sabato 30 gennaio 2016

ADDIO A PAUL KANTNER, JEFFERSON AIRPLANE

Era il chitarrista e leader dei Jefferson Airplane, il gruppo che assieme ai Grateful Dead aveva scritto la storia del rock psichedelico che a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta aveva animato le tante “Summer of love” (non solo quella del ’67) di San Francisco e dintorni. Paul Kantner è morto a 74 anni a seguito di una crisi cardiaca. Con la cantante della band, Grace Slick, aveva formato all’epoca una delle coppie più importanti e ammirate del rock. Grazie alla loro bravura, alla loro bellezza, grazie ad album come “Surrealistic pillow”, “Volunteers”, “Crown of creation”, e brani come “Somebody to love” e “White rabbit”. Con i Jefferson Airplane, negli anni di “pace amore e musica” e della guerra nel Vietnam, era stato a Woodstock, infiammando la platea del mattino di domenica (inizialmente dovevano suonare la sera precedente...). Da solista nel ’70 aveva firmato “Blows against the empire”. Dopo la diaspora con Jorma Kaukonen e Jack Casady, che avevano fondato gli Hot Tuna, Kantner e Slick avevano continuato come Jefferson Starship. Ma nei tanti anni trascorsi prima di questo epilogo c’è stato lo spazio, oltre che per le liti e le incomprensioni, anche per qualche applaudita reunion

CROOKSET AI SANREMO AWARDS

Si chiamano CrookSet («per noi significa “unione di curvature sonore”, perchè mischiamo generi musicali diversi...»), sono tre giovanissimi ragazzi triestini e stanno per partire per Sanremo. Si badi bene: non vanno al festivalone, ma a una rassegna per gruppi emergenti che si tiene negli stessi giorni della massima kermesse nazionalpopolare. Se poi ce la faranno ad arrivare in finalissima, parteciperanno al gala finale del 12 febbraio a Montecarlo. Loro sono Ivan Bevilacqua, ventitre anni, tastiere e dj, Matteo Antoni, vent’anni, chitarre, e Pierpaolo Foti, diciotto anni, violino elettrico. Che spiega: «Come gruppo siamo nati esattamente un anno fa. Mischiamo musica elettronica, classica e pop-rock: generi che secondo molti sono distaccati e addirittura incompatibili». Qualche concerto a Trieste e dintorni, con puntate nel resto della regione, a Portorose e a Ferrara. Poi le selezioni al Sanremo Music Awards, a Venezia, con la partecipazione a una compilation che, oltre a essere in vendita su vari “negozi digitali”, è stata pubblicata con la rivista “Ora”, con promozione sui canali Mediaset. I CrookSet quelle selezioni le hanno passate e ora vanno a Sanremo, mentre a marzo avranno l’occasione di presentare la loro musica in un tour promozionale di quarantadue date nei maggiori centri commerciali italiani. La compilation dei Sanremo Music Awards propone in tutto una quarantina di giovani e giovanissimi artisti: una sorta di laboratorio musicale nel quale verranno scelti alcuni ragazzi per i quali sono previste anche delle esibizioni all’estero e la partecipazione a un programma televisivo in Messico. Per il gruppo triestino è in arrivo intanto il primo singolo, mentre su Youtube sono già presenti con i loro brani. Fra l’altro, stanno collaborando con la cantante colombiana Marcela Ocampo, famosa per il brano “Toquen tambores”.

venerdì 29 gennaio 2016

MOSTAR, 22 ANNI FA (Articolo 21)

Sono passati ventidue anni, ma la ferita è ancora aperta. Innanzitutto per le famiglie, ma anche per gli amici, i colleghi, la stessa città di Trieste. 1994/2016: i ventidue anni trascorsi sono quelli dalla tragedia di Mostar, dove il 28 gennaio del '94 perdevano la vita Marco Luchetta, Alessandro "Sasa" Ota e Dario D’Angelo, inviati della Rai del Friuli Venezia Giulia in Bosnia per un servizio sui bambini della ex Jugoslavia. Poche settimane dopo, a Mogadiscio, il 20 marzo '94, venivano assassinati la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore triestino Miran Hrovatin. Sembrava un incubo, da cui si doveva tentare di uscire reagendo, facendo qualcosa, creando un'iniziativa di pace e speranza per guardare al domani. E proprio all’indomani di quei drammatici fatti si è costituita a Trieste la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, che da oltre vent’anni accoglie e sostiene i bambini affetti da malattie non curabili nei loro Paesi d’origine. Dal 1994 la Fondazione ha ospitato oltre millecinquecento bambini e loro familiari provenienti dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America, dall’Europa orientale e dalla penisola balcanica. Paesi nei quali era impossibile garantire le cure adeguate per quei bimbi, che a Trieste hanno fortunatamente trovato assistenza e cure. Nelle settimane scorse, a quasi 22 anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la Corte d'appello di Perugia ha riaperto il processo a Hasci Omar Hassan, unico condannato per l'uccisione della giornalista del Tg3 e dell'operatore triestino. I giudici hanno infatti accolto l'istanza di revisione del processo presentata dagli avvocati difensori del somalo che ha già scontato 16 dei 26 anni della condanna: chiedono l'annullamento della condanna e il riconoscimento della sua estraneità al duplice omicidio. Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, e Vittorio Di Trapani, segretario dell'Usigrai, hanno auspicato che il processo riapra “la strada alla ricerca della verità e della giustizia che sono le vere assenti di questa tormentata storia”. Proprio Beppe Giulietti presenterà, domani alle 10.30, al Circolo della Stampa di Trieste, assieme a Daniela Luchetta, presidente della Fondazione Luchetta Ota D'Angelo Hrovatin, l'edizione 2016 di "L.ink Premio Luchetta Incontra", il premio giornalistico nato per ricordare i colleghi caduti ventidue anni fa. Alle 11, sempre al Circolo della Stampa di Trieste, Beppe Giulietti incontrerà i giornalisti dell'Assostampa del Friuli Venezia Giulia per la prima volta dopo la recente elezione a presidente della Fnsi. L'incontro è aperto a tutti i colleghi e cittadini interessati. Carlo Muscatello, su Articolo 21

domenica 24 gennaio 2016

SKUNK ANANSIE, anarchytecture

SKUNK ANANSIE “ANARCHYTECTURE” (Carosello Records) Oscuri e rabbiosi anche dopo vent’anni, gli Skunk Anansie tornano con il loro sesto album, resoconto rock di un anno frenetico, come ha spiegato la cantante Skin, reduce dal successo televisivo di “X Factor”. Nel disco, un filo rosso politico («Con quello che succede nel mondo, non ci mettiamo certo a fare musica per ballare...») convive con contaminazioni techno che si sentono nel singolo “Love someone else”: «Vogliamo essere rivelanti nel presente», ha detto Skin, che è anche nuova testimonial dell’abbigliamento Sisley. “Death to the lovers”, una ballad in pieno stile Skunk Anansie, è il secondo singolo tratto dall’album. La copertina è stata realizzata dall’artista italiano No Curves. Il titolo dell’album per Skin indica «il confine inquieto tra struttura e caos, tra costrizione e libertà». Eppure, «non è un album di rottura. Ho giurato che non ne avrei mai più scritti...», dice l’artista. Piuttosto il residuo emotivo che una serie di “esplosioni” avvenute durante il 2015 nella sua vita privata ha lasciato ai versi, molti dei quali nati in studio. Unico concerto in Italia, il 17 febbraio a Milano, all’Alcatraz

BOWIE, BLACKSTAR, prima e dopo...

«Look up here, I’m in heaven, I’ve got scars that can’t be seen...». Guardate qui, sono in paradiso, ho cicatrici che non possono essere viste, ho drammi che non possono essere rubati: tutti mi conoscono adesso. Ascoltare l’album “Blackstar”, guardare il video di “Lazarus” in quei tre ignari giorni dopo la pubblicazione del disco nel giorno del sessantanovesimo compleanno, e farlo dopo la morte di David Bowie, sono state e sono due esperienze completamente e maledettamente diverse. Prima, l’ammirazione per un artista che ha scritto la storia del pop e del rock, capace ancora di cambiare, di rinnovarsi, di stupire dopo mezzo secolo di carriera. Capace di sfornare sette brani vibranti della stessa tensione sperimentale delle origini, che per far ciò non ha esitato a circondarsi del gruppo jazz del talentuoso sassofonista californiano Danny McCaslin. In un lavoro per tanti versi oscuro, pieno di simboli - a partire dalla “stella nera” del titolo -, citazioni e autocitazioni. Risultato: un’opera visionaria e geniale, intrisa di jazz e contemporaneità. Un disco fuori dal tempo e dalle logiche commerciali. Passata l’incredulità e attenuato il dolore, gli stessi brani assumono una valenza e significati nuovi. Il capolavoro rimane, la voglia e la capacità di cambiare pure, ma suoni, parole, immagini assumono adesso le coloriture di oscuri presagi, molti hanno detto di un testamento. Non solo musicale, forse spirituale. E poi quel video, il video di “Lazarus” (canzone che dà il titolo al musical, sequel de “L’uomo che cadde sulla Terra”, che ha debuttato il 7 dicembre a New York). Bowie che canta i versi citati all’inizio disteso a letto, il volto sofferente, la voce straniata e straniante, due piccoli bottoni applicati sugli occhi bendati. Non c’è soluzione di continuità fra la vita e l’arte, fra la realtà e la finzione, fra l’essere e il non essere. E i brividi risalgono la schiena. Il resto? “’Tis a pity she was a whore”, “Sue (Or in a season of crime)”, “Girl loves me”, “Dollar days”, “I can't give everything away”. Cavalcate elettriche, episodi cupi e oscuri, ballad rassicuranti, assoli e improvvisazioni che puntellano l’edificio sonoro del disco, una voce mai così ispirata e drammatica in tutti questi anni. E solo dopo il tragico fatto se ne comprende forse il motivo. Tony Visconti, amico e produttore, ha rivelato che poche settimane prima dell’epilogo Bowie gli aveva parlato di cinque brani nuovi (“Blackstar” era stato registrato nel gennaio 2015). Chissà, altre perle dall’uomo caduto sulla Terra. Piace sognare al suo viaggio di ritorno verso quell'universo lontano da cui sembrava fosse venuto, tanti anni fa.

venerdì 15 gennaio 2016

BOWIE, ARRIVA UN DISCO POSTUMO?

Ci potrebbe essere un disco postumo di David Bowie, entro la fine dell'anno, con canzoni derivanti dalle sessioni di registrazione di Blackstar, l'ultimo album dell'artista inglese. La notizia è riportata dal Los Angeles Times che parla di cinque tracce già incise che potrebbero rientrare in una edizione 'deluxè in uscita forse il prossimo Natale. Blackstar, dopo la morte di Bowie, è nuovamente schizzato nelle classifiche e nelle vendite. «Bowie era totalmente preso da questo lavoro, ogni volta che suonavamo ci raggiungeva nella stanza principale e cantava con noi», ha spiegato al quotidiano nei giorni scorsi Donny McCaslin, leader del quartetto che ha dato un tocco jazz all'album registrato a inizio del 2015, quindi quasi un anno fa. Anche per il lavoro precedente, The Next Day uscito nel 2013, è stata poi lanciata un'edizione 'Extrà composta da tre dischi, remix e 'bonus track'. Intanto si scopre che l'artista inglese aveva ancora in cantiere dei progetti, oltre al rifacimento del disco Outside come ha rivelato qualche giorno fa il musicista e amico Brian Eno. Il sito Nme scrive che James Gunn, il regista de 'I Guardiani della Galassià, aveva contatti con l'artista inglese per un cameo nel sequel della pellicola le cui riprese inizieranno tra un mese, a febbraio. A suggerire il ruolo di Bowie era stato il presidente di Marvel, Kevin Feige. «Abbiamo saputo dal suo staff che questa cosa potenzialmente era fattibile. Chi immaginava cosa sarebbe successo?», conclude James Gunn. (ANSA).

martedì 12 gennaio 2016

17 ANNI SENZA DE ANDRÈ (su Articolo 21)

di Carlo Muscatello Solo la sorpresa, il rimpianto e il dolore sincero per la scomparsa di David Bowie ieri ci hanno fatto trascurare un anniversario. L'11 gennaio del 1999, dunque diciassette anni fa, moriva Fabrizio De Andrè. Il poeta non allineato, l'uomo e l'artista sempre dalla parte degli ultimi, delle minoranze, che aveva combattuto contro ogni convenzione, con un linguaggio ironico e dissacrante. Sembra ieri, anche perchè la sua opera è qui, è viva, rimane a darci conforto, a indicarci una via, non perde di forza e di attualità. Faber era - rimane - il nostro amico fragile, il cantore degli oppressi e degli emarginati, il fustigatore sottile e lucido dei potenti, l’anticipatore della miglior musica etnica. La sua vita, la sua storia comincia il 18 febbraio del 1940. La famiglia De Andrè vive a Genova, zona Pegli, quartiere della Foce, al numero 13 di un palazzo borghese di via Trieste. C’è già un figlio maschio, Mauro, più grande di Fabrizio di quattro anni (diventerà uno stimato avvocato, anche lui morto prematuramente, nell’89, a cinquantatre anni), e dunque in casa si aspetta una bambina. Ma arriva lui. Famiglia colta, benestante, classica buona borghesia genovese, che sa unire solido patrimonio (padre alto dirigente dell’Eridania) e ottime letture. Durante la guerra si trasferiscono per un lungo periodo nella villa di famiglia, a Revignano d’Asti. Lì il piccolo Fabrizio impara ad amare la natura, la campagna, gli animali, il lavoro di contadino. Amore che da adulto, con la seconda moglie Dori Ghezzi, non gli farà abbandonare la fattoria in Sardegna (con gli anni trasformata in una vera e propria azienda agricola) neanche dopo la tragica esperienza del rapimento nel ’79: più di cento notti all’«Hotel Supramonte», che poi sarebbe diventato titolo di una canzone ispirata a quelle catene, a quel tetto di cielo stellato. Ma torniamo alle origini. Nel dopoguerra ritroviamo De Andrè studente svogliato, che si iscrive al liceo Cristoforo Colombo. La sua vera passione era però la musica. Ascolta i francesi, soprattutto Brel e Brassens, si veste tutto di nero come gli esistenzialisti dell’epoca, comincia a suonicchiare come chitarrista jazz, in omaggio al suo idolo Jim Hall, in una band in cui c’è anche Luigi Tenco al sassofono. Ma poi è anche nei Crazy Cowboys, una country band genovese che suona alle feste studentesche. Il primo disco di colui che inizialmente si fa chiamare semplicemente Fabrizio esce nel ’58, come si usa all’epoca è un 45 giri, s’intitola «Nuvole barocche». Ma di quel diciottenne dall’aria ispirata si accorgono davvero in pochi. Anche perchè l’Italia ha già i suoi problemi ad accettare la rivoluzione di Modugno, che al Sanremo di quell’anno spalanca le braccia e intona «Volare». Figuriamoci questo De Andrè, ostico, troppo in anticipo sui tempi, rispetto a un panorama canoro ancora dominato dalle rime obbligate «cuore amore» e dalla struttura dei brani «strofa strofa, ritornello strofa». Ma De Andrè è giovane, non ha fretta, sa aspettare. Frequenta senza troppo entusiasmo l’università: prima medicina, poi lettere, infine giurisprudenza, mollata a due esami dalla laurea. Frequenta soprattutto, per la comune passione musicale, i soliti amici: Paolo Villaggio (amico d’infanzia, le rispettive famiglie passavano le vacanze assieme), Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, il citato Tenco, pochi altri. Con Villaggio, ancora lontano dai sogni di gloria con la saga dei Fracchia e dei Fantozzi, scrive la goliardica «Carlo Martello». Che viene denunciata all’autorità giudiziaria nientemeno che per linguaggio osceno. Tutto per colpa di quel passaggio in cui l’apparentemente casta contadinella cede alle voglie del bramoso re, che poi si accorge di essersi in realtà intrattenuto con una prostituta. E sbotta: «Ma è mai possibile, corpo di un cane, che le avventura in codesto reame debbano concludersi tutte con grandi puttane...». Lo scandalo è annesso. Nel ’65 il nostro - che nel frattempo sposa Enrica «Puny» Rignon, nel ’63 nasce Cristiano - firma «La canzone di Marinella», quasi una favola poetica che racconta di come una fanciulla, tornando a casa dopo la prima esperienza d’amore, fosse scivolata nel fiume, annegando. «E lui che non la volle creder morta, bussò cent’anni ancora alla sua porta...». La canzone era nata da un fatto di cronaca: una prostituta (figura ricorrente della poetica di Faber: si pensi anche a «Bocca di rosa», secondo alcune ricostruzioni ispirata a una ragazza istriana che era partita proprio da Trieste per conoscerlo...) era stata scippata e buttata nel fiume. De Andrè trasforma l’episodio in poesia delicata, struggente. E Mina, al culmine della popolarità, ne regala una versione memorabile e la porta al successo. Consacrando di riflesso anche l’autore. Poi le cose vanno veloci. Nel ’66 esce il primo album, intitolato «Tutto Fabrizio De Andrè», una raccolta delle canzoni scritte fino a quel momento. Nell’Italia che sta per conoscere una stagione di grandi cambiamenti, De Andrè si fa una fama «proibita»: è quello che infila le parolacce nelle canzoni, viene ascoltato dai liceali a volume basso, rigorosamente fuori dalla portata dei genitori. Ma è anche quello che racconta storie, suscita emozioni e sensazioni che fino ad allora sembravano monopolio della letteratura, della poesia. Album come «Volume I», «Tutti morimmo a stento» (ispirato alle poesie di Francois Villon), «La buona novella», «Non al denaro non all’amore nè al cielo» (con l’antologia di «Spoon river» rivisitata a quattro mani con Fernanda Pivano) e «Storia di un impiegato» punteggiano, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, un percorso artistico che trasforma di certo la canzone ma tutto sommato anche il costume e la cultura italiana. Segue la stagione dei concerti (e dei dischi dal vivo) con la Pfm, che nel ’78 riveste per la prima volta di suoni elettrici canzoni che spesso il pubblico era abituato a sentire chitarra e voce. Ma anche dell’amore per la musica etnica e della riscoperta del dialetto genovese, della collaborazione con Mauro Pagani e con Massimo Bubola, con Francesco De Gregori («Canzoni», uscito nel ’74) e con Ivano Fossati. Fino a capolavori assoluti come «Creuza de ma» (il miglior disco degli anni Ottanta, amato anche da David Byrne) e «Nuvole», che parte da Aristofane e allude ai «potenti che oscurano il sole». Per finire con «Anime salve», ultimo sguardo sull’umanità marginale, ultimo album di Fabrizio De Andrè prima della raccolta «Mi innamoravo di tutto», con «La canzone di Marinella» in duetto con Mina. Fin qui l’opera, ancora così presente e attuale. Ecco, oggi rimane un senso di perdita per quello che Fabrizio avrebbe potuto scrivere e cantare in questi anni che son passati senza di lui e nei prossimi. Ci manca sentire come avrebbe raccontato lui, questi tempi scassati. Disse una volta: «Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per la giustizia sociale e l’illusione di poter partecipare a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane...». Ci mancano allora le parole con cui Fabrizio De Andrè (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999) lo avrebbe raccontato, questo cambiamento del mondo. Purtroppo peggiore di quello che lui aveva cantato.

lunedì 11 gennaio 2016

ADDIO A DAVID BOWIE (su Articolo 21)

di Carlo Muscatello L'uomo che cadde sulla Terra non c'è più. Piace pensare che abbia fatto il viaggio di ritorno verso quell'universo lontano da cui sembrava fosse venuto, nel film che lo aveva visto debuttare al cinema giusto quarant'anni fa, quand'era già una star del rock. David Robert Jones, in arte e per tutti David Bowie, è morto tre giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno e il suo ultimo album capolavoro, "Blackstar", opera visionaria e geniale, intrisa di jazz e contemporaneità. Fa impressione rivedere oggi l'ultimo video: "Look up here, I'm in heaven...", canta disteso a letto, con gli occhi bendati, due piccoli occhietti di plastica applicati sulla benda al posti di quelli veri. L'artista lottava da un anno e mezzo contro il cancro. Questi suoni, queste parole, queste immagini hanno oggi più che mai il sapore di un oscuro presagio, di un testamento. Il testamento artistico e musicale di un uomo che ha fatto la storia del rock, con fertili incursioni in altre arti. Mezzo secolo di carriera (aveva cominciato davvero giovanissimo: il primo 45 giri, "Can't help thinking about me" e "And I say to myself", era uscito il 14 gennaio 1966), trenta album, centocinquanta milioni di dischi venduti. Questo ma non solo questo è stato David Bowie. L'incontro con Lindsay Kemp e con Andy Warhol gli indicano presto la strada. Eleganza e trasgressione, originalità e ambiguità sessuale, soprattutto i continui cambiamenti ("Changes" non è solo il titolo di uno dei suoi tanti dischi capolavoro) sono la sua cifra esistenziale e stilistica. Di volta in volta diventa Ziggy Stardust e Duca Bianco, in album come "Space Oddity" (con quei versi leggendari, "Ground control to major Tom...": ne esiste anche una sua versione in italiano, "Ragazzo solo ragazza sola"), "The man who sold the world", "The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars"... Dopo "Station to station" nel '77 va a Berlino, si libera dalla droga, collabora con Brian Eno, sforna tre capolavori assoluti come "Low", "Heroes" e "Lodger". Cambiare, cambiare. Il rock che vira sulla dance e il funk ("Let's dance"), che non si fa problemi a flirtare con la musica commerciale, che guarda sempre avanti. La lista dei titoli è lunga, infruttuoso ripercorrerla. David Bowie ha lasciato al mondo un'eredità culturale e musicale ricchissima. Da cui generazioni di artisti hanno già attinto e continueranno a cogliere spunti, idee, insegnamenti. Con i Beatles, Dylan e pochi altri grandissimi ha scritto la musica classica del Novecento.

martedì 5 gennaio 2016

PER UN 2016 ALL'INSEGNA DI LAVORO E LIBERTÀ DI INFORMAZIONE

Care colleghe, cari colleghi, il 2016 è di nuovo anno di rinnovo contrattuale. Un rinnovo diverso, forse più difficile dei precedenti. Il contratto di lavoro dei giornalisti, che scadrà il 31 marzo, è infatti stato disdettato dalla Fieg a fine ottobre. Una mossa degli editori, si è detto, per far capire al sindacato dei giornalisti che stavolta "si fa sul serio". La trattativa per il rinnovo del contratto è stata avviata dopo l'estate dal segretario generale Raffaele Lorusso affiancato dalla giunta esecutiva Fnsi. Dall'altra parte del tavolo, la delegazione Fieg ha chiesto la revisione – ovviamente al ribasso – di 21 (ventuno) istituti contrattuali: dalle ferie ai festivi, dai superfestivi al notturno, dalle mansioni alle domeniche, dall’incidenza del settimo numero al calcolo della 13a, dagli straordinari agli scatti… Praticamente gli editori vogliono riscrivere tutto il contratto, per abbassare ulteriormente il costo del lavoro giornalistico. Di fatto, viene chiesta ai giornalisti una sorta di contratto di solidarietà nazionale, stante, a loro dire, il perdurare della crisi economica. La Fnsi ha chiesto innanzitutto nuovi posti di lavoro, sottolineando che la categoria non è in grado di reggere ulteriori flessibilità (nel contratto vigente ce n'è già tanta...), né un altro contratto “a perdere”, senza un immediato e deciso rilancio dell’occupazione, in forte calo da diversi anni. Senza investimenti, insomma, non c'è ripresa del mercato del lavoro e non c'è futuro per il giornalismo italiano. Ma disdetta del contratto non significa rescissione della contrattazione collettiva, la cui validità è confermata dall’intero ordinamento giuridico e dalla stessa Costituzione. E se il nuovo contratto non venisse stipulato entro il 31 marzo, le norme contrattuali scadute continuerebbero comunque a trovare applicazione. Gli editori non potrebbero dunque disapplicare il contratto scaduto, anche perché i giornalisti sono stati assunti con un contratto individuale di lavoro nel quale si richiama l’integrale applicazione del contratto. La legge non consente di venire meno agli accordi sottoscritti fra le parti e l’applicazione rientra nella tutela dei diritti individuali acquisiti. Il sindacato unitario dei giornalisti sta comunque lavorando perché si arrivi a un rinnovo del contratto entro fine marzo. Il settore è stato duramente provato dalla crisi e dai tagli operati dalle aziende, che negli ultimi cinque anni hanno comportato la perdita di più di tremila posti di lavoro e consistenti riduzioni delle retribuzioni, per effetto del ricorso massiccio alla cassa integrazione guadagni e ai contratti di solidarietà. Oltre che dalle aziende, i costi della crisi sono stati pagati pesantemente dall’intera categoria (700 prepensionamenti negli ultimi cinque anni, tremila giornalisti attualmente in contratto di solidarietà) come dimostrano anche i dati degli ultimi bilanci Inpgi e Casagit. Per tutti questi motivi, la ripresa dell'occupazione è il primo obiettivo della Fnsi al tavolo negoziale. La Fieg deve capire che il costo del lavoro è già stato tagliato, che i giornalisti hanno già dato, che senza sviluppo non c'è futuro per nessuno. Nemmeno per loro. In questo quadro di grande difficoltà, l'Assostampa Fvg continua a fare la sua parte all'interno della Fnsi, sindacato unitario dei giornalisti italiani, uscito rafforzato dal congresso di Chianciano e dalla recente elezione a presidente di un collega di valore come Beppe Giulietti, che ha sostituito il compianto Santo Della Volpe. Il lavoro, il contratto, la tutela dei colleghi più deboli rimangono le priorità della nostra azione e del nostro impegno. Ma vanno coniugati su fronti solo apparentemente diversi, che riguardano il ruolo stesso dell'informazione e dei giornalisti nel nostro Paese. Negli ultimi giorni del 2015 il premier Renzi ha lanciato lo slogan "per un 2016 all’insegna della libertà di informazione”. Il sindacato dei giornalisti ha lo stesso impegno e la stessa speranza. Impegno e speranza che possono essere sintetizzati in cinque richieste: 1) una norma contro le querele temerarie; 2) una legge sulla diffamazione, che abolisca il carcere e renda effettivo il diritto dei cittadini a essere informato; 3) nuove regole per i conflitti di interessi; 4) riforma radicale dell’Ordine dei Giornalisti; 5) rinnovo della Concessione 2016 insieme alla riforma complessiva della Rai Servizio Pubblico. Senza dimenticare che, lasciando da parte polemiche spesso strumentali, assieme alla trattativa contrattuale - come ha detto Giulietti - si dovrà riprendere il filo della trattativa su modi e forme di applicazione della discussa legge sull'equo compenso. In questo panorama gli stati di crisi, le ristrutturazioni, i contratti di solidarietà non si contano e anche il nostro Nordest purtroppo non fa eccezione. Il sindacato li ha gestiti, li sta gestendo come può, partendo sempre e comunque da una posizione di debolezza, peggiorata dalle recenti novità nel campo della normativa sul lavoro. Nel Friuli Venezia Giulia i problemi, in certi casi le emergenze, sono tanti. Dai troppi giornalisti precari o comunque non contrattualizzati, dal Piccolo (in contratto di solidarietà e con richiesta di prepensionamenti) al Messaggero Veneto, dal Primorski Dnevnik (sempre in lotta per la sopravvivenza) al Gazzettino, dalla Rai regionale alle agenzie di stampa, dall'emittenza privata agli uffici stampa della pubblica amministrazione fino alle testate più piccole: non c’è azienda, non c’è settore dal quale non arrivino richieste di assistenza e di aiuto da parte dei colleghi, iscritti o non iscritti al sindacato. Per questo, l'appello conclusivo è quello di sempre. Per difendere il lavoro e i diritti dei colleghi, ma anche la qualità e il ruolo dell’informazione, abbiamo sempre bisogno di una Fnsi – e di un’Assostampa Fvg, che ha le quote di iscrizione più basse d'Italia – più forte. Iscrivetevi al nostro sindacato unitario: ne avete, ne abbiamo bisogno. Buon anno a tutte e a tutti. Carlo Muscatello presidente Assostampa Fvg componente giunta esecutiva Fnsi Trieste, gennaio 2016

lunedì 4 gennaio 2016

UN ANNO SENZA PINO DANIELE, su Articolo 21

di Carlo Muscatello . . . Un anno senza Pino Daniele è anche un anno ancora e sempre con la sua musica, ascoltando la quale mi tornano in mente le tante interviste che ho avuto la fortuna di fargli. Ricordo la prima, alla fine degli anni Settanta, per la Rai del Friuli Venezia Giulia, in occasione di un suo concerto a Gorizia. Mi ero preparato tante domande “intelligenti”, per non sfigurare dinanzi a colui che stava spazzando via l’immagine oleografica, da cartolina, stile “mandolino pizza e ammore”, che aveva contraddistinto fino ad allora la Napoli della canzone. Lui mi rispose con semplicità, spiazzandomi: “Sai, a mmè me piace sunà…”. Concetto ripreso in musica, di lì a poco, nel classico “A me me piace ‘o blues” (dall’album “Nero a metà”, uscito nel 1980, uno dei suoi dischi capolavoro). Eravamo ragazzi. Ed era un’epoca magica e irripetibile in cui tutto sembrava possibile. Volevamo cambiare il mondo e ci siamo limitati a cambiare la musica, forse il costume, liberandoci dai suoni che ci giravano attorno e sapevano di stanze chiuse, vecchie, dall’aria stantia, che avevano bisogno soltanto di qualcuno che spalancasse le finestre. Pino Daniele è stato uno di questi. Ci ha liberato da una napoletanità vecchia. Nel corso degli anni ha pescato nel blues e nel jazz, ha inseguito l’Africa e l’Oriente e a un certo punto persino i canti gregoriani. Per un periodo ha smesso di cantare in quell’anglonapoletano che è stato il suo miglior marchio di fabbrica. Ma in fondo è rimasto l’ex scugnizzo nato in un sottoscala di Vico foglie a Santa Chiara, primo di sei figli, cresciuto da due zie per i problemi economici dei suoi genitori. Guaglione cresciuto per strada, in mezzo alla camorra e alla povertà, cui il grande amore per la musica ha salvato la vita. Almeno fino a quando il suo debole cuore gli ha presentato il conto. Una trentina d’anni dopo, l’ultima delle tante interviste per il quotidiano Il Piccolo. In occasione di un concerto a Trieste, in piazza dell’Unità, d’estate. Per quel tour aveva richiamato con sé i vecchi compagni delle origini: da James Senese a Tony Esposito, da Tullio De Piscopo a Rino Zurzolo. Mi disse fra l’altro: «Trent’anni di musica mi hanno portato a esplorare i suoni e le culture dei tanti paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dall’Africa al Medio Oriente. Ma a un certo punto mi è tornata la voglia di raccontare al pubblico la mia storia musicale sin dalle origini. Che ne so, sarà stata la nostalgia per le atmosfere, i suoni, se vuoi anche le speranze di allora». E poi, quasi in una sorta di testamento civile: «Da ragazzo ne ho viste di tutti i colori. Posso dire che la musica mi ha salvato la vita. Napoli è avvolta da quel grande cancro che è la camorra, dipende come buona parte del Sud da un vero e proprio contropotere che si chiama criminalità organizzata. Ma l’emergenza Napoli è l’emergenza Italia, un Paese in cui non si ha più fiducia nelle istituzioni, troppo vecchie e lontane dalla gente». Ancora: «La rinascita deve partire dalla scuola, dalla comunicazione, dall’informazione, dalla cultura, magari da internet. Napoli e tutto il Sud devono uscire da una mentalità che per decenni è stata come una pesante zavorra. È necessaria una collaborazione con lo Stato, con le istituzioni. Bisogna far vedere ai ragazzi, sin da giovani, che esiste un’alternativa nella legalità». E infine: «C’è un lungo lavoro da fare, sarà un percorso lungo. Ma alcuni segnali ci sono, in tutto il Sud, proprio sul fronte della legalità. La speranza come sempre sono le giovani generazioni, che si stanno finalmente rendendo conto che questa situazione non può andare avanti. E che le alternative sono possibili». Insomma, a Pino Daniele piaceva suonare. Ma sapeva guardare e leggere le cose della vita e del nostro Paese ben al di là delle corde della sua chitarra. E meglio di tanti nostri politici.

QUO VADO? di CHECCO ZALONE: 22 milioni di euro e 3 milioni di presenze in 3 giorni

“QUO VADO?” STRACCIA TUTTI I RECORD: NEL SUO PRIMO WEEKEND DI PROGRAMMAZIONE RAGGIUNGE OLTRE 22 MILIONI DI EURO CON 3 MILIONI DI PRESENZE “QUO VADO?”, prodotto da Pietro Valsecchi per TAODUE FILM, distribuito da MEDUSA (in oltre 1.200 schermi) e diretto da Gennaro Nunziante, straccia tutti i record al boxoffice: nel suo primo weekend di programmazione totalizza oltre 22 milioni di Euro (€ 22.248.121) con oltre 3 milioni di presenze (3.060.698). Lo stesso risultato ottenuto da "Star Wars Il risveglio della Forza" in diciotto giorni di programmazione (22.347.677). Pietro Valsecchi commenta così questo straordinario risultato: "Il 2016 inizia nel segno della CHECCOMANIA. Checco è tutti noi con i nostri pregi e i nostri difetti. E infatti in questi tre giorni Zalone ha conquistato l'Italia, dal Presidente del Consiglio al Ministro della Cultura, da Adriano Celentano che oggi scrive in prima pagina sul Corriere della Sera fino a tutti gli altri spettatori in coda nei cinema per vedere Quo vado?. Ora dobbiamo tutti ripartire da questo successo, noi compresi, per trovare nuove idee, nuovi talenti e un modo diverso di raccontare l'Italia. Il risultato di Quo vado? ci dice che possiamo superare il cinema hollywoodiano e che, come succede da anni in Francia, possiamo trovare una strada originale e di successo per il nostro cinema, senza complessi di inferiorità. Ringrazio Piersilvio Berlusconi e il gruppo Mediaset per avermi appoggiato nella sfida di portare al cinema Checco Zalone fin dal primo film, dandomi la massima libertà e il massimo supporto. Quo vado? Non è un film "buonista", è un film su uomo che trova la felicità - e la trova nel momento in cui lascia il posto fisso. Viva l'Italia!"

SPRINGSTEEN IN ITALIA NEL 2016?

Sul fronte dei concerti, il botto del 2016 potrebbe essere Bruce Springsteen. Finora il sito ufficiale del rocker del New Jersey ufficializza soltanto una manciata di date americane, dal 16 gennaio a Pittsburgh al 17 marzo di Los Angeles. Ma “The river tour 2016” non terminerà di certo nella città degli angeli. E non è difficile pronosticare un passaggio, più o meno lungo, nella vecchia Europa. C’è però un altro indizio che porta al Boss. Ed è tutto italiano. Nel sito della Barley Arts di Claudio Trotta, l’agenzia che organizza i concerti italiani di Springsteen, dopo un bilancio dell’anno trascorso (molto positivo, con oltre trecento concerti organizzati e un picco raggiunto al concerto tenutosi all’autodromo di Imola, a luglio, con oltre 92mila per gli australiani Ac/Dc...), il patron dell’agenzia scrive: «Altre e tante belle opportunità per il 2016 si aggiungeranno (i Cure, il tour acustico di Brian May e Kerry Ellis - ndr), non escludo e mi auguro l’inaugurazione dell’anno nuovo con i botti o meglio con le botti piene di ...acqua di fiume :-)))». E quando si parla di un fiume, nel rock, e soprattutto nell’anno di “The river tour 2016”, il pensiero galoppa veloce verso il corso d’acqua celebrato quarant’anni fa, e ripreso proprio recentemente, da Springsteen. Che quest’anno dovrebbe sfornare anche un nuovo album. Ma bando alle speranze e passiamo alle date certe, già annunciate. Trieste per ora schiera sei appuntamenti, fra inverno e primavera, al Rossetti: Carmen Consoli sabato 13 febbraio, Battiato e Alice lunedì 15 febbraio (debutto del tour, dopo l’anteprima del 13 febbraio a Carpi), Luca Carboni mercoledì 23 febbraio, Chris Cornell venerdì 15 aprile, Gianna Nannini mercoledì 20 aprile, Steven Wilson martedì 26 aprile. L’estate porta un megaconcerto in piazza dell’Unità, dove martedì 26 luglio arrivano gli Iron Maiden. Area Nordest. Domenica 14 febbraio Massive Attack a Padova (Gran Teatro Geox), domenica 3 aprile Anastacia debutta con il tour europeo da Padova, giovedì 14 aprile Daniele Silvestri al Nuovo di Udine, domenica 8 maggio Enrique Iglesias al palasport di Zagabria, lunedì 9 maggio Muse a Vienna (Stadthalle), mercoledì 11 maggio i 2Cellos aprono il nuovo tour europeo all’Arena di Verona, giovedì 19 maggio Ac/Dc allo stadio di Vienna, martedì 28 giugno Black Sabbat sempre nella capitale austriaca (Stadthalle), e mercoledì 26 ottobre Cure ancora a Vienna. Resto d’Italia. L’8 gennaio comincia dal palasport di Ancona il tour de Il Volo (anteprima il 6 gennaio al Pala Remo Maggetti di Roseto degli Abruzzi, Teramo). Claudio Baglioni e Gianni Morandi, ovvero i Capitani coraggiosi, dopo le dodici date romane dello scorso settembre, riprendono la navigazione il 19 e 20 febbraio da Padova (successivi “porti”: 23, 24 e 25 febbraio a Milano, 27 e 28 febbraio a Firenze, 2 ,3 e 4 marzo a Napoli, 7 marzo a Roma, 11 e 12 marzo ad Acireale, 14 marzo a Eboli, 16 marzo a Pesaro, 18 e 19 marzo a Torino, 22 e 23 marzo a Bologna). Francesco De Gregori riparte in tour il 5 marzo da Roma. Alex Britti torna in tour dal 18 marzo a Cesena; poi 31 Pescara, 2 aprile Mantova, 8 Torino, 9 Padova, 15 Lecce, 18 Milano, 22 Palermo, 23 Catania, 27 Napoli, 6 maggio Frosinone, 19 Lucca. Mariah Carey, che torna in Europa per la prima volta dopo tredici anni, il 16 aprile fa tappa al Forum di Assago, Milano, con il tour “Sweet sweet fantasy”. Il Forum vedrà anche di nuovo sul palco Elio e Le Storie Tese, che debuttano a Milano il 29 aprile. I Muse a partire dal 14 maggio sono a Milano, anche loro ad Assago. E siamo alla regina del pop internazionale: Adele sarà il 28 e 29 maggio all’Arena di Verona (biglietti già tutti venduti). Vasco Rossi con il suo “Live Kom 016” all’Olimpico di Roma per ben quattro date: 22, 23, 26 e 27 giugno. Anche Laura Pausini negli stadi: il 4 giugno a Milano, l’11 a Roma e il 18 a Bari. I Pooh per festeggiare mezzo secolo di carriera richiamano il batterista Stefano D’Orazio e l’antico bassista Riccardo Fogli: in un inedito quinteto saranno il 10 e 11 giugno a Milano, stadio di San Siro, il 15 giugno all’Olimpico di Roma il 15, il 18 giugno allo stadio di Messina. Dicono che saranno le date del definitivo addio, ma il mondo del pop e del rock ci ha ormai abituato, in Italia e ancora più all’estero, ad “addii virtuali”, dopo i quali ci sono sempre degli “eccezionali ritorni”... Ma andiamo avanti. Modà 18 e 19 giugno a Milano, San Siro, e 25 giugno a Cagliari. Il 13 luglio a San Siro arriva Rihanna, con l’unica (per ora) tappa italiana del suo The Anti World Tour. Skunk Anansie 14 luglio a Pistoia, il 15 a Roma, il 17 a Piazzola sul Brenta (Padova), dopo l’anteprima del 17 febbraio a Milano. Alessandra Amoroso propone due anteprime del tour estivo il 27 maggio a Roma e il 30 a Milano. Dopo l’estate Zucchero (nuovo album in uscita a maggio) fa le cose in grande con dieci concerti di fila all’Arena di Verona, a partire dal 16 settembre. Biagio Antonacci sarà il 7, 9 e 10 settembre al Forum di Assago, Milano, e il 14, 16 e 17 al Palalottomatica di Roma. Sei date anche per Emma Marrone: 16 e 17 settembre ad Assago, Milano, 23 e 24 settembre a Roma, 30 settembre e primo ottobre a Bari. Attesa anche per i Cure che il 29 ottobre saranno all’Unipol Arena di Bologna, per spostarsi poi a Roma e Milano. Justin Bieber con il Purpose World Tour sarà il 19 e 20 novembre a Bologna, all’Unipol Arena.

UN ANNO SENZA PINO DANIELE

I primi flash mob annunciati dalla rete richiameranno oggi a raccolta voci e chitarre dei fan, dalla 'sua' piazza del Plebiscito alla strada del centro storico che gli è stata intitolata. E ancora: mostre fotografiche, visite guidate, eventi musicali, tributi ed iniziative editoriali, dirette sul web, in attesa dell'apertura entro marzo di una sezione permanente del Museo della Pace a lui dedicata: ad un anno dall'improvvisa scomparsa, avvenuta la sera del 4 gennaio del 2015, la presenza di Pino Daniele a Napoli è più viva che mai. Se le ceneri del musicista, che furono esposte al Maschio Angioino, riposano da qualche giorno in Toscana, la sua città dopo aver 'rivendicato' e ottenuto il secondo funerale, pianto e cantato, non ha smesso di ricordare in ogni occasione uno dei suoi artisti-simbolo più amati di sempre. Alla memoria del musicista, e a quella di Luca de Filippo, è stato dedicato infatti il concertone di san Silvestro (con la partecipazione del fratello cantautore Nello) così come quello di Capodanno dell'Orchestra Scarlatti: ma sono questi solo gli ultimi anelli di una catena infinita di omaggi affettuosi che si sono susseguiti per tutto il 2015, compresi quelli di Vasco Rossi, Jovanotti, Ramazzotti e Senese, nei concerti estivi al San Paolo. Fino a saluti di Raiz in occasione dello spettacolo 'Passione live', direttore artistico Federico Vacalebre, al Palapartenope, appena qualche giorno fa. Intanto per volontà della famiglia dell'artista è nata la 'Fondazione Pino Daniele trust onuls', l'Ente no profit promotore di iniziative culturali, sociali e musicali: primo obiettivo l'apertura di una 'installazione museale permanente' che sarà chiamata "Pino Daniele Alive", frutto dell'accordo con la Fondazione Mediterraneo, ospitata nel Museo della Pace con sede nello storico edificio dell'ex Grand Hotel de Londres, tra piazza del Municipio e Via Depretis. "I lavori per la parte strutturale sono terminati - conferma Michele Capasso, presidente della Fondazione che opera da 25 anni per il dialogo e la pace nel Mediterraneo e nel Mondo - Giorgio Verdelli e Sergio Pappalettera, il grafico che ha realizzato tante copertine dei suoi dischi, stanno facendo un lavoro straordinario e speriamo che l'apertura possa coincidere con il 19 marzo, giorno del compleanno di Pino. Abbiamo messo a disposizione sette sale del primo piano del museo, dove vi saranno installazioni interattive, megaschermi touch screen, video mapping. Sarà ricostruito il suo studio con gli strumenti e amplificatori e, grazie a un ologramma, si potrà rivedere Pino suonare. Una sala molto scura sarà dedicata al blues, una più colorata alle sonorità mediterranee". Sono nati anche tour turistici (ispirati dal libro dei giornalisti Carmine Aymone e Michelangelo Iossa, "Napule è... I luoghi di Pino Daniele") che portano all'ex vicoletto Donnalbina,(che il Comune ha voluto intitolargli in deroga alla disposizione che impone un lasso di tempo di dieci anni dalla morte), a via Santa Maria la Nova n. 32 dove l'artista visse, al bar Battelli dove iniziò a suonare. Altra tappa è il murales di Zemi, il più noto tra i vari realizzati dai writers napoletani, in largo Ecce Homo. Tra le tante iniziative previste per domani: alle 18,30 al Punto Mondadori - Amodio di Port'Alba, Iocisto presenta il libro: "Ho sete ancora 16 scrittori per Pino Daniele", con Titti Marrone, Peppe Lanzetta e Marco Zurzolo, che in serata si esibirà alla libreria Berisio. Al Museo Pan, Alessandro D'Urso, autore delle foto della mostra "20 anni con Pino", e suo amico, accompagnerà il pubblico in due 'maxi visite guidate speciali' (ore 12.00 e 17.00) e presenterà alle 16,30 minuti di video inediti (apertura straordinaria della mostra fino alle 23.00). Pubblicazioni speciali sono annunciate dai quotidiani: dalla edizione napoletana di Repubblica, dal Corriere del Mezzogiorno e dal Mattino che ha organizzato anche una diretta web per l'intera giornata con interventi tra gli altri di Fiorello, Tullio De Piscopo, Sergio Cammariere, James Senese, Rocco Hunt, Teresa De Sio, Pietra Montecorvino, Serena Autieri, Enzo Gragnaniello, Raiz, Sal Da Vinci e con i contributi dei cittadini raccolti in piazza Dante. E nel nome di Pino Daniele è nato a dicembre anche un centro chiamato 'O Giò, per le attività giovanili di Palma Campania, finanziato dal Programma operativo nazionale sicurezza. (Ansa)

sabato 2 gennaio 2016

LIBRO SU NEIL YOUNG

In tempi non sospetti ha mollato prima le droghe (“The needle and the damage done”, l’ago e il danno fatto, stava nell’album “Harvest”, del ’72) e poi la bottiglia. Molto più recentemente, prima dei settant’anni, compiuti nel novembre scorso, ha ufficializzato il nuovo legame con l’attrice Daryl Hanna, conosciuta a una marcia di protesta per una delle tante giuste cause dei liberal americani, e motivo della fine dell’unione (dopo ben trentasei anni) con Pegi Morton. Lui è Neil Percival Young, canadese tosto e a modo suo geniale, artista versatile e punto di riferimento per generazioni di rocker. Nel ’67 della Summer of love, poco più che ventenne, lui già c’era, con i Buffalo Springfield, dopo i precoci esordi con gli Squires e i Mynah Birds. Poi, per una breve ma trionfale stagione, divenne il quarto di Crosby Stills & Nash. Abbandonati abbastanza in fretta, per abbracciare una lunga e importante carriera solista (o con i Crazy Horse), che per fortuna non si è ancora conclusa. Questa grande storia rock è narrata nel libro “(after) The Gold Rush” (Arcana, pagg. 340, euro 19,50), di Stefano Frollano e Fabio F. Pellegrini. Un viaggio biografico e musicale che parte dal natio Canada (infanzia passata a pescare nella sua Omemee, Ontario) e approda prima in California e poi sui palcoscenici di tutto il mondo. «Dopo tante riflessioni siamo potuti arrivare a definire le canzoni di Young come “poesie colorate”. Dopo un percorso meditativo, abbiamo capito che nella musica di Young confluiscono colori, pittura e poesia», scrivono gli autori. Cantante, chitarrista, autore, attivista politico, persino inventore (ha brevettato automobili e locomotive a impatto zero e altissimo tasso tecnologico). Trentasei album da solista - peraltro non tutti di prim’ordine - sono un patrimonio enorme da cui pescare, per seguire un itinerario artistico e musicale che ha segnato la musica degli ultimi decenni. Il più recente, “The Monsanto years”, uscito nel giugno scorso, denunciava guai e malefatte del colosso statunitense della biotecnologia. Ma nei festeggiamenti per i settant’anni è compreso anche un nuovo capitolo della serie “Archives”, tutta dedicata ai materiali storici: con “Bluenote Cafè” è il turno delle registrazioni dell’88. Fra i libri, oltre a quello citato, da segnalare altri tre volumi: “Come un uragano” (Minimum Fax, con le interviste storiche rilasciate ai giornali anglosassoni), “Special deluxe: Racconti di vita e di automobili”, di Eddy Cilia (Feltrinelli, ricordi legati ai modelli delle auto della sua collezione) e “Neil Young: American traveller” di Martin Halliwell (Reaktion Books, dedicato alla vita dell’artista “sempre in movimento”).

NUOVI DISCHI 2016

Prima importante uscita internazionale del 2016? David Bowie con “Blackstar”, in arrivo l’8 gennaio, data del suo sessantanovesimo compleanno. Dalle anticipazioni ascoltate una certezza: il Duca bianco non ha perso lo smalto né la voglia di stupire. Tempo una settimana e il 15 gennaio esce un altro album nolto atteso: “Anarchytecture”, degli Skunk Anansie, rilanciati nel nostro paese dal successo della cantante Skin a “X Factor”. Elton John torna il 5 febbario con “Wonderful Crazy Night”, nuovo album già anticipato dal singolo “Looking up”. A primavera dovrebbe uscire il nuovo Radiohead, di cui sul web e dal vivo sono già state ascoltate “Silent spring”, “The present tense” e “Desert island disk”. I californiani Red Hot Chili Peppers sono a buon punto con il nuovo album, che sarà prodotto da Danger Mouse. Ad aprile torna Ben Harper, che ritrova la sua vecchia band, The Innocents Criminals. “Call it what it is” uscirà per la storica etichetta statunitense Stax Records, oggi nel gruppo Universal. Attesa per un altro ritorno, quello dei Nine Inch Nails, a tre anni di distanza dal precedente lavoro. Il leader dei Blur Damon Albarn è al lavoro sui nuovi progetti sia dei Gorillaz che dei The Good The Bad and The Queen, altro progetto parallelo che condivide con Paul Simonon dei Clash, Tony Allen e Simon Tong dei Verve. Entrambi i dischi in arrivo entro l’anno. Nuovo album per PJ Harvey, concepito dopo un “viaggio artistico” fra Kosovo, Afghanistan e Stati Uniti. E registrato alla Somerset House di Londra, di fronte ai fan paganti che potevano seguire le varie fasi della registrazione da dietro un vetro trasparente. La neozelandese Lorde sta lavorando al disco che dovrà raccogliere l’eredità di quel “Pure heroine” che l’ha lanciata, nemmeno ventenne (è nata nel ’96), a livello planetario. Da ultimo, gli U2. Non c’è una data stabilita, ma nel 2016 potrebbe uscire “Songs of experience”, seguito di “Songs of innocence”. Bono e compagni sono in gran forma, almeno a giudicare dal recente concerto parigino, spostato dopo i fatti del 13 novembre. Italiani. In arrivo il nuovo Daniele Silvestri. A marzo Vinicio Capossela sforna “Canzoni della cupa”, omaggio alle tradizioni popolari dell’Alta Iripinia, con qualche sconfinamento in terra pugliese. A maggio torna con un album di inediti Zucchero, che per festeggiare dal vivo il nuovo nato ha già prenotato per dieci sere, a settembre, l’Arena di Verona. “Amici non ne ho... ma amiche sì” è infine il titolo del nuovo album di Loredana Bertà, che festeggia quarant’anni di carriera assieme a Fiorella Mannoia e altre amiche-colleghe: da Irene Grandi a Emma Marrone, da Paola Turci ad Alessandra Amoroso, da Nina Zilli a Noemi. Due inediti, uno firmato Ligabue.

ADDIO A NATALIE COLE

È morta in un ospedale di Los Angeles la cantante Natalie Cole. Aveva sessantacinque anni e un passato difficile fatto anche di dipendenza dalla droga. Ed era la figlia del grande Nat King Cole. Proprio il suo album “Unforgettable... with love”, nel quale reinterpretava i classici del padre, “duettando” virtualmente con lui, era stato nel ’91 il suo più grande successo, vendendo oltre quattordici milioni di copie e facendole vincere sei Grammy Awards, fra cui miglior album e miglior canzone. Fra i brani, oltre a quello del titolo: “That sunday that summer”, “Too young”, “Mona Lisa”... Un disco che era un commosso tributo, passato alla storia per i “duetti virtuali” con il padre. La cantante lo aveva infatti inciso affiancando la propria voce a quella del grande Nat, presa da una registrazione di venticinque anni prima. Quel padre così ingombrante, protagonista assoluto della scena musicale americana degli anni Cinquanta e Sessanta, morto di cancro nel ’65, quando lei aveva appena quindici anni, aveva segnato la sua vita e la sua carriera. A sei anni canta con lui in un album di canzoni di Natale. Si narra che alle prime audizioni, undicenne, l’aveva accompagnata il papà. Che però non aveva fatto in tempo ad affiancarla, se non nel ricordo e negli insegnamenti lasciati in una sorta di eredità musicale e professionale. Il grande Nat è passato alla storia per il suo stile a cavallo tra pop e jazz. Natalie, con la sua voce delicata, aveva cominciato con il rhythm’n’blues, spostandosi poi sui territori più facili del pop ma mantenendo sempre un legame saldo con gli standard del jazz che avevano reso celebre il padre. Ma Natalie la musica l’aveva nel sangue anche da parte di madre. Maria Ellington Cole faceva infatti la cantante nelle “big band” di Duke Ellington, del quale non era però parente. Cresciuta a Los Angeles, nel sobborgo di Hancock Park dove il padre, primo artista nero a condurre uno show sulla tv nazionale, aveva scelto di stabilirsi nel ’48 nonostante le contestazioni di vicini bianchi che non volevano neri nel quartiere. Primo successo nel ’75, con l’album “This will be (An everlasting love)”: primi due Grammy come miglior nuova artista e miglior performance femminile di rhythm’n’blues. Nella sua autobiografia “Angel on my shoulder”, raccontò nel 2000 come aveva vinto la sua battaglia contro la dipendenza dalle droghe e dall’alcol. Nell’83 trascorse sei mesi in una clinica per disintossicarsi, ma molti anni dopo, nel 2008, annunciò di aver avuto una diagnosi di epatite C, che rese poi necessario il trapianto dei reni. Ma l’artista fu capace di risollevarsi. Alla fine degli anni Ottanta con È morta in un ospedale di Los Angeles la cantante Natalie Cole. Aveva sessantacinque anni e un passato difficile fatto anche di dipendenza dalla droga. Ed era la figlia del grande Nat King Cole. Proprio il suo album “Unforgettable... with love”, nel quale reinterpretava i classici del padre, “duettando” virtualmente con lui, era stato nel ’91 il suo più grande successo, vendendo oltre quattordici milioni di copie e facendole vincere sei Grammy Awards, fra cui miglior album e miglior canzone. Fra i brani, oltre a quello del titolo: “That sunday that summer”, “Too young”, “Mona Lisa”... Un disco che era un commosso tributo, passato alla storia per i “duetti virtuali” con il padre. La cantante lo aveva infatti inciso affiancando la propria voce a quella del grande Nat, presa da una registrazione di venticinque anni prima. Quel padre così ingombrante, protagonista assoluto della scena musicale americana degli anni Cinquanta e Sessanta, morto di cancro nel ’65, quando lei aveva appena quindici anni, aveva segnato la sua vita e la sua carriera. A sei anni canta con lui in un album di canzoni di Natale. Si narra che alle prime audizioni, undicenne, l’aveva accompagnata il papà. Che però non aveva fatto in tempo ad affiancarla, se non nel ricordo e negli insegnamenti lasciati in una sorta di eredità musicale e professionale. Il grande Nat è passato alla storia per il suo stile a cavallo tra pop e jazz. Natalie, con la sua voce delicata, aveva cominciato con il rhythm’n’blues, spostandosi poi sui territori più facili del pop ma mantenendo sempre un legame saldo con gli standard del jazz che avevano reso celebre il padre. Ma Natalie la musica l’aveva nel sangue anche da parte di madre. Maria Ellington Cole faceva infatti la cantante nelle “big band” di Duke Ellington, del quale non era però parente. Cresciuta a Los Angeles, nel sobborgo di Hancock Park dove il padre, primo artista nero a condurre uno show sulla tv nazionale, aveva scelto di stabilirsi nel ’48 nonostante le contestazioni di vicini bianchi che non volevano neri nel quartiere. Primo successo nel ’75, con l’album “This will be (An everlasting love)”: primi due Grammy come miglior nuova artista e miglior performance femminile di rhythm’n’blues. Nella sua autobiografia “Angel on my shoulder”, raccontò nel 2000 come aveva vinto la sua battaglia contro la dipendenza dalle droghe e dall’alcol. Nell’83 trascorse sei mesi in una clinica per disintossicarsi, ma molti anni dopo, nel 2008, annunciò di aver avuto una diagnosi di epatite C, che rese poi necessario il trapianto dei reni. Ma l’artista fu capace di risollevarsi. Alla fine degli anni Ottanta con una cover di “Pink Cadillac” di Bruce Springsteen e i singoli “Jump start my heart” e “I live for your love”. Altri dischi, altri tour, tantissimi concerti magari accompagnata da una grande orchestra. E anche esperienze televisive, proprio come il padre, comparendo fra l’altro nelle serie “Touched by an Angel” e “Grey's Anatomy”. «Natalie ha combattuto una fiera e coraggiosa battaglia, morendo così come era vissuta: con dignità, forza e onore. La nostra madre e sorella resterà “indimenticabile” (“unforgettable”...) nei nostri cuori», hanno scritto in una nota il figlio Robert Yancy e le sorelle Timolin e Casey Cole. «Natalie Cole, amata sorella di sostanza e suono. Che la sua anima riposi in pace», ha twittato il leader nero Jesse Jackson.