lunedì 26 gennaio 2015

MONI OVADIA merc a TS con DOPPIO FRONTE

La prima guerra mondiale? Piuttosto “la prima carneficina mondiale”. È il pensiero di Moni Ovadia, che mercoledì porta al Rossetti di Trieste e giovedì al Verdi di Pordenone il suo “Doppio fronte - Oratorio per la Grande Guerra dalle lettere dal fronte”, di e con Lucilla Galeazzi e lo stesso Moni Ovadia. «Quella guerra - spiega l’attore, drammaturgo, scrittore e musicista nato nel ’46 a Plovdiv, Bulgaria, milanese d’adozione - fu uno sterminio di massa che preparò la seconda guerra mondiale. Furono mandati a morire migliaia e migliaia di poveracci, carne da cannone. Lo spiegava lo stesso Cadorna: bisogna mandare al fronte più uomini di quanti ne uccidano le mitragliatrici, l’unica munizione che non manca al nostro Paese sono gli uomini, se muoiono pazienza. Qui si muore a torrenti umani, scrisse un generale contrario alla guerra». Lei dice: i nostri problemi nascono da quella guerra. «Ne sono convinto. È stata la prima vera guerra che ha visto l’irruzione della tecnologia nel senso brutale che oggi conosciamo. Per la prima volta si fece l’uso dei gas, l’arma più vigliacca e proditoria. Pensare che a sollecitare l’uso dei gas fu un ebreo, Fritz Haber, che fu anche, tragica ironia della sorte, lo scopritore dello Zyklon B, il famigerato gas usato nelle camere di sterminio dei lager tedeschi contro gli ebrei...». Prosegua. «Nello spettacolo raccontiamo cosa significò usare i gas contro i soldati, cosa fu mettere la tecnologia al servizio della guerra, producendo armi e cannoni terrificanti. Ma non ci limitiamo a questo aspetto per così dire truce. Ironizzeremo anche sulla retorica patriottarda e parleremo anche della coscienza antimilitarista che divenne più forte e appassionata proprio con la Grande Guerra». I testi di “Doppio fronte” sono tratti dalle lettere dal fronte, dalle memorie dei combattenti (tra cui Gadda e Ungaretti), dai diari di uomini e donne delle nostre terre che vissero la guerra “in casa”, arruolati nel 1914 dall’esercito austriaco e mandati a combattere sul fronte orientale, che nel 1915 si trovarono in trincea contro l’esercito italiano. Ancora Salomone “Moni” Ovadia: «Fu una guerra moderna e arcaica al tempo stesso, che richiedeva ai soldati sforzi e fatiche disumane, di andare inebetiti verso il baratro, come disse Wiston Churchill. Una guerra di capi senza rispetto per i propri soldati. La gente chiedeva pace ed ebbe un macello: sei milioni di vedove in Europa...». Prosegue l’artista: «Ma ci fu anche la crescita di una coscienza civile positiva, pensiamo per esempio all’emancipazione delle donne. Nel recital leggiamo un manifesto delle suffragette straordinario, di un antimilitarismo ancora vivo. In fondo il pacifismo nasce con quella guerra, con una generazione di lavoratori che vogliono diventare protagonisti della storia». La guerra muove denaro. «La speculazione di guerra c’è sempre stata. Lì si assistette alla nascita della grande industria e finanza. La guerra divora risorse ma sulle guerre si creano grandi ricchezze. Mentre la povera gente sta in trincea, che è sempre puzza, piscio, escrementi». Le canzoni? «C’è ovviamente “Gorizia tu sei maledetta”. C’è il repertorio italiano ma ci sono anche brani inglesi, tedeschi, russi. Ci sono l’inno sovietico originale e una canzone in yiddish sugli ebrei che morirono come patrioti. Ma ci sono anche un canto belga e uno americano. E proprio sulla linea antimilitarista dell’insensatezza della guerra, della menzogna della propaganda, insistono le canzoni». Con Lucilla Galeazzi. «Che è bravissima. Una grande voce della musica popolare italiana, da tanti anni figura di riferimento della canzone di impronta sociale. Nello spettacolo è cantante e voce narrante. Un piacere e un onore lavorare con lei». L’anniversario è stato celebrato nella maniera giusta? «Solo dai canali storici, come la nostra RaiStoria. Altrove è prevalsa la retorica. Che poi la vera celebrazione andava fatta dall’Europa e non dai singoli stati, il che non è avvenuto. Ma voglio sperare che siamo ancora in tempo». Veniamo alle guerre di oggi. Dopo la strage di Parigi? «Al di là dell’orrore, al di là della considerazione che è criminale e folle sparare a chi brandisce una matita, passata l’emozione devo dire che a mio avviso c’è stata troppa retorica nel celebrare Charlie Hebdo. Non si può e non si deve criminalizzare tutto l’Islam». Papa Francesco ha difeso le religioni. «La satira dev’essere sempre libera, la politica non l’ha mai amata, e ne sappiamo qualcosa in Italia. La censura è sempre deprecabile, ma è anche vero che le religioni non vanno irrise: se lo fai, offendi un sentimento vero, profondo, che illumina la vita di tante persone». Pensa dunque a dei limiti alla satira? «Intanto la satira è altra cosa rispetto all’umorismo, che io pratico da sempre. Ho il massimo rispetto per la libertà di espressione, però dovremmo confrontarci sui temi della vita, della conoscenza, della vita civile. Faccio un esempio: se uno ridicolizza le vittime della pedofilia cosa dobbiamo dire?» Bergoglio piace più ai laici. «A guardarlo, a sentirlo parlare, si capisce che questo Papa è stato un ragazzo che ha fatto anche a pugni. Quando dice alcune frasi viene fuori l’anima del ragazzo delle periferie, in Argentina...». Perchè ha rinunciato al seggio da europarlamentare? «Prima cosa: lo avevo detto sin dall’inizio, accetto la candidatura per dare un contributo, ma poi lascio ad altri, come ho fatto. Secondo: con me lavorano dieci persone, che in mia assenza sarebbero rimaste senza lavoro». Insomma, non ha voluto fare il politico. «Qualcuno mi diceva: accetta e continua a fare le tue cose, senza sapere che io, quando faccio una cosa, la faccio seriamente. Se fossi andato a Strasburgo, non avrei potuto farlo part time. Ma continuo a essere impegnato anche in politica, mi considero uomo di teatro e attivista sociale». Al Quirinale? «Vedrei bene una figura di garanzia, come Zagrebelsky o Rodotà. Non vedo politici all’altezza, non sono più i tempi di Pertini. Manca una vera forza di sinistra, anche in questo l’Italia dimostra la sua pochezza, ognuno vuole il suo simbolo, il suo strapuntino. Sta per uscire un manifesto, che ho firmato, per la costituente di un’unica forza della sinistra italiana. In mancanza della quale il Paese è perso...».

giovedì 22 gennaio 2015

JESUS CHRIST SUPERSTAR al Rossetti, trieste

«Non posso immaginare come sarebbero state la mia vita e la mia carriera se non avessi interpretato, al cinema e a teatro, il ruolo di Gesù. Di certo, non sarebbero state complete...». Parla Ted Neeley, protagonista del “Jesus Christ Superstar” che approda stasera al Rossetti di Trieste. A settembre al Sistina di Roma e a ottobre all’Arena di Verona, il musical dei musical, la celebratissima opera rock ha ricostituito il cast originale dello storico film di Norman Jewison uscito nel 1973, visto e rivisto da milioni di spettatori in tutto il mondo. Per questa seconda stagione a teatro, il regista Massimo Romeo Piparo è riuscito nell’impresa di affiancare a Neeley - almeno per le prime date, per la prima volta dopo oltre quarant’anni negli stessi ruoli di allora - anche la Maddalena di Yvonne Elliman e il Ponzio Pilato di Barry Dennen. Neeley, che cosa ricorda del film? «Il periodo delle riprese in Israele è stato indimenticabile. Lavorare con un regista visionario come Norman Jewison è stata l’epifania della mia vita personale e professionale. Le amicizie che ho stretto e le esperienze che ho condiviso in quell’occasione, durante la lavorazione del film, sono state e tuttora rimangono le cose più importanti della mia vita». Da che esperienze artistiche veniva? «Devo molto alla famiglia da cui provengo. I miei genitori hanno sempre cantato con me, con mio fratello Jack e mia sorella Peggy, e proprio in quegli anni ho imparato ad apprezzare il piacere della musica e la magia che è in grado di elevare e illuminare le nostre anime». Si è mai sentito “intrappolato” in questo ruolo? «Mai. Il mio essere coinvolto in “Jesus Christ Superstar” è sempre stato un assoluto piacere per me. Ho condiviso questa esperienza con così tante persone piene di speranza, spero di poter continuare a farlo anche per gli anni a venire». Com’è cambiato il suo Gesù in tutti questi anni? «I cambiamenti sono inevitabili con il passare degli anni, a causa delle esperienze che si fanno o semplicemente della vita che va avanti. Diciamo che i cambiamenti sono venuti naturali, pur nel rispetto del modo originale in cui Andrew Lloyd Webber e Tim Rice hanno disegnato Gesù di Nazareth come un uomo che ha camminato sulla terra negli ultimi sette giorni della sua vita, prima della crocifissione e della resurrezione. Prima del miracolo, era considerato un saggio, un uomo di pace, amore e luce. Dopo, è stato colto l’aspetto divino. Ogni volta che in questi anni ho avuto l’onore di interpretarlo è stato per me come rinnovare questa esperienza spirituale». Com’è stato ritrovare Yvonne e Berry? «Stare nuovamente in scena con loro è stata forse l’ultima grande esperienza della mia vita, e di ciò sarò sempre grato a Massimo Romeo Piparo e alla produzione italiana che lo ha reso possibile». Interpreterà Gesù ancora a lungo? «Per me è un onore grandissimo interpretarlo ancora dopo oltre quarant’anni dal film, lo farò ancora fin quando il pubblico sarà abbastanza gentile e generoso da accettare la mia interpretazione». Come l’ha accolta il pubblico italiano? «In maniera fantastica, in tutte le città del tour. Sono rimasto colpito da quanti sono venuti a vederci e rivederci nelle repliche al Sistina di Roma. Ma l’accoglienza è stata notevole anche nelle tappe successive. È stata per tutti noi una grande esperienza». Recentemente ha lavorato con Quentin Tarantino. «Sì, mi ha voluto per un ruolo nel suo “Django Unchained”. È stata per me una grande esperienza e spero di poterla ripetere nel secondo episodio del film. Tarantino non è soltanto un artista eccezionale, ma è anche una persona incredibilmente positiva: uno spirito gentile e genuino, un caro amico». Progetti? «Come dicevo prima, non posso immaginare il futuro. Conosco solo quanto è attualmente programmato. Questo tour italiano finisce il primo febbraio. Poi torno negli Stati Uniti per portare in tour l’edizione rimasterizzata del film “Jesus Christ Superstar”. A giugno sono di nuovo in Italia, a Milano, per l’Expo. E poi dovrebbe esserci una prosecuzione del tour europeo di questo musical...». “Jesus Christ Superstar” continua a confermarsi il musical più famoso e amato di tutti i tempi. La versione italiana in lingua originale firmata da Massimo Romeo Piparo vanta grandi numeri che raccontano un enorme successo: quattro diverse edizioni prima di questa, undici anni consecutivi in cartellone nei teatri italiani dal 1995 al 2006, oltre un milione di spettatori, più di cento artisti che si sono alternati nel cast... Al Rossetti repliche fino a domenica.

martedì 20 gennaio 2015

MEGHAN TRAINOR, TITLE

MEGHAN TRAINOR “TITLE” (Epic) Faccione da ragazzotta americana, vaga somiglianza con Adele, negli Stati Uniti Meghan Trainor è una star. Da noi qualcuno la ricorda come autrice di tre canzoni per Raffaella Carrà, comprese nell’album “Replay”. E in effetti la giovane cantautrice del Massachussetts per anni ha soprattutto composto brani per altri artisti. Dopo aver raggiunto il successo da solista con la hit “All about that bass”, ora esce - a pochi mesi di distanza dall’omonimo “ep” - con il suo terzo album. Che sembra il seguito di “Only 17”, pubblicato nel 2011. Apertura con “The best part”, sorta di ouverture “a cappella”, che richiama le melodie e le vocalità di certi gruppi al femminile degli anni Cinquanta e Sessanta (un nome per tutti: le Supremes). Il resto della raccolta mantiene un approccio e un’atmosfera di, come dire, “gradevole leggerezza”. Fra pop, soul, musica nera. Negli Stati Uniti funziona molto. Tutta da verificare l’accoglienza del pubblico europeo. Da segnalare infine il goldibile duetto della ragazza con John Legend.

MENGONI, PAROLE IN CIRCOLO

È l’unico italiano uscito da “X Factor” (edizione 2009) ad aver sfondato veramente. Marco Mengoni ha appena pubblicato l’album “Parole in circolo” (Sony), anticipato poche settimane fa dal singolo “Guerriero”, presentato proprio nel “talent” che lo ha imposto come nuova popstar di casa nostra. «Cercavo da tempo - dice il cantautore di Ronciglione, provincia di Viterbo, classe 1988 - un modo di fare la mia musica diversamente, questo lavoro me lo ha permesso. Tra queste canzoni ci sono tutti i miei mondi musicali, che ho modificato strada facendo e che sono ancora in evoluzione. Ho voluto mettere dentro tutto quello che i nostri occhi vedono, quello che le nostre orecchie sentono». Il nuovo disco arriva a due anni di distanza dal precedente “#Prontoacorrere”, che ha stazionato a lungo ai vertici delle classifiche di vendita. Entro l’anno è prevista la pubblicazione del secondo volume di questo album, la cui lavorazione è ancora in corso. «Più che un disco - prosegue il vincitore di Sanremo 2013 - questo è un progetto, una playlist, una sorta di “work in progress”. Non ho fretta di completarlo. Ci sono molte basi, che devono per forza vivere di esperienze, fotografie e momenti, in base a ciò che succederà oggi, domani, e durante il tour...». Con Mengoni (che co-firma otto brani su dieci) hanno lavorato per i testi, fra gli altri, Fortunato Zampaglione, Ermal Meta, Matteo Valli e anche Luca Carboni che ha scritto il brano “Se io fossi te”, molto “anni Ottanta”. Fra gli altri titoli: “Invincibile”, “La neve prima che cada”, “Esseri umani”, “Io ti aspetto”... Brani nei quali l’artista sembra essere stato spinto dalla voglia di mettere insieme le varie facce del suo mondo, della contemporaneità che vive, mischiando dal punto di vista musicale sonorità prese dall’elettronica e dalla musica nera, dal pop e della dance, lasciandosi tentare persino da certe frequenze basse dell’hip hop, e non disdegnando archi, fiati, riff di chitarra, suoni funky. E le interpretazioni sono più essenziali, senza orpelli. «Forse è una delle prima volte - aggiunge - in cui mi confronto con il mondo in cui vivo. I fatti di questi giorni ci ricordano ciò che spesso dimentichiamo, che siamo “esseri umani che devono essere umani”, come canto nella canzone: un messaggio fondamentale, che vorrei fosse condiviso dai miei fan». Da segnalare, visto che ormai sembrano essere questi i numeri che contano, che il video di “Guerriero”, firmato da Cosimo Alemà, conta già nove milioni di visualizzazioni su YouTube. E che il corrispettivo hashtag ha totalizzato oltre un milione e mezzo di condivisioni su Twitter. Mengoni porterà il nuovo album in tour nei palasport a partire dal 7 e 8 maggio da Milano (“data zero” il 5 maggio a Mantova, tappa più vicina il 23 maggio a Conegliano Veneto).

PROG REVOLUTION, stasera al TRIESTE FILM FESTIVAL e il 25-2 su SkyArteHd

Dopo Piero Ciampi, “poeta, anarchico e musicista”, ricordato dall’amico e collega Bobo Rondelli, ancora musica fuori dagli schemi al Trieste Film Festival. “Prog revolution” è un lungometraggio di Sky Arte che andrà in onda il 25 febbraio, ma che stasera alle 20.15 sarà presentato al Teatro Miela. Per l’occasione, a Trieste, oltre al regista Jacopo Rondinelli e all’autrice Rossana De Michele, anche Franz Di Cioccio, Jan Patrick Djivas e Franco Mussida, ovvero l’attuale Pfm. Il film è dedicato agli anni ruggenti del rock progressive italiano, che all’epoca molti chiamavano semplicemente pop italiano. Siamo a Milano, fra la fine degli anni Sessanta e i controversi Settanta. Periodo di rivolgimenti sociali e politici, ma anche musicali e culturali. Una stagione nella quale “tutto sembrava possibile”, anche in campo musicale. Tra i narratori: il musicista e produttore discografico Mauro Pagani, i suoi citati ex compagni della Pfm, Paolo Tòfani degli Area, Eugenio Finardi. Tutti assieme, compongono un pezzo importante della storia in questione. Alla quale lo stesso Pagani (una collaborazione fra mille: Fabrizio De Andrè) ha dedicato anni fa un libro, “Foto di gruppo con chitarrista”, che ben descrive il clima di quegli anni. Anni fra il dicembre 1969 (la Milano dell’autunno caldo, delle uova piene di vernice rossa alla Scala, soprattutto della bomba di piazza Fontana) e il giugno 1979 dei funerali di Demetrio Stratos, cantante e musicista degli Area, fra i massimi sperimentatore della vocalità umana. Nemmeno dieci anni, praticamente un secolo. «La cosa che più mi stava a cuore - spiegò Pagani all’uscita del libro - era quella di ricreare l’atmosfera quotidiana degli anni Settanta. E con ciò intendo la vita spiccia di tutti i giorni. Quelle case, quei bar. Quelle cose che hanno reso meravigliosi quegli anni. Ciò non si poteva fare a prescindere dai dialoghi e dalle parole. La mia è stata una generazione molto verbosa, parlavamo molto e il fascino di quello che ci dicevamo molto. A mio parere, non c’era altro modo di trasmettere quelle atmosfere senza provare a fotografare di nuovo quegli attimi che erano nella memoria ma che, non essendo stati immortalati allora, erano privi del carisma dell’autenticità». In quegli anni i ragazzi ascoltavano le musiche della Pfm e degli Area, delle Orme e del Banco, degli Osanna e dei New Trolls, di Finardi e di tanti altri gruppi e cantautori che hanno scritto la colonna sonora dell’epoca.

martedì 13 gennaio 2015

CIELO CAPOVOLTO, domani al T Miela, Trieste

Una scrittrice, la triestina Antonella Gatti Bardelli. Il suo libro “Il cielo capovolto”. Un’attrice, la sua concittadina Sara Alzetta. Un musicista con il suo gruppo, Angelo Olivieri e “Zy Project”. Dall’unione di questi ingredienti nasce la serata che si svolge domani alle 21 a Trieste, al Teatro Miela. Dalla locandina: “Pino Roveredo presenta Angelo Olivieri Zy Project in concerto, Il cielo capovolto, reading di Sara Alzetta, di Antonella Gatti Bardelli, alla presenza dell’autrice”. «Tutta la performance - spiega Olivieri, toscano di Maremma, classe 1968 - nasce da un’idea di Antonella. Quando ha scoperto che avevo chiamato il mio nuovo gruppo, nato pochi mesi fa, con il nome di un personaggio del suo libro, mi ha chiamato e ha voluto assolutamente che organizzassimo questa serata...». Ancora il musicista: «Quel nome l’ho scelto per due motivi. Banalmente per la sua brevità, la sua immediatezza che mi piace. Più seriamente perchè vuol indicare la mia idea di arte, lontana dalla commercializzazione a tutti i costi ma tesa a esprimere quello che vuoi dire». «La mia musica - aggiunge Olivieri - è così, vuole essere così: no alle barricate ma anche no alle mode, ai facili conformismi. Abbiamo un approccio jazz perchè per noi l’improvvisazione è importante, ma peschiamo anche nel pop, nel rock. Tentiamo insomma di fare una sintesi molto contemporanea». Trombettista, compositore e musicista, Olivieri è da anni attivo nel panorama del jazz e della musica improvvisata, segnalato nel Top Jazz 2008, 2009 e 2010 della rivista Musica Jazz e nel Jazzit Awards 2010, 2011, 2012 e 2013, dove figura tra i dieci migliori trombettisti italiani. Ma torniamo alla serata al “Miela”. Scrive Pino Roveredo con il suo inconfondibile stile: «Quando appoggerete la pazienza degl’occhi sulle pagine di Antonella, troverete la dolcezza di una mano, e l’incredibile capacità di raccontarsi la storia con una voce bambina, un petto di donna, e la meravigliosa e straordinaria forza di chi, anche con la grazia della poesia, è riuscita a vincere il temporale». Antonella Gatti Bardelli è nata a Trieste nel 1969 e ha vissuto e lavorato per alcuni anni a New York. L’attrice Sara Alzetta darà voce alle sue pagine nel reading che sarà la faccia non musicale della serata.

INTERVISTA JAMES TAYLOR (22-4 a TRIESTE)

Ad aprile il nuovo tour italiano, che farà tappa al Rossetti di Trieste mercoledì 22. A giugno un nuovo album di inediti, tredici anni dopo il precedente lavoro in studio “October road”. Lui è James Taylor, sessantasette anni a marzo, nato nel Massachusetts dove è tornato a vivere, da mezzo secolo in carriera (anche se il primo album uscì nel ’68, per la Apple dei Beatles, e il successo arrivò nel ’70 con “Sweet Baby James”...). È uno dei grandissimi della musica popolare del Novecento: cento milioni di album venduti, cinque Grammy Awards, dischi d’oro e di platino, “uno dei più cento più grandi artisti di sempre” secondo la rivista Rolling Stone. «Sono felice - dice - di tornare a suonare in Italia, ci torno ogni volta che mi è possibile e cerco di portare con me sempre un maggior numero di musicisti. Stavolta sul palco saremo in otto: musicisti straordinari, questa band è la goia della mia vita, è un piacere poter ascoltare la mia musica suonata da loro». Ormai conosce bene il nostro Paese. «Abbastanza, qualche volta vengo anche in vacanza. Per me l’Italia è il paese più eccitante in cui suonare. A prescindere dalla bellezza dei luoghi, in un mondo globalizzato e sempre più omogeneo per via della diffusione comune di una cultura moderna, amo molto l’Italia perchè ha delle caratteristiche che la rendono sempre unica. Da musicista, invece, apprezzo molto l’energia che il pubblico mi trasmette, soprattutto in Italia, quando sono sul palco». Quando ha cominciato, avrebbe mai pensato di essere ancora in scena dopo mezzo secolo? «In vita mia non ho mai pensato a così lungo raggio, allora non sapevo nemmeno cosa mi sarebbe successo di lì a cinque o dieci anni, il massimo a cui la mia immaginazione mi avrebbe potuto portare era l’anno successivo». Qual è la bussola che le ha indicato la strada? «Ho solamente e sempre seguito un mio modo di comporre. Ho cominciato a quattordici anni, ascoltando musica folk e cercando di emulare quel che ascoltavo alla radio. Fu allora che formai la mia prima band». Come nascono le sue canzoni? «Da intuizioni. Quel che sento riesco a metterlo su chitarra, quel che esce dalla mia mente finisce in note, ma non saprei come. Certo, ascolto molta musica, seguo quel che accade attorno a me. E tutto questo mi porta alla canzone successiva, giorno dopo giorno». È vero che ha cominciato con il violoncello? «Sì, lo suonavo da ragazzo, ma richiedeva troppo studio, troppe ore a casa, era quasi un lavoro. Il passaggio alla chitarra, che da allora è la mia migliore amica, avvenne in modo naturale: mi permetteva di suonare la musica che avevo in testa, il violoncello era scomodo, non era nemmeno possibile portarselo dietro». La sua famiglia? «Del New England, nonni pescatori, siamo cresciuti sull’acqua. D’estate andavamo a Martha’s Vineyard, lì ho conosciuto Danny Kortchmar, suonava la chitarra, formammo assieme la nostra prima band nel ’65, The Flying Machine, suonavamo nei coffee shop, poi ci trasferimmo a New York per inseguire la musica». Perchè andò a Londra? Come conobbe i Beatles? «Era il ’68, non avevo nulla da fare, andai a trovare un amico. La verità è che volevo suonare, vedere un po’ il mondo. Tramite un amico di Danny arrivai a Peter Asher, appena assunto alla Apple, la casa discografica dei Beatles. Ottenni un’audizione, c’erano McCartney e Harrison: andò bene, mi fecero pubblicare il mio primo album. Fu un’esperienza straordinaria. Ero un fan dei Beatles, vedermi apprezzato da loro rappresentò una svolta». Nel provino cantò la sua “Something in the way she moves”. Che ispirò Harrison per “Something”... «Non credo mi abbia copiato. E comunque se ha preso qualche spunto dal mio brano, per me è un onore: devo molto a loro, mi hanno influenzato tantissimo. L’unica cosa che mi dà fastidio è quando qualcuno crede che, per quella canzone, abbia io copiato loro...». Perchè tornò negli States? «Perchè ero dipendente dall’eroina, avevo bisogno di curarmi e disintossicarmi. Ci ho messo anni per uscire e recuperare e salvare mia vita. Sono felice di essere vivo, di non essere morto in quel periodo. Sì, sono stato fortunato». Com’è cambiata la musica in questi anni? «Tutto è molto cambiato. Per me oggi è più difficile scrivere, forse perché sento meno l’urgenza di esprimermi rispetto al passato. Con questo non voglio dire che negli anni Settanta fosse più facile scrivere: la musica è infatti per me un’espressione personale sulla quale non ho controllo». Bastano voce e chitarra. «Io faccio musica semplice, popolare, che prende vita attraverso voce e chitarra. La semplicità permette di colpire all’istante, arrivando subito a chi ascolta: la musica è essenziale, non ha bisogno di analisi e giudizi complessi. O ti arriva oppure no». Un nuovo album? «È quasi pronto, conto di farlo uscire fra maggio e giugno. Comprenderà solo brani inediti composti negli ultimi anni. Almeno quattro li presenterò anche nei concerti italiani, assieme ai classici di sempre». La rivedremo con Carole King? «Avrei voluto portarla con me in questo tour, lei non se l’è sentita, troppo pesante. Nel 2010 siamo tornati al “Troubadour”, nel quarantennale del nostro primo concerto assieme proprio in quel locale californiano. Ne sono venuti fuori un cd-dvd e poi un lungo tour». Prima di presentare il nuovo tour ieri a Roma, all’Auditorium del Parco della Musica, James Taylor ha partecipato domenica su Raidue a “Quelli che il calcio”. Dove ha presentato “Fire and rain”, accompagnato al pianoforte da Rocco Tanica (Elio e le Storie Tese). E ha detto: «C’è una tendenza a far diventare tutto una competizione, con un vincente o un perdente, ma nell’arte non c’è mai chi vince e chi perde». Sui tragici fatti di Parigi: «La libertà è la cosa più importante che abbiamo. Senza libertà, della quale oggi possiamo godere oggi grazie alle lotte dei nostri padri, io non sarei nemmeno qui a suonare...». «Come cittadino del mondo sono profondamente commosso e colpito - ha detto invece ieri a Roma -, ma ho anche grande speranza nella risposta data dai francesi e da tutta la comunità internazionale che si è unita per la difesa dei diritti. Se l’intenzione era di dividerci, la risposta è stata invece di unità e di coraggio». «Non ho conoscenze adeguate per analizzare le violenze compiute dagli esseri umani, ma credo che ci sia una bella differenza tra chi agisce in maniera efferata perchè folle, e chi invece commette atti violenti per un principio di tipo politico-culturale. È proprio in questo caso che serve da parte di tutti una risposta di unità e coraggio, che si faccia portavoce dei diritti di una democrazia fondata sulla libertà di parola e di stampa». Ancora James Taylor: «Anche negli Stati Uniti c’è troppa violenza. Il problema è sicuramente dovuto, almeno in parte, alla facilità con la quale le armi sono a disposizione di tutti...». Il tour italiano comincerà il 18 aprile a Torino, per poi toccare il 19 Roma, il 21 Firenze, il 22 Trieste, il 24 Padova e il 25 Milano. Prevendite in corso su www.ticketone.it e nei circuiti abituali. Informazioni sulla tappa triestina anche su www.progettolive.com

martedì 6 gennaio 2015

JOVANOTTI: PUTESSE ESSERE ALLERO / ricordo di Pino Daniele

Con Pino mi accadeva un fenomeno inspiegabile, dopo qualche minuto che stavo con lui mi veniva un accento un po' napoletano. Sul serio, se ci passavo una giornata poi a fine cena mi ritrovavo a usare espressioni tipo “uè” o perfino “guagliò”. Era un influsso che lui aveva, pinodanielizzava l'atmosfera. Lo faceva con la musica ma se ci penso bene lo faceva proprio con tutto se stesso che era tutto un se stesso fatto solo di musica. Ho tante ore di "volo" a bordo dell'astronave PinoDaniele, decolli atterraggi vuoti d'aria turbolenze ma soprattutto ore di vita e di musica indimenticabili iniziate molto prima di conoscerlo. Pino Daniele è stato il mio primo concerto. A essere sinceri prima di lui c'era stato un "Giromike" con ospite la Rettore e un Gianni Morandi in piazza a Cortona, ma a quelli mi ci aveva portato la mia mamma, e comunque mi erano piaciuti. A vedere Pino al Palaeur di Roma invece ci andai io da solo, 1981, biglietto comprato in prevendita con soldi miei che avevo messo da parte. Che band strepitosa, io non ci capivo niente ma mi fecero sentire in una zona tra la festa e il pericolo, tra il sogno e la minaccia, tra la rabbia e la gioia, dove poi ho scoperto che avviene sempre la grande musica. Era una musica diversa, coraggiosa, libera, selvatica, intelligente e nuova e che mi era entrata dentro come qualcosa che non sai da dove arriva ma che ti porta via, pinodanielizza l'atmosfera. L’album Nero a Metà, un capolavoro assoluto di ogni tempo. Poi uscìVai mo’ che aveva questo titolo svelto, che mi faceva impazzire già a partire da lì. E c’era dentro Yes I know my way, la prima volta che pensai che un italiano poteva essere funky e arrabbaito senza perdere il sorriso. Passarono gli anni, io diventai Jovanotti, continuai ad essere un fan, lui era sempre il grande Pino Daniele, lo era sempre di più. Amato e riverito sia dagli stonati che dai musicisti virtuosi. Lo conobbi nel 1994, mi proposero di fare il tour con lui ed Eros. Non ci potevo credere. Pino Lorenzo Eros. Il manifesto lo fecero disegnare a me, col pennarello tracciai un sole addosso ad un palazzo, era il mio modo per immaginare la mappa di un'esperienza che mi avrebbe cambiato la vita, dividere il palco negli stadi con due grandi della musica italiana, diversissimi ma uniti da quella volontà di far filtrare il sole attraverso il cemento armato. Eros lo conoscevo già da prima perchè avevamo lo stesso agente. Con Pino legammo tanto, mi voleva bene e io mi sentivo un prescelto a poter essere in confidenza con quel grande artista che mi sembrava fatto di musica, pensava solo alla musica, zero menate, la musica al centro di ogni cosa. Mi regalò la sua amicizia sanguigna e fraterna. Pino era simpatico e ti faceva piegare dalle risate, quando voleva, i suoi racconti sono letteratura blues e commedia dell’arte, belli come certe sue canzoni, e divertenti come i film di Totò, che per lui era un dio. Tante emozioni oggi, troppe tutte insieme. Conservo il ricordo della giornata di Napoli, allo stadio San Paolo, 13 giugno 1994. Era il suo ritorno a Napoli dopo tanti anni senza esibirsi nella sua città, e io e “Ramazza” (è così che gli amici chiamano Eros) lo avremmo accompagnato in quella che per lui e per i napoletani era la cosa più importante del mondo. Inoltre da pochi giorni era morto Massimo Troisi e la cosa aveva caricato quella giornata di un’emozione ancora più forte e aveva avvolto Pino in una nuvola di pensieri che rimanevano tra se e se. Pino era agitato, silenzioso, ogni tanto sdrammatizzava con una battuta ma quel concerto per lui era molto più di un concerto. La città era in attesa, i biglietti introvabili, nessuno a Napoli sapeva dove alloggiava Pino, e si temeva che se fosse entrato anche con un blindato nello stadio ci sarebbero stati dei rischi di ordine pubblico là fuori, per il troppo amore dei fans . Così lui entrò nello stadio all’alba, mentre la città dormiva ancora, arrivando da Roma, e rimase in camerino per tutta la giornata senza che nessuno lo venisse a sapere, tranne noi e pochi intimi. Quel giorno ero uno dei tre ammessi nel suo camerino e parlammo di tutto meno che di quello che stava per succedere. Come sempre Pino sdrammatizzava, lo ha sempre fatto quando si trattava di avere a che fare con il mito che era diventato. Quando uscimmo sul palco ce l’avevo accanto e guardando lo stadio assistetti alla più grande dimostrazione di amore di un popolo verso un artista che lo rappresenta, qualcosa di veramente storico, mai vista prima e mai più vista una cosa del genere. Una cosa che non dimenticherò mai. Quella Napoli si riconosceva in Pino Daniele, l’artista che aveva saputo valorizzarla non attraverso le sue maschere ma partendo dalla realtà e dalla poesia, l’uomo che l’aveva liberata dagli stereotipi, che l’aveva portata nella modernità senza perderci in cultura e in umanità. Pino Daniele è per Napoli quello che Bob Marley è per la Jamaica, ma siccome i napoletani sono napoletani e Napoli è Napoli, tutto è amplificato, tutto è più grande più complesso più rumoroso più infuocato più indescrivibile a parole. Dopo quel concerto siamo diventati veramente amici, avevamo condiviso un pezzo di storia, anche se quel giorno a scriverla era stato, chiaramente, soprattutto lui. Continuammo a frequentarci e a fare musica. E a ridere di tutto, ogni volta che incontravamo. In quel periodo sia lui che io ci eravamo fidanzati da poco ed eravamo già molto innamorati delle nostre giovani ragazze e dopo quel tour condividemmo il tempo in cui dall’essere una coppia si diventa una famiglia, quella cosa ci unì parecchio. Qualche mese prima aveva avuto un infarto e doveva stare attento e riguardarsi, e siccome io non sono un tipo dedito agli stravizi ero una frequentazione che lo prendeva bene, con me si poteva rilassare senza tentazioni pericolose per le coronarie. Insieme si faceva soprattutto musica, si parlava di musica, si ascoltava musica, si progettava musica. Io ero quasi all'inizio, lui era in un nuovo inizio, incuriosito dalle nuove sonorità dei computers, dalle possibilità del pop, voleva scrivere usando un po’ meno il napoletano e me ne parlava, era desideroso di essere trasmesso di più anche dalle radio del nord Italia, per arrivare a più gente, per rompere altre barriere, per fare a pezzi altri pregiudizi, i tempi stavano cambiando e la sua vocazione è sempre stata quella di fare cose nuove con gente nuova, di non rimanere attaccato alle cose che lo avevano reso celebre. Lui che aveva passato un ventennio a studiare giri armonici audaci adesso era presissimo dal rap , un genere che di accordi quando ne usa due in una canzone è già troppo. Che musicista incredibile che è stato Pino. Aveva i denti grandi, da uomo di Neandertal, e un fisico possente quasi da neonato gigante, con il torace da buttafuori segnato da una cicatrice proprio in mezzo, incline alle belle mangiate specialmente quando la parola “fritto” accompagna la descrizione della pietanza, ma con la chitarra sapeva essere di una leggerezza che io ho visto solo nelle farfalle. Per lui era IMPOSSIBILE, credetemi, IMPOSSIBILE, produrre una sequenza di note che non fosse bellissima, quando si metteva lì a improvvisare. Studiava sempre la chitarra, non ha mai smesso di studiarla, di accarezzarla, di farci ballare le sue dita sulle punte o di prenderla a pugni. Quando aveva la chitarra in braccio si completava una figura che non lasciava entrare dentro nient'altro, un equilibrio cosmico, il simbolo di una croce, non sto esagerando, senza la sua chitarra in braccio Pino era incompleto. E di quel suo falsetto naturale che usciva da quelle grandi ossa, ne vogliamo parlare? E i testi di moltissime sue canzoni? non so, mi viene in mente “putesse essere allero’” . Su quella canzone ci ho imparato un po’ di napoletano ma anche cosa può fare l’arte poetica nella cultura popolare. “Putesse essere allero e m'alluccano dint'e recchie e je me sento viecchio putesse essere allero cu mia figlia mbraccio che me tocca 'a faccia e nun me' fa guardà” Nonostante fossimo diventati amici io nemmeno per un secondo sono riuscito a mettere da parte del tutto la mia devozione al suo talento, che mi condizionava sempre, c'è sempre stata una parte di me che quando eravamo insieme mi diceva "ue guagió, chist'è Pino Daniel'... te rendi conto co'cchì stai a pazziá?" La sua musica quando ero al liceo mi ha liberato e illuminato, e da grande la sua amicizia mi ha fatto diventare un musicista, mi ha fatto credere nelle mie potenzialità e nella possibilità di migliorarmi. Era da un po’ di tempo che non ci sentivamo, a settembre scorso mi aveva chiesto di essere tra i suoi ospiti all’arena di Verona ma io ero lontanissimo e non ci siamo potuti organizzare. L’altra notte a capodanno ho acceso la TV e l’ho visto su Rai Uno che cantava e ho pensato che avrei voluto chiamarlo e che l’avrei fatto nei prossimi giorni, ciao Pì come stai? e vediamoci una volta! è troppo che non ci facciamo una chiacchierata! Poi stamattina mi sono svegliato e ho trovato un sms di Ramazza che mi diceva “è morto Pino fratè, sono sconvolto”. Pino Daniele è stato un artista enorme, un vero gigante, e il tempo non farà altro che consolidare questa sua immensa importanza per la musica e per la cultura dei nostro paese. Napoli perde il suo figlio musicista più grande del dopoguerra, senza nessun dubbio, e uno dei più grandi di tutti i tempi, ne sono del tutto sicuro. Con Pino mi accadeva un fenomeno inspiegabile, dopo qualche minuto che stavo con lui mi veniva un accento un po' napoletano. Sul serio, se ci passavo una giornata poi a fine cena mi ritrovavo a usare espressioni tipo “uè” o perfino “guagliò”. Era un influsso che lui aveva, pinodanielizzava l'atmosfera. Lo faceva con la musica ma se ci penso bene lo faceva proprio con tutto se stesso che era tutto un se stesso fatto solo di musica. Ho tante ore di "volo" a bordo dell'astronave PinoDaniele, decolli atterraggi vuoti d'aria turbolenze ma soprattutto ore di vita e di musica indimenticabili iniziate molto prima di conoscerlo. Pino Daniele è stato il mio primo concerto. A essere sinceri prima di lui c'era stato un "Giromike" con ospite la Rettore e un Gianni Morandi in piazza a Cortona, ma a quelli mi ci aveva portato la mia mamma, e comunque mi erano piaciuti. A vedere Pino al Palaeur di Roma invece ci andai io da solo, 1981, biglietto comprato in prevendita con soldi miei che avevo messo da parte. Che band strepitosa, io non ci capivo niente ma mi fecero sentire in una zona tra la festa e il pericolo, tra il sogno e la minaccia, tra la rabbia e la gioia, dove poi ho scoperto che avviene sempre la grande musica. Era una musica diversa, coraggiosa, libera, selvatica, intelligente e nuova e che mi era entrata dentro come qualcosa che non sai da dove arriva ma che ti porta via, pinodanielizza l'atmosfera. L’album Nero a Metà, un capolavoro assoluto di ogni tempo. Poi uscìVai mo’ che aveva questo titolo svelto, che mi faceva impazzire già a partire da lì. E c’era dentro Yes I know my way, la prima volta che pensai che un italiano poteva essere funky e arrabbaito senza perdere il sorriso. Passarono gli anni, io diventai Jovanotti, continuai ad essere un fan, lui era sempre il grande Pino Daniele, lo era sempre di più. Amato e riverito sia dagli stonati che dai musicisti virtuosi. Lo conobbi nel 1994, mi proposero di fare il tour con lui ed Eros. Non ci potevo credere. Pino Lorenzo Eros. Il manifesto lo fecero disegnare a me, col pennarello tracciai un sole addosso ad un palazzo, era il mio modo per immaginare la mappa di un'esperienza che mi avrebbe cambiato la vita, dividere il palco negli stadi con due grandi della musica italiana, diversissimi ma uniti da quella volontà di far filtrare il sole attraverso il cemento armato. Eros lo conoscevo già da prima perchè avevamo lo stesso agente. Con Pino legammo tanto, mi voleva bene e io mi sentivo un prescelto a poter essere in confidenza con quel grande artista che mi sembrava fatto di musica, pensava solo alla musica, zero menate, la musica al centro di ogni cosa. Mi regalò la sua amicizia sanguigna e fraterna. Pino era simpatico e ti faceva piegare dalle risate, quando voleva, i suoi racconti sono letteratura blues e commedia dell’arte, belli come certe sue canzoni, e divertenti come i film di Totò, che per lui era un dio. Tante emozioni oggi, troppe tutte insieme. Conservo il ricordo della giornata di Napoli, allo stadio San Paolo, 13 giugno 1994. Era il suo ritorno a Napoli dopo tanti anni senza esibirsi nella sua città, e io e “Ramazza” (è così che gli amici chiamano Eros) lo avremmo accompagnato in quella che per lui e per i napoletani era la cosa più importante del mondo. Inoltre da pochi giorni era morto Massimo Troisi e la cosa aveva caricato quella giornata di un’emozione ancora più forte e aveva avvolto Pino in una nuvola di pensieri che rimanevano tra se e se. Pino era agitato, silenzioso, ogni tanto sdrammatizzava con una battuta ma quel concerto per lui era molto più di un concerto. La città era in attesa, i biglietti introvabili, nessuno a Napoli sapeva dove alloggiava Pino, e si temeva che se fosse entrato anche con un blindato nello stadio ci sarebbero stati dei rischi di ordine pubblico là fuori, per il troppo amore dei fans . Così lui entrò nello stadio all’alba, mentre la città dormiva ancora, arrivando da Roma, e rimase in camerino per tutta la giornata senza che nessuno lo venisse a sapere, tranne noi e pochi intimi. Quel giorno ero uno dei tre ammessi nel suo camerino e parlammo di tutto meno che di quello che stava per succedere. Come sempre Pino sdrammatizzava, lo ha sempre fatto quando si trattava di avere a che fare con il mito che era diventato. Quando uscimmo sul palco ce l’avevo accanto e guardando lo stadio assistetti alla più grande dimostrazione di amore di un popolo verso un artista che lo rappresenta, qualcosa di veramente storico, mai vista prima e mai più vista una cosa del genere. Una cosa che non dimenticherò mai. Quella Napoli si riconosceva in Pino Daniele, l’artista che aveva saputo valorizzarla non attraverso le sue maschere ma partendo dalla realtà e dalla poesia, l’uomo che l’aveva liberata dagli stereotipi, che l’aveva portata nella modernità senza perderci in cultura e in umanità. Pino Daniele è per Napoli quello che Bob Marley è per la Jamaica, ma siccome i napoletani sono napoletani e Napoli è Napoli, tutto è amplificato, tutto è più grande più complesso più rumoroso più infuocato più indescrivibile a parole. Dopo quel concerto siamo diventati veramente amici, avevamo condiviso un pezzo di storia, anche se quel giorno a scriverla era stato, chiaramente, soprattutto lui. Continuammo a frequentarci e a fare musica. E a ridere di tutto, ogni volta che incontravamo. In quel periodo sia lui che io ci eravamo fidanzati da poco ed eravamo già molto innamorati delle nostre giovani ragazze e dopo quel tour condividemmo il tempo in cui dall’essere una coppia si diventa una famiglia, quella cosa ci unì parecchio. Qualche mese prima aveva avuto un infarto e doveva stare attento e riguardarsi, e siccome io non sono un tipo dedito agli stravizi ero una frequentazione che lo prendeva bene, con me si poteva rilassare senza tentazioni pericolose per le coronarie. Insieme si faceva soprattutto musica, si parlava di musica, si ascoltava musica, si progettava musica. Io ero quasi all'inizio, lui era in un nuovo inizio, incuriosito dalle nuove sonorità dei computers, dalle possibilità del pop, voleva scrivere usando un po’ meno il napoletano e me ne parlava, era desideroso di essere trasmesso di più anche dalle radio del nord Italia, per arrivare a più gente, per rompere altre barriere, per fare a pezzi altri pregiudizi, i tempi stavano cambiando e la sua vocazione è sempre stata quella di fare cose nuove con gente nuova, di non rimanere attaccato alle cose che lo avevano reso celebre. Lui che aveva passato un ventennio a studiare giri armonici audaci adesso era presissimo dal rap , un genere che di accordi quando ne usa due in una canzone è già troppo. Che musicista incredibile che è stato Pino. Aveva i denti grandi, da uomo di Neandertal, e un fisico possente quasi da neonato gigante, con il torace da buttafuori segnato da una cicatrice proprio in mezzo, incline alle belle mangiate specialmente quando la parola “fritto” accompagna la descrizione della pietanza, ma con la chitarra sapeva essere di una leggerezza che io ho visto solo nelle farfalle. Per lui era IMPOSSIBILE, credetemi, IMPOSSIBILE, produrre una sequenza di note che non fosse bellissima, quando si metteva lì a improvvisare. Studiava sempre la chitarra, non ha mai smesso di studiarla, di accarezzarla, di farci ballare le sue dita sulle punte o di prenderla a pugni. Quando aveva la chitarra in braccio si completava una figura che non lasciava entrare dentro nient'altro, un equilibrio cosmico, il simbolo di una croce, non sto esagerando, senza la sua chitarra in braccio Pino era incompleto. E di quel suo falsetto naturale che usciva da quelle grandi ossa, ne vogliamo parlare? E i testi di moltissime sue canzoni? non so, mi viene in mente “putesse essere allero’” . Su quella canzone ci ho imparato un po’ di napoletano ma anche cosa può fare l’arte poetica nella cultura popolare. “Putesse essere allero e m'alluccano dint'e recchie e je me sento viecchio putesse essere allero cu mia figlia mbraccio che me tocca 'a faccia e nun me' fa guardà” Nonostante fossimo diventati amici io nemmeno per un secondo sono riuscito a mettere da parte del tutto la mia devozione al suo talento, che mi condizionava sempre, c'è sempre stata una parte di me che quando eravamo insieme mi diceva "ue guagió, chist'è Pino Daniel'... te rendi conto co'cchì stai a pazziá?" La sua musica quando ero al liceo mi ha liberato e illuminato, e da grande la sua amicizia mi ha fatto diventare un musicista, mi ha fatto credere nelle mie potenzialità e nella possibilità di migliorarmi. Era da un po’ di tempo che non ci sentivamo, a settembre scorso mi aveva chiesto di essere tra i suoi ospiti all’arena di Verona ma io ero lontanissimo e non ci siamo potuti organizzare. L’altra notte a capodanno ho acceso la TV e l’ho visto su Rai Uno che cantava e ho pensato che avrei voluto chiamarlo e che l’avrei fatto nei prossimi giorni, ciao Pì come stai? e vediamoci una volta! è troppo che non ci facciamo una chiacchierata! Poi stamattina mi sono svegliato e ho trovato un sms di Ramazza che mi diceva “è morto Pino fratè, sono sconvolto”. Pino Daniele è stato un artista enorme, un vero gigante, e il tempo non farà altro che consolidare questa sua immensa importanza per la musica e per la cultura dei nostro paese. Napoli perde il suo figlio musicista più grande del dopoguerra, senza nessun dubbio, e uno dei più grandi di tutti i tempi, ne sono del tutto sicuro. JOVANOTTI

ASSOSTAMPA FVG, 2015 ANNO DI CONGRESSO

Care colleghe, cari colleghi, Fare sindacato nel 2015 sarà ancor più difficile che in passato. Siamo circondati da editori che scaricano sui giornalisti - e in ultimo sui lettori - il costo di una crisi epocale che non hanno saputo e non sanno affrontare, incapaci evidentemente di pensare a prodotti giornalistici ed editoriali attrattivi, innovativi, di qualità, in grado di stare sul mercato attuale. Nel Friuli Venezia Giulia i problemi, in certi casi le emergenze, sono tanti. Dai troppi giornalisti precari o comunque non contrattualizzati al Quotidiano del Fvg chiuso a fine 2014, dal Piccolo al Messaggero Veneto, dal Gazzettino al Primorski Dnevnik, dalla Rai regionale all'emittenza privata, dagli uffici stampa della pubblica amministrazione fino alle testate più piccole: non c'è azienda, non c'è settore dal quale non arrivino richieste di assistenza e di aiuto da parte dei colleghi, iscritti o non iscritti al sindacato. In questo quadro, andiamo a congresso. Si svolgerà infatti dal 27 al 30 gennaio, a Chianciano (Siena), il 27.o Congresso della Fnsi, sindacato unitario dei giornalisti italiani. L'Assostampa del Friuli Venezia Giulia, articolazione territoriale della Fnsi, parteciperà all'assise con undici delegati (otto professionali e tre collaboratori) e sei componenti di diritto, che hanno scelto di non candidare per permettere anche ad altri colleghi di intervenire al congresso. Sarà un congresso particolare, difficile, probabilmente "di svolta" dopo il ventennio rappresentato dalle doppie segreterie di Franco Siddi, il segretario generale uscente, e del suo predecessore Paolo Serventi Longhi. Ma non è solo un problema di nomi, di uomini. In questi vent'anni il mondo dell'informazione è cambiato radicalmente, i sindacati - non solo quello dei giornalisti - vivono una fase difficile, segnata dalla profonda crisi della rappresentanza. L'intero settore nel quale lavoriamo vive una crisi epocale, senza precedenti. Un tempo eravamo il "sindacato dei garantiti", di persone che avevano un buon lavoro, ben pagato. I disoccupati quasi non esistevano, o venivano rapidamente riassorbiti. I giovani che si avvicinavano a questa professione, dopo qualche tempo di gavetta, inevitabile in ogni settore, venivano regolarizzati e contrattualizzati. Oggi quel mondo non esiste più. La maggioranza dei nostri iscritti è formata da colleghi non contrattualizzati, per tantissimi la gavetta è diventata infinita, e in fondo al tunnel l'assunzione è diventata un miraggio. Gli editori, che ai tempi delle vacche grasse hanno guadagnato molto e si sono ben guardati dall'investire sull'innovazione, sulla qualità del prodotto e sul capitale umano, oggi sono falcidiati dalla crisi e sembrano conoscere solo la politica dei tagli per tentare di sopravvivere. E anche chi un lavoro ha la fortuna di averlo si trova a dover combattere contro carichi di lavoro sempre più pesanti, in redazioni che erano strutturate per produrre solo le edizioni cartacee dei giornali e oggi si trovano a dover far fronte necessariamente anche a quelle sul web, che non chiudono mai, che per essere efficaci richiederebbero una copertura "h24". Gli organici andrebbero dunque potenziati, invece ovunque, anche nel Friuli Venezia Giulia, assistiamo alla loro riduzione. E una generazione di giornalisti rimane fuori dalla porta, a vivacchiare con compensi da fame. In questo panorama gli stati di crisi, le ristrutturazioni, i contratti di solidarietà non si contano e anche il nostro Nordest purtroppo non fa eccezione. Il sindacato li ha gestiti, li sta gestendo come può, partendo sempre e comunque da una posizione di debolezza, che rischia di essere peggiorata dalle recenti novità nel campo della normativa sul lavoro. Ciononostante, questo sindacato pochi mesi fa ha rinnovato il contratto nazionale di lavoro. Quasi un miracolo, nell'Italia del 2014, con una controparte datoriale che questo contratto all'inizio proprio non lo voleva rinnovare (e il problema, vedrete, si riproporrà ancor più pesantemente fra un anno e mezzo, quando questo accordo andrà a scadenza). Il contratto firmato ha ricevuto molte critiche da molti colleghi, ma noi siamo convinti che, nella situazione data, con questi protagonisti, di più e di meglio non si poteva fare. Quel che molti sottovalutano è che è stato rinnovato quasi nella sua interezza un impianto normativo (ed economico), costruito di rinnovo in rinnovo, che rappresenta uno dei migliori contratti a livello europeo per la categoria dei giornalisti. Chiedere ai colleghi stranieri per conferma. Questa è la situazione nella quale si va a congresso. A Chianciano verrà scelto il nuovo gruppo dirigente. Il lavoro da fare è enorme e impegnativo. All'ordine del giorno della Fnsi c'è quasi una rifondazione. Il sistema delle componenti (le correnti nelle quali si divide il sindacato unitario) si è dimostrato inadeguato ai tempi che viviamo. Forse ieri le componenti erano strumenti di dibattito e di elaborazione culturale, politica e sindacale, necessaria anche per mettere in campo la propria strategia, la propria azione di difesa e tutela dei colleghi. Oggi si sono ridotti a piccoli comitati elettorali, buoni solo per spartire cariche e poltrone. Bisogna invece ripartire dai territori, dalle Assostampa regionali, dal loro - dal nostro - lavoro, dalle "buone pratiche" che molte Associazioni hanno avviato in questi anni. L'Assostampa del Friuli Venezia Giulia partecipa al congresso per fare onestamente la sua parte, forte del lavoro svolto in questi ultimi anni ma consapevole della necessità di rafforzare l'azione del sindacato e correggerne gli errori. Per difendere il lavoro e i diritti dei colleghi, ma anche la qualità e il ruolo dell'informazione, abbiamo sempre bisogno di una Fnsi - e di un'Assostampa Fvg - più forte. Tanti auguri di buon anno. E iscrivetevi al nostro sindacato unitario: ne avete, ne abbiamo bisogno. Carlo Muscatello, presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia

PINO DANIELE, 1955-2015

Napule è mille culure Napule è mille paure Napule è a voce de' criature che saglie chianu chianu e tu sai ca nun si sulo. Napule è nu sole amaro Napule è addore 'e mare Napule è 'na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a' ciorta. Napule è 'na cammenata inte viche miezo all'ato Napule è tutto 'nu suonno e 'a sape tutti o' munno ma nun sanno a verità. Napule è mille culure (Napule è mille paure) Napule è 'nu sole amaro (Napule è addore e' mare) Napule è 'na carta sporca (e nisciuno se ne importa) Napule è 'na camminata (inte viche miezo all'ato) Napule è tutto nu suonno (e a' sape tutti o' munno)

RESSEL BROTHERS, disco e Frank Get al Light of day

S’intitola “To milk a duck” l’album di debutto dei triestini Ressel Brothers, il cui cantante e bassista Frank Get - è confermato - parteciperà il 16 gennaio alla settimana conclusiva del “Light of day”, nel Nerw Jersey, ad Ashbury Park. «La band - spiega Frank Get, vero nome Franco Ghietti, cambiato “perchè il mio cognome è impronunciabile all’estero...” - nasce un anno fa dopo lo scioglimento del gruppo Tex Mex, da cui proveniamo tutti e tre: Sandro Bencich, Joe Thomas e io. Abbiamo deciso di prendere il nome da Josef Ressel (nato in Boemia nel 1793, morto a Lubiana nel 1857, vissuto fra Trieste e l’Istria - ndr) e da qui abbiamo cominciato». Ressel, l’inventore dell’elica? «Sì, ma anche della posta pneumatica, dei cuscinetti a sfera, di tante altre cose. Fu anche propugnatore del progetto di riforestazione del Carso, che nel 1800, a causa dell’intervento umano, era ridotto a un’arida pietraia. Con l’introduzione del pino nero, unico esemplare in grado di attecchire e di favorire il ripristino della flora autoctona, si è ottenuto il risultato che è sotto gli occhi di tutti». E ricordarlo che cosa significa per voi? «Usare il suo nome vuol esser, oltre che un omaggio, anche uno stimolo per valorizzare il patrimonio di casa nostra, che è molto più ricco di quel che si crede. Fra l’altro un brano, “Propeller blues”, parla proprio dell’invenzione dell’elica e dell’esperimento fatto nel golfo di Trieste nel 1829 con il piroscafo Civetta, prima nave con l’elica, che tentò la traversata seguendo la rotta verso Venezia. Purtroppo ci fu un guasto al motore e per motivi di concorrenza fu impedito il prosieguo degli esperimenti». Torniamo al gruppo. «In pochi mesi abbiamo scritto, prodotto e registrato i brani. Questo primo cd è uscito praticamente di getto. Anche le registrazioni sono quasi tutte realizzate “al primo colpo”». Gli altri brani? «”Broken dreams”, “Never say goodbye”, “No man’s land” raccontano di storie vissute e legate al nostro territorio, mentre “Is gonna be all right” è una disamina sulla difficile situazione attuale. “Never give up” è il brano da cui è stato tratto il videoclip ufficiale: è un segnale di speranza, la band è infatti formata da due “anziani” e un giovanissimo talento nostrano, appena ventenne». Incontro di generazioni, insomma. «Abbiamo puntato su questo, per non disperdere l’esperienza e il lavoro della “vecchia guardia”, anzi metterla al servizio delle nuove generazioni. Una scommessa sul futuro...». Che significa il titolo? «”To milk a duck” è un modo di dire per fare una cosa impossibile. È più o meno quello che stiamo provando a fare...». Al disco - che verrà presentato il 31 gennaio al Naima, l’ex Macaki di viale XX Settembre, in una serata firmata Trieste is rock - hanno partecipato anche la sezione fiati della Sip band (Angelo Chiocca, Andrea Bortolato, Andrea Cheber ) e le coriste Katy Maurel, Elisa Bombacigno e Tina Krmac. Ma, come si diceva, nel frattempo è stata anche confermata la prestigiosa partecipazione di Frank Get, il 16 gennaio, alla settimana conclusiva del Light of day, nel Nerw Jersey, ad Ashbury Park. Il concerto benefico itinerante voluto e sponsorizzato da Bruce Springsteen per raccogliere fondi per combattere il Parkinson è ormai un evento mondiale, che tocca tante città in tanti paesi (un mese fa è passato anche da Muggia). «Nel 2012 - ricorda il rocker triestino - ho partecipato a un “Light of day” suonando assieme a Willie Nile, Joe D’Urso, James Maddock, Graziano Romani, Jesse Malin, Israel Nash Gripka. Sono rimasto in contatto con Joe D’Urso, organizzatore dell’evento, e quest’anno ho suonato con lui a un “private party”. Dopo un paio di mesi mi è arrivata la proposta per fare un set acustico durante la settimana conclusiva, allo Stone Pony ad Ashbury Park». Alla quale parteciperà anche il giornalista e scrittore triestino Daniele Benvenuti, autore di un fortunato libro su Springsteen.

venerdì 2 gennaio 2015

DISCHI ITALIANI 2015

Il 24 febbraio arriva anche il nuovo album di Jovanotti, “Lorenzo 2015 cc”, anticipato nei giorni scorsi dal singolo “Sabato”: si propone sin da ora come un campione italiano delle classifiche. Dovrà vedersela con i nuovi dischi di Eros Ramazzotti, Antonello Venditti, Marco Mengoni, Nek, Carmen Consoli, Malika Ayane, Raf, Irene Grandi, Il Volo, Giovanni Allevi, Pfm, Dear Jack, Moreno, Anna Tatangelo, Nina Zilli, Alex Britti... Ma andiamo per ordine. Martedì 13 gennaio Mengoni ritorna con l’album “Parole in circolo”, anticipato dal singolo “Guerriero”, lanciato proprio dal palcoscenico di quell’X Factor da cui il cantante laziale ha spiccato il volo pochi anni fa. Passa una settimana e il 20 gennaio arriva anche Carmen Consoli con l’album “L’abitudine di tornare”: dieci canzoni tra cui il primo singolo omonimo già molto trasmessa dalle radio. La “cantantessa” catanese sarà in tour nei palasport da aprile. Sempre il 20 gennaio esce “Love”, nuovo lavoro del pianista Giovanni Allevi, dopo l’anticipo del singolo “My family”. Un’altra settimana e il 27 gennaio debutta come solista Rachele Bastreghi dei Baustelle: il suo album s’intitola “Marie”, sette canzoni fra cui “Mon petit ami du passé”. A fine gennaio da segnalare anche il primo dei due album che i Verdena hanno messo in cantiere per l’anno nuovo: s’intitola “Endkadenz vol.1”, il secondo capitolo è annunciato per l’inizio dell’estate. Ma ci sono anche i grandi vecchi che non mollano. La Pfm propone “Il suono del tempo”, disco dal vivo. E poi Venditti, Ramazzotti, Raf, tanti altri...

DISCHI STRANIERI 2015

Bob Dylan esce il 3 febbraio con il trentaseiesimo album della sua carriera, che è anche il primo interamente dedicato a brani non suoi: “Shadows in the night” comprende infatti dieci canzoni rese celebri da Frank Sinatra, qui rilette in chiave rock. A febbraio tornano anche gli americani Imagine Dragons con “Smoke + Mirrors” e gli irlandesi Kodaline con “Coming for air”. Il 10 marzo tocca a Madonna, con “Rebel heart”: tredicesimo album, grande produzione, alcuni brani già usciti, sia legalmente che illegalmente. E si attendono date e titoli per i nuovi album di Adele, Radiohead, Bjork, Kanye West e Gwen Stefani. Il 2015 ricomincia insomma così, facendo finta che il mercato discografico conti ancora qualcosa. Già, perchè la buona salute di cui gode il settore della musica dal vivo (lo scrivevamo nei giorni scorsi: stadi e palasport si preannunciano pieni anche nell’anno nuovo, per italiani e stranieri di livello) è strettamente collegata alla crisi che attanaglia da anni l’industria discografica. La musica registrata è ormai considerata un genere che può essere fruito gratuitamente o spendendo pochissimo, l’approccio dei giovanissimi non è più quello di possedere materialmente un disco, è sufficiente poterlo ascoltare, legalmente o illegalmente. E dunque, se ci sono soldi da spendere, meglio farlo per l’esperienza del concerto dal vivo. Da vivere da soli o in gruppo, e comunque unica, non replicabile. Detto questo, vediamo cos’altro ci aspetta nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. I Coldplay pubblicheranno “A head full of stars”, che arriva a pochi mesi dal successo di “Ghost stories” e - secondo quanto ha lasciato intendere Chris Martin - potrebbe anche essere l’ultimo album per il gruppo inglese. Anche se in questi casi è sempre meglio diffidare... Nomi nuovi. Entro gennaio l’inglese Charli XCX pubblica “Sucker” e l’americana Meghan Trainor risponde con “Title”, dopo il successo del tormentone “All about that bass”. Attesa per il debutto delle Fifth Harmony, il gruppo vocale americano che uscirà con il disco “Reflection”. Quarto album in arrivo nelle prossime settimane per Mark Ronson: per il produttore inglese che ha firmato i successi di Adele e Amy Winehouse il titolo è “Uptown special”. Debutto solista a marzo per Will Butler degli Arcade Fire. Gli U2 annunciano “Songs of experience”, secondo capitolo dopo “Songs of innocence” pubblicato nell’anno appena concluso (e oggetto di polemiche per la scelta “rivoluzionaria” di regalarlo a qualche centinaia di milioni di clienti Apple...). Anche gli Smashing Pumpkins daranno un seguito a stretto giro di posta al recente “Monuments to an elegy”: il secondo capitolo dovrebbe intitolarsi “Day for night”. Grandi ritorni. Dopo un silenzio discografico durato ventitre anni, a marzo esce un nuovo album degli Chic: i pionieri della disco capitanati da Nile Rodgers mancano infatti dal ’92, quando uscì “Chic-Ism”. Al lavoro che li restituisce alle scene hanno collaborato David Guetta e Avicii (che è atteso con il suo secondo album, “Stories”). Dopo lunghe assenze tornano con nuovi dischi anche Faith No More e Giorgio Moroder. E persino Ringo Starr.