giovedì 30 dicembre 2010

GRISHAM / IO CONFESSSO

Si può essere uno scrittore miliardario, che vende in tutto il mondo da oltre vent’anni svariati milioni di copie dei propri romanzi, alcuni dei quali diventati film di successo, ed essere al tempo stesso protagonista di primo piano della sacrosanta battaglia di civiltà contro la pena capitale? Si possono coniugare fiction e impegno civile, libri gialli popolari fra la gente e appassionata battaglia contro la pena di morte? Yes, ...”he” can. Sì, è possibile.

Lui è John Grisham, l’inventore del legal thriller, che dopo un paio di prove perlomeno incerte (il precedente ”Ritorno a Ford County” sembrava l’opera di uno stanco autore di successo intento a raschiare il fondo del barile...), torna con questo buon ”Io confesso” (Mondadori, pagg. 437, euro 20): ovvero di nuovo un avvincente legal thriller di quelli che ti incollano alla pagina, ma anche uno spietato e documentato atto d’accusa contro quella pena di morte ancora in vigore in tanta parte del ”democraticissimo” continente a stelle e strisce.

La trama. Travis Boyette, malato di tumore al cervello, in libertà vigilata dopo varie condanne per reati sessuali, rivela al reverendo Keith Schroeder di aver violentato e ucciso anni prima una giovane studentessa bianca, Nicole Yarber. Per quell’omicidio, in una piccola città del Texas, è stato accusato e incredibilmente condannato a morte un coetaneo della ragazza, il nero Donté Drumm. Che si è sempre proclamato innocente, mentre la sua famiglia e Robbie Flak, il suo avvocato, si sono battuti per nove anni con ogni mezzo per dimostrarlo.

Ora la condanna sta per essere eseguita, ci sono solo pochi giorni per ottenere una sospensione, per riesumare il cadavere nel bosco dove l’assassino dice di averlo sepolto, per dimostrare così che Travis non è il solito mitomane che salta fuori alla vigilia di un’esecuzione. Una spasmodica lotta contro il tempo, che vede il reverendo e l’avvocato tentarle tutte per ottenere un rinvio...

Per 289 delle 437 pagine dell’edizione italiana del libro - titolo originale ”The confession”, sottotitolo ”Un innocente sta per essere giustiziato, solo un criminale può salvarlo” - il lettore aspetta l’happy end. E il cinquantacinquenne scrittore americano riesce a tenerlo incollato al racconto, proprio come aveva fatto in passato con le sue opere migliori: ”Il momento di uccidere” (il debutto dell’89), ”Il socio”, ”Il cliente”, ”L’uomo della pioggia”, ”Il rapporto Pelikan”, ”La giuria”... E in questo sta la sua arte, il suo grande mestiere affinato con gli anni e l’esperienza.

Stavolta c’è qualcosa di più. Prima del successo come scrittore, Grisham ha esercitato la professione di avvocato ed è stato eletto per i Democratici alla Camera dei Rappresentanti del Mississippi. Sviluppando una posizione molto critica nei confronti del sistema giudiziario americano. Ora, con una (piccola) parte dei proventi delle sue opere, ha fondato l’associazione ”Innocence Project”, che ha già al suo attivo la scarcerazione di oltre duecento persone ingiustamente detenute e liberate grazie alla prova del Dna.

Ma la sua battaglia più grande è quella per l’abolizione della pena di morte. Ci sta lavorando almeno dal ’94, quando si scontrò contro questa vera e propria vergogna americana mentre si documentava per la stesura del romanzo ”L’appello”. Una vergogna che appare come una contraddizione interna al sistema penale Usa, dovuta a quello scontro tra una cultura garantista, ancorata ai principi del giusto processo, e un approccio che considera la pena di morte come la sanzione estrema, confermata dalle ultime sentenze della Corte Suprema federale.

Sono soltanto sedici su cinquanta gli stati americani nei quali la pena di morte è stata abolita, oppure la sua esecuzione è stata sospesa. In ciò gli Stati Uniti si pongono in controtendenza rispetto alla Moratoria universale della pena di morte sostenuta dall'Onu ma anche rispetto all’indirizzo abolizionista ormai prevalente a livello internazionale. Negli ultimi decenni l’estremo atto punitivo dello Stato si è via via riempito di un contenuto diverso: il rimedio diretto ad arrecare conforto alle vittime del reato, una sorta di "programma di sollievo" per i parenti delle vittime, al fine di rendere l'idea della pena di morte più accettabile da parte dell'opinione pubblica.

Grisham si batte contro tutto questo. E lo fa con l’arma dei suoi romanzi, non preoccupandosi del fatto che milioni di americani - e non solo di americani - sono tuttora favorevoli alla pena di morte. Di fronte ai suoi pesanti e appassionati atti d’accusa il pubblico yankee spesso si irrita e ciò ha una conseguenza negativa anche sull’andamento delle vendite dei suoi libri. L’Italia e l’Europa, per ora, vanno in una direzione opposta. E gli restituiscono quanto gli viene sottratto - a livello di successo e di copie vendute - in patria. Sapendo comunque che una battaglia come la sua non ha prezzo.

lunedì 27 dicembre 2010

EMBRYO

I tedeschi Embryo - che suonano questa sera alle 21 al Knulp (via Madonna del Mare 7), in un concerto organizzato dal Circolo del Jazz Thelonious - fanno parte a pieno titolo della storia del rock europeo.

Formatisi nel 1969 a Monaco di Baviera su iniziativa di Christian Burchard (già batterista degli Amon Düül, altro gruppo storico del rock tedesco), sono sempre stati la punta di diamante della scena alternativa tedesca, e hanno alle spalle una produzione discografica ormai sterminata, rigorosamente autoprodotta, con migliaia di concerti per davvero in giro per il mondo. Anche a Trieste hanno suonato già diverse volte, l’ultima due anni e mezzo fa alla Casa del Popolo di Ponziana.

Nata nel creativo ambiente jazz-rock della fine degli anni Sessanta, con le jazz-session con musicisti del calibro di Mal Waldron e Charlie Mariano, la band si è via via caratterizzata per una ricerca musicale senza confini, con un organico attento a tutte le sperimentazioni. Al punto da venir considerata la prima, vera formazione europea di world music: una sorta di ethno band aperta alle collaborazioni e alle contaminazioni più disparate.

Una vocazione che ha radici antiche: dalle scorribande in Marocco agli inizi degli anni Settanta, all'incredibile viaggio via terra da Monaco di Baviera all’India e ritorno, in perfetto stile ”on the road” (con esibizioni di strada con molti musicisti tradizionali locali, fra cui il Karnataka College of Percussion di Bangalore), a quelli in Iran e Afghanistan, fino ai più recenti viaggi in Nigeria, in Cina, in Giappone, nell’Africa del Nord, nell’area balcanica. Tutti forieri di collaborazioni con virtuosi musicisti cinesi, vocalist delle sperdute regioni di Tuva, maestri di danze e riti magici Yoruba.

Nell'attuale formazione di quello che loro chiamano l’Embryo Musik Kollective, Christian Burchard ha saputo trasmettere anche ai più giovani colleghi una filosofia di vita prim’ancora che musicale, che privilegia l’attenzione per i linguaggi musicali non convenzionali e può mettere in comunicazione le più disparate forme culturali del pianeta.

Con il leader - che suona marimba, vibrafono, xantur e percussioni varie -, troviamo attualmente in scena sua figlia Marja Burchard (tastiere, trombone, percussioni, voce, marimba), ma anche Valentin Altenberger (oud, chitarra, basso), Johannes Schleiermacher (sax, flicorno) e Carlo Mascolo (trombone, basso, percussioni).

Come si diceva, il concerto triestino di stasera degli Embryo è organizzato dal Circolo del Jazz Thelonius. I prossimi appuntamenti della stagione sono martedì 11 gennaio con il Trio Nigredo, lunedì 24 gennaio con Yuri Goloubev “Yg-Lite” (ospite Klaus Gesing), martedì 8 febbraio con l’Arrigo Cappelletti Trio, martedì 22 febbraio con il Fiorenzo Bodrato Trio.

E poi ancora l’8 marzo il Nicoletta Manzini Trio, il 22 marzo Jaruzelski’s Dream, il 5 aprile *Tranepainting, il 19 aprile il Matteo Sacilotto Quartet, il 3 maggio il Tommaso Genovesi Quartet (con U.T. Gandhi alla batteria e Nevio Zaninotto al sax).

domenica 19 dicembre 2010


DISCHI / MARIO BIONDI

Ve lo ricordate il concerto di Mario Biondi nel maggio scorso al Rossetti di Trieste? Quello con le due orchestre, una acustica e una elettrica, che si dividevano il palco, al centro del quale troneggiava e si muoveva perfettamente a suo agio il crooner catanese? Bene. L’idea di quel tour è diventata ora un disco, anzi un doppio: ”Yes you live” (Indipendente Mente), due cd registrati nell’agosto scorso proprio nella sua Sicilia, uno al Teatro Antico di Taormina e l’altro al Teatro di Verdura di Palermo.

A distanza di un anno dal precedente ”If” (che aveva venduto oltre 200 mila copie: niente male di questi tempi...), il cantante siciliano batte dunque il ferro finchè è caldo con un lavoro che non mancherà di affascinare quanti lo hanno già apprezzato nei dischi precedenti e dal vivo.

Venti brani in tutto, fra i quali brillano l'inedito ”Yes you” (un mix perfetto di voce, fiati, archi e orchestra) e le rivisitazioni di ”Nature boy” (canzone resa celebre da Nat King Cole), “Winter in America” di Gil Scott-Heron, “I know it's over” (versione inglese di “E se domani”, classico di Mina scritto da Carlo Alberto Rossi, già presente nell'ultimo lavoro).

Ma ci sono anche "Something that was beautiful" (scritta per Biondi nientemeno che da Burt Bacharach) e riletture di brani passati alla storia nell’interpretazione di mostri sacri come Charlie Parker, Weather Report, Gino Vannelli, Earth Wind & Fire. Altra chicca: la presenza della storica band ”acid jazz” degli Incognito, ospite in ”No more trouble”, ”Low down” e ”I can get enough”.

Biondi si conferma con questo disco il più internazionale degli artisti italiani. Questo ragazzone alto quasi due metri, classe ’71, che canta come un Barry White cresciuto alle pendici dell’Etna, sa ispirarsi alla grande tradizione della musica nera senza scimmiottare nessuno.

I tre album precedenti - ”Handful of soul” del 2006, il live ”I love you more” del 2007, ”If” del 2009 - erano stati sufficienti per trasformare Mario Ranno (il cognome d’arte l’ha preso dal padre, il cantautore Stefano Biondi) in una star. Che prima di essere amata in patria, aveva già lavorato con successo a New York, a Londra e persino in Giappone.

L’Italia l’ha scoperto quattro anni fa, quando la sua ”This is what you are”, originariamente pensata per il mercato giapponese, aveva già conquistato Radio Bbc1 prima di essere adottata come jingle natalizio da Radio Montecarlo. Ma ora, a giudicare dai dischi venduti e dalle presenze ai suoi concerti quasi sempre tutti esauriti, sembra proprio non volerlo mollare più.

E questo disco, elegante e raffinato proprio come i suoi concerti, potrebbe trasformarsi in una strenna natalizia coi fiocchi.



COFANETTI CAROSELLO

La Carosello Records, storica etichetta discografica italiana, festeggia i suoi cinquant’anni pubblicando la collana ”Ritratto”, ovvero sei tripli box dedicati ai più importanti artisti del suo catalogo: Ivan Graziani, Mina, Domenico Modugno, Toto Cutugno e Astor Piazzolla.

Tutta la collana è stata rimasterizzata in digitale. Il cofanetto di Graziani contiene anche materiale esclusivo, tra cui cartoline, dipinti e testi autografi e alcune assolute rarità, mai pubblicate precedentemente: un inedito, ”L'orchestrale bastardo”, scritto oltre vent’anni fa che sorprende per l'attualità del testo e delle sonorità; due provini,”Emily” (1991) e ”Con le mie lacrime” (”As tears go by” - 1994), unica canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards e mai incisa in italiano.

La collana dedicata a Mina (che proprio in questi giorni esce con un mini-cd con i brani cantati nel nuovo film di Aldo Giovanni e Giacomo) raccoglie il meglio del suo repertorio tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Per la prima volta si possono ascoltare su cd tutti i singoli del periodo Italdisc. Il ”Ritratto” di Mina comprende dalle canzoni degli esordi (da ”Malatia” a ”Proteggimii”, ma anche il periodo in cui si faceva chiamare Baby Gate), alle canzoni che l'hanno resa celebre, come ”Le mille bolle blu” e ”Tintarella di luna”, ”Renato” e ”Il cielo in una stanza”, ”Non sei felice” e ”Briciole di baci”. In tutto sono 120 canzoni contenute in sei cd, che contengono, oltre a immagini inedite, anche le copertine originali dei 45 giri dell'epoca.

Nel triplo box di Modugno, oltre ai classici ”Nel blu dipinto di blu”, ”Piove”, ”Vecchio frack”, anche rarità come due brani del ”Cyrano” e due duetti con Catherine Spaak.

La raccolta di Cutugno comprende una sezione dedicata ai suoi esordi con gli Albatros, nonchè i successi che l'hanno reso famoso oltre i confini nazionali, tra cui ”L'italiano”, mentre il ”Ritratto” di Astor Piazzolla racchiude infine il meglio dell'opera del grande rivoluzionario del tango, compresa una rarissima sezione dedicata alle colonne sonore.



OLEG CESARI

A un mese dalla pubblicazione, il primo album del violinista Olen Cesari è al primo posto della classifica di I-Tunes. Niente male per questo esordio a cui hanno collaborato fra gli altri Lucio Dalla e Sergio Cammariere (in una bella versione di ”Anema e core”). Nove classici e quattro brani inediti per un percorso musicale che emoziona, in un melting pot di suoni, voci e colori che profuma di terre lontane. Ascoltiamo allora ”Sweet Georgia Brown”, con Fabrizio Bosso alla tromba. Ma anche l'affascinante voce di Rosalia de Souza in ”Aguas de Marco” e quella di Massimo Di Cataldo in ”Om Namah Shivaya”. E c’è anche il basso di Tony Levin in ”Dreamtime”. Tutti duettano con il violino di Olen Cesari. Che è nato a Durazzo, Albania, e con Elsa Lila, ambasciatrice della canzone albanese che nel 2003 e nel 2007 fece una comparsa anche al Festival di Sanremo, rende un emozionato omaggio anche alla sua terra di origine.



P.CARONE

Nel 2010 Pierdavide Carone ha vinto come autore Sanremo (con ”Per tutte le volte che”, cantata da Valerio Scanu), è arrivato terzo alla nona edizione del talent show ”Amici” e ha pubblicato il suo primo album ”Una canzone pop”. Ma il giovane cantautore pugliese non è uno che si ferma, ed ecco dunque arrivare già il suo secondo album. ”Distrattamente” propone dieci nuove canzoni, da lui scritte e cantate, con l’assistenza di Beppe Vessicchio e Claudio Guidetti. Nel disco il ragazzo suona le chitarre, ma anche il basso e persino il bouzouki. Le canzoni sono tutte basate su melodie pop, alternando momenti di ironia e leggerezza come ”Dammela... la mano” e ”Distrattamente fan”, a episodi più intimi ed introspettivi come ”Un clown che piange”, ”Ti vorrei” (dedicata al suo amore per la musica) e canzoni scritte durante l'adolescenza e rivisitate per l'occasione come ”Viole” e ”Hey baby”. Alla fidanzata, conosciuta proprio durante ”Amici”, dove anche lei gareggiava come ballerina, ha dedicato il brano ”Quello che mi dai”.


venerdì 17 dicembre 2010

LIGA LIVE

Ma allora è proprio vero che i sogni di rock’n’roll non tramontano mai. Nemmeno a cinquant’anni. La prova l'abbiamo avuta ieri sera, in un PalaTrieste tutto esaurito già da un mese (oltre seimila i biglietti venduti, potevano essere molti di più), che ha celebrato l'ennesimo trionfo annunciato del rocker di Correggio, provincia di Reggio Emilia.

Quest'anno il nostro ha girato la boa del mezzo secolo, ma dimostra di avere ancora energia e adrenalina da vendere. Palco sobrio ed essenziale. Il fondale è un enorme maxischermo. Due orologi scandiscono il conto alla rovescia. Ma il via lo dà Claudio Maioli, manager dell'artista, cappellaccio da cowboy e filastrocca introduttiva per dare il "Taca banda". Un boato saluta l'ingresso della star. «Ciao Trieste!». Si parte con tre canzoni del nuovo album "Arrivederci, mostro!", che il pubblico conosce già a memoria: "Quando canterai la tua canzone", "La linea sottile" e "Nel tempo". Ma è quando arrivano "Balliamo sul mondo" e "Bambolina e barracuda" che il palasport esplode.

Quelle due canzoni ci riportano indietro di vent'anni, quando l'allora trentenne Luciano Ligabue debuttò con un album, intitolato semplicemente con il suo cognome, che mise subito le cose in chiaro: il futuro del rock italiano, l'unica seria alternativa a Vasco, era quel ragazzone con i tratti somatici da indio padano, con una "vita da mediano" alle spalle, cresciuto alla scuola dei migliori cantautori ma con dentro un'urgenza di comunicare a suon di rock che non lasciava - e non lascia - spazio alle repliche.

All'inizio del '91 venne a tenere il suo primo concerto nel Friuli Venezia Giulia, in una balera friulana, conquistando i pochi fortunati richiamati dal passaparola. Da quella volta sono passati appunto vent'anni. Il Liga ha realizzato quindici album, venduto sei milioni di dischi, tenuto oltre seicento concerti. Molti anche nella nostra regione, riempiendo stadi, palasport e teatri. A Trieste è venuto tante volte, la prima in una magica serata al Castello di San Giusto (poco dopo il debutto nella balera friulana), nel '99 a inaugurare proprio il PalaTrieste, l'ultima quattro anni fa, per due sere di fila al Rossetti. Ma il suo rapporto con la città è per sua stessa ammissione speciale, visto che nel 2001 l'ha scelta per girare il video di "Eri bellissima".

E quest'anno è apparsa anche in "Niente paura", il documentario di Piergiorgio Gay ispirato alla sua canzone omonima. Il concerto di questo tour (una dozzina di date nei palasport per recuperare le città non toccate da quello estivo) alterna i vecchi classici con i brani del nuovo album. Da un lato dunque "Certe notti", "Il giorno di dolore che uno ha"; "Piccola stella senza cielo", "Le donne lo sanno", "Questa è la mia vita", "Ho perso le parole", "Urlando contro il cielo", ma anche una "Ti chiamerò Sam (se suoni bene)", solo acustica, che stava in "Lambrusco coltelli rose e popcorn", il secondo album uscito nel '91. Dall'altro le tre già citate, "Un colpo all'anima", "Atto di fede", "Ci sei sempre stata"... Canzoni che hanno velocemente affiancato quelle più antiche nell'affetto dei fan.

Come dimostrano l'accoglienza del pubblico triestino ma anche la scelta dell'artista di ripubblicare due settimane fa l'album in un cofanetto, che oltre al cd originale, uscito nel maggio scorso e ancora ai vertici delle classifiche, propone un dvd registrato dal vivo nel tour estivo e un secondo cd con le stesse canzoni rifatte in chiave acustica. «Ognuno di noi ha i propri fantasmi - dice Ligabue per spiegare quello strano titolo, "Arrivederci, mostro!" -, le ossessioni, le cose che conosce anche bene e se non le conosce bene sono comunque lì che lavorano costantemente. Io ho fatto cinquant’anni da poco: ci frequentiamo da tanto, io e i miei fantasmi, per cui riuscire a riconoscerli mi dà la sensazione di poterli salutare anche affettuosamente. Non è un addio perchè non ho la presunzione di pensare che se ne vadano per sempre. È come la sensazione di essermi un po’ liberato...».

Parole di un uomo e un artista intelligente, sensibile, mai banale. Che ha debuttato a trent'anni, ha raggiunto il successo subito, e continua a distanza di un ventennio a essere uno dei migliori protagonisti della musica italiana. Versatile al punto da aver dato in questi anni ottima prova di sé anche come regista e scrittore. Con lui, ieri sera sul palco del PalaTrieste, una bella band di sei elementi, capitanati dal fido chitarrista Federico Poggipollini, con lui praticamente dai lontani esordi.

Pubblico di tutte le età, a dimostrazione della capacità dell'artista di comunicare anche con i giovani e i giovanissimi. Sul maxischermo, immagini in presa diretta dal concerto, ma anche filmati, citazioni, facce: Pasolini e Calvino, De Andrè e Lennon, Kennedy e Dylan. Una passerella permette al rocker di avvicinarsi più volte al pubblico. Che puntualmente va in delirio. Mille telefonini lo inquadrano. Per fermare un sogno di rock'n'roll che dura, con lui, da vent'anni. Ma non sembra intenzionato a interrompersi. Alla fine, fra i bis, una dolente ed emozionata "Buonanotte all'Italia" sembra cantata col pensiero a questo nostro povero paese scassato.

giovedì 16 dicembre 2010

LIGABUE

Ligabue torna giovedì al PalaTrieste, unica tappa regionale del tour partito il 4 dicembre da Livorno (stasera è a Bolzano, chiusura il 21 e 22 a Genova). Concerto triestino tutto esaurito già da un mese, seimila biglietti venduti, dunque l’artista non concede interviste. Sì, perchè nel mondo del rock, ormai da tempo, funziona così: se ci sono teatri o palasport o stadi da riempire, disponibilità assoluta a fare quattro amabili chiacchiere al telefono anche con i giornali locali (a volte persino oltreoceano, per gli stranieri...); se invece l’incasso è già al sicuro, niente da fare. Niente domande e niente risposte.

Peccato. Ma ce ne faremo una ragione. E vorrà dire che presenteremo il concerto al pubblico triestino e regionale riportando qualche estratto di quanto detto dal rocker di Correggio giorni fa a ”Repubblica” e l’altra sera a Fazio su Raitre.

DISCO: «Ho deciso di re-incidere l’ultimo album, ”Arrivederci, mostro!”, in chiave acustica perchè mi piaceva farlo ascoltare sotto un’altra luce, con maggiore attenzione ai testi. Poi io scrivo le canzoni sempre alla chitarra, quindi mi piaceva far sentire come nascono. Ne è venuto fuori questo cofanetto con dentro il cd originale uscito a maggio, il cd con le dodici canzoni riarrangiate e risuonate e il dvd...».

DVD: «Durante l’ultimo tour estivo abbiamo ripreso, per la prima volta, tutti i concerti che abbiamo fatto: uno sforzo produttivo importante. Ora esce il dvd con le dodici canzoni del disco, ognuna dal vivo e ognuna da una città differente. Sono proprio dodici le città che abbiamo toccato col tour, per cui per ognuna di loro ci sarà la testimonianza di un pezzo dell’album. Inoltre nel dvd c’è parecchio materiale che racconta il dietro le quinte di quest'anno di lavoro».

MUSICA: «Uno dei mali della musica è che ce n’è tanta, fin troppa, e tutta sempre disponibile. La ascoltiamo distrattamente, mentre facciamo altro. E questo mi disturba. C’è la musica di sottofondo, ma in generale la musica ha priorità alte, che possono produrre emozioni diverse».

ITALIA: «Ho partecipato al programma di Fazio e Saviano e sono molto orgoglioso che quel programma sia stato in parte ispirato dal film ”Niente paura”, il documentario sulla storia d’Italia costruito attorno alle mie canzoni. Fazio mi ha detto: anche noi vogliamo raccontare che amiamo il nostro Paese, e raccontarlo non solo con i fatti ma anche con i sentimenti».

SINISTRA: «Questo è stato ed è un problema della sinistra: non stare attenti ai sentimenti, come se il cuore e la pancia fossero poco importanti, da trascurare. Quel programma ha avuto successo perchè non ha avuto vergogna di questi sentimenti. Mi pare un segnale importante».

STUDENTI: «Trovo normale che gli studenti facciano sentire la propria voce. Ho trovato anormale il silenzio che c'è stato prima. Questo a prescindere dal giudizio su questa o altre leggi. Quando si sente parlare del proprio presente o del proprio futuro, bisogna far sentire la propria voce».

POLITICI: «Un Paese non è di proprietà di chi è chiamato a dirigerne le sorti. Anzi, dovrebbe essere lui alle nostre dipendenze. Ma oggi i politici, che di solito sono bravi a promettere sogni di futuro, in questo momento sembrano anche loro incapaci di farlo».

COSTITUZIONE (agli studenti di Livorno, incontrati prima del concerto di apertura del tour): «È un documento modernissimo e attualissimo, è la Carta che dovrebbe regolare il rapporto tra noi e lo Stato. È nata dopo la guerra e si sente l'entusiasmo di chi l'ha scritta, leggendo soprattutto i primi articoli».

L’album ”Arrivederci, mostro!”, pubblicato nel maggio scorso, a vent’anni esatti dal disco d’esordio, è il quindicesimo della carriera di Ligabue ed è ancora in testa alle classifiche di vendita. Il cofanetto ”Arrivederci, mostro! (Tutte le facce del mostro)” è nei negozi da due settimane. In vent'anni di carriera il rocker di Correggio, provincia di Reggio Emilia, ha venduto oltre sei milioni di dischi e ha tenuto più di seicento concerti.

Da Fazio, l’altra sera, nello studio di ”Che tempo che fa”, accompagnato dalla sua band, ha cantato ”Ci sei sempre stata”, in versione elettrica, e ”Atto di fede”, in versione acustica.

Nel tour che giovedì arriva a Trieste (cancelli aperti alle 19, nessun biglietto in vendita alle casse, inizio alle 21), di solito il concerto comincia con le prime tre canzoni di ”Arrivederci, mostro!” (”Un colpo all’anima”, ”La linea sottile” e ”Taca banda”), subito seguite da due classici come ”Balliamo sul mondo” e ”Bambolina e barracuda”.

Stavano entrambe nell’album d’esordio, intitolato semplicemente ”Ligabue” e uscito nel ’90. Ma sono ancora due ottimi brani da far cantare al popolo dei palasport. Con effetti incendiari.

lunedì 13 dicembre 2010

PASOLINI / VISCA

E' stata la prima giornalista ad accorrere sulla scena del delitto. Era la mattina del 2 novembre 1975. Quel corpo straziato all’idroscalo di Ostia era quello di Pier Paolo Pasolini, il poeta e regista di Casarsa. Lucia Visca allora era una giovanissima cronista agli esordi. Oggi, dopo tanti anni trascorsi nei giornali, ha trovato il tempo e la voglia di scrivere quella storia. Ne è venuto fuori un libro: ”Pier Paolo Pasolini, una morte violenta - In diretta dalla scena del delitto, le verità nascoste su uno degli episodi più oscuri della storia italiana” (Castelvecchi Editore - pagg 149, euro 15). Verrà presentato oggi alle 11, a San Vito al Tagliamento, alla presenza dell’autrice.

Visca, qual è il primo ricordo di quel 2 novembre '75?

«Quel cartellino di lavanderia sulla camicia di Pier Paolo Pasolini. Un minuscolo rettangolo di carta gialla. Spiccava sulla stoffa intrisa di sangue. Con l'inchiostro indelebile c'era scritto ”Pasolini”. Una letta veloce e quel cadavere massacrato cambiò la storia del Novecento».

Da chi fu avvertita?

«Da un brigadiere, lo stesso che di solito mi aggiornava su ogni avvenimento di nera, anche minimo, che avveniva sul litorale romano».

Che immagine si presentò ai suoi occhi?

«Un massacro. Un cadavere bocconi nel fango, del quale restava poco di forma umana. Al momento della scoperta lo avevano scambiato per un sacco di immondizia, Quando girarono il corpo, se possibile, l'immagine era peggiore. Il volto sfigurato, senza lineamenti. Un grumo di sangue che raccontava la sofferenza di un uomo. Non era stata una morte improvvisa: il corpo testimoniava una lenta e dolorosa agonia sotto i colpi degli assassini».

Chi c'era all'inizio sul posto? Chi arrivò dopo di lei?

«Qualche poliziotto, la famiglia che aveva trovato il corpo, i Lollobrigida, molti curiosi e due squadrette di calcio in attesa di giocare la partita della domenica. Che dopo, purtroppo, giocarono, distruggendo ogni traccia sul terreno dove non erano stati fatti rilievi accurati. Dopo l'identificazione arrivarono tutti: la mitica squadra mobile di Fernando Masone, i giornalisti di grido, gli amici di Pasolini. Arrivò Ninetto Davoli e fu il momento peggiore, quando l'identificazione del cadavere divenne ufficiale e, come disse Moravia qualche giorno dopo alla commemorazione, il mondo pianse un poeta».

Ci dica degli indizi che furono trascurati.

«Vicino al corpo c'erano tracce che vennero distrutte, come dicevo. C'era stata e non fu colta la possibilità di calcolare quante auto erano state su quel terreno quella notte. Si sarebbe potuto capire, come poi si sospettò, se era passato anche qualcuno in moto, la misteriosa moto che compare in quasi tutti i grandi delitti dell'epoca a Roma».

Cosa accadde dopo il ritrovamento?

«Una gran confusione perché ci volle tempo prima che polizia e carabinieri cominciassero a parlarsi. Prima che si sapesse che nella notte i carabinieri avevano arrestato Pino Pelosi, immediatamente reo confesso dell'assassinio, alla guida dell'auto del poeta. Furono perfino trascurati, allora e per anni, alcuni oggetti ritrovati nella macchina».

A distanza di 35 anni che idea si è fatta dell'omicidio?

«Qualcuno doveva far pagare a Pasolini qualcosa. Doveva dargli una lezione. Non sono certa che l'obiettivo fosse la morte, potrebbe anche essere stata l'esito di un violento pestaggio. Certo è che Pasolini non è stato ucciso da una sola persona. Un ragazzino allora gracile e sottopeso non avrebbe potuto sopraffare da solo un uomo in forma e allenato. Forse Pelosi fu solo l'esca. Forse lì c'era qualcuno che aveva organizzato l'agguato».

Nel libro lei parla di tre ipotesi.

«Non sono ipotesi mie. Ero e resto una cronista. Credo nel giornalismo che riporta i fatti e semmai ci ragiona sopra. Nel caso di Pasolini ho riportato le ipotesi che si sono accreditate negli anni: un complotto di Stato o quantomeno dei servizi segreti deviati, una vendetta della malavita compromessa con ambienti neofascisti, una vendetta di piccoli balordi di quartiere decisi a punire Pasolini ritenendolo corruttore di ragazzini».

Chi aveva interesse a far tacere Pasolini?

«Purtroppo molti, e molti sono gli indizi. Pasolini era un intellettuale di grande impegno civile. In forza del suo anticonformismo, basta rileggere gli ”Scritti corsari” che pubblicava sul Corriere della Sera, aveva intuito tutti i complotti e tutte le insidie degli anni Settanta del secolo scorso. Stava lavorando sull'Eni di Eugenio Cefis, ritenuto il vero fondatore della Loggia P2. Approfondiva i legami fra il terrorismo nero e la Banda della Magliana, ai primi vagiti, che si finanziavano con il traffico di droga».

La pista omofoba?

«C'è anche quella. C’era un interesse, diciamo così, ”basso” di piccola malavita, che aveva in odio gli omosessuali già allora. Rileggendo le ultime settimane precedenti alla morte gli indizi sono molti. Basti pensare al furto delle ”pizze” di ”Salò e le 120 giornate di Sodoma” e all'ossessione di Pasolini di poterle ritrovare».

Perchè il libro arriva solo adesso?

«Perché adesso ho avuto il tempo di scrivere il pezzo che non scrissi allora. E anche perché dopo non ci sarebbe stato più tempo per il lavoro di cronista. Sono ormai convinta che i misteri dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini siano materia per gli storici».

martedì 7 dicembre 2010

JOHN LENNON 30

Oggi sono trent’anni che John Lennon è stato ucciso. Ma a pensarci bene, in tutto questo tempo, il mondo non si è mai sentito orfano della musica, delle idee, delle speranze che il più geniale dei quattro Beatles ha saputo esprimere nella sua breve vita.

Perchè se Elvis Presley - distrutto a quarantadue anni, nel ’77, da cibo, farmaci, droghe ed eccessi vari - è stato l’inventore e il re del rock, Lennon con i ”Fab Four” (nel 2001 è morto anche George Harrison, dunque oggi sono in vita solo Paul McCartney e Ringo Starr) ha cambiato musica e costume del Novecento.

Aveva appena quarant’anni, quella sera dell’8 dicembre 1980 quando il destino gli mise davanti la follia omicida di Mark David Chapman. C’era stato un prologo. Poche ore prima dei cinque colpi di pistola, il suo assassino gli strinse la mano e si fece autografare una copia del suo album ”Double Fantasy”, appena uscito. Davanti al Dakota Palace, l’abitazione newyorkese di Lennon affacciata su Central Park, c’era anche un fotografo, tale Paul Goresh, che immortalò la scena in uno scatto rimasto storico: l’assassino e la sua vittima.

Chapman - che in tutti questi anni ha chiesto più volte la libertà provvisoria, ma è ancora in galera - quella sera rimase in attesa per quattro ore. Aveva con sé una copia del ”Giovane Holden”. Poco prima delle 23, quando vide l’ex Beatle rientrare assieme a Yoko Ono, lo chiamò e gli disse: «Ehi, mister Lennon. Sta per entrare nella storia...».

Quattro dei cinque proiettili calibro 38 colpirono l’artista, uno trapassò l’aorta. Lennon fece qualche passo, prima di cadere. Poi l’inutile corsa al Roosevelt Hospital, dove fu dichiarato morto alle 23.09. Non erano ancora tempi di internet, facebook e twitter e compagnia delirante, ma la notizia fece il giro del mondo in pochissimo tempo, suscitando ovunque autentica commozione. I primi flash d’agenzia, i notiziari radio e tv, i raduni spontanei di giovani e meno giovani nelle strade di mezzo mondo...

C’era forse la consapevolezza, fra milioni di persone, che quella morte segnasse per davvero la fine di un’epoca. L’epoca della musica che aveva l’illusione di poter cambiare il mondo, incrociandosi con i movimenti giovanili nati negli anni Sessanta e Settanta. Se Woodstock, nell’agosto del ’69, aveva chiuso la stagione della controcultura giovanile, il sogno della ”nazione alternativa”, di un mondo diverso e migliore grazie anche alla musica, la morte di Lennon (che nel ’70 aveva cantato ”The dream is over”, il sogno è finito, verso riferito solo in prima battuta allo scioglimento dei Beatles...) chiude la saracinesca ai sogni, agli ideali e se vogliamo alle utopie dei due decenni precedenti. E milioni di persone in tutto il mondo lo capirono perfettamente.

Perchè John Lennon non fu soltanto il protagonista - soprattutto assieme al suo alter ego creativo McCartney - di quella straordinaria avventura chiamata Beatles, che in soli otto anni di produzione discografica, dal ’62 di ”Love me do” al ’70 di ”Let it be”, ha cambiato dalle fondamenta la musica, il costume e se vogliamo anche la cultura della seconda metà del cosiddetto secolo breve.

Soprattutto dopo lo scioglimento del gruppo, il suo sincero impegno civile e politico, non solo con i ”bed in” e le manifestazioni per la pace, ne fecero anche un protagonista della vita pubblica. E l’essersene andato così presto lo ha reso ”forever young”, per sempre giovane, quasi immortale. Risparmiandogli i rischi di una sicura decadenza fisica e di un possibile (nel suo caso, forse improbabile...) tramonto creativo.

Non a caso ieri il Corriere della Sera proponeva in prima pagina una (triste) elaborazione fotografica al computer di un ”Lennon settantenne”: stempiato, grigio, con le rughe. E in questi giorni si è diffuso l’esercizio di immaginare (”Imagine”...) questo ”Lennon settantenne” ancora capace di scrivere musica immortale e nel contempo mobilitato contro l'impegno bellico in Afghanistan e in Iraq, nella migliore delle ipotesi, oppure ridotto a fare l’ospite speciale o persino il giudice di un ”talent show”, nella peggiore di queste ipotesi.

Chissà come sarebbero andate le cose. Di certo, allora, di quei quattro, Lennon era forse il più creativo e geniale, di certo il più carismatico e trasgressivo e politico, in anni in cui il mondo sembrava dovesse cambiare radicalmente di lì a poco. Sappiamo che non è andata così. O meglio: il cambiamento non è andato nella direzione allora sperata.

Ma la grande importanza del poeta di ”Imagine” e dei quattro ragazzi di Liverpool non è mai stata in discussione. E in questa fine 2010 del doppio anniversario (oggi il trentennale della morte e due mesi fa, il 9 ottobre, i settant’anni dalla nascita), una discografia perennemente in crisi ha tratto ossigeno dall’ennesima ristampa di tutto il catalogo rimasterizzato dei Beatles e di John Lennon da solista. I milioni di copie vendute e quei dischi di nuovo ai vertici delle classifiche di vendita, tanti anni dopo, sono la prova migliore di quel che stiamo scrivendo.

Oggi John Lennon verrà ricordato in tutto il mondo. A Londra (dove un canale tv trasmetterà ”The day John Lennon died”, documentario sulle sue ultime ore, girato dal filmaker britannico Michael Waldman), nella sua Liverpool, nella sua New York. Dove dal 9 ottobre 1985, giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, quel pezzetto di Central Park dinanzi al Dakota Palace - nell’Upper West Side - si chiama ”Strawberry Fields”, proprio come una delle tante, inarrivabili canzoni dei Beatles.

Lì, ogni giorno, c’è qualcuno che si ferma attorno al grande mosaico circolare di pietre grigie e nere che formano per terra la parola ”Imagine”. E qualche giovane o vecchio ragazzo con la chitarra strimpella le canzoni dei Beatles - ormai musica classica - con un cappello appoggiato per terra. Oggi quell’area sarà piena di fiori e di candele accese. Per ricordare un grande del Novecento.

MARIA LUISA BUSI

Nell'Italia in cui una poltrona non si molla neanche sotto le cannonate, Maria Luisa Busi è un’eccezione: sei mesi fa si è dimessa da conduttrice del Tg1 delle 20, «non condivedendo più la linea editoriale del telegiornale». Prendendo spunto da quell’episodio, ha scritto un libro: ”Brutte notizie - Come l’Italia vera è scomparsa dalla tv” (Rizzoli, pagg. 269, euro 18).

Busi, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

«La contestazione che ho subito all’Aquila, quando sono andata a fare un servizio sul dopo terremoto. Dopo quasi vent’anni di conduzione, la gente mi identificava con il Tg1. Non erano pericolosi sovversivi. Ma uomini di mezza età con il cappotto e la sciarpa. Signore con la collana di perle. Donne e ragazzi. Tanti. Il nostro pubblico che contestava quello che era stato il ”suo” telegiornale».

Ma il Tg1 è sempre stato filogovernativo.

«Certo. Ho conosciuto per tre volte l’influenza del berlusconismo sul Tg1 fin dal ’94. Carlo Rossella, poi Clemente Mimun, oggi Augusto Minzolini. Negli anni la comunicazione politica è cambiata, in peggio. Il leaderismo ha preso lo spazio delle idee. Il maggioritario imperfetto che viviamo ha preteso cambi di rotta più drastici, strappi improvvisi. E il grande veliero che ha sempre saputo correggere la rotta - il Tg1 - senza perdere la bussola, stavolta ha subito un arrembaggio. Ne ha subito le conseguenze non solo l’informazione politica ma anche il racconto del paese».

Lei scrive che dopo le dimissioni tanta gente per strada le ha detto "grazie". Di che?

«Credo che per il pubblico sia stato il segno che c’è chi sa rinunciare a qualcosa per un principio. E la gente onesta ha bisogno di riflettersi in altra gente onesta, per riuscire ad andare avanti tra mille difficoltà, in un momento storico di grande disgregazione sociale, che la crisi economica fa sentire ancora più forte. La gente si sente sola, priva di rappresentanza, priva di riferimenti etici, priva di difesa».

Poi vede il Tg1 e...

«Le abbiamo raccontato che tutto va bene, che deve avere paura solo dello straniero, del diverso. Sono stati additati i responsabili, non sono state trovate soluzioni. Ma tanta gente a questo trucco non crede più. E ha capito che in un paese in cui l’immagine è tutto, una che rinuncia all’immagine perché dice basta con questa falsa rappresentazione è degna di rispetto».

Perché siamo arrivati a questo punto?

«Perché il nostro paese da 16 anni è condizionato dal conflitto d’interessi del capo del governo. Non l’unico, per carità. Ma il più pervasivo. Essere proprietari dell’immagine televisiva, avere le mani sull’informazione televisiva in un paese che legge poco e forma coscienza e consenso all’86 per cento attraverso i tg, dà a uno solo un potere immenso. L’informazione televisiva - ma anche la gran parte dei programmi - in questi anni ha raccontato agli italiani chi sono, come sono, di cosa avere paura. Il paese è stato diviso tra amici e nemici. Questo è il danno più grave».

Oggi il giornalismo è ancora - come scrive - l’unico mestiere che "coniuga creatività e impegno civile"?

«Lo è per me».

Lei racconta di un antico incontro con Berlusconi. Pensava sarebbe diventato il protagonista di 20 anni di storia del Paese?

«Era il ’92 e lui era "il nuovo" in ambito televisivo. Gianni Letta mi aveva parlato di ”un’offerta professionale”. Fu un incontro formativo, come racconto nel libro credo in modo divertente, quando mi definisce "un bel bocconcino". Ma non avevo intenzione di andare alla concorrenza. Credevo nel servizio pubblico, ci credo ancora».

Non mi ha risposto.

«No, non potevo intuire che sarebbe diventato il dominus della politica per 16 anni, al governo ma anche dall’opposizione. Certo è che un grande contributo alla sua ascesa e alla sua affermazione politica l’hanno dato le sue televisioni, plasmando quell’humus culturale che ha contribuito alla situazione in cui ci troviamo. Il populismo mediatico è questo».

Nel libro racconta storie di persone senza lavoro. Interessano alla tv italiana?

«Alla gente di sicuro. Sono le storie di chi ha perso il lavoro, di chi non lo trova, di chi non può fare un figlio perché non saprebbe come mantenerlo, di chi a 50 anni con il lavoro perde dignità, relazioni e posto nel mondo. Sono bottiglie al largo, e sono migliaia oggi le bottiglie al largo, nascoste tra i flussi delle sei, sette notizie a cui andiamo dietro da anni: dalla giustizia alle leggi ad personam, dal malcostume alle escort. Quelle bottiglie contengono messaggi che qualcuno deve raccogliere: la politica, ma anche l’informazione».

L’arrivo di Mentana a La7 ha riaperto i giochi dell’informazione tv?

«Sì, perchè c’è un’alternativa che prima non c’era. Un’alternativa credibile. Purtroppo per il Tg1, che perde ascolti anche per questo».

Striscia e le Iene hanno riempito un vuoto di informazione tv?

«Sì. E lo dico con rammarico».

Lei scrive che l’Italia non è un paese per giovani, né per donne. Ma che paese è l’Italia?

«Un paese sfiduciato, un po’ infelice, depresso. Un paese che sta perdendo le sue qualità migliori. Ha mai visto come la gente guida per strada? Come la gente si saluta poco e male? Come le persone siano mediamente più aggressive, più sospettose? C’è la sensazione diffusa, magari eccessiva, che non funzioni nulla, che non ci si possa fidare di nessuno, che non esista meritocrazia, che nessuno faccia più quel che deve fare».

Invece...

«Invece è un paese dove c’è tanta gente che fa fatica, che fa il proprio dovere, penso all’enorme fatica che facciamo noi donne. In un paese che celebra il ”family day” e per sostenere le famiglie non fa nulla. Un paese che non ha rispetto per le donne, che deve ritrovare speranza e rotta».

Il suo programma "Articolotre" è stato sospeso.

«In altri momenti gli sarebbe stato dato più tempo per crescere. Ma in una Raitre sotto costante pressione aziendale oggi questo non è possibile. Volevamo parlare di uguaglianza e diritti. Abbiamo pagato gli alti ascolti del programma concorrente, ”Quarto potere” su Retequattro, costruito sulle morbosità attorno all’omicidio di una ragazzina di 15 anni. Una televisione che non mi piace... ».

venerdì 3 dicembre 2010

SIVINI / BAGLIONI

E' ancora triestino ”l’occhio” che segue Claudio Baglioni nei suoi concerti e nei suoi tour, in Italia e all’estero. Portano infatti la firma di Andrea Sivini le immagini del dvd ”Per il mondo - Live at the Royal Albert Hall, Londra”, appena pubblicato dalla Sony Music.

«Baglioni mi ha chiamato a documentare anche il suo World Tour 2010 - spiega il regista triestino -, per confezionare con le immagini dei concerti, dei viaggi, dei backstage, una sorta di diario visivo della tournèe. Ho cominciato con Bruxelles (dove ho anche diretto la regia delle riprese del concerto su due megaschermi) e con Parigi, all’Olympia, per proseguire con Monaco, Stoccarda, Zurigo e poi finalmente Londra, il 29 maggio scorso».

Ancora Sivini: «Quello alla Royal Albert Hall, da cui è tratto il dvd, è stato ovviamente l’appuntamento più importante. Un po’ per il luogo, mitico per il rock. Un po’ perchè, per quanto mi riguarda, in un’unica serata di tre ore c’era da organizzare tutto: la fotografia per le riprese, le postazioni delle camere, il mixer video, la tipologia delle ottiche, i rapporti con i responsabili tecnici del teatro. Tutti inglesi, ovviamente, con i quali bisogna parlare nella loro lingua...».

Il risultato è qualitativamente di prima grandezza, tutto in HD, in linea dunque con le tecnologie più all’avanguardia. I brani proposti abbracciano tutta la lunga carriera del cantautore romano: da ”Questo piccolo grande amore” a ”Strada facendo”, da ”Poster” a ”Io me ne andrei”, da ”Avrai” a ”Mille giorni di te e di me”, da ”Amore bello” a ”La vita è adesso”...

«A Londra - prosegue il regista triestino - abbiamo lavorato in tutto tre giorni. Ma sono stati tre giorni molto intensi, ai quali è seguito il lavoro di post-produzione, che ho seguito personalmente. Ora che il dvd è uscito, posso dire di essere molto soddisfatto. Come soddisfatto è anche Claudio. E fra gli addetti ai lavori che hanno già visto il dvd ho raccolto solo commenti positivi...».

Il tour mondiale di Baglioni è partito il 6 marzo da Atlantic City. Dopo Londra, è proseguito in America Latina, Australia, Giappone e Cina. Un vero e proprio giro del mondo, insomma, per un artista italiano molto apprezzato anche all’estero. Poi il ritorno in Europa, con la pausa settembrina di O’Scià, il festival organizzato dallo stesso artista ogni a Lampedusa, ma anche le tappe in Austria e Spagna. Conclusione di nuovo negli States, a New York e Miami.

A Capodanno gran finale a Roma con il concerto ai Fori Imperiali, quello nel quale Venditti l’anno scorso ha fatto 150 mila presenze. Sivini vi sta già lavorando, montando un filmato richiestogli per l’occasione dal cantautore romano, che dopo i successi all’estero ovviamente non vuole sfigurare a casa sua...

«Lavoro con Baglioni ormai da diversi anni - conclude il regista triestino - e con lui è nato anche un bel rapporto di amicizia. Oltre alla stima per l’artista, gli sarò sempre grato per le esperienze professionali che ho fatto e sto facendo al suo fianco».

Negli anni, Sivini è riuscito anche a ”infilare” un po’ di Trieste in un dvd di Baglioni. Si tratta del triplo ”Crescendo e cercando”, uscito ormai sei anni fa, con tante immagini del nostro - purtroppo abbandonato - Porto Vecchio, dove il cantautore romano aveva tenuto un concerto, dal titolo ”Spazi nuovi per uomini nuovi”, nel settembre 2004. Da allora, Baglioni e Sivini hanno fatto ancora un bel tratto di strada assieme. Il Porto Vecchio, invece, aspetta sempre un destino diverso dall’abbandono.