sabato 30 novembre 2013

CRISTICCHI, MAGAZZINO 18 DIVENTA DISCO e LIBRO

Un libro e adesso anche un disco. L’onda lunga del grande successo di “Magazzino 18”, lo spettacolo di Simone Cristicchi che ha debuttato al Politeama Rossetti un mese e mezzo fa e che ora sta girando per l’Italia, non accenna a finire e produce nuovi frutti. «Sì, l’album dovrebbe uscire a metà dicembre, a cura dello Stabile regionale - conferma il cantautore romano -, e comprenderà alcuni monologhi e tutte le canzoni dello spettacolo. Sarà corredato da un libretto fotografico e ovviamente dal testo dello spettacolo». «Dopo Trieste - prosegue Cristicchi - finora siamo stati a Tolmezzo, a Cuneo, a Torino. Le prossime date sono il 3 e 4 dicembre al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, già esaurito per entrambe le serate in prevendita». Ancora l’artista: «Siamo felici del fatto che dappertutto stiamo ricevendo un’ottima accoglienza. Al Rossetti, nonostante le note polemiche della vigilia, poteva essere una cosa scontata. In altre città molto meno». «Fra l’altro ci tengo a sottolineare, con il senno di poi, che il teatro a Trieste non era pieno solo di esuli e figli di esuli. C’era tanta gente comune. E le richieste di biglietti sono state tali che si sta pensando di fare una ripresa la prossima stagione...». Come detto, intanto lo spettacolo gira l’Italia. E se a Trieste le musiche erano suonate dal vivo dall’orchestra, nelle repliche Cristicchi utilizza le basi registrate proprio al Rossetti da Fulvio Zafret dell’Urban Recording Studio della Casa della Musica. Dove sono poi state completate le parti vocali, musicali e narrative, che ritroveremo nel disco. «A marzo al Teatro Verdi di Gorizia e poi nelle tappe in Istria - sottolinea l’artista - vorremmo però tornare all’orchestra che suona dal vivo. E il mio grande sogno è l’Arena di Pola, l’estate prossima...». Intanto, il 4 dicembre esce per Mondadori il libro “Magazzino 18”, per la collana Arcobaleno. La stessa nella quale sono già stati pubblicati gli altri due volumi firmati dall’artista romano: “Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti” e “Mio nonno è morto in guerra”. Il libro racconta le vicende dell’esodo così come Cristicchi le ha messe in scena. Voce narrante ancora quella dell’archivista Persichetti, spedito dal ministero da Roma al porto vecchio di Trieste per fare l’inventario degli oggetti e dei mobili abbandonati tanti anni fa dagli esuli nel Magazzino 18. Dove si imbatte dello “spirito delle masserizie” e scopre lui stesso - romanaccio un po’ ignorante ma sensibile e sveglio - le vicende del tormentato Novecento giuliano, dall’avvento del fascismo con le sue violenze ai campi di internamento italiani. Fino all’8 settembre e a tutto quel che accadde dopo: l’invasione jugoslava della città, le foibe, l’esodo, la vita nei campi profughi, la strage di Vergarolla, le vicende dei “rimasti” e di quelli che partirono, accolti in alcune stazioni italiane al grido di “fascisti, fascisti” (“e invece eravamo solo italiani...”). «Fra l’altro - conclude Simone Cristicchi, ormai triestino quasi d’adozione -, sull’onda di questo spettacolo stanno accadendo cose strane, inaspettate. Per esempio un recente incontro, a Padova, fra la sezione locale dell’Anpi e l’associazione degli esuli istriani e dalmati. I figli e i nipoti di quanti sessant’anni fa stavano su sponde contrapposte, insomma, cominciano finalmente a parlarsi. Mi sembra una cosa buona».

venerdì 29 novembre 2013

A GENNAIO NUOVO ALBUM SPRINGSTEEN, HIGH HOPES

S’intitola “High hopes”, è il nuovo album di Bruce Springsteen, uscirà il 14 gennaio. Quasi una sorpresa, per i fan del Boss, reduce dal secondo anno di trionfi del “Wrecking ball tour” (passato un anno e mezzo fa da Trieste e questa primavera da Padova). Registrato in vari studi, fra New Jersey, Los Angeles, Atlanta, Australia e New York, l’album è il diciottesimo in carriera per il sessantaquattrenne rocker di Freehold. Che ha voluto con sè, come insostituibile supporto musicale, la E Street Band al completo. In particolare c’è Tom Morello, che si è unito al gruppo nel marzo di quest’anno, durante le date australiane, in sostituzione di Steve “Little Steven” Van Zandt. Con Bruce il rapporto è subito decollato, se è vero com’è vero che ha definito lui e la sua chitarra «la mia musa, la mia fonte di ispirazione che ha portato questo progetto a un altro livello». Ancora il Boss, nelle note di copertina: «Stavo lavorando a un disco di brani inediti tra i migliori dell’ultimo decennio quando Tom Morello, che sostituiva Steve durante le date australiane del tour, ci suggerì di aggiungere “High hopes” alla scaletta dei concerti. Quel brano, scritto da Tim Scott McConnell della band losangelina Havalinas, l’avevo inciso negli anni ’90. Durante le prove del “live” abbiamo preparato il pezzo, poi con Tom alla chitarra abbiamo davvero spaccato. A metà tournée siamo andati a reinciderlo agli Studios 301 di Sydney insieme a “Just like fire would”, brano dei Saints, uno dei primi gruppi punk australiani, peraltro uno dei miei preferiti (andatevi ad ascoltare “I’m stranded”)...». Qualche titolo del disco: “Harry's place”, “American skin (41 shots)”, “Down in the hole”, “Heaven's wall”, “Frankie fell in love”, “This is your sword”, “Hunter of invisible game”, ovviamente “High hopes”, del quale esiste un video diretto da Thom Zimny. Una curiosità. Clarence Clemons e Danny Federici, scomparsi rispettivamente nel 2011 e nel 2008, sono presenti in quelli che Springsteen definisce «alcuni dei migliori brani inediti realizzati negli ultimi dieci anni e mai pubblicati». Info www.brucespringsteen.net

OGGI A TRIESTE PRESENTO AL SAN MARCO ALBUM "VIVO" DI REMO ANZOVINO, con l'artista

Oggi alle 19, a Trieste, al Caffè San Marco, appuntamento con Remo Anzovino (nella foto) che presenterà il suo ultimo cd, “Vivo”. Dialogherà con lui il giornalista e critico musicale del "Piccolo" Carlo Muscatello. Anzovino affiderà alle inconfondibili note del suo pianoforte il compito di trasferire tutta l’immediatezza delle sue melodie, capolavori di comunicazione e immaginazione, che hanno portato tutti i quattro suoi precedenti album - Dispari, Tabù, Igloo, Viaggiatore Immobile - alla prima posizione degli album più scaricati nella classifica jazz di iTunes. Da lunedì sarà disponibile nei negozi tradizionali e in digital download “Vivo”, nuovo progetto discografico del pianista e compositore, uno speciale cofanetto con il primo live della sua carriera registrato lo scorso aprile all’auditorium Parco della musica di Roma, e il dvd dello storico “Concerto della Memoria” sulla Diga del Vajont per celebrare il 50esimo anniversario di una delle più grandi tragedie della storia italiana. Ingresso libero.

domenica 24 novembre 2013

MILES KANE

Dalla centralissima Charing Cross alla più trendy Brick Lane, nell’East End londinese ormai assurto a nuovo centro della vita giovanile della capitale britannica, il suo sguardo furbetto occhieggia dalle vetrine dei (pochi) negozi di dischi e le sue canzoni sono presenza costante nella colonna sonora della megalopoli sul Tamigi. Il suo nome è Miles Kane, è nato nel 1986, arriva dalla stessa Liverpool (anche se è nato a Birkenhead) di quei Beatles dei quali copia - o cita, se preferite - le movenze, gli abiti, persino il taglio di capelli. Insomma, la “new thing” della musica inglese profuma tanto di passato. Il giovane Kane, dopo un paio di gruppi (Little Flame e Rascals) e un precedente album solista (“Colour of the trap”, uscito nel 2011), ha finalmente messo d’accordo con “Don’t forget who you are”. I suoi singoli impazzano dappertutto, e ormai non solo in Inghilterra. Sostiene Miles: «Ho scelto questo titolo (non dimenticare chi sei - ndr) per ricordare a me stesso chi sono come persona e per farlo ricordare agli altri. Credo sia importante tenere a mente quali sono le cose importante nella propria vita». Rock’n’roll godibilissimo, con un occhio agli anni eroici e i piedi ben piantati nel presente. I temi sono quelli di sempre: emozioni e sentimenti, la gioia e il dolore, l’amore che va e che viene. E la collaborazione nel disco con Paul Weller (che firma un brano) è più che una garanzia di qualità. Ancora l’artista: «Questo è il mio secondo album solista, ma mi sento come un debuttante. Ho ricominciato a scrivere dopo tanti concerti dal vivo. Fare un disco da cantautore sarebbe stato più semplice. Ho preferito, anche da solo, cercare un’altra strada...». Miles Kane è stato protagonista anche di una sorta di progetto parallelo con Alex Turner degli Arctic Monkeys, intitolato “The last shadow puppetts” e ben accolto da pubblico e critica. Una curiosità. Per non dimenticare le proprie origini, nella copertina del disco il musicista si è fatto fotografare, con madre e zia, accanto al banco di macelleria che la sua famiglia gestisce da trent’anni a Liverpool. «Lì ho guadagnato i miei primi soldi facendo il garzone, ed è mia madre che mi ha fatto ascoltare Beatles, David Bowie, Four Tops, tutti i grandi della Motown... A casa mia girava musica fantastica».

ENCICLOPEDIA POP ROCK

La musica, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, ha suggerito mode, capovolto comportamenti. È stata bandiera, grazie a molti brani, di lotte politiche, di battaglie civili, di poesie di protesta, di confessioni dolenti ma anche di esaltazione collettiva... Ce lo ricorda Carlo Verdone, attore regista ma anche appassionato di rock, nella prefazione del “Dizionario del pop-rock 2014”, di Enzo Gentile e Alberto Tonti (Zanichelli, pagg. 1896, euro 33), che verrà presentato domani alle 16.30, a Milano, a Palazzo Reale, in piazza Duomo, nell’ambito di “BookCity 2013”. All’incontro interverranno, oltre agli autori, i cantautori Eugenio Finardi, Dente e Marco Sbarbati. Per mole, completezza e precisione dei riferimenti, si tratta di un’opera enciclopedica: edizione rivista e ampliata rispetto a quella del ’99 pubblicata da Baldini&Castoldi. Un paio di numeri: 33mila album citati e commentati, di complessivi 2200 artisti. A coprire i quindici anni trascorsi è stato aggiunto un centinaio di nuove voci: fra queste il drappello di artisti francesi e brasiliani esclusi dalla precedente edizione. E sono aumentati gli italiani. Con un omaggio speciale, già in copertina, a quel Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti al quale il successo dell’album “Back Up” e del conseguente “Back Up Tour - Lorenzo negli stadi” ha conferito il titolo di star italiana dell’anno, con ben quattro suoi album insigniti delle cinque stelle, cioè il massimo dei voti. «Sfidando l'accusa di provincialismo - spiegano gli autori sempre nella presentazione -, abbiamo voluto dedicare la copertina a un artista che meglio rappresenta il vigore e la creatività della musica italiana contemporanea». Per il resto, opera non da leggere tutta in una volta ma piuttosto da consultare. Voce per voce, artista per artista, dal vinile all’mp3, quando se ne presenta l’occasione o la voglia. Magari cedendo al giochino del “chi c’è e chi non c’è”, o andando a confrontare i propri gusti personali con quelli esplicitati da Gentile e Tonti. Che, fra i dischi usciti negli ultimi dodici mesi, hanno nobilitato delle quattro stelle David Bowie, Deep Purple, Iggy Pop. Tre stelle per i grandi ritorni dei Black Sabbath e dei Depeche Mode. Fra gli italiani, quattro stelle a Baustelle ed Elio e le Storie Tese. Bocciatura per Renato Zero e Modà. Da questa edizione il dizionario - che esce anche in edizione digitale per Windows e Mac - avrà cadenza annuale.

venerdì 22 novembre 2013

VENDITTI 11-12 a Trieste, Rossetti

Antonello Venditti ritorna al futuro. E lo fa passando anche per Trieste, città nella quale hanno fatto tappa molti suoi tour da una quarantina d’anni a questa parte. Partiamo subito dal concerto. Appuntamento martedì 11 febbraio alle 21, al Politeama Rossetti. Terza data della tournè del cantautore romano, che comincerà il 3 febbraio a Bologna, al Teatro Europa Auditorium, farà tappa il 5 a Bergamo, e - dopo lo spettacolo triestino - toccherà il 15 febbraio Cesena, il 24 Milano al Teatro Arcimboldi, 28 Cremona, il 3 marzo Firenze, l’8 Roma (al Palalottomatica, nel giorno della Festa delle donne, ma anche nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno...), l’11 Napoli e il 15 Catania. Queste, almeno, le date annunciate ieri, in occasione della presentazione di “’70/’80... Ritorno al futuro”, questo nuovo progetto di “concerti-evento” nei quali l’artista ripercorrerà i suoi successi dei due decenni citati. «Ci sono momenti nella vita - dice Venditti, classe 1949 - in cui il presente diventa passato e il passato futuro. Sento che è venuto il tempo in cui la mia storia torna come speranza di non vissuto a riempire la nostra vita. Dico questo perché quaranta anni passati insieme per tutti potrebbero costituire la nostra storia, ma le canzoni che l’hanno rappresentata e che proporrò sono il nostro ritorno al futuro». Già, le canzoni. Alcune delle quali già passate direttamente alla storia della musica italiana. Classici come “Roma capoccia” e “Le cose della vita”, ”Le tue mani su di me” e “Marta”, “Sara” e “Compagno di scuola”. E ancora “Notte prima degli esami”, “Bomba o non bomba”, “Modena”, “Ci vorrebbe un amico”. Fino a “Giulio Cesare”, “Piero e Cinzia”, “In questo mondo di ladri”, “Ricordati di me”. Alcune di queste canzoni sono diventate titoli e colonne sonore di film. Stavano in album come “Theorius Campus” (debutto a quattro mani nel 1972 di Venditti e De Gregori, entrambi usciti dalla fucina del Folk Studio romano e “adottati” da quella fucina discografica che era la Rca...) e “L’orso bruno”, “Quando verrà Natale” e “Lilly”, “Ullalla” e “Sotto il segno dei pesci”, “Buona domenica” e “Sotto la pioggia”, “Cuore” e “Venditti e segreti”. «Mi piace ripartire dal passato - dice ancora Venditti, che ha appena pubblicato il disco dal vivo “Io, l’orchestra, le donne e l’amore” -, forse perché è lo stesso mondo ad andare indietro. In certi casi non è un male, perché si apprezza di più quel che di buono si è fatto e si prova a non ricadere in errori giganteschi. Porterò le mie canzoni nei più bei teatri italiani, rivisitando il repertorio di quel ventennio assieme a quattro musicisti: Alessandro Centofanti, Danilo Cherni, il jolly Alessandro Canini e Amedeo Bianchi. Mi auguro possa esserci anche Gato Barbieri, magari per una o due date...». Il concerto di Trieste è, per ora, l’unica tappa triveneta del tour. La prevendita dei biglietti comincia oggi alle 16 su www.ticketone.it

BATTIATO e ANTONY: concerto Verona diventa disco

È nelle radio da qualche giorno “Del suo veloce volo», singolo e “title track” del cd registrato dal vivo che documenta l’incontro tra Antony and the Johnsons e Franco Battiato l’estate scorsa all’Arena di Verona (un altro concerto si era tenuto a Firenze), che esce per Universal il 26 novembre. “Del suo veloce volo”, brano da cui è iniziata la collaborazione tra i due artisti (“Frankenstein” di Antony su “Fleurs 2” si era trasformata in “Del suo veloce volo”), viene proposto per la prima volta dal vivo, mettendo in mostra il meglio delle due vocalità. Due grandi sperimentatori del pop internazionale come il siciliano Battiato e lo statunitense Antony Hegarty - transgender dichiarato ed impegnato sul fronte dei diritti dei gay - degli Antony & The Johnsons hanno condiviso il palco l’estate scorsa, accompagnati dalla Filarmonica Arturo Toscanini. E ora quell’esperienza è diventata un album. Lo show, della durata di un paio d’ore, prevedeva le distinte esibizioni dei due artisti. La scintilla dell’intesa musicale tra i due artisti scoccò, ha raccontato quest’estate Battiato, «diversi anni fa quando ospitai a casa mia Antony, che era in Italia per presentare un suo disco. Ci eravamo conosciuti, tempo addietro, a un festival a Torino: lo avevo sentito cantare ed ero rimasto abbagliato dalla sua timbrica. Ha qualcosa che ti tocca in profondità, e non importa cosa sta dicendo, scatenerebbe questo effetto anche cantando l’elenco del telefono». Insomma, un “amore a primo ascolto”, contraccambiato anche da Hegarty, che ha confessato di essere stato «sedotto dalla voce di Battiato» ascoltando i suoi album: «Ma l'innamoramento vero è avvenuto quando l’ho sentito dal vivo, a Londra. Ci siamo conosciuti e trovai subito che fosse una persona di grande gentilezza». Nel disco i duetti: “You’re my sister”, la cover dei Rolling Stones “As tears go by”, il brano da cui è nata la collaborazione, “Frankenstein” di Antony che su “Fleurs 2” si era trasformata in “Del suo veloce volo”. Battiato canta con Alice “I treni di Tozeur” e “La realtà non esiste” del compianto Claudio Rocchi.

BATTIATO merc al Rossetti, Trieste, con DIWAN

Una cultura fiorita in Sicilia circa mille anni fa, quella arabo-siciliana, oggi completamente dimenticata. Ci pensa Franco Battiato a darle nuovo lustro con lo spettacolo “Diwan, l’essenza del reale”, realizzato un paio d’anni fa in occasione delle celebrazioni per il centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, e che mercoledì alle 21 arriva a Trieste, al Politeama Rossetti. Battiato, cosa significa Diwan? «Nella nostra accezione significa canzoniere, raccolta di componimenti poetici». Ci spieghi questo progetto. «L’unione di due linguaggi musicali apparentemente differenti». Come immagina la Sicilia dell’anno Mille? «Una Sicilia rinascimentale». Qual è stata la molla che ha fatto scattare il suo interesse? «Ho studiato i grandi mistici del sufismo». Quanta cultura araba c’è ancora nella Sicilia di oggi? Che influenza ha avuto su di noi? «Oggi credo che sia rimasto ben poco, ma è sempre ben conservato nel nostro patrimonio genetico». C’è un filo che lega il concerto dell’Apriti Sesamo Tour e questo spettacolo? «Solo alcune canzoni del mio repertorio». Ci spiega il progetto “Attraversando il bardo”, le riprese che sta realizzando in Nepal... «Mi è stato commissionato un documentario sulla morte, il 30 novembre parto per Katmandu per intervistare tre lama tibetani, ho già intervistato un ateo e un monaco». Il suo film su Händel? «Aspettiamo». Con Antony and the Johnsons com’è andata? Farete altre cose assieme? «Quièn sabe... (nella colonna a destra, tentiamo di sopperire all’estrema laconicità della risposta - ndr)». Ora che la sua “carriera politica” è alle spalle si sente meglio? «Sì». Se tornasse indietro direbbe di nuovo sì a Crocetta? «No». Grande artista, Battiato, anche quando risponde alle interviste. Memore dell’ammonimento del Vangelo («Il vostro parlare sia sì, si; no, no. Il di più viene dal maligno...»). E forse avviato sulle orme di John Cage, che rispose così a un intervistatore: «La sua è un’ottima domanda, mi consenta di non rovinarla con una risposta». Del resto stiamo parlando di uno che, un paio d’anni fa, rispose a Lilli Gruber a “Ottoemezzo”: «Non sono né di destra né di sinistra, sto in alto». L’anno scorso, di questi tempi, accettò a sorpresa di entrare nella giunta regionale siciliana. Finì che in una visita al parlamento europeo, a Bruxelles, a marzo, parlò di «queste troie che si trovano in parlamento, farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile, sarebbe meglio che aprissero un casino...». Polemiche, indignazione, richieste di dimissioni, revoca dell’incarico. Ma torniamo a noi. E allo spettacolo che arriva al Rossetti. Si diceva della cultura, della scuola poetica arabo-sicilaina che prese vita intorno all’anno Mille in Sicilia. In quasi tre secoli di attività lasciò tra i manoscritti dell’Andalusia e del Nord Africa tracce preziose di una produzione molto ricca e di un fertile intreccio di culture. L’artista siciliano, classe 1945, ha ripreso in mano un millennio dopo queste opere per riproporle in musica. Ne è venuto fuori un omaggio a una cultura dimenticata e a una lingua lontana ma che fa parte della nostra storia e delle nostre radici culturali. Con lui, sul palco, i musicisti Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radiodervish, il tastierista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri della Pmce e Ramzi Aburedwan, fondatore degli Al Kamandjâti. Un ensemble multietnico, assieme al quale Battiato propone brani scritti per l’occasione e ripropone pezzi tradizionali nonchè nuove letture di suoi classici. Fra questi: “Haiku”, “L’ombra della luce”, “Aurora”, “Veni l’autunnu”, “Personalità empirica”, “Lode all’inviolato”...

giovedì 21 novembre 2013

QUERELLE TEDDY RENO / VEDOVA LUTTAZZI

Teddy Reno scrive a Rossana Luttazzi e lamenta: in occasione della mostra Lelioswing (già “rifiutata” da Trieste e da poco inaugurata a Roma, ai Mercati di Traiano) ti sei dimenticata di me, che pure ho avuto un ruolo determinante all’inizio della carriera del compianto Luttazzi. In quella mostra non vengo citato, c’è solo una mia foto. Non basta: anche nel cd nel quale hai coinvolto “gli amici più cari di Lelio” ti sei scordata di me, che suo amico fraterno sono sempre stato. E non basta ancora: hai scordato che un tuo collaboratore discografico (il friulano Alberto Zeppieri), auspicando una collaborazione fra noi, voleva organizzare spettacoli intitolati “Lelioswing con Teddy Reno”. Ultimo sgarbo: non mi hai nemmeno invitato all’inaugurazione. Insomma, roba grossa. A supporto della quale “el mulo Ferucio” (Teddy Merk Ricordi, in arte Teddy Reno, triestino, che a luglio ha compiuto la bella età di 87 anni) allega una lettera autografa di Luttazzi, datata “Trieste, 18 luglio 2009”, nella quale l’artista gli rinnovava sensi di ammirazione e amicizia. Concludendo con questo post scriptum: «Se vedaremo in Piaza Unità, e a casa mia (terzo pian e sei finestre sula piaza, son ’ssai contento). Ma Rossana, che da qualche settimana non vive più a Trieste, dove si era trasferita anni fa con Lelio che aveva scelto di tornare dov’era nato, a passar per smemorata e scortese non ci sta. E risponde piccata. A proposito della mostra: sei stato informato male, non è vero che c’è un’unica tua foto, ci sono molte più cose. E tante cose che scrivi («non tutte, solo le vere...») sono pubblicate nel libro/catalogo. Delle proposte di collaborazione con la Fondazione Luttazzi «non ne so nulla, non rispondo di lettere scritte da altri, rispondo solo di quelle scritte da me». Concludendo: l’invito all’inaugurazione ti è stato inviato, «anche al tuo telefonino svizzero». Finale conciliante: «Spero di vederti presto a visitare la mostra». Potremmo chiudere qui, archiviando la piccola querelle alla voce “incomprensioni fra anziano artista e vedova di altro artista”. Ma la lettura del lungo scritto di Teddy Reno alla signora Luttazzi apre interessanti squarci sulla storia, la collaborazione e l’amicizia fra due dei tre maggiori protagonisti della musica leggera italiana espressi dalla città di Trieste dal dopoguerra a oggi (il terzo, a nostro avviso, è Lorenzo “Pilade” Pilat, laddove ci sembra invece inopportuno inserire nella lista la monfalconese Elisa, solo perchè è nata al Burlo e sulla carta d’identità c’è scritto Trieste...). “El mulo Ferucio”, anzichè godere serenamente dei ricordi (e dei proventi) di una straordinaria carriera, tende spesso a lamentare mancanza di attenzione dalla città natale, dai colleghi artisti, forse dall’universo mondo. Ritiene probabilmente di aver subito dei torti, di non essere stato onorato abbastanza, ma ciò fa parte delle opinioni personali. La lettera a Rossana, dopo aver doverosamente ricordato il suo prossimo recital, intitolato “My way” (alla Sinatra, insomma...), si conclude cristianamente con la speranza di ri-lavorare con Luttazzi in paradiso. E con l’auspicio perfiduccio, rivolto alla signora, di passare «almeno una giornata di purgatorio, prima di raggiungerci in paradiso».

martedì 19 novembre 2013

TRIONFO DI PAOLO CONTE A LONDRA

Leggi di eccellenze italiane all’estero e pensi alla scienza, alla moda, al cibo. Poi una sera a Londra scopri che c’è Paolo Conte che suona alla Royal Festival Hall, nell’ambito del London Jazz Festival, vai e ti ritrovi in mezzo a tremila inglesi (vabbè, due o trecento italiani c’erano...) letteralmente in delirio per l’avvocato chansonnier astigiano. Presentato dal Guardian come un mix fra Tom Waits e George Brassens. E dall’Observer come “maestro di un’eleganza perduta”. Del resto, il suo successo all’estero non fa più notizia. A Parigi (dove ha tenuto due concerti dieci giorni fa) è di casa all’Olympia, miete consensi a New York e Berlino, a Montreal e Amsterdam, a Madrid e Atene. A Londra mancava da quattro anni, dal trionfale concerto al Barbican Theatre. Lui, settantasette anni a gennaio, si presenta con la tradizionale band: dieci musicisti-amici che lo seguono da anni, autentici mostri di bravura. Lascia a loro l’apertura. I tre chitarristi e il monumentale contrabbassista nero Jino Touche, francese delle Mauritius, cominciano a macinare ritmi. Si aggiungono gli altri. Due minuti sono sufficienti per riscaldare l’atmosfera. Arriva il maestro, total black, giusto un cenno di saluto (nel corso del concerto non dirà parola, solo i nomi dei musicisti...), attacca in piedi con “Quanta passione”. Ma stasera ha deciso di vincere facile: siede al pianoforte e arrivano subito “Sotto le stelle del jazz”, “Come dì”, “Alle prese con una una verde milonga”, “La negra”, una trasfigurata ma sempre rutilante “Bartali” coi suoi imperdibili “ta-tà-ra-tàt”. Un recital colto e cosmopolita che è frutto del genio, della creatività, della fantasia di un italiano che da ragazzo nella sua Asti sognava l’America. Che per tanti anni ha fatto l’avvocato masticando ogni sera jazz in jam session carbonare. Che all’inizio della carriera non osava cantare le sue canzoni e le affidava ad altri (“Azzurro” a Celentano, “Insieme a te non ci sto più” alla Caselli, “Tripoli 69” a Patty Pravo...). E che poi ha saputo farsi apprezzare in mezzo mondo con “quella faccia un po’ così”, quella voce roca e macerata intenta a scandagliare i segreti delle nostre vite, delle nostre solitudini, del nostro mal di vivere. E con uno show in bilico fra Cotton Club e vecchia Europa, New Orleans e Langhe, Duke Ellington e Guido Gozzano, afrori esotici e lampi di passione. Ma non divaghiamo. Per “Paso doble” Conte si sposta dal piano allo xilofono, sua giovanile passione. Tira fuori il kazoo, sua passione di sempre, e dimostra come anche le pernacchie sputacchiate in una trombetta, se fatte nel modo giusto, possano diventare arte. È arrivato il momento dell’artiglieria: “Gioco d’azzardo” (“si trattava di amore, e non sai quanto...”), “Dancing”, “Impermeabili”, una “Madeleine” punteggiata dal fagotto, l’irrinunciabile “Via con me”. Ovazioni a scena aperta. “Diavolo rosso” offre il destro a un’autentica gara di bravura fra i musicisti: il clarinetto dalle coloriture quasi yiddish, una fisarmonica che viaggia a mille, il violino che non ci sta a restare indietro. Da “Nelson”, album del 2010, estrae “Massaggiatrice”. Prima della standing ovation finale concludono il set “Max” e “L’orchestrina”. Uscendo, fra giostre e baracchette sulla riva del Tamigi, torna il ricordo sbiadito del suo primo concerto triestino. Sarà stato il marzo 1980. All’epoca per lui bastava un allora scalcagnato Ridotto del “Verdi”. Altri tempi.

mercoledì 13 novembre 2013

MARTA SUI TUBI ven a Trieste, teatro Miela

Dieci anni sulla scena off, fra gli alternativi “duri e puri”, poi un giorno vai a Sanremo e la tua storia cambia. È quanto successo al gruppo Marta sui Tubi, il cui tour arriva venerdì alle 21.30 a Trieste, per un concerto al Teatro Miela. «Questo per noi è stato davvero un anno speciale - conferma Giovanni Gulino, cantante nella band, classe 1971 -, per la partecipazione al Festival ma non solo per quello. L’album “Cinque, la luna e le spine” è andato molto bene. Il Concertone del Primo maggio e il tour, che non è ancora finito, anche meglio...». Ma come siete finiti a Sanremo? «Perchè a un certo punto ci siamo trovati davanti a un bivio. Dopo dieci anni di carriera, quello era l’unico modo per intercettare un pubblico diverso e più ampio. È inutile far finta: ogni artista vuol essere conosciuto da un pubblico più ampio possibile. Altrimenti non ti lamenti e resti nelle cantine. O sotto i portici di Bologna, dove suonavamo io e Carmelo Pipitone all’inizio». Racconti. «Entrambi originari di Marsala, come tanti meridionali eravamo a Bologna per studiare. La sera suonavamo in centro, sotto i portici, nei dintorni di piazza Maggiore. Chitarre e voci. Pezzi di Jeff Buckley, Radiohead, Piero Ciampi. A volte qualche canzone nostra». Poi, una sera... «Dopo che per mesi avevamo suonato gratis, o al massimo per una birra pagata nel pub più vicino, si avvicina un tipo che ci chiede se volevamo suonare nel suo locale. D’accordo, gli diciamo senza nemmeno pensarci su». E che succede? «Innanzitutto che il tipo ci chiede come ci chiamiamo. Ovviamente il duo non aveva un nome, eravamo semplicemente Giovanni e Carmelo. Che però per cominciare una carriera non ci sembrava il massimo. Dunque ci siamo inventati questo “Marta sui Tubi”: doveva essere un nome provvisorio, ma ci ha portato fortuna e lo abbiamo mantenuto, anche quando la band si è allargata ed è arrivato il primo contratto discografico. E poi tutto il resto». Torniamo a Sanremo 2013. «Sì, per noi è il paradigma di come dovrebbero andare le cose. Abbiamo mandato il “file” con due canzoni, seguendo le istruzioni lette sul sito. A Fazio sono piaciute, ci ha chiamato, siamo andati e stop». I vostri fan erano spiazzati? «Non credo. Nel bene e nel male Sanremo è la cosa più grossa che puoi fare in Italia nel campo della musica. Avevamo l’esigenza di allargare la nostra platea. Diffidiamo dagli artisti duri e puri. Proprio non volevamo “morire di nicchia”...». Le cose sono cambiate? «Assolutamente sì. In dieci anni di carriera, nonostante le collaborazioni importanti, anche con Lucio Dalla ed Enrico Ruggeri, praticamente non avevamo fatto tivù. E non passavamo nei grandi network radiofonici. Solo circuiti indipendenti e più o meno alternativi. Dopo il Festival il nostro pubblico si è allargato, il tour è andato e sta ancora andando molto bene». Insomma, vi state togliendo delle soddisfazioni. «Siamo convinti che alcune nostre canzoni, alcuni nostri dischi avrebbero meritato maggior fortuna. Avere un pubblico ristretto era un po’ il nostro cruccio. Siamo felici di averlo allargato senza tradire noi stessi. Per andare a Sanremo, infatti, non abbiamo proposto canzoni diverse dalle nostre solite». Come “Dispari”. «Sì, quella che non è passata. Peccato, perchè tenevamo molto a quella riflessione: il computer che ti mette in relazione col mondo, ma in fondo ti lascia solo. Si parlava di più quando la comunicazione non era virtuale...».

domenica 10 novembre 2013

BOB DYLAN ven 8 a padova

Tre concerti nello scorso fine settimana a Milano, al Teatro degli Arcimboldi. Poi due serate a Roma, all’Atlantico Live. E stasera alle 21, unica tappa nel Triveneto, al Gran Teatro Geox di Padova. Poi Bruxelles, Parigi, Lussemburgo, Glasgow, Londra... Della serie: Bob Dylan (settantadue anni il 24 maggio scorso) non molla un colpo. Il suo “Never ending tour” (nome coniato dal giornalista Adrian Deevoy in un’intervista al magazine “Q” del dicembre ’89) va avanti, con poche pause, giusto per tirare il fiato, dal 7 giugno 1988. È dunque un quarto di secolo, che Robert Allen Zimmerman - il suo nome alla nascita - gira il mondo, suona anche in città piccole, giocando a stravolgere i suoi classici fino a renderli a volte quasi irriconoscibili all’ascoltatore meno esperto. Potrebbe attendere il Premio Nobel - che prima o poi, speriamo, arriverà - godendo dei frutti di una carriera più unica che rara, mezzo secolo sempre ai vertici, una delle figure più importanti della cultura e della musica del Novecento. Potrebbe fare un disco ogni tanto, qualche concerto ogni tanto, invece sembra ancora mosso dall’urgenza di andare, fare, suonare e cantare. Come quando aveva vent’anni, nei localini del Greenwich Village. Nei concerti di Milano e Roma, con una band di cinque elementi (due chitarre, basso, batteria e chitarra “slide”), il menestrello di Duluth ha proposto al pubblico una scaletta molto simile a quella delle tappe precedenti del tour, che aveva già toccato l’Italia quest’estate. Una curiosità: in questi concerti l’artista si alterna tra microfono a centro palco e pianoforte, “snobbando” la chitarra. In scaletta, molto spazio agli ultimi dischi pubblicati, a cominciare dagli album “Tempest” - con le sue “I pay in blood” e “Dusquesne whistle” -, “Time out of mind” e l’inarrivabile “Modern times”. Dal passato più o meno remoto, oltre a “Desolation row” (stava in “Highway 61 revisited”) e “She belongs to me” (da “Bringing it all back home”), entrambe del ’65, arrivano anche perle come “Tangled up in blue” e “Simple twist of fate”. Info www.zedlive.com - www.dalessandroegalli.com

giovedì 7 novembre 2013

ALL FRONTIERS 2013

Un omaggio a Lou Reed che non c’è più. Un tributo a John Zorn che compie sessant’anni. Ma soprattutto il concerto della chitarrista milanese Alessandra Novaga, che incrocerà le musiche del primo e quelle del secondo. La performance dello statunitense Charlemagne Palestine. Quella del musicista elettronico finlandese Vladislav Delay. Un focus e una tavola rotonda sul musicista goriziano di nascita Fausto Romitelli. Tanto altro. Sotto la regia accorta e appassionata di Tullio Angelini ha ormai preso forma l’edizione 2013 di All frontiers, il cui viaggio sulle rotte della musica contemporanea internazionale si terrà dal 28 novembre al primo dicembre a Gradisca. «Le difficoltà soprattutto economiche sono sempre maggiori - sottolinea Angelini -, ma la nostra voglia di continuare il viaggio non è ancora sopita. Quest’anno non possiamo non ricordare il grande Lou Reed, e con lui Nico. Molti anni fa, nel 1987, quando organizzammo in regione il suo concerto, fu lei stessa a propormi di allestire un nuovo festival da chiamare All Frontiers, offrendosi come protagonista per la prima edizione. Poi non è riuscita a tornare, ma la sua intuizione è stata determinante per concepire un festival che attraversa gli spazi, le idee e i suoni in direzione non parallela al margine: in un modo obliquo che intrattiene un pubblico di appassionati, non promette alcuna riuscita ma stimola la deriva e promuove chi ha elementi da indagare». Ma torniamo al menù di quest’anno. Dopo un’anteprima giovedì 28 al Visionario di Udine, da venerdì 29 si torna nella “culla” di Gradisca con la performance di Charlemagne Palestine, compositore, artista e scultore statunitense. Un contaminatore per eccellenza, che sarà in scena con il chitarrista e trombettista Rhys Chatham. Sabato 30 giornata dedicata al compositore goriziano di nascita, anche se milanese per formazione e carriera, Fausto Romitelli. Alle 15 tavola rotonda nella sala consiliare del Comune di Gradisca, con la partecipazione di studiosi e musicologi come Alessandro Arbo, Enrico Girardi, Paolo Pachini, Marco Maria Tosolini, Stefano Lombardi Vallauri, Isabella Vasilotta e Silvia Vizzardelli. A seguire verranno eseguite musiche di “Trash Tv Trance” (Romitelli), “Foliage” (Elliot Sharp), “Erosive Raindrops” (Vittorio Zago). Sempre sabato 30 novembre e sempre a Gradisca, concerto del finlandese Vladislav Delay. Classe 1976, vero nome Sasu Ripatti, è un apprezzato musicista elettronico che nell’ultimo decennio ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano nella scena elettronica europea. “Vantaa” è il suo ultimo lavoro, nel quale ha confermato la ricetta che gli ha portato fortuna: una musica senza frontiere, che spazia dall’house alla techno, dal jazz all’improvvisazione più libera. Siamo a domenica primo dicembre, con la “festa di compleanno” organizzata per John Zorn, molto legato alle nostre terre per concerti, frequentazioni e la sua incisione-omaggio alla musica resiana di alcu ni anni fa. Protagonista della serata la chitarrista milanese Alessandra Novaga, che suonerà musiche di Zorn con alcune “sorprese” in memoria di Lou Reed. L’edizione di “All Frontiers” di quest’anno, in perfetta continuità con le passate edizioni, brillerà complessivamente della presenza di trenta musicisti, con due prime mondiali - segnala con orgoglio Angelini -, sette prime regionali, dieci concerti in esclusiva nazionale e ben otto Paesi rappresentati: oltre all’Italia, Austria, Francia, Ungheria, Inghilterra, Finlandia, Svezia e Argentina.

mercoledì 6 novembre 2013

SENZA PAURA, nuovo disco di GIORGIA

GIORGIA “SENZA PAURA” (Sony) È una delle migliori interpreti italiane. Finora non ha ottenuto quel che avrebbe meritato. Forse per colpa di un repertorio non sempre all’altezza. Ora Giorgia (Todrani, classe ’71) torna con un nuovo album, anticipato dal singolo “Quando una stella muore”. Lavoro di concezione e impianto internazionali, registrato negli storici Sunset Studios di Los Angeles, con musicisti del calibro di Gary Novak, Reggie Hamilton, Michael Landau, e duetti con Alicia Keys (“I will pray - Pregherò”) e con Olly Murs, nuovo idolo del soul pop. C’è anche un brano scritto da Ivano Fossati. E in questi casi, si sa, tutto aiuta... «Rispetto al precedente “Dietro le apparenze” - spiega la cantante romana, che ha scritto buona parte dei testi - volevamo fare un passo ulteriore, senza abbandonare le incursioni nell’elettronica dance ma sviluppando un discorso più ampio, con l’obiettivo di dare al disco un sound complessivo omogeneo». Missione riuscita, verrebbe da dire. Ora vedremo come reagirà il pubblico.

GLAMOUR, IL NUOVO DISCO DEI CANI

Difficile orientarsi, nel marasma della musica italiana. Sempre più divisa fra vecchie star che spesso vivono di rendita e nuovi progetti, personaggi, artisti, gruppi troppo spesso evanescenti. Da una botta e via, se va bene e se ci è concesso l’ardire. Fra quelli che si salvano (con Baustelle, Vasco Brondi, pochissimi altri), da un paio d’anni ci sono i Cani. Nell’estate 2001 incuriosirono e sorpresero le orecchie più attente e le intelligenze meno cloroformizzate con un esordio col botto: s’intitolava «Il sorprendente album d'esordio dei Cani». Fra “pariolini di diciott’anni” e “pranzi di Santo Stefano”, sullo sfondo di un “theme from the cameretta”, rigorosamente a “Roma nord”, scoprimmo che non si trattava di un gruppo ma di una sorta di “one man band”, costruita attorno all’eclettica figura dell’allora venticinquenne romano Niccolò Contessa. Che comunque dal vivo, due anni fa di questi tempi anche a Trieste, si faceva accompagnare da un gruppo vero e proprio. E nei primi tempi si presentava mascherato con un sacchetto di carta in testa, un po’ alla maniera dei Tre allegri ragazzi morti. Sono passati due anni, e quel che allora sembrava quasi impossibile («Questo disco è talmente particolare che è difficile immaginarsi altre trecento canzoni fatte così. Meglio, non mi interesserebbe neanche farle...», disse Contessi due anni fa proprio al nostro giornale), è diventato realtà. “Glamour” (42records) è il secondo album dei Cani. Dodici brani nuovi (compresa la ghost track finale, dal titolo “2033”) che intanto mettono a tacere alcune critiche all’album di esordio, cioè che i brani fossero un po’ tutti simili, quasi con un marchio di fabbrica. Ora, con la collaborazione in studio di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, Contessi riprende solo in parte le suggestioni del disco precedente e preferisce - saggiamente - guardare al futuro. “Corso Trieste”, “Storia di un artista” e “Non c’è niente di twee” fanno parte del gruppo, diciamo così, riconoscibile. “Roma Sud” e “Theme from Koh Samui” sono invece due brani strumentali: esperimenti sonori che aprono praterie alla creatività. “Storia di un impiegato”, che cita esplicitamente Fabrizio De Andrè, sta in mezzo. E affonda il pedale nell’autoironia: «Considerato che non sono un artista, e con le velleità non ci si vive, mi ritrovai con un lavoro vero, uno di quello proprio senza glamour». Fare un secondo album sulla falsariga del debutto, per i Cani, sarebbe stata cosa semplice e forse remunerativa. Qui invece c’è il coraggio di andare avanti, se necessario rischiare, azzardare in definitiva uno scenario almeno in parte nuovo. E di questo la musica italiana ha bisogno come l’aria.

MARCO MENGONI stasera anteprima al cinema, anche trieste e friuli

Con l’Essenziale Tour Marco Mengoni è stato uno dei protagonisti dell’estate trascorsa. Trenta tappe, una anche a Trieste, ovunque fan in delirio a consacrare questa nuova star della canzone italiana, partita da un “X Factor” di qualche anno fa. Ora il venticinquenne cantante laziale - vincitore del Sanremo 2013 proprio con il brano “L’essenziale”, che gli è valso anche un dignitoso settimo posto all’Eurofestival - ritorna con un evento in contemporanea nei cinema italiani (a Trieste a The Space delle Torri, a Udine al multiplex di Pradamano), che stasera riunirà molte migliaia di spettatori, lontani fisicamente ma uniti dalle nuove tecnologie nel tributo al loro idolo. L’anteprima del fil-concerto #prontoacorrereilviaggio racconta infatti una stagione di grandi successi, a partire dal concerto al Teatro Antico di Taormina lo scorso agosto. Uno scenario unico al mondo, a fare da fondale alle suggestioni disegnate dalla voce di Mengoni, che nel concerto propone i brani del nuovo album #prontoacorrere (registrato fra Milano e Los Angeles, 90mila copie vendute finora) e gli altri suoi successi. Gli spettatori potranno porre domande all’artista utilizzando l’hashtag #marcomengoniilviaggio, via Twitter e Facebook. «La prima parte del concerto – avverte Mengoni – serve per scaldare i muscoli, la seconda per ballare. È uno spettacolo più europeo dei miei precedenti, ciò dipende anche dalla nuova squadra che mi circonda e che ha contribuito alle mie scelte. Stavolta provo anche a imbracciare una chitarra, pur non avendola mai suonata in passato e avendo interrotto le lezioni che avevo provato a seguire...». Quindi all’inizio brani più intimisti, come “Prontoacorrere”, “Evitiamoci”, “Bellissimo”, “Non passerai”. Poi le cose più ritmate. Sul palco, con Mengoni, sei musicisti: Luca Colombo, direttore musicale, che ha arrangiato tutte le parti musicali; Gianluca Ballarin al piano tastiere e alle programmazioni, Giovanni Pallotti al basso, Andrea Pollione all’organo e alle tastiere, Peter Cornacchia alla chitarra, Davide Sollazzi alla batteria.

RAPHAEL GUALAZZI stasera a trieste, rossetti

«È successo tutto così in fretta che a volte non me ne rendo ancora conto. A febbraio saranno tre anni dalla mia vittoria a Sanremo Giovani, poi l’Eurofestival, i dischi, i tour, di nuovo Sanremo quest’anno...». Raphael Gualazzi stasera alle 21 porta il suo nuovo spettacolo al Rossetti di Trieste. L’Happy Mistake Tour - dal titolo dell’ultimo album - è cominciato a febbraio, subito dopo il Festival, e non è ancora terminato. Anzi... «Quest’estate - spiega l’artista, nato a Urbino, classe ’81 - abbiamo fatto molte tappe in Europa. Francia, Svizzera, Spagna, oltre ovviamente all’Italia. A ottobre eravano a Londra, il 29 novembre saremo al Montecarlo Jazz Festival. E nell’anno nuovo Germania, Austria, ancora Svizzera...». All’estero il pubblico come la accoglie? «Sempre con molto affetto. Anche perchè le radici a cui mi ispiro, cioè il jazz e il blues, al netto di tante contaminazioni, hanno come matrice comune il divertimento. Che è un elemento in grado di unire il pubblico a ogni latitudine. Soprattutto in tempi di crisi come quelli che viviamo». Lei nasce come jazzista, ha fatto studi classici e ha fatto il botto a Sanremo. «È vero, può sembrare strano. Ho studiato pianoforte al Conservatorio di Pesaro, il jazz e il blues sono sempre stati la mia grande passione. Ho fatto tanta gavetta, ma quando si è presentata l’occasione del Festival non ci ho pensato due volte: Sanremo è una grande vetrina, un’occasione unica per entrare nelle case della gente, soprattutto per un musicista agli inizi». Una scelta che le è costata compromessi? «Direi di no. Sanremo mi ha portato visibilità, opportunità di lavoro, l’attenzione del pubblico. Del resto io, pur partendo da basi classiche e dalla passione per il jazz, non ho mai posto barriere, non ho mai rifiutato la musica popolare. E poi non dimentichiamolo: lo stesso jazz nasce come musica popolare». Prima ha accennato alle contaminazioni. «Per me sono fondamentali. Fra i vari generi musicali non devono esistere barriere, tutti devono parlare, interagire con tutti. E poi, parlo per il mio caso ma sono convinto che il discorso non vale solo per me, “mischiarsi” ha un effetto benefico per tutti gli stili e anche per i vari tipi di pubblico». Lei ama rileggere brani altrui. «Assolutamente. Sono convinto che ogni brano, ogni canzone possa avere al suo interno varie sfaccettature, varie atmosfere, vari colori. Tutto sta a farli venire fuori». Cosa ascolta in questo periodo? «Molto rhythm’n’blues, in questi giorni ascolto tanto Al Green. Sugli italiani non nascondo di essere un po’ ignorantello, devo approfondire. Ma mi levo idealmente il cappello davanti al grandissimo Fabrizio De Andrè». Cosa presenta a Trieste? «Rivisito con arrangiamenti nuovi i brani di “Reality and fantasy”, il mio album d’esordio, al quale devo molto. Non posso ovviamente saltare i pezzi del disco nuovo, “Happy mistake”. Poi faremo degli omaggi strumentali alla grande musica italiana, da Verdi al tema di “Amarcord”». Niente blues? «Ma sta scherzando...? Ho la fortuna di suonare con un’orchestra di nove musicisti, compresa una bella sezione di fiati. Con la quale i classici del blues vengono che è una bellezza». A Sanremo ci torna? «Non lo so, per ora non ho il brano giusto. E quello è un palco che merita di essere calcato solo se hai il brano giusto...».

lunedì 4 novembre 2013

MARCO CAVALLO IN TOUR DAL 12-11

Gli avevano dato un nome da uomo, perchè quel cavallo addetto a trascinare il carretto della biancheria sporca era per loro un animale domestico, forse un amico, certo un conforto dentro le brutture del manicomio di San Giovanni, a Trieste, prima che Franco Basaglia portasse a compimento la sua rivoluzione. Alla vigilia del pensionamento, che significava mattatoio, Marco Cavallo diventa un grande animale di cartapesta blu e il 25 febbraio del ’73 viene fatto uscire dal comprensorio dell’Opp, viene portato in giro per le strade di una città che non capiva da un festoso corteo di “matti”, medici, infermieri, volontari. Da quarant’anni, dopo aver impersonato la battaglia per la chiusura dei manicomi, è la rappresentazione stessa della psichiatria dal volto umano. Di più: è un simbolo della lotta per la libertà, per la dignità delle persone. Di tutte le persone. Ora per il cavallo azzurro è tornato il tempo di partire. Dopo aver ispirato spettacoli, testi, poesie, favole, “Le grand cheval bleu” va in tournèe. Parte il 12 novembre, ovviamente da casa sua, dal grande parco di San Giovanni sempre più restituto alla città e alla sua popolazione. Toccherà sedici città italiane, entrerà nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari che ancora esistono sul territorio nazionale. Nei quasi 3500 chilometri del viaggio, sarà accompagnato ovviamente da Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale triestino, uno degli eredi diretti di Franco Basaglia, che della chiusura dei manicomi fece la sua ragione di vita. «In questi anni - dice lo psichiatra - Marco Cavallo non ha mai smesso di viaggiare. Ora riparte con tre obiettivi: chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, dire no ai manicomi/ospedali psichiatrici giudiziari regionali, aprire i centri di salute mentale ventiquattr’ore su ventiquattro». Entriamo nel dettaglio. «Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora in funzione, con oltre mille persone internate, rinchiuse in luoghi che Napolitano ha definito “indegni per un Paese appena civile”. Per portare all’attenzione di cittadini e istituzioni questa situazione il comitato stopOpg, con il coinvolgimento delle associazioni che lo compongono e di quelle delle città toccate, ha chiesto a Marco Cavallo di riprendere il suo viaggio. Il cavallo azzurro, che nel ’73 a Trieste ruppe i muri del manicomio dando il via all’inarrestabile processo di cambiamento e alla legge 180, toccherà le città sedi di Opg e alcune di quelle che potrebbero diventare sedi dei cosiddetti “mini Opg”». Ancora Dell’Acqua: «È dunque un viaggio di denuncia, ma con esso si vuole lanciare anche un allarme: al posto degli Opg si stanno progettando delle “strutture speciali” in ogni regione (i mini Opg, appunto), in cui trasferire e rinchiudere di nuovo gli internati. Con il rischio si aprano, al posto dei vecchi manicomi giudiziari, nuovi piccoli manicomi regionali. La mancata chiusura degli Opg è anche lo specchio di come funzionano (o non funzionano) i servizi di salute mentale nel territorio». E arriviamo al terzo fronte. «Ecco perché chiediamo l’apertura dei Centri di salute mentale ventiquatt’ore su ventiquattro. Chiudere gli Opg significa promuovere accoglienza e cura per le persone che vivono l’esperienza, come ha stabilito la legge 180, e come è successo dove i servizi di salute mentale sono visibili, attraversabili e vicini. Con Centri di salute mentale accoglienti, aperti giorno e notte, integrati con i servizi territoriali, con la progettazione di forme abitative sostenute, di formazione al lavoro e di inclusione lavorativa e sociale, capaci concretamente di “prendersi carico” delle persone e dei loro familiari». Per questo il cavallo è di nuovo in viaggio: per chiudere gli Opg, scongiurarne l’apertura di nuovi, tornare allo “spirito originale” della 180 che, chiudendo i manicomi, puntava a restituire dignità e cittadinanza a tutte le persone. Il viaggio, come detto, parte martedì 12 novembre da Trieste: prima il saluto delle autorità, degli operatori e delle associazioni nel Parco San Giovanni, poi l’evento in piazza Unità, con i bambini delle scuole e la presidente della Regione Fvg, Debora Serracchiani. Prima tappa Torino il 13, seconda Genova il 14, poi Livorno, la nave fino a Palermo, Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Roma (con passaggio al Quirinale e davanti a Camera e Senato), L’Aquila, Montelupo Fiorentino, Firenze, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Milano... Il viaggio incontrerà presenze del mondo politico, del teatro, della musica, del cinema, del giornalismo. Da Fabrizio Gifuni (il Basaglia della fiction televisiva) a Gino Paoli (che a San Giovanni ha cantato prima e dopo la chiusura del manicomio), da Lella Costa a Sonia Bergamasco, dai gruppi teatrali legati alle esperienze attorno alla salute mentale a Massimo Cirri (che aprirà una finestra sul viaggio nella trasmissione “Caterpillar” di RadioDue), da Ida di Benedetto a Giuliano Scabia. «Mi piace pensare - prosegue Dell’Acqua - che il futuro sia Marco Cavallo, questo viaggio, riflettere sulla storia che abbiamo alle spalle per andare avanti. Malgrado tutto. Che significa anche i pregiudizi, gli attacchi che sono stati fatti negli anni alla 180, l’usuale ed erronea triangolazione malattia mentale, pericolosità e istituzione, gli ambienti accademici che non hanno cambiato nulla nei loro percorsi di formazione, le psichiatrie che si sono rigenerate e riprodotte, le scelte di campo che la cultura e la politica avrebbero dovuto fare ma non hanno fatto, l’oppressione e il dominio delle industrie farmaceutiche...». Perchè le persone con problemi di salute mentale non hanno bisogno di luoghi dove stare, se non casa propria, nei luoghi dove la libertà di sé possa essere arricchita dai servizi, dall’aiuto degli altri: gruppi, famiglie, associazioni. «Il futuro - conclude lo psichiatra salernitano, triestino ormai da tanti anni d’adozione - è una porta aperta, che non significa creare un fuori e negare un dentro, quanto piuttosto posizionarsi sulla soglia. Abitare la soglia può essere il tema del futuro. Non possiamo più immaginare il malato di mente come altro da noi, dobbiamo mettere tra parentesi la malattia, solo così siamo in grado di scoprire persone, cittadini, storie. Questo è il significato della metafora della porta aperta, in una dimensione che è politica, etica e terapeutica: è nell’incontro con l’altro sulla soglia che nasce la possibilità di cura».

venerdì 1 novembre 2013

VELEMIR DUGINA, ricerca di tracce, esce in germania un libro sul musicista triestino morto nell'87

A gennaio saranno ventisette anni che Velemir Dugina non c’è più. Non avesse deciso di dire basta, quel tristissimo 16 gennaio 1987, oggi il violinista triestino sarebbe un uomo di cinquantacinque anni. Chissà la sua arte, la sua creatività, la sua sensibilità dove lo avrebbero portato. È passato tanto tempo, chi ha conosciuto e apprezzato Velemir non dimentica quel ragazzo dai capelli rossi che seppe animare la scena musicale triestina - con diverse incursioni in quella nazionale - per un periodo troppo breve. La cosa che può sembrare incredibile è che in Germania è appena uscito un libro su di lui: “Velemir Dugina - Eine spurensuche, Una ricerca di tracce”, del docente universitario e musicologo di Dresda Mathias Bäumel. Il volume, in tedesco con traduzione in italiano, è stato recentemente presentato a Dresda, nell’ambito di una serata dedicata a Trieste, con un intervento storico sulla città e l’esecuzione di alcune musiche di Velemir. «Tre anni fa - ricorda Joanne Dugina, sorella minore del musicista - Bäumel mi aveva contattato, parlandomi della sua intenzione di scrivere questo libro e chiedendomi delle informazioni. Lui conosce bene Trieste, Cherso, le nostre terre. Credo sia arrivato a mio fratello attraverso la lettura di “Microcosmi” di Claudio Magris, nel quale è citato il luogo dove Velemir è sepolto, nell’isola di Cherso. Per un periodo non ho saputo nulla, credevo avesse rinunciato, e invece...». Il libro parte proprio da quella tomba, nel villaggio di Stivan (San Giovanni). Da quella “strana scritta sotto la foto invecchiata: Velemir Dugina, Prof. Violino, nato il 1 luglio 1958, morto il 16 gennaio 1987”. Poi la storia del musicista, nato a Melbourne, dove la famiglia era emigrata da Fiume. Il ritorno nel ’59 nel porto allora jugoslavo, l’arrivo a Trieste nel ’68. Lo studio del violino, il conservatorio ma anche la musica popolare, il diploma nell’84 al Tartini, il lavoro nell’orchestra del Verdi ma anche dell’Arena di Verona. E intanto tante collaborazioni, dischi, concerti, a Trieste e in giro per l’Italia: i Giorni Cantati e il gruppo Stu Ledi, i fiorentini Whisky Trail e l’Ensemble Havadià di un Moni Ovadia non ancora famoso (con il triestino Alfredo Lacosegliaz, che con Velemir aveva già collaborato), persino Eugenio Bennato e i Litfiba... Bäumel ricostruisce la sua storia, intervistando amici, docenti, la sorella. Che dice: «Ha fatto un lavoro notevole, rispettoso della realtà. Credo che l’interesse musicale sia stata la molla che lo ha mosso...». Ma la “ricerca di tracce” non finisce qui. E arriva ancora dalla Germania. Magrit Dittmann Soldicic è una tedesca di Amburgo, che ha una casa a Cherso, dove vive vari mesi all’anno. Anche lei scopre la tomba di Velemir, rimane colpita dalla storia, fa una sua ricerca intervistando persone che conoscevano l’artista. E scatta delle fotografie a lui in qualche modo ispirate. Vuole farne una mostra, ha contattato il Comune di Trieste per avere una sala, probabilmente la cosa verrà realizzata l’anno prossimo. Anche lei mossa da un desiderio, quasi un’urgenza. Per non dimenticare Velemir Dugina, quel ragazzo col violino scappato via troppo presto.