio ’66, ma rimaste per otto anni nascoste fra i meandri delle pubblicazioni pirata, i cosiddetti bootleg (il più famoso: “Great white wonder”, del ’69). Il disco raccolse critiche contrastanti ma ebbe un grande successo di pubblico. Tanto che i dylanologi da tempo sognavano un seguito. Ora l’attesa è doppiamente soddisfatta, con l’annuncio di due nuove uscite, entrambe a novembre. La prima: “The Basement Tapes Complete: the Bootleg Series vol. 11”, un doppio cd (ma ci sono anche il cofanetto con sei cd e l’ormai immancabile versione nel vecchio e fascinoso vinile) che propone tutte le registrazioni realizzate nel ’67 da Dylan con The Band. I nastri originali sono stati restaurati e riprongono l’artista nel suo momento artisticamente forse più felice, prima di discutibili svolte e conversioni. Erano gli anni di album come “Highway 61 Revisited”, “Blonde on Blonde”, “John Wesley Harding”, della discussa performance al Newport Folk Festival, dei lunghi tour negli Stati Uniti e in Europa. Ma c’è un’altra uscita che farà felici i fan del settantatreenne artista statunitense. Sempre a novembre verrà infatti pubblicato “Lost on the river: the New Basement Tapes”, omaggio a Bob da parte di alcuni suoi colleghi che sono stati influenzati, per loro stessa ammissione, da quelle antiche registrazioni del ’67. Stiamo parlando del produttore e chitarrista T Bone Burnett, di Elvis Costello, Jim James (My Morning Jacket), Marcus Mumford (Mumford & Sons), Rhiannon Giddens (Carolina Chocolate Drops), Taylor Goldsmith (Dawes). Accanto a loro, anche l’attore (e musicista) Johnny Depp, presente alla chitarra nel brano “Kansas City”. Bella compagnia.

domenica 24 agosto 2014

CERONETTI, LE BADANTI E I PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE ALLUNGANO LA VITA MA...

Ed ecco, arriva agosto, mese del parossismo dei rumori nelle città storiche e dell’esodo delle badanti. E l’astinenza da badanti somiglia alle crisi da eroina o da psicofarmaci: finché loro ci sono, vecchiaie e solitudini sono “tenute a bada”. Badano a questo, essenzialmente, a esorcizzare demoni, spettri, ombre paurose, che incombono sulle famiglie in conseguenza dei trionfi della medicina, che allungando implacabilmente l’esistenza materiale regala a tutti i peggiori anni delle nostre vite. Ma ingegno umano e circostanze storiche hanno prodotto il rimedio: la Badante. Vengono dall’Est (principalmente Romania e Polonia), dal Nordafrica, dal Sudamerica povero (Brasile, Perù, Caraibi…); già prima che l’afflusso si facesse massiccio, l’accaparramento di filippine leggendarie, che si assumevano a vita e badavano a tutto, consolazione di signore facoltose, era in atto in Italia, senza assumere connotazione di fenomeno sociale. Alte quanto una gamba di corazziere, ad una leggera evocazione della padrone, comparivano silenziose, tornavano dopo un quarto d’ora col vassoio del tè pronto, servivano a tavola col rigore e la perfezione di un manuale. Prima del Novanta e passa, la badante nell’accezione odierna, sostantivo che si tinge a poco a poco di professione, non esisteva. È una creazione del connubio tra emigrazioni di massa e decadimento inesorabile di una nazione ipernutrita e invecchiante sempre più nel rimbambimento, nell’inutilità forzata, nelle depressioni e nelle incontinenze. I nonni , finché servono, faticano da Zio Tom; poi, nei casi fortunati, la badante arriva a scampare i loro interminabili ultimi giorni dalla nequizia della Casa di Riposo. Ricordo la vedova (dal ‘62 mi pare) di Ennio Flaiano, cui i diritti cinematografici del marito consentivano un piccolo appartamento in un residence dorato, in un posto rasserenante, dove le erano serviti pasti esclusivamente da lei ordinati: e nei suoi occhi, povera Rosetta, non brillava nessun sorriso, nessuna gioia… La rallegravano un poco le visite di una giovane amica che le faceva letture: poi ripiombava nella sua affabile e incurabile malinconia. Invece Montale, con la sua Gina che pensava (badava) a tutto, ebbe una vecchiaia da Nobel scettico e sempre lucido; ma non conobbe la sventura degli Ottant’anni inoltrati. Viene l’agosto e già a luglio è il panico, nelle famiglie. — La Costantina sarà via dal 4 al 31. Lei è unica, la mamma non vuole nessun’altra, mi fa scenate. Saremo inchiodati qui! — I cellulari raccattano sfoghi indicibili. Trovare una badante esperta usa-getta non è facile. Le badanti partono, gli aerei sono pieni di badanti che tornano a casa, le case dei vecchi soli si riempiono di disperazioni. È il male d’agosto: malattia, malessere, disagio di gente che non può più essere libera, che vive della schiavitù di altri. Perché la società si è organizzata, nelle forme ritenute più progredite (dunque le più sorvegliate) in base a catene senza fine di schiavitù, sradicando le autonomie, imponendo i doveri in ogni atomo d’esistenza, perseguitando il sogno, fino a suscitare vocazioni e rivolte criminali. Per le pressanti richieste che ha, la badante deve ubbidire alla condanna di agosto: o adesso, che tutto stagna e si svuota, o perdere il posto, mancare all’obbligo. Arrivate a casa, è un faticare da Dio di tipo diverso: lavori agricoli, cucine famigliari, assistenza gratis a chi non vede l’ora di sfruttarle per gratitudine del denaro ricevuto. In genere, non sono partenze giubilanti. Può essere in parte disintossicante sfuggire alla penosa cadenza dei loro affidati segnati da Alzheimer, affetti da mali cronici di schiena che richiedono sforzi di sollevamento, con bocche sgarbate, ordini esasperanti, ripulse di scontenti. Se c’è un soffio di amore, o almeno di simpatia umana, perfettamente incongruo in questo brulicare mostruoso di costruzioni, già intravedi una luce, una possibilità di altro, nella ripetizione insignificante di motivi immutabili. Metto tra le benemerenze ignote delle badanti, la difesa del tutto impensabile della lingua e dell’identità italiana. Eppure è così: il loro italiano, all’inizio elementare ma via via più fluente e arricchito dall’umanità con i loro assistiti (oggetti casalinghi, nomenclatura ortofrutticola, gergo medico, paramedico, farmaceutico, ortopedico, problemi di salute, confidenze immancabilmente ricevute di situazioni famigliari, osservazioni sapide sui governi italiani, sfoghi sulla vita, partecipazione a lutti, qualità eccelse di nipotini, modi di condire spaghetti), il loro italiano, dico, è incontaminato . Se ne togli la barbarie universale dell’OK, l’italiano badantofonico è prodigiosamente libero dalle bestiali locuzioni che ininterrottamente entrano senza più uscirne nell’italiano corrente parlato e scritto, dei colti, dei semicolti, dei parlamentari, dei giornalisti. Quanto a ministri e primi ministri sono ormai fuori dall’identità italiana, che invece arride alle badanti dopo tre mesi di contatti, quell’identità che ha scelto, come estremo rifugio, l’inflessione d’altre contrade e diserta sdegnata gli aliti fetidi dei malparlanti nazionali. La badante italofona ha una superiorità sul turista arrogante che in quanto di nascita anglofona, o angloparlifero per bilinguismo, viene in Italia e sparpaglia esclusivamente il suo inglese di occupatore linguistico senza conoscere una sola parola di italiano, senza portarsi nella borsa neppure un dizionarietto tascabile dove scoprire che egg si dice uovo e son of a bitch, gustosamente, figlio di puttana . Forse, un giorno, ex badanti sulla cinquantina insegneranno l’italiano, resistendo duramente contro presidi e infami decreti ministeriali che vorrebbero imporre ai gorbetti lezioni in inglese informatico e la versione inglese dell’ Addio monti manzoniano. . (Guido CERONETTI - Repubblica)

venerdì 15 agosto 2014

WHO COMPIONO 50 ANNI e chiedono un aiuto ai fan

Qualcuno ha già coniato lo slogan: With a little help from my fans. Gli Who compiono cinquant’anni e, parafrando il classico dei Beatles, noto anche nella versione di Joe Cocker, festeggiano il loro cinquantenario chiedendo ai fan di un tempo foto, filmati, registrazioni e materiali vari legati al loro mezzo secolo di storia, non solo musicale, da allegare alle pubblicazioni previste per l'anniversario. Pete Townshend e Roger Daltrey, superstiti dopo la scomparsa di Keith Moon nel 1978 e John Entwistle nel 2002 del leggendario gruppo di “My generation” e delle opere rock “Tommy” e “Quadrophenia”, hanno rivolto una sorta di video-appello ai loro antichi estimatori per recuperare i materiali finiti nel dimenticatoio. Proprio grazie a un fan, i due musicisti sono già entrati in possesso di un filmato datato 20 ottobre 1964, quando il gruppo si chiamava ancora High Numbers e suonava al Railway Hotel di Wealdstone. Insomma, svuotate i cassetti, vecchi amici, e mandate tutto a thewho@unmusic.com Per il mezzo secolo gli Who, oltre cento milioni di dischi venduti in carriera, stanno preparando un festeggiamento in grande stile. Completo di tour, “Who hits 50 tour”, che comincerà il 26 novembre da Dublino per concludersi il 17 dicembre a Londra. Una sorta di “lungo addio”, dicono, per ora limitato alle maggiori città del Regno Unito. «Deve esserlo per forza - dice il settantenne Daltrey -, non possiamo andare in tour per sempre, ma non sappiamo per quanto continueremo a farlo. È una cosa a tempo indeterminato, ma avrà una sua finalità. Smetteremo di andare in tour, ne sono sicuro, prima di smettere di suonare come band. È come ha detto Eric Clapton: è la strada che ti tritura, è incredibilmente dura per il corpo a questa età. Cantare è gratuito, voi ci pagate per il maledetto viaggio...». L’ultimo disco con materiale inedito degli Who è “Endless wire”, uscito nel 2006 dopo un silenzio discografico durato ventiquattro anni. Recentemente Townshend, classe 1945, ha scritto tre nuove canzoni e spera prima o poi di registrarle con Daltrey. «Gliele ho mandate, fortunatamente gli piacciono...». Uno dei maggiori successi degli Who, “My generation”, nel 1965 divenne l’inno della generazione che voleva tutto e subito, con la famosa frase «voglio morire prima di diventare vecchio». Quando compì cinquant’anni, Townshend spiegò che quella frase intendeva «non morte reale ma morte filosofica» e che «si può restare giovani fino a novant’anni». «Finché ci si ribella si resta giovani» ha aggiunto recentemente Daltrey.

giovedì 14 agosto 2014

JIMI HENDRIX, quei quattro anni che rivoluzionarono il rock

«Alla mia morte ci sarà una jam session, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale...». Così scriveva Jimi Hendrix pochi mesi prima di morire, pervaso quasi da un oscuro presagio. Il 18 settembre saranno passati quarantaquattro anni dalla sua morte, ma si parla ancora di lui: la leggenda costruita in pochi anni di carriera da colui che non solo la rivista Rolling Stone considera “il più grande chitarrista di tutti i tempi” (meglio di Eric Clapton, più di Jimmy Page...) non accenna a sbiadire. Capita agli eroi morti giovani, fotografati nell’immaginario collettivo nelle fattezze che avevano da ragazzi. Jimi aveva infatti appena ventisette anni, quando se ne andò troppo presto, bruciato dalla sua fretta di vivere, dopo aver rivoluzionato il rock e l’arte di suonare la chitarra elettrica. Si riparla di lui per un libro, “Zero - La mia storia” (Einaudi, pagg. 255, euro 22). Ma anche per lo storico accordo fra la famiglia Hendrix e la Sony (per la precisione: la Legacy Recordings, divisione catalogo di Sony Music Entertainment) che hanno acquisito i diritti sulle 88 registrazioni in studio e dal vivo di Curtis Knight & The Squires con Jimi Hendrix effettuate tra gli anni ’65-’67, un tempo detenuti da Ppx Enterprises e Ed Chalpin. Il libro è una sorta di autobiografia post mortem, resa possibile dal lavoro del produttore cinematografico e musicale Alan Douglas e del documentarista Peter Neal, che hanno selezionato e messo in fila, cronologicamente, tutti gli scritti di Hendrix che hanno trovato: lettere ai fan, cartoline spedite ai familiari, stralci di interviste, frasi scritte su pacchetti di sigarette o tovaglioli, discorsi fatti dai palchi dei suoi concerti, testi delle sue canzoni. Un materiale solo apparentemente eterogeneo, che ha come minimo comun denominatore la visione della vita e della musica del chitarrista mancino. Che dice: «Quando salgo sul palco e canto, quella è tutta la mia vita. La mia religione. Io sono la religione elettrica...». Il libro - spiegano i curatori - «è opera di Jimi Hendrix a tutti gli effetti. È merito suo che amava parlare di sé con sensibilità, candore e ironia». Niente di sostanziale è stato cambiato, nessuna parola è stata aggiunta, nessun concetto modificato. Fra le pagine scorre la sua storia, proprio come l’avrebbe potuta raccontare lui stesso se ne avesse avuto il tempo. E se non fosse entrato nel terribile “club 27”, quello dell’età maledetta, che ha segnato il capolinea - oltre per per lui - per Brian Jones, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutti tra il ’69 e il ’71. E in tempi più recenti anche per Kurt Cobain e Amy Winehouse. James Marshall Hendrix, per tutti solo Jimi Hendrix, racconta allora della sua infanzia passata tra Seattle, dove era nato il 27 novembre 1942, e la riserva indiana di Vancouver, dove viveva la nonna materna per metà Cherokee. La passione per la musica, che nemmeno i mesi nell’esercito per evitare la galera riesce a pacare. Diceva: «Non me ne fregava di niente, solo della musica». Molla allora lo zio Sam, non ha nemmeno i soldi per tornare a casa, allora comincia a girare per gli States: gli stati del Sud, New York, Kansas City, Los Angeles, di nuovo New York, passando da un lavoro all’altro, dunque da una band all’altra. Gli capita di incontrare Little Richards, Bob Dylan, Mick Jagger, Eric Clapton, i Beatles. Nel ’66 parte per l’Europa, è la svolta. In Inghilterra fonda Jimi Hendrix Experience: prime incisioni, i dischi, i concerti. È l’inizio di quei quattro anni che, oltre a rappresentare la sua breve ma fulminante carriera, anche grazie a lui cambiano la storia della musica contemporanea. La citazione ripresa all’inizio prosegue così: «(al mio funerale) ...non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochram e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perchè non manchi Miles Davis. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Solo per il funerale. È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto, sei pronto per la vita. Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi...». Un anno prima di morire, Jimi Hendrix celebrò se stesso a Woodstock. Il suo turno arrivò all’alba del 19 agosto 1969. In due ore di concerto l’artista introdusse per la prima volta la sua nuova - e purtroppo ultima - band, lanciata in una scaletta ricca di classici come “Voodoo child” e “Fire”, “Purple Haze” e “Foxy Lady”. Anche se di quella visionaria esibizione rimane soprattutto la versione straniata e straniante dell’inno nazionale statunitense, “Star Spangled Banner”. Era l’alba di lunedì, a chiusura della tre giorni di pace, amore e musica. Hendrix aveva insistito per essere l’ultimo a esibirsi. E lo fece davanti a “sole” 200mila persone, visto che altre 300mila erano già ripartite. Ma si diceva anche dell’accordo sulle vecchie registrazioni del biennio ’65-’67. L’acquisizione delle quali pone fine ad anni di controversie tra la società degli eredi Hendrix e i precedenti proprietari dei diritti. Anche questa è una storia che merita di essere raccontata. Nei primi anni Sessanta, ventenne, Jimi era un musicista semisconosciuto, lavorava per brevi periodi, con una varietà di artisti tra cui i fratelli Isley, Don Covay, Little Richard e Curtis Knight & The Squires. Ed Chalpin era invece un imprenditore e produttore discografico, che nel ’60 aveva fondato la Ppx International Inc, una piccola società specializzata nella fornitura di basi per film, spettacoli televisivi, trailer e spot. Nel ’65 Chalpin fa firmare un contratto capestro a Hendrix, che di lì a poco diventa una star anche grazie a Chas Chandler, bassista degli Animal, che lo porta a Londra con tutto quel che ne consegue. Quando il chitarrista fa il botto, Chandler cerca e acquisisce tutti i contratti che l’ex turnista sconosciuto aveva in sospeso. Riesce nel suo intento, con l’unica eccezione proprio dell’accordo di Hendrix con Chalpin e la sua Ppx. Seguono anni, anzi, decenni di battaglie legali, fino al recente e risolutivo accordo. Le 88 registrazioni includono la performance del 26 dicembre 1965 al “George’s Club 20” di Hackensack, New Jersey, e brani in studio con Curtis Knight & The Squires del luglio ’67. Pare che i nuovi proprietari pubblicheranno nei prossimi tre anni queste registrazioni storiche - opportunamente mixate e rimasterizzate - in nuove edizioni curate da Eddie Kramer, a lungo tecnico del suono di Hendrix.

mercoledì 13 agosto 2014

SIRENS degli U2 esce a settembre

La storia del nuovo album degli U2 somiglia ormai a un piccolo giallo. Annunciato, rinviato, dato per imminente, poi spostato di nuovo. Ma ora sembra che sia la volta buona. La Universal colombiana ha infatti pubblicato un tweet, immediatamente cancellato ma recuperato da alcuni tabloid, in cui si legge: “#noticias para los seguidores de @U2. El disco se va a titular #Sirens y estará listo en el mes de septiembre” (“Notizie per i fan degli U2. Il disco porta per titolo “Sirens” e sarà pronto a settembre”). Un annuncio quasi ufficiale, dunque, sfuggito fra le maglie dei social network, con tanto di titolo (fra l’altro uguale a quello di un brano dei Pearl Jam) e mese di pubblicazione. Inizialmente, come si ricorderà, il tredicesimo album in carriera della band irlandese, che arriva a cinque di distanza dal precedente “No line on the horizon”, sarebbe dovuto uscire a fine 2013. Poi il primo stop, con slittamente entro l’estate 2014. Dunque ci siamo... Nelle scorse settimane si era anche parlato di un possibile ritorno sulle scene di Bono e compagni in occasione dell'iTunes Festival di Londra (alla Roundhouse dal 2 al 27 settembre) e della possibile pubblicazione del disco - prodotto da Danger Mouse - a novembre, ma evidentemente l’uscita potrebbe essere anticipata alle prossime settimane. «Il ritorno degli U2 è molto probabile per quest’anno - ha scritto giorni fa il giornale inglese “Sun” -, questo album è stato davvero arduo da realizzare per loro, anche per le troppe chiacchiere che si sono scatenate. C’è voluto molto tempo e Bono è stato spesso distratto da fatti che poco avevano a che fare con la musica. Ma ora gli U2 sono a una svolta, fiduciosi e convinti che sia valsa la pena attendere». Tanta attesa, insomma, ma ora le “sirene” stanno arrivando...

STASERA RHAPSODY OF FIRE al trieste summer rock festival

La vecchia regola del “nemo propheta in patria” vale anche nel rock. Ne sanno qualcosa i Rhapsody of Fire, che stasera alle 21, in piazza Verdi, concludono il Trieste Summer Rock Festival. Sarà il primo concerto nella loro città. Wikipedia li definisce “un gruppo musicale symphonic power metal italiano”, hanno venduto oltre un milione di copie dei loro vari dischi, sono apprezzati soprattutto nei paesi di lingua tedesca. Ma le loro origini sono tutte triestine. È qui infatti che vent’anni fa si forma il primo nucleo, i Thundercross, con il chitarrista Luca Turilli e il tastierista Alex Staropoli, entrambi appassionati di “metal” e musica barocca. “Land of immortals” è il titolo del primo disco, che attira l’interesse di un’etichetta tedesca. Diventano Rhapsody, pubblicano “Eternal glory”. Ma è nel ’97, con “Legendary tales”, che arriva il successo, poi ripetuto da “Symphony of enchanted lands” e altri album di quelli che dal 2006, per problemi di copyright con un altro gruppo statunitense, diventano i Rhapsody of Fire. Nel frattempo anche le formazioni cambiano. Attualmente la band è composta, oltre che dal fondatore Alex Staropoli (tastiere e orchestrazioni), dall’altro triestino Roby De Micheli (chitarre), dal cantante Fabio Lione (toscano) e dai fratelli tedeschi Alex e Oliver Holzwarth (rispettivamente batteria e basso). Da tre anni è uscito dal gruppo l’altro fondatore, Luca Turilli. I loro album più recenti si intitolano “Live - From chaos to eternity” (uscito nel maggio 2013, tratto dal tour mondiale del 2012) e “Dark wings of steel” (uscito nel novembre scorso). Quest’anno di Rhapsody of Fire sono in tour in Europa, Corea e Giappone. Dopo la tappa triestina di stasera partono per la Svezia, per partecipare al “Sabaton Fest”, e poi, dal 20 al 26 agosto, sono attesi in Messico.

GORAN BREGOVIC stasera al festival majano, friuli

Vive da oltre vent’anni a Parigi, ma la sua Sarajevo gli è rimasta nel cuore, oltre che nelle corde della chitarra. Ha fatto conoscere a mezzo mondo la musica balcanica, di cui è diventato l’icona, prima con le colonne sonore dei film di Emir Kusturica poi con i suoi dischi e concerti. Lui è ovviamente Goran Bregovic, che stasera alle 22 suona al Festival di Majano con la sua Wedding and Funeral Orchestra. «Mi ritengo fortunato - dice Bregovic, classe 1950 - a essere nato in un tempo felice, perchè per la prima volta nella storia le piccole culture hanno cominciato a influenzare le grandi culture. Per esempio la musica balcanica ha una minima importanza rispetto alla grande tradizione anglosassone, ma allo stesso tempo è in grado di lasciare una traccia al suo interno. L’unico potere che noi balcanici abbiamo è quello dell’umana curiosità, non possediamo culture imperiali e tradizioni musicali gloriose. Non importa in definitiva che ci definiscano esponenti della “world music” o della “wild music”, l’importante è che ci sia curiosità a riguardo e che al nostro tempo possa essere facilmente soddisfatta». Lei ha portato la musica balcanica in mezzo mondo. «Sì, abbiamo suonato tanto a ovest, come a Seattle, che a est, come a Seul, a nord come a Tomsk in Siberia e a sud come a Buenos Aires. Orami ritengo che la nostra musica sia finalmente riconoscibile e spesso anche apprezzata in ogni angolo del mondo, un motivo di grande orgoglio per noi». Il posto più strano dove ha suonato? «A Dyarbakir, al confine fra Turchia, Siria e Iraq, davanti a 250 mila curdi, la platea più numerosa che mi sia mai capitata. Ad ogni modo sia davanti a 250 mila, a 2500 o a 250 persone che siano, io e la mia band diamo sempre tutto quello che abbiamo da dare: è l'unica maniera per divertirci in quello che facciamo, penso sempre che se noi ci divertiamo sul palco anche il pubblico certamente si divertirà». Il suo incontro col rock? «Ero un ragazzo. Sono sempre stato un appassionato di musica tradizionale. A quindici anni suonavo musica folk come professionista. Il successo del mio primo gruppo rock è dovuto proprio all’ispirazione che ho sempre trovato nella mia tradizione musicale, inevitabilmente gypsy. Ho praticamente fatto sempre la stessa cosa per tutta la vita, ma fin da giovane ho voluto che la mia musica fosse avvolta in una veste occidentale, dopo che in maniera così importante aveva colpito i giovani nella parte comunista dell’Europa dell’Est. In una certa maniera si può dire che ho sempre suonato la stessa musica». Compone ancora musiche per il cinema? «Negli ultimi dieci anni ho composto molta musica per il cinema perché fin da quando ero giovane ho creduto nelle infinite possibilità di ricerca che la musica può dare, cinema incluso ovviamente. Quando realizzai quanto la vita sia corta, ho smesso di comporre musica per servire l'arte di altre persone, dedicandomi principalmente alla mia arte e ai miei progetti. Solo dedicarmi alla mia condizione di compositore contemporaneo, molto fortunato nel poter avere migliaia di persone nel mondo che desiderano ascoltare il mio lavoro». Ricordi di Trieste? «Tanti, da ragazzo venivo anch’io a fare acquisti. Poi sono tornato tante volte a suonare. Tendo a non scegliere i luoghi in cui vado a fare concerti, vado dove mi invitano e Trieste lo ha fatto più volte. Questa cosa mi rende felice perché è una delle città più belle d’Italia. Sembra quasi una storia d’amore a lieto fine, io amo Trieste e Trieste mi ama». Parigi? «Vivo a Parigi perchè è uno dei rari posti sulla terra dove essere jugoslavo non implica necessariamente essere un borseggiatore o un manovale. Lì è possibile essere jugoslavi e artisti rispettati allo stesso tempo. Fin da quando ero solo un musicista locale, ho sempre avuto il bisogno di sentirmi collegato al territorio da cui la mia musica trae ispirazione, i Balcani, per questo lavoro molto a Belgrado e mi piace anche trascorrere le mie vacanze sulla costa adriatica». La sua Sarajevo? «Come per qualsiasi nativo di Sarajevo, anche la mia vita è divisa fra quella prima e dopo la guerra. Sono stato molto fortunato a trovarmi già a Parigi quando la guerra scoppiò. Chissà perché agli artisti in esilio è toccata da sempre una parte così considerevole nella storia dell’arte, della cultura... Forse perché la teoria di Darwin è corretta e sia io che le tartarughe delle Galapagos ne siamo una prova». Il prossimo progetto? «Certamente un nuovo album che sarà differente rispetto agli ultimi lavori. Un progetto in cui metterò tutto il mio impegno ma del quale preferisco ancora non svelare molto». Gli album più recenti dell’artista sono “Goran Bregovic’s Karmen with a Happy End” (2007), “Alkohol (Šljivovica & Champagne)”, uscito nel 2008, e “Champagne for the Gypsies” 82012). Il concerto di Bregovic, stasera a Majano, in piazza Italia, rappresenterà l’apice della grande festa “Balkan Party & Grill”, che il festival della cittadina friulana ha organizzato assieme all’ormia celebre festival “Guca sul Carso”. Vi parteciperanno fra gli altri Eusebio Martinelli, trombettista della band di Vinicio Capossela, la fanfara serba di Elvis Bajramovic, la Gipsy Abarth Orkestar e il curioso team formato da Dj Pravda e Chef Berna che darà vita allo show “Balkan Grill”.

martedì 12 agosto 2014

ESTATE SENZA TORMENTONI

È l’estate dei dj e dell’hip hop italiano, di David Guetta ed Emis Killa, di Benny Benassi e di Fedez, dei mille maghi della consolle e persino di Rocco Hunt. Sono loro la colonna sonora di questa estate che non c’è, prendendo il posto delle canzonette, del pop e del rock messi almeno per qualche settimana fra parentesi. Ma andiamo per ordine. C’era una volta il tormentone, la canzonetta estiva che nei mesi autunnali e invernali veniva ricordata come la colonna sonora dell'estate trascorsa e magari rimpianta nei mesi freddi e piovosi. Per la verità c’era una volta anche l’estate degna di questo nome, bel tempo fisso almeno fino a ferragosto, poi i classici temporali che “rompevano” la stagione, prima di recuperare qualche bella giornata a settembre. Va da sè che, in una “non estate” come quella che si va pian piano dipanando, il fatto che anche i tormentoni di una volta non esistano praticamente più non è una gran notizia. Anche perchè l’andazzo dura già da qualche anno. “La canzone dell’estate”, quella che sentivi dappertutto e diventava, come si diceva prima, la colonna sonora della stagione, ha da tempo passato la mano ad alcuni brani e artisti che si dividono la torta delle preferenze estive del pubblico, i cui gusti sono sempre più frazionati. Se oggi chiedi a dieci ragazze e ragazzi qual è la canzone dell’estate 2014, molto probabilmente arriveranno dieci risposte diverse... Un tempo non era così. Se vogliamo partire dalla preistoria, dunque dagli anni Sessanta, abbiamo avuto le estati di “Legata a un granello di sabbia” di Nico Fidenco (1961) e “St. Tropez Twist” di Peppino di Capri (1962), “Sapore di sale” di Gino Paoli (1963) e “Luglio” di Riccardo del Turco (1968), “Ti amo” di Umberto Tozzi (1977) Ricetta facile: pezzo commerciale, ritornello orecchiabile, possibilmente ballabile. E complici manifestazioni come il Disco per l'Estate o il Festivalbar, le stagioni calde degli anni Sessanta e Settanta avevano una sola “canzone regina”. All’inizio c’erano anche quelle parole in grado di richiamare subito la stagione delle vacanze. Edoardo Vianello era uno specialista: “Pinne fucile ed occhiali” e “Abbronzatissima”, “Guarda come dondolo” e “Il peperone”... Ma anche Franco Battiato, quando scrisse “Un’estate al mare” (1982) per la compianta Giuni Russo, con quell'invenzione degli “ombrelloni-oni-oni...”, dimostrò di essere un grande anche della canzonetta, oltre che del pop e della musica colta. Nell'estate ’83 impazzavano “Vamos a la playa” dei Righeira ma anche “Tropicana” del Gruppo Italiano. Nell’86 “Easy lady” di Spagna, nel '90 “Sotto questo sole” di Francesco Baccini con i Ladri di biciclette, nel '96 la “Macarena” dei Los del Rio... In anni più recenti, il meccanismo si è rotto. E i favori del pubblico si sono via via divisi fra più titoli e interpreti, in bilico fra un “Waka waka” con annessa Shakira (Mondiali di calcio di quattro anni fa) e un demenziale “Pulcino pio”, con l’eccezione forse solo di “Gangnam style” con cui il coreano Psy ha imperversato nel 2012. Quest’anno, dopo un inverno passato a sculettare con “Happy” di Pharrell Williams, è crisi di astinenza: niente colonna sonora per le vacanze. Nemmeno il calcio, figuraccia degli azzurri a parte, ha dato una mano. La cover di “Un amore così grande” griffata Negramaro non ha saputo bissare le “Notti magiche” di Italia ’90. Meglio è andata alla “Maracanà” di Emis Killa, il rapper super tatuato. E a livello internazionale, accoglienza tutto sommato tiepida per l’inno ufficiale “We are one (Ole ola)”, cantato da Pitbull con Claudia Leitte e Jennifer Lopez, e quello ufficioso “Dare (La la la)” di Shakira, che comunque ha incassato qualcosa come 270 milioni di visualizzazioni su Youtube. Già, perchè l’altro segno dei tempi è che il successo di un brano non si misura più solo con le (poche) copie vendute. Ora, fra personali playlist sul cellulare e ascolti in streaming, complici nuove piattaforme come Spotify, Deezer e TimMusic, un termometro abbastanza affidabile del gradimento sono le milionate di visualizzazioni proprio su Youtube. Insomma, una volta c’era l’hit parade e quella dettava legge. Oggi, nell’estate dei dj che attirano le folle e sono delle autentiche star, bisogna districarsi fra queste nuove classifiche, che tengono conto dei download e dei passaggi radiofonici. Comparando le quali classifiche vien fuori che, oltre al citato Emis Killa, gli artisti e le canzoni di questa “non estate” sono Calvin Harris e la sua “Summer”, i Coldplay con “A sky full of stars” ma nella versione remixata dal dj svedese Avicii e poi un altro remix, quello siglato Robin Schulz di quella “Waves” di Mr. Probz che l’anno scorso era passata abbastanza inosservata. Fra gli italiani si segnalano Francesco Renga con “Il mio giorno più bello nel mondo”, Cesare Cremonini con “Logico #1”, ma anche Dear Jack, Alessandra Amoroso, Rocco Hunt, Biagio Antonacci, Giorgia... In questo panorama, c’è anche chi fa la parodia dei tormentoni. È il cantautore Lorenzo Cilembrini, in arte Il Cile, passato recentemente e senza fortuna anche da un Sanremo Giovani. Nel singolo che anticipa il secondo album, “In Cile veritas”, in uscita a settembre, canta: «Sole, cuore, alta gradazione. Ogni estate è la solita canzone...». Ma forse si riferiva a un’estate di tanti anni fa.

domenica 10 agosto 2014

REMO ANZOVINO a tarvisio, in alta montagna, per No Borders

“No Borders Music Festival” si trasferisce dalla centralissima piazza Unità di Tarvisio (che ha appena ospitato Gualazzi, Arisa e Incognito..) su su fino a quota milleottoecinquanta. Dove domani alle 14, al Rifugio Gilberti di Sella Nevea, sul Monte Canin, si terrà il concerto a ingresso gratuito del pianista Remo Anzovino. «Un luogo incantevole e incontaminato come quello in cui suonerò - dice il jazzista, reduce dal concerto all’alba sul fiume Noncello della sua Pordenone davanti a duemila persone - offre la possibilità a un musicista di scrivere la colonna sonora istantanea del silenzio e del battito del cuore del pubblico, che si trova a vivere non solo un concerto, ma un’esperienza che lo avvicina a toccare la propria anima, in quota, come quando si vola». Lei ama il silenzio? «Il silenzio è di per sé la più grande musica, il più grande veicolo per ritrovare noi stessi. Per me suonare lì è particolarmente emozionante ed è anche la realizzazione di un sogno, poter creare una musica per pianoforte e silenzio, che per me è più di una grande orchestra». Questo festival? «Frequento dagli albori il No Borders Music Festival. Vidi tantissimi anni fa un'artista straordinaria, Z Star, e nel corso degli anni altri concerti memorabili, Sigur Ros e Lenny Kravitz su tutti. E sono orgoglioso di essere nel cartellone di un festival che considero storicamente una delle cose migliori che ci siano nel panorama dei concerti in Italia e non solo». Come vanno le sue cose? «Sto vivendo un momento creativo molto intenso, sento che la mia scrittura sta crescendo. Giorno dopo giorno. Concerto dopo concerto e assieme a lei cresce il rapporto col pubblico, che dimostra un amore per la mia musica a volte commovente». Domani cosa propone? «Metterò in scaletta alcuni inediti scritti negli ultimi mesi che penso siano perfetti per l'atmosfera di quel luogo incantato e per il significato emotivo di questo concerto». Anzovino è da qualche anno considerato dalla critica ma anche dal pubblico uno dei pianisti e compositori più innovativi della scena di casa nostra. Il suo recente album “Vivo”, ben recensito anche all’estero, ha venduto quasi diecimila copie.

venerdì 8 agosto 2014

MARIANNE FAITHFULL: mio ex uccise vendendogli dose letale JIM MORRISON

Marianne Faithfull sostiene in un’intervista alla rivista “Mojo” di conoscere il nome del colpevole della morte di Jim Morrison, avvenuta il 3 luglio 1971. Secondo la cantante e attrice inglese, classe 1946, musa e fidanzata all’epoca di Mick Jagger e altri artisti rock, si tratterebbe di tale Jean de Breteuil, un suo ex che all’epoca spacciava eroina. E una dose letale venduta all’ex leader dei Doors sarebbe stata la causa involontaria del decesso. A voler pensar male, sapendo bene che si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca, si è portati a legare la clamorosa rivelazione alla prossimità con la pubblicazione del nuovo album della cantante, “Give my love to London”, i cui brani sono stati scritti fra gli altri da Nick Cave, Roger Waters, Anna Calvi, Pat Leonard, Tom McRae, Steve Earle, annunciato per il 29 settembre. Ma i particolari della confessione, che arriva a quarantatre anni dai tragici fatti (la morte di Morrison seguì quella di Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix...), sono talmente precisi, oltre che inediti, da attirare l’attenzione dei cultori della storia del rock, che è stata anche una storia di lutti. Marianne ricorda di essersi recata a Parigi in compagnia di de Breteuil, all’epoca pusher anche di Keith Richards, e di essere rimasta sola in hotel, mentre l’uomo andava da Morrison nel suo appartamento. «Sentivo che qualcosa non andava. Presi dei barbiturici e mi addormentai, mentre lui andò a trovare Jim e lo uccise. Voglio dire, sono sicura che fu un incidente. Povero idiota. La dose era troppo forte? Sì. E lui morì. Io non ne sapevo niente. Comunque sia, tutti quelli che hanno avuto a che fare con la morte di quel povero ragazzo, ora sono morti. Tranne me». Nella sua autobiografia, la cantante smentisce comunque le voci che la volevano in casa quando fu scoperto il corpo di Morrison e quelle secondo cui sarebbe stata lei addirittura a dargli il colpo di grazia. Jim Morrison fu trovato morto il 3 luglio 1971 a Parigi, a 27 anni, nella vasca da bagno della sua casa. Il referto medico parlò di overdose di eroina e conseguente arresto cardio-circolatorio. Non fu eseguita autopsia. È sepolto nel celebre “cimitero degli artisti” di Père Lachaise. La sua tomba, vicino a quella di Arthur Rimbaud, è da sempre meta del pellegrinaggio dei fan.

SIXTO RODRIGUEZ stasera su rai5, l'operaio diventato star a sua insaputa

Arriva in tivù la storia incredibile di Sixto Rodriguez. “Sugar man” (stasera alle 21.15 su Rai5) è il film del regista svedese Malik Bendjelloul - scomparso a soli 36 anni nel maggio scorso - che ha vinto lo scorso anno l’Oscar come miglior documentario e vari altri premi. Racconta la vicenda più unica che rara del cantautore e musicista statunitense, di padre emigrato messicano, classe 1942, cresciuto nella Detroit degli anni Sessanta. Dopo un 45 giri col nome di Rod Riguez che non lascia traccia, pubblica due album: “Cold fact” nel ’70 e “Coming from reality” nel ’71. Buone recensioni ma zero vendite. E il nostro molla la chitarra e va a lavorare come operaio edile. Mentre Sixto (era il sesto figlio in una famiglia di modeste condizioni) fatica, accade l’incredibile: le sue canzoni diventano in Sudafrica la colonna sonora e addirittura il simbolo della lotta contro l’apartheid. E lui diventa popolare, oltre che in Sud Africa, anche in Botswana, Rhodesia, Nuova Zelanda e Australia. Finchè un giorno arriva a Detroit una telefonata da Città del Capo, un’etichetta australiana acquista i diritti di alcuni suoi brani e pubblica la raccolta “At his best”, al nostro viene organizzato un tour in Australia (con la Mark Gillespie Band a fargli da supporto), dal quale viene tratto l’album “Rodriguez alive”: qualcosa come “Rodriguez in vita”, in risposta alle voci che lo davano per morto. Solo nel ’96, quando la figlia s’imbatte in un sito a lui dedicato, l’artista - impegnato anche in politica: nell’89 si candida alle comunali di Detroit - scopre di essere famoso all’estero e fa un tour di sei concerti in Sud Africa, da cui è stato tratto il documentario “Dead men don’t tour: Rodríguez in South Africa”, e alcuni concerti in Svezia. Nel frattempo il nostro ha passato i settanta, i suoi primi due album sono stati ripubblicati, due anni fa Bendjelloul realizza questo documentario che racconta la ricerca che due suoi fan sudafricani fanno dell’artista credendolo addirittura morto. Invece Sixto è vivo. E le sue vecchie canzoni trattano sempre temi sociali, indagando in poesia le condizioni della classe lavorativa americana.

giovedì 7 agosto 2014

Da domani TRIESTE SUMMER ROCK FESTIVAL con DAVID JACKSON (no GREG LAKE)

Domani David Jackson, sabato niente Greg Lake, mercoledì 13 agosto i Rhapsody of Fire. Comincia con due conferme e un annullamento, purtroppo, l’undicesima edizione del Trieste Summer Rock Festival. Scampata lo scorso anno in extremis al triste epilogo nell’anno del decennale, la rassegna organizzata dall’associazione Musica libera di David Casali in collaborazione con il Comune di Trieste stenta a scrollarsi di dosso le difficoltà che da qualche stagione attanagliano i cartelloni estivi della musisa dal vivo (anche se qualcuno riesce a sopravvivere, proponendo cose egregie con budget limitati...) e ora si scontra anche con la sfortuna. «Mi è appena arrivata una mail dell’agenzia - spiega Casali -, Greg Lake si scusa con i fan, è stato costretto ad annullare i concerti estivi per motivi di salute, promette di essere con noi il prossimo anno...». Inglese, classe 1947, prima di diventare popolarissimo come bassista e cantante degli Emerson Lake & Palmer, Greg è stato uno dei musicisti più influenti del “progressive” degli anni Settanta. Giusto per citarne una, era con Robert Fripp nei King Crimson per gli album “In the court of the Crimson King” e “In the wake of Poseidon”. Ma è stato anche discografico di talento, pubblicando per l’etichetta Manticore gli album “inglesi” dei nostri Pfm e Banco. Nel 2013 è uscito il suo ultimo album solista, “Songs of a lifetime”. Lo spettacolo che sarebbe dovuto arrivare a Trieste s’intitola “An evening with Greg Lake”: classici come “Lucky man” e “I believe in Father Christmas”, ma anche cover dei grandissimi che lo hanno influenzato, da Elvis ai Beatles. Lake o non Lake, comunque domani sera si parte. In piazza Verdi, sede di tutte e tre le proposte, arriva il grande David Jackson (inglese di Stamford, classe 1947), già sassofonista dei Van der Graaf Generator, assieme agli italiani della Alex Carpani band, nata nel 2006, con cui collabora da un paio d’anni, tenendo tour sia in Europa che negli Stati Uniti. Per Jackson si tratta fra l’altro di un ritorno nella rassegna di Casali, alla quale ha partecipato anni fa come “special guest” nella rinnovata formazione degli Osanna, il gruppo napoletano che è stato fra i protagonisti del pop italiano dei primi anni Settanta. Apriranno la prima serata del festival i triestini Vinolia. Sabato la piazza sarà tutta per i Passover e i Six Pence. I primi sono la formazione dello stesso Casali, che è innanzitutto un apprezzato musicista. «Il gruppo - spiega il patron - è nato nel 2006, abbiamo tre cd all’attivo con i quali ci siamo esibiti quest’anno in Giappone e Stati Uniti. Nell’aprile dell’anno prossimo saremo di nuovo in tour negli Usa». Dietro la sigla Six Pence si cela invece una delle migliori “tribute band” dei Queen in circolazione. E siamo alla prossima settimana. Mercoledì suona per la prima volta a Trieste un gruppo triestino famoso in mezzo mondo. Stiamo parlando dei Rhapsody of fire, formazione “metal” con tentazioni classiche e sinfoniche, molto amata dal pubblico di lingua tedesca e reduce dai successi di Corea e Giappone. Oltre un milione di copie vendute, i “Rhapsody” sono attualmente Fabio Lione, Roberto De Micheli, Alessandro Staropoli, Alex Holzwarth e Oliver Holzwarth. Come si diceva, il Trieste Summer Rock Festival si svolge - a ingresso libero, nell’ambito del cartellone Trieste Estate - nella centralissima piazza Verdi. Location dunque confermata dopo l’edizione in forma ridotta dell’anno scorso, e dopo alcune edizioni a San Giusto che non avevano riscosso lo stesso successo di pubblico toccato alle annate iniziali, che si erano svolte in piazza Unità.

LIGABUE sab 6-9 a trieste, stadio rocco / INTERVISTA

«Abbiamo fatto altri concerti a Trieste, ma il primo ricordo che si affaccia nella mia memoria è per il video di “Eri bellissima”. L’abbiamo girato sul terrazzo di un edificio, in centro città. La luce era perfetta. Da lì sopra vedevamo il mare, bellissimo. C’era un’atmosfera davvero magica, tramonto compreso, che è finita nelle riprese di questo videoclip che resta uno dei più belli fatti su una mia canzone...». Risponde così Ligabue alla domanda se ha qualche ricordo particolare su Trieste, la città da dove ripartirà a settembre il suo “Mondovisione tour - Stadi 2014”. L’appuntamento è fissato da tempo per sabato 6 settembre allo Stadio Rocco, che quasi sicuramente quella sera sarà pacificamente invaso da altri trentamila spettatori dopo quelli di giugno per i Pearl Jam: due “tutto esaurito” per il rock in poco più di due mesi, roba che a queste latitudini non era mai successa... Ligabue, com’è tornare negli stadi dopo l’anteprima primaverile nei palasport? «Vuol dire - dice il rocker, classe 1960, emiliano di Correggio, provincia di Reggio Emilia - girare con una produzione enorme per cercare di rendere felici decine di migliaia di persone ogni sera. La sensazione di avere una fuoriserie a disposizione». Fuoriserie anche il palco. «Mi piaceva l’idea di un palco in cui io fossi “esposto” verso il pubblico invece che “ritirato” in una specie di caveau, come di solito sono i palchi dei concerti. Mi proposero una struttura a centoventi gradi. Ne ho chiesta una a centottanta facendo svenire progettisti e ingegneri. Che dicevano: non è mai stato fatto, se non è mai stato fatto un motivo ci sarà... Poi, però, hanno realizzato egregiamente questa struttura». A metà concerto lei si ferma e fa cantare il pubblico. «Amo vedere l’effetto che producono le mie canzoni. L’entusiasmo con cui la gente le canta rende quel momento uno dei miei preferiti dello show. Ormai si ascolta musica ovunque, ma le canzoni hanno ancora potere. Quando vado ai concerti, non solo ai miei e non solo concerti italiani, e vedo la gente cantare tutte le canzoni per me è un miracolo. Mi piace pensare che ci sia ancora la possibilità di produrre tanta emozione da condividerla e di avere come collante le canzoni». Recentemente è tornato alla radio, con particolare attenzione agli anni che finiscono per 7... «Ho fatto una serie di puntate radio che si occupavano della musica prodotta negli anni “sette” di ogni decennio: 1967, 1977, 1987, 1997. Il sette è il mio numero preferito ed è risultato che, fortunosamente, in ognuno di quegli anni è stata prodotta grande musica». Meglio la radio o internet? «Sono cresciuto con la radio, ma sinceramente non saprei come paragonare la radio con internet. Sono due mezzi molto lontani fra di loro. Diciamo che a volte mi sono servito di internet per diffondere alcune trasmissioni radio che avevo fatto». In “Mondovisione” si coglie un senso di amarezza e sembra esserci più spazio per il messaggio parlato più che suonato. «C’è, credo, soprattutto un senso di indignazione. Però non c’è rassegnazione e continuo a parlare di speranza. Dal punto di vista musicale sono molto contento del risultato sonoro». Nel concerto, sul maxischermo, a un certo punto appare la scritta “Chi doveva pagare non ha mai pagato”. «Gli impuniti sono tanti. Per esempio gli artefici della bolla finanziaria che ha prodotto i guasti economici in cui stiamo versando». Ne “Il sale della terra” parla di potere, di politica. «Sì, e nel concerto facciamo vedere degli aforismi sul potere. È un brano in cui l’ironia è molto amara, non sembra quasi ironia, c’è un’indignazione che va oltre questa ironia, nel vedere quanto la politica abbia il potere di corrompere chi si ritrova ad averlo fra le mani e la cui prima paura è sempre quella di perderlo». Prosegua... «Ho voluto ricordare con pochissimi numeri il costo totale della politica. Sono dati che chiunque trova ovunque, se decidi di metterli su uno schermo vuol dire che ti piace pensare che la gente faccia una riflessione non solo sulle parole ma anche su pochi dati che hanno a che fare con la difficoltà a far funzionare questo paese. Questa crisi è figlia di diversi aspetti, quello che ci han detto è che è figlia di una crisi mondiale e i responsabili di quella crisi è evidente che non hanno pagato. Chi ha pagato è chi non ha commesso niente». Lei crede, le piace questo Papa? «Sono stato cattolico e questo credo voglia dire che uno non smette mai di esserlo del tutto. Ho un forte bisogno spirituale e questo Papa mi piace molto». Il disco e il tour a cui è più affezionato? «Non riesco a fare classifiche di questo tipo. Di certo, però, questo è un tour particolarmente riuscito sotto tutti gli aspetti». Arriva prima il prossimo libro o il prossimo disco? «Per il momento arriva prima il concerto di Trieste». Ha ancora un sogno? «Sono fedele al titolo della canzone che chiude “Mondovisione”: sono sempre i sogni a dare forma al mondo. Il che vuol dire anche che non smetto mai di produrne...». E Luciano Ligabue, in arte solo Ligabue, unico italiano assieme a Vasco (ma non chiedetegli della vera o presunta rivalità...) capace ancora di riempire gli stadi, i suoi “sogni di rock’n’roll” continua a produrli ormai da quel lontano 1990 in cui pubblicò il suo primo album, quello di “Balliamo sul mondo”, “Non è tempo per noi” e appunto “Sogni di rock’n’roll”. Il pubblico lo ama, ama le sue canzoni ma lo considera anche una sorta di maître à penser. Che però non si prende mai troppo sul serio. Sostiene infatti: «Una volta ho detto che “avere un pubblico” è un’espressione secondo me inappropriata. Il pubblico non lo possiedi mai, ti viene dato in prestito per un certo periodo di tempo e poi cambia si modifica nel tempo. Quando mi ritrovo a parlare di pubblico mi sento sempre di mancare un po’ di rispetto nei confronti dell’unicità di ognuno di loro...».

martedì 5 agosto 2014

MARIO BIONDI ven a Lignano

A giugno tre acclamatissimi concerti in Brasile. A luglio Umbria Jazz, il Premio Lunezia, il festival Collisioni a Barolo, nelle langhe piemontesi, altri concerti europei: Olanda, Svizzera, Georgia. Poche sere fa, la performance al Musicology Festival di Belgrado. A ottobre si riparte: Inghilterra, Germania, Francia, Olanda, Austria, Ungheria. E il 14 ottobre a Zagabria. In questo 2014 quasi interamente dedicato alle platee internazionali, a supporto della pubblicazione in Europa e Sud America dell’album “Sun” (uscito in Italia all’inizio del 2013), Mario Biondi ritorna venerdì sera nel Friuli Venezia Giulia, per un concerto a ingresso gratuito alla Beach Arena di Lignano Sabbiadoro. Un’occasione per ascoltare dal vivo il crooner italiano più conosciuto e amato all’estero. Biondi (vero nome Mario Ranno, catanese, classe 1971: il “cognome d’arte” l’ha ereditato dal padre, il cantautore Stefano Biondi) ha debuttato discograficamente, dopo una lunga gavetta cominciata a dodici anni come corista in chiesa, con l’album “Handful of soul”, inciso col gruppo High Five Quintet e uscito nel 2006. Anche se prima di quel debutto c’era stato nel 2004 un singolo, “This is what you are”, originariamente pensato per il mercato giapponese, che aveva attirato l’attenzione degli addetti ai lavori sul cantante siciliano. Il famoso dj inglese Norman Jay lo inserisce a sorpresa nella scaletta del suo programma alla Bbc1 e la voce di Biondi, prim’ancora del suo nome, si diffonde come d’incanto in mezza Europa. Famoso all’estero prima che in patria, come nelle migliori tradizioni... “I love you more - Live” (doppio, 2007), “If” (2009), “Yes you live” (2010), “Due” (2011) e il citato “Sun” dell’anno scorso sono i capitoli discografici di una carriera che in pochi anni ha conosciuto un’accelerazione incredibile. In mezzo, molti tour in giro per il mondo, un paio di partecipazioni come ospite a Sanremo (la prima nel 2007, con Amalia Gré nel brano “Amami per sempre”), qualche participazione a importanti colonne sonore. Ora “Big voice” (così lo chiama Al Jarreau) porta a Lignano Sabbiadoro il suo nuovo spettacolo “Una notte da... jazz”, accompagnato sul palco dall’inseparabile ensemble degli “Italian Jazz Players”.

PINO DANIELE giov a Lignano, di nuovo Nero a metà

Passa anche dal Friuli Venezia Giulia l’estate “speciale” di Pino Daniele, che toccherà l’apice con il concerto del primo settembre all’Arena di Verona. In preparazione a quell’appuntamento, il cinquantanovenne cantautore napoletano sta portando in tour per l’Italia due spettacoli: uno in una versione acustica con la sua band («Acustico»), l’altro con i cinquanta elementi dell’orchestra sinfonica “Roma Sinfonietta” («Sinfonico a metà»). Giovedì alle 21.30, alla Beach Arena di Lignano Sabbiadoro (ingresso gratuito), arriva dunque “Acustico”, nel quale l’artista ripercorre i classici della sua lunga carriera, accompagnato da Rino Zurzolo (contrabbasso), Daniele Bonaviri (chitarra classica), Elisabetta Serio (pianoforte) ed Alfredo Golino (percussioni). Estate speciale anche per la pubblicazione, a trentaquattro anni di distanza dall’uscita, della versione rimasterizzata di “Nero a metà”, storico terzo album dell’artista, che nel 1980 segnò una svolta nella nuova canzone napoletana ma tutto sommato anche nella musica italiana. Non a caso la rivista “Rolling Stones Italia” lo inserisce nella classifica dei migliori cento album di sempre. «”Nero a metà” è come una vecchia foto, da tirar fuori e mettere in mostra - dice Pino Daniele -. Quel disco ha rappresentato la fusione di diverse culture e in questo senso ha cambiato la musica. Un po’ come Carosone con la musica napoletana. Io ho continuato la sua opera. Queste canzoni hanno vissuto attraverso le generazioni. Come Tenco o Battisti che continuano a vivere nella storia di questo Paese». Ancora il musicista: «È una testimonianza di quello che è stata la discografia italiana. Oggi quel mondo è finito, non esiste più. Con il digitale è venuto meno l’interesse per “l’oggetto disco”. Forse si tornerà come una volta a suonare opere in teatro, si ritornerà a commissionare messe. Perchè il mercato è in crisi, ma non la musica, che c’è sempre stata ed è parte della storia del mondo». Nella sua “special extended edition”, il nuovo “Nero a metà” comprende, oltre alle dodici canzoni dell’album originale, due inediti scartati all’epoca e nove brani in versioni alternative e “demo”. Sul “doppio tour” Pino Daniele spiega: «È la scelta di un musicista che vuole proporre quello che sa fare, e niente di diverso: suonare. Proporre due versioni diverse del tour dipende dal fatto che in alcuni luoghi il budget per portare un’orchestra è troppo alto. Ma le opportunità nella musica non sono tante e per fare cose belle bisogna adattarsi». Come si diceva, la conclusione sarà di quelle da ricordare, con il concerto-evento del primo settembre all’Arena di Verona. Per l’occasione, l’artista avrà al suo fianco la formazione originale del 1980: James Senese al sax (il vero “nero a metà”, figlio di una napoletana e di un soldato americano di colore...), Gigi De Rienzo al basso, Agostino Marangolo alla batteria, Ernesto Vitolo al pianoforte e alle tastiere, Rosario Jermano e Tony Cercola alle percussioni. Ma ci saranno anche tanti artisti amici, a partire da Elisa (che Pino definisce «un’artista con il senso della sintesi della musica, sa cosa vuole fare e come»), Mario Biondi, Fiorella Mannoia, Massimo Ranieri, Emma. Per cantare classici come “Je so’ pazzo” e “Quanno chiove”, “Yes I know my way” e “Terra mia”. E poi “Quando”, “Anna verrà”, “Invece no”, “Sara”, “Anima” e tanti altri tasselli della storia della canzone italiana.

lunedì 4 agosto 2014

FINARDI domani al Lab di Gemona

Il suo nuovo album s’intitola “Fibrillante”, arriva ben trentanove anni dopo quel “Non gettate alcun oggetto fai finestrini” con cui Eugenio Finardi (milanese, classe 1952) debuttò sulla scena musicale degli anni Settanta. L’artista che arriva domani nel Friuli Venezia Giulia, per una lezione-concerto al Lab (Laboratorio internazionale di comunicazione) di Gemona del Friuli, non è però più quello di album come “Sugo” e “Diesel”, di canzoni come “Musica ribelle”, “La radio”, “Oggi ho imparato a volare”, “Extraterrestre”... Negli ultimi anni si è dedicato all’esplorazione di diversi generi musicali, spaziando soprattutto fra blues e folk, con incursioni nel fado portoghese e persino nella classica contemporanea. Finardi definisce “Fibrillante”, prodotto da Max Casacci dei Subsonica, “un disco di lotta contro un nuovo Medioevo”: un ritorno alle canzoni in italiano e in qualche modo al sociale, dopo anni di esperimenti musicali in giro per il pianeta. Dal vivo, la stessa band con cui ha scritto e registrato il nuovo album. Ovvero Giovanni “Giuvazza” Maggiore alla chitarra, Marco Lamagna al basso, Claudio Arfinengo alla batteria e Paolo Gambino alle tastiere. In questo tour estivo, l’artista propone i nuovi brani di “Fibrillante” e reinterpreta i classici della sua lunga carriera. Stasera è ad Ancona (al Sounds Good Festival), e - dopo Gemona - mercoledì a Treviso (al festival “Suoni di Marca”), l’11 agosto a Formello, vicino Roma, il 14 agosto a Sassari (a Nulvi, al festival Notti di San Martino), e poi, fra le altre date, il 31 agosto a Ravenna e il 16 e 17 settembre a Milano, al jazz club Blue Note. «Ai giovani che troverò a Gemona - dice Finardi - vorrei far capire che l’Italia è un “continente”. Che ogni regione, provincia, comune hanno lingue, dialetti, tradizioni, cibi diversi. Una ricchezza straordinaria...».

TELEVISION domani mart a sesto al reghena, pordenone

A giugno erano a Milano, all’Alcatraz, martedì fanno tappa nella nostra regione, a Sesto al Reghena, provincia di Pordenone (piazza Castello, ore 21.15, per Sexto ’Nplugged). Loro sono i leggendari Television, ovvero Tom Verlaine chitarra e voce, Jimmy Rip alla chitarra, Fred Smith al basso, Billy Ficca alla batteria. Sono passati tanti anni, ma ogni volta che tornano in Italia vecchi e nuovi rocker si danno convegno e non mancano all’appuntamento. Che è poi l’appuntamento con uno dei pochi gruppi che hanno letteralmente scritto la storia del rock degli ultimi quarant’anni. Dallo scorso autunno i Television hanno ripreso a girare il mondo con una serie di concerti nei quali ripresentano dal vivo in versione integrale il loro capolavoro, nonchè disco d’esordio, “Marquee moon”. Pubblicato nel ’77 e preceduto dal singolo “Little Johnny Jewel”, questo album ha segnato all’epoca una sorta di spartiacque, influenzando molti artisti emersi poi negli anni Ottanta, a cavallo fra new wave e punk. Un lavoro importante, che fra assoli stranianti e tappeti sonori dissonanti ha raccontato le nevrosi e l’alienazione metropolitana mischiando le lezioni psichedeliche dei padri con le nuove tendenze punk. E facendo guadagnare ai quattro protagonisti un posto di rilievo in quel ristretto novero di artisti - Patti Smith (con cui Verlaine collaborò a lungo), Ramones, Lou Reed, gli stessi Velvet Underground - che alla fine degli anni Settanta, partendo dai localini off di New York, hanno rivoluzionato il linguaggio del rock contemporaneo. Dopo quello che molti giudicano come uno degli esordi più riusciti della storia del rock, e dopo un tour con Peter Gabriel, Tom Verlaine (all’anagrafe Thomas Miller) e compagni hanno poi pubblicato un secondo album l’anno successivo, “Adventure”, sciogliendosi poco dopo. Secondo alcuni una scelta quasi obbligata, dopo il mancato bis del disco d’esordio. La seconda prova segna infatti una sorta di ammorbidimento della loro proposta artistica, del furore che si respirava fra i solchi di “Marquee moon”. Brani come “Glory”, “Days”, “Carried away” e “The dream’s dream” li trasportano in un territorio musicale che odora quasi di West Coast, con qualche tentazione lisergica alla Jim Morrison e alcune ballate in stile Velvet Underground. Esaurite le rispettive velleità soliste (l’indiscusso leader in particolare ha realizzato vari album di buon livello: “Tom Verlaine”, “Cover”, “Flashlight”, lavori più lontani dal furore punk degli esordi e via via più vicini a un rock riflessivo e quasi intimista...), i nostri “ragazzacci” ormai invecchiati hanno ripreso l’attività a inizio anni Novanta, pubblicando nel 1993 un disco intitolato semplicemente “Television”. Una discografia in definitiva ristrettissima, per un gruppo di culto che, fra alterne vicende, solca i territori del rock da quasi quarant’anni. Tre appena gli album in studio ufficiali, ai quali bisogna però aggiungere - oltre ai lavori solisti - anche tre dischi dal vivo: “The Blow-Up” (uscito nell’82, con registrazioni “live” del ’78), “Live at the Academy, 1992” (pubblicato nel 2003) e “Live at the Old Waldorf” (anche questo uscito nel 2003, con registrazioni dal vivo risalenti al 1978). Da aggiungere, come si diceva, altre prove soliste (da segnalare in particolare “Songs and other things”, che Verlaine sforna nel 2006) e un paio di “reunion” (in particolare quella nel 2001), fino a questa recentissima che porta domani il gruppo nel Friuli Venezia Giulia.

domenica 3 agosto 2014

COME BACK, PEARL JAM IN ITALIA 2014 - libro fotografico su concerti trieste e milano

È già diventato un libro fotografico il breve tour italiano dei Pearl Jam, che a giugno ha toccato gli stadi di Trieste e di Milano. “Come back - Pearl Jam in Italia 2014” (Arcana, pagg. 144, euro 16,90), a cura di Antonio Siringo, è la fotocronaca delle uniche due tappe tricolori del tour mondiale della band di Seattle. Scrive Luca Villa nella prefazione: «”Ho fatto tanti brutti sogni recentemente, così tanti che ora ho paura di chiudere gli occhi. Penso di aver letto troppi giornali”, dice Vedder a San Siro. “Ma ora che vedo tutti voi qui a Milano, è un grande sogno”. Ad ogni concerto dei Pearl Jam ti capita di guardare il pubblico ed emozionarti, ma se ti voltavi verso la folla a San Siro durante “Thin air”, una lacrima era lì a bagnarti il viso e ti sembrava davvero di essere dentro un grande sogno. In un momento del genere capisci quanto loro fanno parte della tua vita così come noi, come pubblico italiano, facciamo ormai parte delle vite di Ed, Stone, Jeff, Mike, Matt e Boom...». Sessantamila spettatori a San Siro, trentamila allo Stadio Rocco sono stati la miglior conferma del pubblico di casa nostra (ma moltissimi, soprattutto nella data triestina, sono arrivati anche dall’estero...) a questo rapporto specialissimo. E il fatto che ora arrivi questo “istant book”, a distanza di così poco tempo dai concerti, è un ulteriore segnale del seguito su cui Eddie Vedder e compagni possono contare in Italia, oltre che ovviamente nel resto del mondo. La tappa triestina è immortalata con immagini e testi. Fra le prime, scattate dentro e fuori dallo stadio dallo stesso Siringo oltre che da altri fotografi fra i quali il nostro Francesco Bruni, va segnalato un paio di scatti in bianco e nero sul canale di Ponterosso. «Trieste è stracolma di fan già il giorno prima, ti diverti a fermare alcune immagini in cui gli austeri monumenti sono ravvivati dai tocchi colorati delle loro t-shirt. Un’invasione benigna di portatori sani di rock...». E passi per l’ennesimo, ormai inevitabile strafalcione geografico quando Trieste diventa «la splendida città friulana...». Il resto del volume è sapientemente calibrato fra la grinta e la passione dei Pearl Jam, e l’entusiasmo del pubblico, composto da giovanissimi ma anche da quarantenni e cinquantenni che magari seguono la band di Seattle sin dai tempi degli esordi ormai un quarto di secolo fa. Ancora dal libro: «”Non siate troppo tristi. Non mollate”, dice Vedder ai trentamila dello Stadio Rocco di Trieste. “Rivolgetevi a qualcuno, alla musica, a qualcosa privo di dolore, all’oceano, al cielo...”». Parole che riportano alla poetica del cantante e leader della band. Da segnalare che ai testi delle loro canzoni Arcana aveva già dedicato, prima del tour italiano, un altro volume: “Pearl Jam. Still Alice. Testi Commentati” (Arcana, collana Txt, pagg 430, euro 19,50), di Simone Dotto. Un altro libro interessante, che ripercorre la storia del quintetto, dalle origini nei primi anni Novanta al trionfale ritorno del recente album “Lighting bolt”, attraverso i testi di Eddie Vedder, da sempre leader, voce e primo autore del gruppo.

INCOGNITO stasera a tarvisio, no borders music festival

Hanno inventato e lanciato in tutto il mondo l’acid jazz. La loro storia comincia nel lontano 1979 e passa attraverso molti cambi di formazione. Generazioni di musicisti hanno attinto e tuttora pescano nelle loro intuizioni artistiche. Stiamo parlando degli Incognito, il gruppo inglese che arriva stasera a Tarvisio (piazza Unità, ore 21, ingresso libero) per il No Borders Music Festival, giunto quest’anno alla diciannovesima edizione. La band ruota ancora attorno alla figura di Jean-Paul “Bluey” Maunick, chitarrista inglese originario delle isole Mauritius, fondatore trentacinque anni fa del primo nucleo assieme a Paul “Tubb” Williams, e oggi unico superstite della formazione originaria. Nel corso degli anni si sono alternati cantanti, sassofonisti, bassisti, batteristi, ma solo lui è rimasto al centro della scena. Fra il primo album (“Jazz funk”, pubblicato nel 1981) e il recente “Amplified soul” c’è una storia discografica e dal vivo di tutto rispetto, che ha mantenuto il gruppo sempre attivo e vitale. «Questo - ha detto Jean-Paul “Bluey” Maunick del nuovo disco - è un lavoro fatto col cuore, un dono a tutti coloro che ci hanno sostenuto nel corso degli anni». Da ricordare che l’esplosione degli Incognito coincise con la fondazione nel 1989 dell’etichetta discografica “Talkin’ Loud”, per la quale uscirono fra gli altri gli album “Inside life” e “Tribes, Vibes + Scribes” (rispettivamente nel ’91 e ’92), che lanciarono il genere acid jazz, un’eccitante miscela di soul, funk, dance e appunto jazz. Di quel periodo anche il grande successo internazionale con la cover del classico di Stevie Wonder “Don’t you worry ’bout a thing”. E un altro loro brano che il pubblico internazionale ricorda è senz’altro “Hands up if you wanna be loved”.

HELLYEAH stasera a codroipo, friuli

Unica tappa italiana, stasera alla Summer Music Arena di Codroipo, per il tour mondiale degli statunitensi Hellyeah. Si tratta di un gruppo metal che gode di un vasto seguito anche in Europa e nel nostro Paese, formato da ex componenti dei Mudvayne, Pantera, Nothingface e Damageplan. Attualmente la band è composta dal cantante Chad Gray, dal chitarrista Tom Maxwell, dal bassista Kyle Sanders e dal batterista Vinnie Paul, ma in questi anni la formazione ha compreso fra gli altri Jerry Montano, Greg Tribbett, Bob Zilla... La loro discografia comprende l’album omonimo “Hellyeah”, pubblicato nel 2007, “Stampede” (2010), “Band of brothers” (2012) e il recente “Blood for blood”, uscito due mesi fa. Ed è proprio per presentare i brani di questo nuovo album che la band americana è attualmente in tour in Europa. Dopo i vari cambi di formazione, e ormai stabilizzati nel quartetto citato, gli Hellyeah sembrano anche aver terminato il tempo degli esperimenti e offrono al pubblico la loro proposta musicale. «”Blood for blood” - si legge infatti in una nota della casa discografica - è l’album che gli Hellyeah, reduci dalla definizione della nuova formazione con l’ex Mudvayne Chad Gray alla voce, il batterista dei Pantera Vinnie Paul e Tom Maxwell dei Nothingface alla chitarra, avrebbero da sempre voluto fare. Dopo circa otto anni, tre album, innumerevoli tour da “headliner” e da partecipanti a festival internazionali, centinaia di migliaia di album venduti, gli Hellyeah fanno ora un grande passo avanti nella loro carriera». Ancora dalle note discografiche: «“Blood for blood” punta dritto alla giugulare dell’ascoltatore, trascinandolo senza lasciarlo andare lungo tutta la “tracklist”. È sicuramente l’album più metallico della band, che lascia il segno grazie a canzoni cariche di vendetta come “Dmf” e la rabbiosa “Demons in the dirt”. La band, per la prima volta nella carriera, ha scelto di lavorare con un producer esterno, reclutando il canadese Kevin Churko per la produzione del nuovo lavoro». Il batterista Vinnie Paul lo ritiene «un disco metal che però ha anche la melodia. Può quindi essere apprezzato da un gruppo più eterogeneo di persone». Il cantante Chad Gray va meno per il sottile e dice: «Quest’album è come una scazzottata notturna...». Il giudizio definitivo ai rockettari che accorreranno stasera a Codroipo.

sabato 2 agosto 2014

ARISA stasera a tarvisio, per No Borders Music Festival

Il 2014 è il suo anno. Non foss’altro perchè ha vinto il Festival di Sanremo con il brano “Controvento”. Una cosa non da poco in assoluto, ma soprattutto per chi dal Festival è partita, vincendo nel 2009 Sanremo Giovani con “Sincerità” (al suo fianco, al pianoforte, il grande Lelio Luttazzi nella sua ultima uscita pubblica) e tornandovi un paio di volte (citazione speciale per il secondo posto del 2012, con la raffinata “La notte”), prima dell’affermazione di quest’anno. Arisa ora si gode il tour estivo, che fa tappa stasera al No Borders Music Festival di Tarvisio, in piazza Unità, ingresso gratuito. «Ho deciso di dare al tour lo stesso titolo dell’album - dice colei che in realtà si chiama Rosalba Pippa, classe 1982, nata a Genova ma cresciuta nella Pignola, paese a due passi da Potenza, delle sue origini familiari -, nonchè di quella che reputo la canzone più importante dello stesso, scritta da Cristina Donà che canta con me anche nel disco. Lei è un’artista che stimo molto. Ha scritto anche “Lentamente (il primo che passa)”, l’altra canzone che ho portato al Festival di quest’anno, alla quale il pubblico ha preferito “Controvento”». E l’ha preferita sul serio, visto che - oltre a portarla sul gradino più alto del festivalone - le ha fatto conquistare i vertici delle classifiche radio, digitali e video: le visualizzazioni di “Controvento” hanno infatti superato quota tredici milioni. Un segno anche questo del fatto che il pubblico ha apprezzato e apprezza la cosiddetta “svolta raffinata” della poliedrica artista (cantante, attrice, doppiatrice, scrittrice, personaggio tv...), dopo gli esordi quasi sbarazzini di cinque anni fa. Ancora Arisa: «Sicuramente in questi anni credo di aver attraversato un’evoluzione anche musicale. In fondo non sono più una ragazzina, ho trentadue anni, sento di aver acquistato una nuova consapevolezza. Ma non rinnego l’approccio leggero alle canzoni. E rimango convinta dell’azione “medicamentosa” della musica». Ora dunque questo tour, nel quale la cantante è accompagnata da Giuseppe Barbera (pianoforte e tastiere), Raffaele Rosati (basso), Giulio Proietti (batteria), Francesco Bruni (chitarre), Gnu Quartet (archi e flauto). Dopo la tappa regionale di stasera, si prosegue fra l’altro il 4 agosto nella sue Potenza, il 9 a Molfetta, il 22 ad Ancona, il 26 a Trento, il 31 a Tempio Pausania.

venerdì 1 agosto 2014

LINO STRAULINO, Bar Italia

S’intitola “Bar Italia” il nuovo album di Lino Straulino, cantautore e grande ricercatore e interprete della tradizione musicale friulana. Suona nei teatri e nelle osterie, dopo una carriera ormai trentennale sempre in bilico fra folk, rock e blues, è considerato uno dei maggiori esponenti della Nuova musica friulana. Ma questo disco comprende canzoni in italiano. «Quelle canzoni mi inseguivano da anni - spiega Straulino, classe 1961, nato a Sutrio, in Carnia -, ogni tanto tornavano a bussare alla porta dei ricordi. Le ho sempre considerate canzoni “minori” in quanto scritte in gioventù, con strumenti piuttosto limitati. Ma c’era un entusiasmo creativo tipico dell’età in cui le cose ti sgorgano più per “magia” che per consapevolezza. Così ho deciso di farne un disco». Anni Ottanta, per lei che periodo era? «Li ho vissuti col sapore amaro della fine dei Settanta e la preoccupazione per la piega generale che stava prendendo la musica. Alla cultura della condivisione e dell’apertura mentale si stava opponendo una visione edonistica finalizzata ad anteporre su tutto il culto dell’apparire. Era l’epoca della disco italiana, del punk da barricata, della wave di provincia e del jazz fusion da quartiere residenziale». E lei? «Vuoi per scarsità di mezzi vuoi per mia inclinazione innata, mi sono dedicato alla riscoperta e alla pratica della musica popolare, complici gli amici di Folkest e una manciata di dischi d’oltremanica che mi facevano compagnia». Canzoni in italiano per un artista legato al friulano. «Può sembrar strano ma chi parla più lingue dovrebbe naturalmente cercare di esprimersi in ognuna di esse. All’epoca scrivevo in entrambi i codici ma risultò più semplice trovare un piccola produzione locale in lingua friulana a scapito dell’altra. Il terremoto aveva lasciato un profondo desiderio di friulanità nelle comunità di paese e si era affermato un discreto mercato discografico locale specializzato». Il primo disco? «Una cassetta uscita nell’83 per la casa discografica Avf di Checco Comelli, grazie a Dario Zampa. Ma la scelta musicale di utilizzare uno stile cantautorale “alla Bob Dylan” non venne capita dal pubblico». “Il vento della vita” è l’unica canzone recente. «Maurizio Mattiuzza, poeta e amico, venne anni fa a farmi visita con quel testo. Scrissi una melodia sulla traccia fornita dalle parole. Una canzone che amo molto, si presterebbe a una ampia orchestrazione». Dov’è il Bar Italia? «A Sutrio, l’edificio esiste ancora. L’esercizio pubblico non più. Ma resiste come luogo d’incontro nel cuore di chi durante quegli anni lo frequentava. Era un bar di gioventù di paese dei primi anni Ottanta. Con la barista Elda che era la nostra donna delle meraviglie: mini vertiginosa, sorriso accogliente e un cuore d’oro». Voi? «Una banda di sognatori armati di chitarre, flauti, tamburi e tanta voglia di fare festa assieme. Era il nostro covo, il nostro ritrovo, lo scoglio da cui partire e il porto dove ritrovarsi». Lei vive di musica? «No, faccio da trent’anni il maestro elementare in Carnia. La musica è la mia passione, cominciata molto presto. Mia mamma era una contadina che amava la lirica e l’arte. Mio padre aveva la passione per il canto, come molti montanari. A undici anni il piano, a quattordici la prima chitarra, a diciassette le prime canzoni. Sono stato fortunato perchè ho sempre fatto la musica che mi piaceva fare e ancora vado avanti con questo passo». Quanti dischi ha fatto? «Negli ultimi vent’anni una trentina, grazie a Valter Colle, tra opere a mio nome e collaborazioni varie, senza ripetermi quasi mai. Cioè ogni disco è un capitolo a sé e niente o poco ha a che fare con gli altri». Victor Jara? «Un simbolo di libertà, ho tradotto la sua opera in friulano. Ma ho anche musicato poeti e arrangiato canti tradizionali. In molti dischi ho suonato da solo tutti gli strumenti». Sogni? «Ancora tanti, molti legati alla musica. Uno è quello di suonare prima o poi a Trieste: ancora non mi è mai capitato...».