martedì 25 aprile 2006

Due mesi fa ha sfiorato la vittoria a Sanremo Giovani, superato sul filo di lana da Riccardo Maffoni. Anche se forse aveva più diritto lui - forte del successo di un tormentone come «Vorrei cantare come Biagio» - a gareggiare fra i big, che non tanti altri. <IP9>Simone Cristicchi, il cui tour fa tappa domani sera al Teatro Ciconi di San Daniele del Friuli, non ci fa caso. E sembra avere le idee molto chiare su come continuare la sua strada nell’effimero mondo della canzonetta.
«A Sanremo è andata bene così - dice il cantante romano, classe 1977 - non mi interessava né della gara né tantomeno del girone. Lo dico sul serio. Mi interessava presentare la canzone ”Che bella gente”, col suo attacco all’ipocrisia, alle critiche frettolose, per dimostrare anche che non ero solo quello di ”Vorrei cantare come Biagio”...».
Un tormentone che le è rimasto appiccicato...
«Sì, con quella canzone ho ormai un rapporto di amore/odio. Mi ha permesso di farmi notare, certo, ma sto ancora lavorando per dimostrare che so fare anche altro».
Perchè Biagio Antonacci?
«Perchè lui è per me una sorta di icona di un certo modo di fare musica. Incarna il ”romantico”, anzi, il ”romanticone” del Duemila, il Baglioni dei giorni nostri...».
Insomma, non era vera adulazione...
«No, e bastava sentire il testo della canzone per capirlo. Del resto, se avessi voluto fare un inno a un mio idolo musicale, l’avrei fatto, chessò, a Elvis Presley, non certo a lui...».
È vero che all’inizio lui l’ha presa male?
«Beh, sì, all’inizio l’ha presa con un po’ di sospetto. Aveva capito benissimo il senso della canzone. Poi la cosa è esplosa, e lui ha fatto buon viso: ha accettato la cosa con intelligenza e simpatia nei miei confronti. Mi ha anche invitato ad aprire alcuni suoi concerti...».
Prima delle canzoni lei faceva fumetti...
«Sì, sono un discepolo di Jacovitti. E penso che fumetto e canzone siano forme di espressione simili. Entrambe sono costretti alla sintesi. C’è poco spazio, sia in una striscia che nei tre-quattro minuti di un brano...».
Il suo spettacolo s’intitola «Centro di igiene mentale». Com’è nato?
«Prende spunto dall’esperienza che ho fatto, prima come obiettore di coscienza e poi come volontario, in un centro di igiene mentale a Roma. Racconto alcune mie impressioni, alcuni spunti di riflessione, nati da quell’esperienza. Personaggi a volte buffi, a volte strampalati, ma sempre ricchi di grande umanità, che riuscivano a trasmettere nonostante la sofferenza e la malattia...».
Un’esperienza che l’ha segnata...
«Sì, e da cui ho imparato molto. Tanti di loro erano come bambini. Mi raccontavano le loro storie, la loro vita, spesso caratterizzata dall’emarginazione, ma lo facevano con leggerezza. Mi piace pensare che in questo spettacolo me li porto ancora in giro con me, suo mio carrozzone...».
Ma lei a chi si ispira?
«A Giorgio Gaber. È al suo teatro canzone che mi ispiro, con tutta l’umiltà possibile. Nei monologhi che si alternano alle canzoni dello spettacolo parlo di tutto, sempre con ironia, mettendo in luce il lato scanzonato delle cose...».
Si scrive flessibilità, si legge precarietà. Nella realtà come nella letteratura. Col rischio di perdere per strada la parte più debole di un’intera generazione. Quella che hanno già chiamato generazione flessibile, generazione usa-e-getta, persino generazione «kleenex».
Sì, perchè rubare a un giovane il futuro, la certezza di un lavoro, la speranza in un domani migliore è il furto peggiore, quello che toglie a un ragazzo la bellezza irripetibile della sua età. Un furto contro il quale non ci si può assicurare, al massimo si può accendere un cero a San Precario. Quel santo che nel calendario non c’è, ma ha piena cittadinanza nelle manifestazioni dei giovani dell’Italia del 2006, che non è poi così diversa dalla Francia che nelle scorse settimane è scesa in piazza e ha sbarrato la strada a una legge considerata ingiusta.
San Precario è il santo protettore di tutti quelli che lavorano per un salario da fame, ragazzi ed ex ragazzi di trenta e passa anni che soffrono le conseguenze di un reddito intermittente, che oggi c’è e domani non si sa. Giovani e meno giovani schiacciati da un futuro incerto, drammaticamente a rischio di povertà ed esclusione sociale.
Di questo mondo hanno cominciato a occuparsi anche gli scrittori, o almeno quella parte di loro che - per motivi anagrafici o sensibilità politica e sociale - scandagliano l’universo giovanile. Con le sue ansie, i suoi problemi, le sue speranze ma anche i suoi drammi.
Prendiamone tre, di questi scrittori: Aldo Nove, Angelo Ferracuti, Mario Desiati. Sono contemporaneamente in libreria, rispettivamente con «Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese...» (Einaudi, pagg. 178, euro 12,50), «Le risorse umane» (Feltrinelli, pagg. 224, euro 12) e «Vita precaria e amore eterno» (Mondadori, pagg. 180, euro 15).
Tre libri diversi ma che parlano della stessa Italia, dello stesso triste paesaggio umano raccontato con una consapevolezza dolorosa. Pagine che fanno precipitare il lettore in una realtà drammatica, lontana da quella finta ed edulcorata delle televisioni e delle promesse elettorali, con un unico comun denominatore fatto di disagio, tristezza, disillusione, mancanza di speranza.
Per scendere in questi inferi Aldo Nove rinuncia quasi al suo essere scrittore. Diventa giornalista, intervistatore, cronista, per raccontare la realtà del lavoro oggi, dal suo lato debole, insicuro, non protetto. «Quando ho scritto ”Superwoobinda”, dieci anni fa - spiega l’autore introducendo la prima storia - volevo raccontare una generazione di trentenni privi di futuro. Dieci anni sono passati. Il futuro, lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, non è ancora arrivato. Siamo ancora tutti, nostro malgrado, dei bambini...».
La Roberta del titolo insegna «quasi per inerzia» in una scuola per studenti lavoratori. Ha lasciato Cosenza, «la provincia», perchè sognava di diventare scrittrice, e si è trasferita a Roma. Il suo malessere si chiama «inadeguatezza», cioè «il senso di non riuscire mai a far fronte alle cose nel modo migliore, con serenità, con il necessario distacco». Riuscire a non prendersi troppo sul serio - dice - è «una forma di salvezza empirica».
La storia di questa donna apre la galleria di quattordici fotografie scattate da Aldo Nove tra il 2004 e il 2005, e apparse originariamente su «Liberazione». Disegnano un paese di precari, stagisti, lavoratori interinali o part-time, non integrati per i quali la flessibilità significa innanzitutto precarietà. Parlano di una generazione che per la prima volta nella storia italiana sa di esser destinata a un’esistenza peggiore di quella capitata in sorte ai propri genitori. Con il futuro che prende pian piano le forme di un buco nero nel quale si rischia di scivolare.
Angelo Ferracuti racconta la provincia italiana, i lavoratori manuali, la classe operaia sopravvissuta alla «fine del lavoro». Parte dal Nordest, dal cantiere navale di Monfalcone, approda al piccolo museo della miniera di Marcinelle, agli uffici postali di Fermo e della direzione di Roma, alle fabbriche di scarpe di Civitanova Marche, alle aziende tessili di Prato... Fra emigrati, lavoratori a termine, mobbing, esclusione sociale, malattie.
A Monfalcone - qui sopra, un estratto del capitolo - i giovani «si sentivano realizzati quando ottenevano un posto da tubista, saldatore o elettricista, da apprendista». Un lavoro che colpisce con l'inalazione delle polveri di amianto, anche dopo molti anni, anche quando il lavoratore ormai non se l’aspetta più. Tredici storie in un’amara galleria di lavori e di persone, ognuna con le sue rabbie, i desideri, i sogni, le delusioni.
Mario Desiati affronta lo stesso dramma con un romanzo-diario. Il protagonista è un trentenne che lavora in un call center. Il racconto della sua vita, delle sue giornate diventa un romanzo generazionale quasi cronachistico, aderente nella sua monotonia alla realtà di formazione di un giovane italiano qualsiasi, perso nell’attesa di un riscatto che rischia di non arrivare mai.
«Non ci sono rombi di aerei sulle nostre teste, non ci sono tessere annonarie, file per la farina, l’acqua e la luce non vengono razionate. Eppure oggi hai la stessa paura dei tuoi nonni sotto i B52 che sorvolavano San Lorenzo...». Parole che sembrano stilettate.
Il disincanto, la coscienza del disagio, la perdita della speranza sono i tratti che accomunano queste pagine, questi libri, queste storie. Ragazzi ed ex ragazzi in perenne e disperata lotta per la sopravvivenza, senza la certezza e nemmeno la speranza di quel futuro migliore che animava padri e nonni e bisnonni appena pochi decenni prima.
Ancora Aldo Nove. Di storie come queste, scrive nel suo libro, così «urgenti», ce ne sono tante: «sono dappertutto». Per questo «vanno raccolte. Dobbiamo dircele. Sono infinite storie che potrebbero cominciare così: ”Tu fai conto che mi sveglio alle quattro e un quarto del mattino, faccio quattro lavori diversi al giorno e vado a letto all'una e mezzo di notte...”».
La Costituzione - perchè ce l’abbiamo ancora, no...? - parla di una «Repubblica fondata sul lavoro», di «pari dignità sociale», di «esistenza libera e dignitosa» per il lavoratore e la sua famiglia. Forse sarebbe il caso da ripartire da lì. Dalla Costituzione italiana. Prima che sia troppo tardi.

domenica 23 aprile 2006

È il classico «filo rosso» quello che lega il nuovo disco dell’Orchestra di Piazza Vittorio, «Sona» (Edel Nun), e il nuovo lavoro di Claudio Lolli, «La scoperta dell’America» (Storie di Note). Da un lato l’orchestra orgogliosamente multietnica nata nella piazza di Roma che è una babele di lingue, culture, religioni, colori. Dall’altro il professore bolognese che trent’anni fa fu il cantore degli «zingari felici», del Settantasette di Radio Alice e dintorni, ma anche di tanti altri sogni e ansie generazionali. Immigrati di oggi e «comunisti» di ieri, che parlano entrambi di un’Italia «brutta, sporca e cattiva», forse marginale, di certo minoritaria, eppure solare e ricca di dignità. Un’Italia che dice no, che non sa né vuole omologarsi, che sta sempre e comunque dalla parte del torto. Dove c’è ancora tanto posto...


Come a Piazza Vittorio, quartiere Equilino, Roma. Dove c’è il più alto concentrato di immigrati della capitale. E dove l’ex Avion Travel Mario Tronco nell’estate del 2002 ha messo assieme la band più multietnica che ci sia: musicisti provenienti da India, Cuba, Senegal, Tunisia, Ungheria, Brasile, Argentina, Ecuador, ma anche dagli Stati Uniti e ovviamente dall’Italia. Dopo il primo disco (ventimila copie vendute, in Italia e all’estero) e dopo i tanti concerti, ora arriva il secondo capitolo discografico della loro storia. «Sona» è stato registrato in due mesi e mezzo nei locali per l'occasione trasformati in grande studio dell'Apollo 11, l'associazione che sin dal principio sostiene e produce il progetto.
«”Sona” è il titolo di una canzone del disco - spiega Tronco - ma anche una parola che nella lingua indiana del Rhajastan significa ”bello” e in romanesco (ma anche in tanti altri dialetti italiani - ndr) ”suona”. Ci piaceva molto e poi ”Sona” è un disco ricco di suoni. Una volta scelto il titolo del disco abbiamo anche scoperto che ”Sona” è un linguaggio virtuale, un ”linguaggio ausiliario internazionale” pensato nel 1935 perché l’Esperanto era troppo eurocentrico. Non lo sapevamo, però niente male...».
Nove brani ricchi di colori e sapori, vivi e vitali, che coniugano antichi strumenti a corda e percussioni elettroniche. E che potrebbero rappresentare la colonna sonora dell’Italia del futuro, affascinante e multietnica proprio come la piazza da cui l’orchestra ha preso il nome.
E siamo a Claudio Lolli. Erano otto anni che non pubblicava dischi di canzoni inedite. E trentaquattro anni dopo il fulminante esordio di «Aspettando Godot» (’72), il professore di italiano e latino in un liceo di Bologna, classe 1950, dimostra di essere ancora uno dei più stimolanti e attenti protagonisti della canzone intelligente di casa nostra. A costo di risultare tedioso per gli ascoltatori di bocca buona.
Lo fa con quello che un tempo si sarebbe chiamato «un album concept», a tema, che riflette sul destino di certe «scoperte» destinate a influire sulle nostre vite, ma in definitiva anche sul nostro presente, sul nostro paese, su quello che eravamo e su quel che siamo diventati.
«(Il grande poeta russo) Majakovskij e la scoperta dell’America», ma anche «Bisogno orizzontale», «Il secondo sogno», «Le rose di Pantani»... Squarci di quodidianità che fendono il cielo, sollecitazioni alle nostre storie private e collettive, che finiscono quasi in un reading nel «Medley con rumori rosa».


S’intitola «Habemus Capa» (Emi Virgin), il nuovo album di Caparezza. Alle prese con il problema di che fare della sua carriera dopo il successone di «Fuori dal tunnel», il rapper di Molfetta (vero nome: Michele Salvemini, classe ’73) se la cava alla grande, con gusto e autoironia, sfornando il primo «disco postumo di un cantante ancora in vita». Ecco allora l’annuncio della propria morte («Mors mea tacci tua»...), ecco la marcia funebre e tutta una serie di reincarnazioni, fino al ritorno in se stesso quasi episcopale che dà il titolo al disco (nel quale l’assenza dell’accusativo può essere considerato una licenza poetica...).
Si è dovuto infilare in quella gabbia di «morti di fama» (e di matti...) che è «Music Farm», il reality del martedì su Raidue, perchè il grande pubblico si accorgesse nuovamente di lui. Ma Alberto Fortis (nato a Domodossola, classe ’55) dimostra di non poter prescindere dai successi dei primi anni Ottanta e infatti li ripropone in questo «In viaggio» (Universal): da «Settembre» a «Il duomo di notte», da «La sedia di lillà» a «La nena del Salvador»... Oltre ad alcuni inediti, ci sono anche quattro cover: «Emozioni» di Battisti, «Con tutto l’amore che posso» di Baglioni, «Forever young» di Dylan e «You got it» di Roy Orbison.
A quasi due mesi dal Festival di Sanremo, sono pochi i dischi che hanno funzionato anche nelle classifiche di vendita. Fra questi, sicuramente quello astutamente messo assieme dal vincitore Povia. Sotto il titolo «I bambini fanno ”ooh”... la storia continua» (Target), il cantante che ha fatto delle filastrocche il suo marchio di fabbrica ripropone le canzoni del primo disco, «Evviva i pazzi», uscito lo scorso anno, con l’aggiunta di otto canzoni nuove, fra cui ovviamente quella «Vorrei avere il becco» con cui ha vinto il Festival, ma anche la versione spagnola del successo dell’anno scorso, «Cuando los niños hacen ”ooh”». Testi semplici, a tratti surreali, spesso naif, ma che entrano in testa.



PLACEBO Meds - Arrivato al quinto disco, il trio londinese di Brian Molko sembra finalmente in grado di risollevarsi dopo un paio di prove discografiche incolori. Si è già parlato di un ritorno alle origini, per la band che alcuni avevano definito come la versione glam dei Nirvana. È un fatto che il rock asciutto, secco, a tratti metallico, dominato quasi sempre dalle chitarre, è un ottimo tappeto sonoro per le storie di sesso e droga cantate con piglio e tensione dal leader. Non mancano momenti di godibile melodia, come nella ballatona notturna «Follow the cops back home». Mentre frammenti come «Infra-Red» e «Drag» riportano alla memoria i Placebo grintosi e arrabbiati degli esordi. Il 29 giugno suonano ad Azzano Decimo.


PINK I'm not dead - Per anni è stata quella delle chiome fucsia, delle boccacce e degli eccessi di tutti i tipi. Ora Alecia Moore, ventisettenne di Philadelphia che ha scelto di chiamarsi Pink perchè da piccola arrossiva sempre, si trasforma da diva trash a militante pacifista. «Mi sono tolta i paraocchi - dice - ho paura di un mondo dove la gente si uccide, ha fame, è malata...». L’album, ricco di energia, affronta temi in qualche modo impegnati. Dalla vacuità dello show business («Stupid girls», con tanto di video-parodia) alla masturbazione («Fingers»), fino a una sorta di lettera aperta a Bush («Dear Mr. President») e al bonus track «I’ve seen the rain» (un parallelo fra il Vietnam e le guerre di oggi, attraverso gli occhi del padre della cantante).


 


 

sabato 22 aprile 2006

«Alida Valli è morta di inedia. L’ho sentita l’ultima volta proprio tre giorni fa. Mi ha chiamato lei, per ringraziarmi del mazzo di lillà che le avevo mandato per Pasqua. L’ho sentita un po’ più giù del solito. Mi ha detto di essere molto stanca. Le ho chiesto se potevo fare qualcosa per lei. Mi ha ringraziato ma ha lasciato scivolar via le mie parole...».
La giornalista e scrittrice Anna Maria Mori, al telefono da Bari, ricorda così il suo ultimo colloquio con Alida Valli. «Non la vedevo da tanto tempo. Lei viveva da sola, in un appartamento in via dei Banchi Nuovi, a due passi da Campo de Fiori. Non vedeva e non voleva più vedere nessuno. L’ultima piccola tragedia l’aveva vissuta di recente, con il trasferimento in un’altra zona di Roma della portinaia del suo stabile: una signora a cui si era in qualche modo affezionata, che l’accudiva, le sbrigava le piccole faccende...».
«Quest’inverno - ricorda ancora Anna Maria Mori, nata a Pola proprio come l’attrice -, quand’è uscito il mio libro ”Nata in Istria”, gliene ho mandato una copia. Anche quella volta mi telefonò per ringraziarmi. Ricordo che mi chiese se era possibile farle avere una seconda copia del libro: voleva inviarla al figlio, che vive negli Stati Uniti...».
Per l’autunno di quest’anno, la giornalista e scrittrice aveva già da tempo in programma di organizzare a Trieste - con l’appoggio dell’assessorato alla Cultura della Regione Friuli Venezia Giulia e dell’Unione degli Istriani - la prima retrospettiva mondiale dedicata all’attrice, da far poi girare in altre città. «Ci lavoro da tre anni. L’idea è di proiettare dieci film ma anche di fare un convegno, un catalogo e un dvd che racconti la sua vita, la sua carriera. Un progetto al servizio della bellezza, del talento. Speravo di poter registrare almeno la sua voce, per commentare le immagini più importanti della sua carriera: purtroppo non ci sono riuscita...».
Un altro piccolo ricordo, un altro segno premonitore. «Una settimana fa - conclude Anna Maria Mori - avevo mandato una mail al sindaco Veltroni, parlandogli del mio progetto della retrospettiva. Gli avevo scritto di questa donna ormai sola e anziana: ricordiamoci di lei finchè è viva, gli avevo scritto...».

giovedì 20 aprile 2006

Verrà presentato stasera, al Festival di Torino, il film «Le Sable» (la sabbia). Si tratta del debutto nella regia del triestino Mario Feroce, artista che da oltre vent’anni vive a Parigi, e che ha alle spalle un passato di musicista (aveva debuttato come suonatore di fagotto, con tanto di diploma al Conservatorio Tartini) e di direttore d’orchestra.
L’idea del film è nata quando sulle rive della Senna è stata portata la sabbia, per creare la prima spiaggia parigina. «Il simbolismo della sabbia - spiega Feroce - è talmente immenso che non è possibile restarvi indifferenti. La sabbia che arriva a Parigi, poi, quasi come una leggenda o un miraggio nel deserto...».
«Avevo appena terminato il mio primo cortometraggio digitale e mi ero innamorato di questo nuovo modo di girare: rapido, profondo, con una vicinanza entusiasmante agli attori. Per me è il seguito naturale del neorealismo italiano e della "nouvelle vague" francese. In più questo mezzo mi permette d'essere più vicino a quello che è il mio stile: mescolanza d'immagini poetiche ad altre più crude, più quotidiane».
Nel film Feroce racconta la storia d'amore tra due ragazze. «Mi interessava scoprire il loro turbamento, i loro sguardi, le loro sensazioni. Quello che mi ha sempre interessato, a parte la capacità di commuoversi della gente, è il caso. Il caso per il quale le persone s'incontrano oppure no, il caso per il quale ci si trova in quel punto a quel momento...».
«Ho sempre dato più importanza alle storie di donne. Mi ricordo che anche durante la regia della ”Passione secondo Giovanni” dicevo sempre: quel che m'interessa non è tanto la passione di Gesù, che è programmata, ma quella di sua madre, che vive il martirio di vedere suo figlio partire prima di lei...».
«La più bella ricompensa è stata di vedere che il film non turba. Tutti lo vedono solo come una storia d'amore. E questo era il mio messaggio: rispettare l'amore che in qualsiasi forma si presenti è molto più degno e rispettabile che tutto l'odio che riceve da quelli che non lo condividono».
Mario Feroce, classe 1955, ha lasciato Trieste nel 1982. Con il fagotto - inteso come strumento - sotto il braccio. A Parigi studia prima con Michel Denize e poi con Maurice Allard, considerati fra i migliori specialisti dello strumento d’oltralpe. Per mantenersi, all’inizio ha fatto mille lavori, non disdegnando nemmeno di suonare il suo fagotto nelle fermate della metropolitana («I francesi, abituati a vedere là sotto soprattutto chitarristi, erano piuttosto incuriositi nell’incontrare un suonatore di fagotto...»).
Spinto da Denize, Feroce studia direzione d’orchestra, tornando per brevi periodi anche in Italia, a seguire i corsi di Franco Ferrara e Carlo Maria Giulini. Ed è con la bacchetta in mano che raggiunge il successo, soprattutto con la «Passione secondo Giovanni» di Bach, poi diventata anche un film,<USnuogra> diretta da Jean-Claude Malgoire e messa in scena come un'opera sacra.
Dopo il cortometraggio «Mal di fede (Crise de foi...e!)», e dopo il libretto e la regia dell'opera di Olivier dos Santos «La chiave del Paradiso», Mario Feroce ha ora licenziato «Le Sable». Che esce in dvd il 17 maggio, per il momento solo in Francia, Svizzera e Belgio.

martedì 11 aprile 2006

Hai voglia a dire, hai voglia di far finta di festeggiare. Le elezioni
non le abbiamo vinte. Se avessimo un pizzico, solo un pizzico del
senso della decenza e delle istituzioni che pure da piccoli ci avevano
insegnato ad avere, ammetteremmo l'ovvio: ci siamo mangiati otto punti
di vantaggio, per una fase finale della campagna elettorale confusa e
disastrosa sul tema del fisco. Oggi siamo nettamente sotto al Senato
(solo la tanto vituperata legge elettorale ci salva) e alla Camera si
vince per un niente. Il minimo che Piero Fassino dovrebbe dire, questo
segretario che ha portato i Ds ad un risultato umiliante, è: "Scusate,
mi dimetto". E il curato di campagna, bollito come non mai, Romano
Prodi dovrebbe aggiungere: "Sono vecchio e stanco, all'età mia si va
in pensione. Adesso ci vado". Massimo D'Alema, quello che a metà
pomeriggio di ieri annunciava una "vittoria schiacciante" dovrebbe
ammettere: "Non ne azzecco mai una". Alfonso Pecoraro Scanio, che ha
superato il quorum alla Camera di un 0,05, dovrebbe annunciare l'addio
alla politica. No. Questi qui dicono che hanno vinto. Non si rendono
conto di far passeggiare l'Italia sull'orlo di un baratro se non
ammettono quel che è realmente accaduto. Cioè che governeremo, se va
bene, grazie al voto di Giulio Andreotti, Emilio Colombo e Rita Levi
Montalcini. Non c'è stato neanche un passaggio di autocritica nella
lunghissima nottata elettorale. Neanche uno. Allora ve lo dico io,
semplice elettore ulivista: cari dirigenti, gestite al meglio il
passaggio che porta a nuove elezioni, tanto lì si va a finire. E se
osate ripresentarvi a quella tornata elettorale, vi prendiamo a
selciate, incapaci che non siete altro. Siete come l'Inter. Prodi è il
nostro Moratti, D'Alema il nostro Adriano. E pure se per noi tifa
tutta la bella gente (Paolo Mieli e Luca Cordero di Montezemolo, pure
loro abbiamo inguaiato), lo scudetto con voi non sarà mai nostro.
Il partito democratico, sì, subito. A una condizione. Non lo possono
fare loro. Non ci riproponete il parroco settantenne che voleva
festeggiare alle sei di pomeriggio. Non il marinaretto che vedeva
vittorie schiaccianti. Non il segretario del Partito comunista
torinese di trent'anni fa. Neanche il vecchio Signor Hood (e chi vuole
capire, capisca, riascoltando un De Gregori di trent'anni fa). E non
può decidere tutto un Ingegnere un po' decrepito che se na va sempre
in giro in barca ed è invidioso del Cavaliere. Il partito democratico
lo facciamo, ma lo facciamo noi: a questo punto la questione
generazionale diventa questione politica. Perché tra le ragioni di
questa finta vittoria numerica e vera sconfitta politica, dati i punti
di partenza, c'è anche di non aver suscitato un'idea nuova che è una.
E questo è un problema o no? Nel 2007 si finirà per rivotare e se non
ci inventiamo subito qualcosa le destre ci asfaltano e non ci
rialziamo più.


Mario Adinolfi

lunedì 10 aprile 2006

Ventuno anni dopo, il Festivalbar ritorna a Trieste. Manca ancora l’annuncio ufficiale, ma ormai sembra fatta: il 15 e 16 giugno il carrozzone più longevo della musica leggera italiana alzerà le tende in piazza dell’Unità. Quella stessa piazza toccata dalla manifestazione di Vittorio Salvetti (poi sostituito alla sua morte dal figlio Andrea) nell’estate del 1985.
Quell’anno vinsero i Righeira, con «L’estate sta finendo». E quella tappa triestina fu ricordata per anni per l’indecoroso lancio di uova subito da un’infuriata Loredana Bertè...
Nonostante quel brutto episodio, Salvetti senior cullò per anni il desiderio di tornare a Trieste, città a cui era molto affezionato. Nel ’95 c’era andato vicinissimo, ma poi non se ne fece nulla. Nel ’96 ripiegò sulla splendida Arena di Pola. E comunque in tutti questi anni la rassegna ha fatto spesso tappa in regione, a Villa Manin di Passariano e all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro.
Ora Andrea Salvetti, che ha preso in mano - e rilanciato - il Festivalbar alla morte del padre, realizza il desiderio del grande patron. Che non dimenticava mai quell’edizione del ’69, vinta da Lucio Battisti con «Acqua azzurra acqua chiara», e quel filmato (allora i videoclip non esistevano...) girato a Trieste al bagno di Grignano...
Fra pochi giorni, oltre alla conferma della tappa triestina (due serate in piazza, dalle quali dovrebbero venir realizzate tre serate televisive), si avranno anche i dettagli dell’edizione di quest’anno. Con il calendario, i presentatori, il cast italiano e internazionale di questo Festivalbar 2006. Che, per quanto ci riguarda, promette già di diventare l’evento dell’estate musicale triestina. Un po’ alla maniera dell’«Isle of Mtv» - seppur su un versante più commerciale - dell’anno scorso.
È ormai sicura invece la tappa triestina del tour di Fiorello: il suo spettacolo «Volevo fare il ballerino» sarà allo Stadio Rocco il 13 giugno. Aprendo di fatto l’estate triestina degli spettacoli. Che avrà una sorta di anteprima il 16 maggio al Rossetti, con il concerto di Michele Zarrillo, il cui tour teatrale parte il 24 aprile.
Alcune anticipazioni anche su Udine. Oltre al già annunciato concerto di Ligabue (23 maggio allo Stadio Friuli), da segnalare i Madredeus il 14 luglio, Carlos Santana il 18 luglio e Franco Battiato il 25 luglio. A Lignano Sabbiadoro, a metà luglio, dovrebbe arrivare l’idolo delle giovanissime Lee Ryan (già con i Blue). Sempre a Lignano, il 14 agosto sono attesi invece i Bauhaus.
Altre segnalazioni a livello nazionale. Bruce Springsteen sarà il 12 maggio al Forum di Assago, a Milano, pochi giorni dopo la pubblicazione del nuovo «We shall overcome: The Seeger Sessions». Due concerti per gli Eagles: 27 maggio a Roma, 29 all’Arena di Verona. Sempre all’Arena, il 3 giugno, suona Mark Knopfler (con Emmylou Harris).
Cinque date per Roger Waters: 4 e 5 giugno all’Arena di Verona, 6 a Palermo, 16 a Roma, 12 luglio a Lucca. Eric Clapton suona il 7 luglio a Lucca, l’8 a Perugia (a Umbria Jazz), il 10 all’Arena di Verona. Il 22 giugno appuntamento con i Rolling Stones - reduci dal mezzo flop cinese - a Milano, allo stadio di San Siro. Due concerti per Sting: 23 giugno a Milano, 25 a Napoli. Uno per Al Jarreau: 29 giugno a Verona.
Tre invece i concerti per Tracy Chapman: 7 luglio a Roma, 10 a Taormina, 13 a Lucca. Il 15 luglio unica tappa italiana, a Torino, per i newyorkesi Strokes. Al Pistoia Blues Festival saranno di scena fra gli altri Robert Plant (14 luglio), Bob Dylan (15 luglio) e Ben Harper (16 luglio); per tutti e tre, sono previste altre date nel corso del mese.
Il 22 luglio arriva a San Siro, a Milano (biglietti già esauriti), il tour mondiale di Robbie Williams cominciato ieri sera a Durban, in Sud Africa, davanti a oltre cinquantamila persone.
Il 6 agosto unico concerto italiano, a Roma, per Madonna (a cinque anni dallo show di Milano e dopo sedici anni di assenza nella capitale), il cui tour mondiale, intitolato «Confessions», parte il 21 maggio da Los Angeles.
Per Madonna, intanto, c’è già uno scandalo in vista. Un sito rivela infatti che la regina del pop sta progettando di cantare «Live to tell» su una croce come Gesù. Il numero è infatti previsto all'inizio di una sezione dello show ispirata al Medio Oriente.

domenica 9 aprile 2006

Accade a volte a certi artisti di crescere, di volersi affrancare da certi esordi in chiaroscuro, e di essere invece costretti proprio dal pubblico a mantenere ben saldo il legame con il passato. Insomma: una sana voglia di cambiare, quella nuova inquietudine rock, e tante ragazzine lì davanti che ti pretendono uguale a com’eri ieri.
È il caso di Nek, visto ieri sera al PalaTrieste (millecinquecento persone, netta prevalenza femminile), in un concerto proteso verso lidi rock nelle intenzioni del trentaquattrenne cantante di Sassuolo, ma «zavorrato» dalle aspettative di un pubblico formato soprattutto da giovanissimi, che reclamano atmosfere e tematiche pop.
Ventuno e venti, il grande sipario nero cade e lascia in primo piano un set da concerto rock. Palco sobrio, lineare, privo di fronzoli, con un efficace «light show» a disegnare temi e atmosfere. Si parte da «Lascia che io sia», l’ultimo hit del nostro, che si presenta in giacca blu, t-shirt bianca e jeans d’ordinanza. E miete vittime nelle prime file.
Si prosegue con «Se io non avessi te» (dall’album «In due», del’98) e «Dimmi cos’è» (da «Lei, gli amici e tutto il resto», del ’96, l’album che ne ha fatto una star da esportazione...), e l’impressione è quella di uno show dal suono corposo, con le chitarre a dettar legge e gli arrangiamenti virati in rock. Fra un riff e l’altro emerge la vecchia passionaccia per i Police e soprattutto per Sting, primo idolo di Nek quando suonava ancora il basso e non era una popstar.
A proposito di basso. Passa un’oretta di concerto e il bassista Emiliano Fantuzzi si sente male, abbandona la scena e viene soccorso dai sanitari nel retropalco. In alcuni brani lo sostituisce uno dei chitarristi, in altri si va avanti senza il basso. «Non ci era mai successo...», si giustifica Nek, che comunque raddoppia gli sforzi e va avanti alla grande sino al termine.
Pian piano, i classici di ieri e di oggi del suo repertorio arrivano tutti: da «Sei solo tu» a «Tutto di te», da «Se una regola c’è» a «Parliamo al singolare», e ancora «Ci sei tu», «Con un ma e con un se», «L’inquietudine» (con un bel fondale di stelle), «Notte bastarda», «Sul treno»... C’è anche un set acustico, con alcuni momenti più romantici come «Abbracciami» e «In treno», prima di tornare alla festa in stile «sù le mani, Trieste...!»: sotto con «Vita è», «Contromano» (con il bel video proiettato sul fondale), «Una parte di me», «Sei grande», ovviamente «Laura non c’è»...
E non manca nemmeno «In te», terzo posto fra i giovani al Sanremo ’93, quella ballatona strappalacrime e antiabortista delle «mani cucciole» e della «carpa che risalirà il fiume»: col papà buono disposto a tutto per il bimbo che deve nascere e la mamma cattiva («non sa che tu vuoi buttarlo via...»). Chissà, forse verrà un giorno in cui Nek sarà cresciuto definitivamente e magari questo suo brano d’esordio non lo proporrà più. Ragazzine delle prime file permettendo.
Sì, perchè la presenza fra il pubblico di mini-fan in età da elementari, vicino alle giovanissime di cui si diceva all’inizio, è quel che resta maggiormente impresso a fine serata. Lo avevamo notato anche due anni fa, di questi tempi, dopo il concerto al Politeama Rossetti. I cantanti amati dai giovanissimi sono sempre esistiti, ma una volta, non troppo tempo fa, la stagione del primo concerto arrivava verso i 14-15 anni. Ora, complici le boy band e gli artisti adolescenti che Inghilterra e Stati Uniti sfornano a ritmo continuo, fiorisce molto prima.
Nek, come si diceva, sembra aver superato da un pezzo quella stagione. Ormai viaggia spedito, ispirato dalla sua vecchia passionaccia rock, verso la sua maturità artistica, che lo fa apprezzare in Italia e all’estero. Ma il suo pubblico è per buona parte ancora quello di ieri. Vedremo se lo seguirà nella sua crescita. Intanto si gode un successo dietro l’altro. Come ieri sera al PalaTrieste.

giovedì 6 aprile 2006

«È un concerto diviso fra due anime: quella pop e quella rock, con una parte acustica che forse sorprenderà qualcuno. Molti pensano ancora a me come a un cantante tipo Sanremo, o per ragazzine, ma è un’idea che finalmente sta cominciando a cambiare. Soprattutto fra quelli che mi hanno visto dal vivo...».


Parola di Nek, il cui tour fa tappa domani sera alle 21 al PalaTrieste. Il successo dell'ultimo album «Una parte di me», con i singoli «Contromano» e soprattutto «Lascia che io sia», è infatti solo l’ultimo tassello - per ora - di una storia che arriva da lontano.
Un po’ di biografia. Nato a Sassuolo nel ’72, Filippo Neviani - questo il suo vero nome - ha cominciato la sua carriera arrivando secondo a Castrocaro nel ’91. Il primo album è dell’anno dopo, nel ’93 è terzo fra i giovani a Sanremo con «In te», che poi è il titolo anche del suo secondo album. Da lì, è un crescendo verso il successo, sia in Italia che all’estero. Pur non toccando le vette di Ramazzotti e della Pausini, Nek è infatti da anni uno degli italiani più apprezzati fuori dai nostri confini.
Nel ’96 pubblica l’album «Lei, gli amici e tutto il resto» (sei dischi di platino per le 600 mila copie vendute), nel ’97 torna a Sanremo con «Laura non c’è» (uno dei suoi cavalli di battaglia) e poi comincia la sua grande avventura all’estero: Spagna, Portogallo, Finlandia, Belgio, Svizzera, Austria, Svezia, Francia e Germania... E poi in America Latina: Perù, Colombia, Brasile, Argentina, Messico... Con l'album in versione spagnola che vende due milioni di copie.
«In due», uscito nel ’98, conferma il successo in Europa e America Latina, ma allarga il tiro anche al Giappone. Grazie anche al gradimento del singolo «Se io non avessi te». «La vita è» e «Le cose da difendere» escono rispettivamente nel 2000 e nel 2002, e non fanno altro che consolidare il ruolo dell’artista di Sassuolo nel panorama pop italiano e internazionale.
È tempo ormai di celebrarsi. Ci pensa, oltre ai tanti tour, la prima raccolta di successi: «Nek the best of... L'anno zero", pubblicato nel 2003. Siamo a oggi. L’anno scorso, di questi tempi, esce in due versioni, in lingua italiana e spagnola, «Una parte di me», il disco che Nek porta in questo tour che arriva domani sera a Trieste.
«Nello show - anticipa l’artista - cerco di dare più spazio al Nek musicista. Suono la chitarra in quasi tutti i brani, in alcuni torno persino al basso (suo primo strumento - ndr). Poi, dopo questo tour, farò un po’ di promozione negli Stati Uniti ma mi dedicherò soprattutto al nuovo album. Dovrebbe uscire prima di Natale...».

domenica 2 aprile 2006

Quella di Ligabue è l’Italia vista da un mediano. Un mediano che fa molti gol, ma che importa. Passano gli anni, le canzoni, i dischi e i tour. Ma l’immagine che resterà sempre attaccata addosso al rocker di Correggio è sempre quella della «vita da mediano». Quello sempre «a recuperar palloni», quello «nato senza i piedi buoni», quello costretto a «lavorare sui polmoni...». Versi del ’99, sempre attuali in questa brutta Italia del 2006.
«Sì, in quella metafora mi riconosco ancora - dice Luciano Ligabue - per me stava a significare che ci vuole umiltà, che c’è sempre tanto lavoro dietro a ogni risultato. Ed era anche un modo per giustificare davanti a me stesso il successo che avevo ottenuto. Un po’ come dire: guardate che il successo non mi è caduto addosso dal cielo, ho faticato per ottenerlo...».
E quando anni fa Prodi l’ha usata come sigla, cos’ha pensato?
«Ho pensato: se c'è uno che tutto sommato gode della mia fiducia, come Prodi, e decide di dichiararsi così, che lo faccia... Poi, nel tempo, ci faccia vedere che terrà fede a quelle parole».
Lei è in tour durante una campagna elettorale decisamente tosta...
«Direi una brutta campagna elettorale, come non ne ricordavo. E nel Paese tira anche una brutta aria. Comunque, se non altro, con me nessuno farà la polemica toccata a Nanni Moretti, sull’opportunità di uscire adesso con il suo film. Io racconto da un palco la vita come la vedo io: la ”vita da caimano” lascio che la raccontino gli altri».
A settembre un megaconcerto, a Campovolo, con quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse. Ora un tour diviso in quattro parti...
«Sì, prima i club, ora i palasport, poi gli stadi e in autunno i teatri. L’idea mi era venuta prima di Campovolo, ma risponde in effetti alla stessa logica. Il tour diviso in quattro sezioni è un modo di approfondire il discorso».
E anche di fare molti concerti...
"In effetti io amo molto suonare dal vivo, è la cosa che mi piace di più in questo lavoro. Ero rimasto fermo un sacco di tempo: basti pensare che in due anni e mezzo avevo fatto solo il concertone di Campovolo e, poche settimane prima, l’apparizione acustica al Live8».
Perchè questo bisogno di suonare tanto?
«Forse la volontà di mettermi sempre alla prova. Anche con questo tour strano, particolare, nel quale le canzoni sono le stesse, ma allestimenti, suoni e compagni di avventura cambiano. Col risultato di produrre una sana tensione, che mi tiene lontano dalla routine».
Un tour, quattro istantanee della stessa faccia?
«Forse quattro parti di me. Qualcuno ha detto che ogni artista, ogni persona che comunica, alla fine, fa sempre il proprio autoritratto. È un po’ come far vedere agli altri la propria anima, scattare una fotografia della propria anima e farla vedere a chi ti sta davanti».
Tornare nei club, quasi vent’anni dopo, che effetto le ha fatto?
«È vero, era il febbraio dell’87, quando feci il mio primo concerto, in un centro sociale di Correggio. E ho continuato a girare per club per più di tre anni, fino al successo del mio primo album, uscito nel ’90. Diciamo che è bello rivedere le facce della gente da vicino, non avere davanti una massa ma delle singole persone. Mi è piaciuto anche rivivere certe esperienze con i Clandestino, con cui l’intesa non si è mai interrotta...».
Strano: uno all’inizio sogna gli stadi, ma quando li raggiunge ama tornare nei club...
«C’è la possibilità di divertirsi in entrambe le situazioni, in tutti i diversi modi possibili. E oggi sono contento di poter scegliere, di potermi godere l’emozione di suonare in luoghi così diversi. Poi il successo è una cosa strana. Quando lo raggiungi ti accorgi che non è come te l’aspetti, l’equazione ”successo uguale felicità” non è vera...».
Dicono che il suo ultimo disco, «Nome e cognome», sia quello più personale, quello in cui si è messo a nudo...
«Dicono. Io penso che il mio modo di comunicare sia sempre diretto e personale. E penso che ciò sia un obbligo</CF> nei confronti di chi ci ascolta. Ognuno di noi è il risultato della vita, delle esperienze che ha avuto. Detto questo, è vero, molti mi hanno fatto notare che stavolta sono stato ancor più chiaro e diretto nel raccontarmi. Davvero, non so per quale motivo».
Anche a lei, come a Lou Reed e Wim Wenders, il rock ha salvato la vita?
«Non so se me l’ha salvata. Diciamo che le ha dato molto più senso, l’ha di certo migliorata, e non solo perchè faccio musica professionalmente. Mi piace pensare che è per quello che riesce a trasmettere, il rock a me, io alla gente attraverso il rock...».
Una volta ha detto: nelle persone c’è già tutto, il rock è un ottimo specchio. Ce la spiega?
«Volevo dire che nel rock, anzi, meglio: nelle canzoni c’è uno specchio che ti permette di guardarti dentro, di leggere qualcosa che hai dentro. Davanti allo specchio a volte ci fermiamo, altre volte no e tiriamo dritto. È quel che significa suonare qualcosa che hai dentro: ce l’hai lì, fa parte di te, è pronta per sbocciare, devi solo farla venir fuori».
E per farla venir fuori l’incipit, l’attacco è quasi sempre importante...
«Per me sì, molto. È importante entrare subito nel senso narrativo di una storia, di una canzone. Io scrivo tanto, molte cose le metto via e poi mi tornano fuori più avanti nel tempo. E allora accade qualche volte che alcune immagini mi tornano utili per partire nella maniera giusta, con l’entusiasmo giusto. Non a caso alcune mie canzoni, ”Certe notti” ma non solo, prendono il titolo proprio dalla prime parole del testo...».
Lei ha avuto successo a 30 anni, relativamente tardi...
«Sì, e ho sempre detto che è stata una grande fortuna, perchè se ce l’avessi fatta a vent’anni avrei perso la testa. Arrivarci più maturo, dopo aver fatto molti lavori e molte esperienze, mi ha permesso di partire con maggiore ironia e soprattutto autoironia, con il giusto distacco. La cosa peggiore è sempre prendersi troppo sul serio».
È vero che vuole fare un’opera rock?
«No, era una battuta in un’intervista che è stata amplificata facendoci il titolo. Diciamo che a volte con Domenico Procacci <CF31>(produttore dei due film di Ligabue - ndr)</CF> scherziamo sui progetti di là da venire. E considerato che io sono masochista, sempre pronto alle sfide più difficili, dopo aver scritto i libri e aver girato i film, viene sempre fuori questa storia dell’opera rock. È una battuta, o forse anche no, chissà...».
Più facile che arrivi il terzo film?
«Forse. Intanto ”Radiofreccia” è appena stato inserito fra i 14 film italiani scelti per l’archivio permanente del Moma di New York. La cosa mi ha fatto molto piacere, anche se mi sfugge cos’hanno capito gli americani di quel film, che è molto italiano...».
Sì, ma il terzo film...?
«Lo faccio solo se arriva un’idea forte, perchè io comunque faccio un altro lavoro, faccio musica. Però ho pensato che, dopo due film nei quali c’è dentro l’idea e anche la presenza della morte, mi piacerebbe raccontare una storia leggera, magari far ridere».
Magari con una commedia?
«Perchè no. È un genere molto italiano, che ci permette di raccontare come siamo fatti. Nel cinema italiano ci sono delle grandissime commedie».
È vero che lei si definisce «un credente non religioso»?
«È per dire che sento un bisogno spirituale, ma non sono religioso in senso classico, non sono cattolico, la mia spiritualità non è rappresentata dal bisogno di un dio. E guardo con preoccupazione a questo crescendo di attriti, a questo guardarsi di sbieco per colpa di diversi credi religiosi. Ogni integralismo è dannoso, è causa di conflitti...».
Visto che la terza parte del tour la porta a Udine (martedì 23 maggio allo Stadio Friuli), abbiamo speranze di rivederla a Trieste in autunno.
«Lo spero, anche se il calendario non è ancora definito. Per ora pensiamo a fare l’estate. Ma a Trieste tornerei davvero volentieri. Mi ricordo un concerto a San Giusto dal clima quasi magico. E poi quando siamo venuti a girare il video di ”Eri bellissima”: stavamo su una terrazza dalla quale si vedeva il mare, ricordo che c’era una luce davvero particolare, che ha regalato un tocco in più a quel video...».
Sa che anche Tornatore, che ha appena girato qui, ha parlato della «luce particolare» di Trieste?
«Beh, allora vuol dire che ho visto proprio giusto...».


L’appuntamento per il pubblico del Friuli Venezia Giulia è già fissato: Ligabue sarà infatti in concerto martedì 23 maggio allo Stadio Friuli di Udine. Le prevendite dei biglietti viaggiano già a buon ritmo, attraverso gli abituali canali.
Dopo una prima parte in sette club, cominciata il 7 febbraio all’Alcatraz di Milano, il «Nome e Cognome Tour/06» di Luciano Ligabue (organizzato e prodotto da Barley Arts e Friends & Partners) è ripartito domenica 26 marzo dal Mazdapalace di Genova e tocca sei palasport: dopo quello di Caserta, l’altra sera, sarà domani a Perugia, giovedì a Pesaro, l’8 aprile a Treviglio (Bergamo) e l’11 aprile a Torino. Dal 19 maggio, invece, Ligabue porterà lo show in tredici stadi. Il primo appuntamento è allo Stadio del Conero di Ancona, quella di Udine è la seconda tappa, seguono Milano, Firenze, Roma, Bologna, Padova (l’altra data triveneta, il 14 luglio), Salerno...
Il tour è caratterizzato da una particolarità: tre diverse tipologie di spettacoli, con tre diversi set animati da formazioni differenti. Nei club, infatti, Ligabue si è esibito con i ClanDestino (Max Cottafavi, Luciano Ghezzi, Gigi Cavalli Cocchi, Giovanni Marani), la sua storica band degli esordi, e il giovane chitarrista emiliano Niccolò Bossini; nei palasport sarà accompagnato da La Banda (Federico Poggipollini alla chitarra, Mel Previte alla chitarra, Robby Pellati alla batteria, Antonio Righetti al basso, Niccolò Bossini alla chitarra e Josè Fiorilli alle tastiere) e negli stadi si esibirà con entrambe le formazioni, ClanDestino e La Banda. È già prevista una ripresa autunnale, nei teatri.
Luciano Ligabue è nato nel 1960 a Correggio, Reggio Emilia. Il suo primo album è uscito nel 1990, intitolato «Ligabue». Seguono «Lambrusco coltelli rose & popcorn» (’91), «Sopravvissuti e sopravviventi» (’93), «A che ora è la fine del mondo» (’94), «Buon compleanno Elvis» (’95), «Su e giù da un palco» (’97, live), «Miss mondo» (’99), «Fuori come va?» (’02), «Giro d’Italia» (’03, live), «Nome e cognome» (’05). Ha girato come regista due film: «Radiofreccia» (’98) e «Da zero a dieci» (’02). È anche autore dei racconti «Fuori e dentro il borgo» (’97) e del romanzo «La neve se ne frega» (’04).
A Campovolo (Reggio Emilia), nel settembre scorso, per Ligabue c’erano 180 mila persone (162 mila paganti): record europeo di sempre, record mondiale per il 2005.