venerdì 28 agosto 2009

COLDPLAY A UDINE


Chissà se Guardiola, tecnico del Barcellona e grande estimatore dei Coldplay, ordinerà anche quest’anno - come faceva l’anno scorso - che prima delle partite casalinghe dagli amplificatori del Camp Nou risuonino le note di ”Viva la vida”. Quel che sappiamo è che lunedì sera, allo Stadio Friuli di Udine, nell’unica tappa italiana del tour del gruppo inglese, per gli oltre quarantamila spettatori attesi l’emozione sarà fortissima quando il megaimpianto sparerà quell’attacco inconfondibile.

Un attacco per il quale Chris Martin e compagni sono stati però accusati di plagio dai Creaky Boards, giovane band indipendente americana, che l’anno scorso ha segnalato alcune ”somiglianze sospette” fra la loro "The songs I didn't write" e il tormentone coldplayano.

«Ci siamo esibiti al CMJ festival 2007 a New York e abbiamo visto con stupore Chris Martin tra il pubblico. Ci è sembrato che apprezzasse le nostre canzoni. Forse le ha apprezzato un po' troppo...», hanno detto i ragazzotti a stelle e strisce. «Ma quale plagio? La nostra canzone è stata scritta sei mesi prima di quel concerto», hanno ribattuto le star britanniche. Per chi volesse appronfondire l’argomento, su YouTube le due canzoni sono messe a confronto.

Torniamo al concerto di Udine, che chiude l’ideale tris che a luglio ha già proposto Springsteen e Madonna. Stavolta l’attesa è persino superiore, visto che si tratta dell’unica data italiana di questa tranche di un tour cominciato nel settembre scorso da Strasburgo, con un prologo nell’estate 2008 negli Stati Uniti. Biglietti praticamente esauriti, ancora pochi tagliandi in vendita alle casse dello stadio a partire dalle 11 di lunedì. Spettatori in arrivo - oltre che dalla penisola e dalle vicine Austria, Slovenia e Croazia - anche da Ungheria (sei pullman), Republica Ceca, Germania, Serbia, Bosnia, Montenegro, Grecia, Svezia e Norvegia. Le richieste di accrediti giornalistici sono state tre volte superiori la capienza (un centinaio di posti) della tribuna stampa del Friuli.

Ingorghi in vista prima e dopo lo show. Tanto che le forze dell’ordine stanno pensando di dividere il flusso veicolare fra le uscite di Udine Sud e Nord, in entrata e in uscita dallo stadio. Bus e treni rinforzati. Allerta per i bagarini.

Tutto per vedere da vicino i magnifici quattro: ovvero Chris Martin (voce, chitarra, tastiere), Johnny Buckland (chitarra), Guy Berryman (basso) e Will Champion (batteria). Hanno alle spalle dieci anni di storia e il successo l’hanno agguantato quasi subito, con l’album ”Parachutes”, uscito nel 2000. Due anni dopo ”A rush of blood to the head” segna la consacrazione. I Coldplay sono ormai una band di culto, amata in mezzo mondo. La fama non viene scalfita dal mezzo passo falso rappresentato dal disco ”X&Y”, uscito nel 2005. Ma il botto arriva l’anno scorso, con ”Viva la vida” (titolo completo: ”Viva la vida or death and all his friends”), prodotto da Brian Eno e premiato con tre Grammy. Un disco che permette alla band di superare il traguardo di cinquanta milioni di dischi venduti in carriera.

Ora tornano in Italia dopo il doppio ”tutto esaurito” del settembre scorso a Bologna e Milano. Stasera suonano a Monaco di Baviera, a settembre saranno a Berna, Barcellona, Parigi, Manchester, Dublino, Glasgow e Londra.

Lunedì cancelli aperti alle 17. Apriranno gli italiani Ministri alle 19 e gli inglesi White Lies alle 19.45. I Coldplay promettono quasi tre ore di show. Dovrebbero cominciare alle 21 con ”Life in technicolor” e ”Violet hill”, per poi proseguire con ”Clocks”, ”In my place”, ”Yellow” (il loro primo singolo di successo, che stava nel primo album), ”Glass of water”, ”Cemeteries of London”, ”42”, ”Fix you”. E ancora ”Strawberry swing”, ”God put a smile upon your face”, ”Talk”, ”The hardest part”.

Dopo l’intermezzo acustico con ”Green eyes” e ”Death will never conquer”, non mancherà l’omaggio a Michael Jackson con una cover di ”Billie Jean”. E poi la cavalcata finale a base di ”Postcards from far away”, ”Viva la vida” e ”Lost!”. Dio salvi la regina. E magari anche Chris Martin.

martedì 25 agosto 2009

A TRIESTE MUSICAL SU MICHAEL JACKSON


Partirà dal Politeama Rossetti di Trieste, martedì 3 novembre, la tournèe italiana di ”Thriller - Live”, il musical nato per celebrare la carriera di Michael Jackson e che, con la sua morte due mesi fa, diventa automaticamente lo show di punta della prossima stagione teatral-musicale.

Il musical ha debuttato il 2 gennaio scorso a Londra, al Lyric Theatre, dove è tuttora in programmazione. Chi l’ha già visto (è già passato fra l’altro da Monaco di Baviera) parla di ”uno spettacolo esplosivo di danza e musica”. Un'antologia musicale che comincia dai primi anni con i fratelli nei Jackson 5, passando per il suo album solista ”Off the Wall”, per arrivare alla consacrazione planetaria di ”Thriller”.

Il suo ideatore e coproduttore è Adrian Grant - amico e socio della popstar, nonchè autore di ”Michael Jackson, The Visual Documentary” -, che lavora al progetto addirittura dal ’91, quando organizzò la prima edizione della "Michael Jackson Celebration", una festa-spettacolo che divenne negli anni successivi un appuntamento fisso per i fan e alla quale nel 2001 partecipò lo stesso ”Jacko”.

Fu lì, forse, che nacque l'idea di realizzare uno spettacolo dedicato alla fantasmagorica carriera del Re del pop. Dopo una lunga gestazione e un'anteprima al Dominion Theatre di Londra, lo spettacolo è andato in tour in Inghilterra e in alcuni paesi europei, prima di approdare quest’anno nel West End, al Lyric Theatre.

Poi è arrivata la tragica scomparsa dell’artista, e l’interesse su tutto quel che lo riguarda è tornato altissimo. Ma va sottolineato che ”Thriller - Live” non è uno spettacolo nato all’ultimo momento per speculare sul lutto.

Lo show vede in scena un cast di 22 cantanti e ballerini, accompagnati da un'orchestra dal vivo di sei elementi. Al Rossetti - dove continua così la tradizione dei grandi musical - sono previste sei repliche, da martedì 3 a domenica 8 novembre compresi. Poi il tour toccherà Roma dal 10 al 22 novembre, Milano dal 26 novembre al 6 dicembre e Bologna.

Della tormentata vita di Michael Jackson nel musical c'è poco, quasi nulla. L'unico riferimento biografico esplicito è l'incontro con Quincy Jones, che firmò da produttore i suoi primi album solisti. Ampio spazio invece alle abbaglianti coreografie e agli effetti multimediali firmati dal regista Gary Lloyd, in uno show di due ore che include tutti i maggiori successi dell’artista: da ”I want you back” a ”I’ll be there”, da ”Show you the way to go” a ”Can you feel it”, da ”Rock with you” a ”She’s out of my life”. Senza dimenticare ”Beat it”, ”Billie Jean”, ”Earth song”, ”Thriller” e tanti altri classici.

In attesa del musical, si apprende che il film sulle ultime settimane di vita di ”Jacko” - questo sì, nato sull’onda dell’emozione - uscirà nelle sale americane il 28 ottobre. S’intitola ”This is it”, proprio come la tournèe di rientro sui palcoscenici che Michael stava preparando quand’è morto.

È arrivato intanto il risultato delle analisi effettuate dall'Ufficio di Medicina Legale di Los Angeles: a causare la morte di Jackson è stato un cocktai di farmaci nel quale era compreso in forte concentrazione un anestetico, il propofol, somministrato per endovena. Si aggrava quindi la posizione del medico personale della popstar, il cardiologo Conrad Murray, per il quale potrebbe scattare l’accusa di omicidio.<WC1> «Sono grata agli investigatori per aver scoperto la verità e non vedo l'ora che sia fatta giustizia per l'omicidio di Michael», ha detto La Toya Jackson, sorella di Michael.

Nel frattempo continua il mistero sulla sepoltura, che non è ancora avvenuta. Il padre del cantante aveva dichiarato che la sepoltura, prevista per il 29 agosto, è stata rinviata di due giorni. Ma pare che la data sia slittata ancora. Secondo il sito "Tmz" Jackson verrà sepolto il 3 settembre, in un mausoleo del cimitero di Forest Lawn a Los Angeles.

Povero Jacko, davvero non meritava tutto questo.

domenica 23 agosto 2009

TOUR FINE ESTATE


Coldplay, Claudio Baglioni, Nek, Gianna Nannini, di nuovo i Pooh... L’estate musicale 2009 del Nordest spara gli ultimi botti. E già prepara, alla maniera di una ricchissima casa di moda, la sua stagione autunno inverno.

Ma andiamo per ordine. Mercoledì a Gorizia, alla Casa Rossa, il carrozzone del Festival Show porta in regione una manciata di artisti di ieri e di oggi: Dolcenera, Amedeo Minghi, Angelo Branduardi, Mal, i Delirium. Giovedì alle 22, all’Arena del Perla di Nova Gorica, fa invece tappa il tour di Nek.

E siamo ai Coldplay. Oltre quarantamila persone, in Italia e all’estero, hanno già sborsato fra i 35 e i cinquanta euro (più i famigerati diritti di prevendita, ma di questo parliamo dopo...) per acquistare il prezioso tagliando che vale l’ingresso all’unico concerto che il gruppo inglese terrà fra sette giorni, lunedì 31 agosto, allo Stadio Friuli di Udine. Appuntamento davvero da non perdere, quello con Chris Martin e compagni, che chiude idealmente - dopo Madonna e Springsteen - il magico tris calato quest’estate dal capoluogo friulano.

Settembre si apre con il concerto di Giovanni Allevi e la All Stars Orchestra terranno all’Arena di Verona martedì 1. Venerdì 4 a Villa Manin arriva Claudio Baglioni, che poi il 14 sarà all’Arena di Verona, prima di concentrarsi sulla settima edizione di O’ Scia’, dal primo al 3 ottobre a Lampedusa, sull’emergenza immigrazione.

Il 4 e il 5 settembre, a Forte Marghera (Mestre), il ”Disco_Nnect Festival” porta nel Nordest alcuni dei maggiori nomi della scena elettronica italiana e internazionale: Royksopp, A Certain Ratio, Bugo...

Un altro appuntamento all’Arena di Verona è quello di domenica 13 settembre: di scena Gianna Nannini, che poi tornerà in zona il 5 novembre alla Zoppas Arena di Conegliano Veneto.

Ma nel grande anfiteatro della città scaligera l’attesa è soprattutto per gli otto concerti (inizialmente dovevano essere sette, ma i biglietti sono andati presto esauriti...) che Ligabue terrà a dal 24 settembre al 4 ottobre. Con il rocker di Correggio, che quest’estate si è riposato, l’Orchestra dell’Arena di Verona, in uno stimolante connubio fra classica e rock.

Altri due appuntamenti per la fine di settembre: sabato 26 i Pooh al Palaverde di Treviso (scommettiamo che andranno avanti ancora a lungo, con questo ”tour dell’addio a D’Orazio”...?) e domenica 27 Gigi D’Alessio all’Arena Zoppas di Conegliano.

Poi, è già autunno. Con le prime anticipazioni sulla stagione. Marilyn Manson il 26 novembre al Palaverde di Treviso, Renato Zero il 4 dicembre alla Fiera di Padova, Franz Ferdinand l’8 dicembre al Palazzo del turismo di Jesolo, dove l’11 dicembre arrivano anche i Deep Purple.

Paesi dell’ex Jugoslavia. Eros Ramazzotti - il cui tour mondiale parte il 17 ottobre da Rimini - sarà il 20 ottobre all’Arena di Belgrado e il 24 a quella di Zagabria, per arrivare al Tivoli di Lubiana il 19 novembre (prezzi dai 73 agli 83 euro, più diritti di prevendita). A Lubiana arrivano anche i Dream Theater il 31 ottobre, mentre a Zagabria arrivano il 6 novembre i Massive Attack, il 27 novembre i Backstreet Boys e il 14 febbraio i Depeche Mode.

Anticipazioni, come si diceva. Perchè il grosso del calendario invernale è ancora tutto da scrivere. Ma si parlava dei famigerati diritti di prevendita, anomalia tutta italiana (all’estero se compri il biglietto in anticipo ti fanno lo sconto...), che va a rendere ancor più pesante il costo dei biglietti per i concerti, da tempo schizzati a livelli altissimi.

Ebbene, c’è una novità. La Live in Italy, una delle maggiori agenzie italiane, ha annunciato che d'ora in poi i biglietti in prevendita da loro avranno un prezzo inferiore a quello del biglietto acquistato alla cassa la sera stessa dello spettacolo.

Uno degli obiettivi dell'iniziativa, ha spiegato Andrea Pieroni, responsabile di ”Live srl” al portale Rockol.it «sarebbe quello di avere, in ambito di live rock, una prevendita simile a quella che caratterizza certe compagnie aeree low cost come Ryan Air: prima compro il biglietto, quando la disponibilità è alta, meno mi costa». Speriamo che sia solo l’inizio.


 

lunedì 10 agosto 2009

WOODSTOCK, 40 ANNI FA


Beh, ammettiamolo: sa tanto di nemesi. Il concerto celebrativo dei quarant’anni di Woodstock che non si svolge perchè l’organizzatore non ha trovato gli sponsor disposti a garantire i dieci milioni di dollari necessari sembra davvero un segno dei tempi. Michael Lang, uno dei quattro ideatori del raduno del ’69, prima voleva tenere l’evento in questi giorni. Poi ha spostato tutto a settembre. Infine ha alzato bandiera bianca. E non se ne fa nulla.

Ma vediamo di capire di cosa stiamo parlando. Madre (o padre, vedete voi) di tutti i raduni giovanili. Sogno di una nazione alternativa, di un mondo diverso e migliore. Grande esperienza collettiva ma anche gigantesco esperimento di business: la comunità rock che fa le prove generali per diventare mercato globale del rock. Punto più alto della controcultura giovanile, all’incrocio fra musica e politica, sull’onda del movimento contro la guerra nel Vietnam che due anni prima aveva portato mezzo milione di persone in piazza a Washington. E al tempo stesso canto del cigno, funerale dei sogni e degli ideali e delle utopie degli anni Sessanta. The dream is over, il sogno è finito, come cantò di lì a poco John Lennon.

Quante cose è stato Woodstock. In quel ’69 dello sbarco sulla Luna e della strage di Bel Air, dell’inizio della presidenza Nixon e di Jan Palach che si immola a Praga, dell’autunno caldo e della bomba di piazza Fontana, della morte per droga di Brian Jones (prima di una lunga serie di rockstar) e dell’ultimo concerto dei Beatles sul tetto londinese della Apple.

Woodstock fu il primo grande raduno rock. Prima c’era stato, nel ’67, Monterey Pop: poco più di una prova generale. Nel week-end di ferragosto del ’69 gli organizzatori aspettavano cinquantamila persone. Ne arrivarono cinquecentomila. Qualcuno dice un milione. E manca la controprova dei biglietti venduti (fermi ai 186 mila abbonamenti staccati in prevendita), visto che a un certo punto, davanti alla calca oceanica, fecero entrare quasi tutti gratis. Infatti ci guadagnarono in tanti, in tantissimi, tranne gli organizzatori.

La storia della leggendaria ”tre giorni di pace amore e musica”, che si svolse fra il 15 e il 18 agosto 1969, è fatta anche di piccole cose: numeri, particolari, curiosità, aneddoti, che vanno ad aggiungersi ai tanti dischi, film, documentari, libri sull’argomento.

Per questo il New York Times ha avviato nelle settimane scorse una sorta di grande operazione recupero della memoria collettiva, proprio a partire dai documenti d'epoca e dai ricordi dei diretti testimoni. Le hanno chiamate le ”Woodstock Memories”, parafrasando il titolo di un vecchio film di Woody Allen, e i lettori hanno risposto inviando racconti, foto, filmati. Alcuni, i ragazzi di allora, dicendo ”io c’ero”. Altri, figli o nipoti dei ragazzi di allora, immortalando con un registratore o una telecamera ricordi ed emozioni dei loro ascendenti.

Ma come nacque, come si svolse in quell’estate di quarant’anni fa Woodstock? Tutto cominciò quando Michael Lang e Artie Kornfeld , che stavano progettando di allestire uno studio di registrazione nel villaggio di Woodstock, a due passi da New York, videro sul giornale un annuncio economico nel quale John Roberts e Joel Rosenman si dicevano interessati a ”opportunità legali di investimento e proposte d’affari”.

Li contattarono e nacquero l’idea del festival e un’apposita società, la ”Woodstock Ventures”. Il festival era dunque una mera impresa commerciale, altro che cultura hippy, altro che ”pace amore e musica”. Affittarono per diecimila dollari un terreno nella contea di Orange, alle autorità locali dissero che avrebbero organizzato un concerto con la partecipazione di cinquantamila persone, ma gli abitanti del luogo si opposero all’iniziativa. Che dunque cercò casa un po’ più in là, a Bethel, nella contea di Sullivan, una cittadina rurale a settanta km a sud-ovest di Woodstock. Dove un allevatore, certo Max Yasgur, fiutò l’affare e accettò di affittare il suo terreno (completo di stagno, poi passato alla storia per il bagno collettivo ”nature”...) per 75 mila dollari. Altri 25 mila dollari furono pagati ai proprietari di un terreno vicino per allargare la zona a disposizione del festival.

Sembrava dovesse essere un festival di provincia, venne pubblicizzato come ”An Aquarian Exposition” (in quegli anni si attendeva l’inizio dell’Era dell’Aquario, come cantavano i ragazzi del musical ”Hair”), ma il tam tam fra i giovani americani, in quell’estate, battè più forte che mai. Con risultato che, nell’avvicinarsi della data fatidica, l’affluenza verso la località designata su superiore a ogni aspettativa: colonne e colonne di vetture puntarono su Bethel, bloccando in un unico ingorgo tutto il sistema viario dello stato di New York. La pioggia torrenziale fece il resto. Andò tutto bene, ma fu quasi per un miracolo.

Il concerto cominciò alle 17.07 di venerdì 15 agosto, con Richie Havens. Al quale seguirono altri trentuno, fra solisti e gruppi, protagonisti della scena musicale di quegli anni. Country Joe Mc Donald, John Sebastian, Santana, Who, Incredible String Band, Joan Baez, Arlo Guthrie, Ten Year After. E ancora Janis Joplin, Canned Heat, Mountain, Grateful Dead, Sly & the Family Stone, Creedence Clearwater Revival, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Crosby Stills Nash & Young...

E soprattutto Jimi Hendrix. Che fu il protagonista dell’epica chiusura del festival. Nelle intenzioni degli organizzatori Woodstock doveva terminare domenica 17 agosto, ma il chitarrista nato a Seattle (e che sarebbe morto tragicamente poco meno di un anno dopo, il 18 settembre del ’70, a soli ventotto anni) aveva insistito per essere l’ultimo a esibirsi e salì sul palco alle nove del mattino di lunedì 18 agosto.

La maggior parte degli spettatori era già ripartita, e ”solo” ottantamila persone assistettero a quelle due ore di performance, con l’inno americano fatto a brandelli dalla chitarra elettrica. Una straziante, allucinata versione psichedelica si ”Star Spangled Banner”, volutamente distorta in una provocazione diventata il simbolo della protesta pacifista giovanile contro la retorica patriottica, in un paese profondamente spaccato dalla guerra nel Vietnam.

Ma il festival visse anche di illustri defezioni. Gli organizzatori contattarono John Lennon per chiedere la partecipazione dei Beatles, che erano in via di scioglimento. Ma lui rispose che avrebbero suonato solo se fosse stata invitata pure la Plastic Ono Band, il gruppo di Yoko Ono. Non se ne fece nulla. Trattative anche con Bob Dylan, che all’epoca abitava a un tiro di schioppo dall’area del concerto, ma che alla fine rifiutò pare perchè infastidito dalla gran confusione che si stava creando vicino casa sua. Niente da fare neanche per Doors (avevano appena avuto dei guai con la legge per la presunta oscenità delle esibizioni di Jim Morrison), per i Led Zeppelin (il manager: «Dissi di no perché a Woodstock saremmo stati soltanto un'altra band in scaletta»), per i Procol Harum (stanchi dopo un lungo tour).

Fu comunque l’apice, la consacrazione della cultura hippy che stava uscendo dall’età dell’innocenza per entrare in quella del business. Alcuni artisti, sconosciuti prima di Woodstock, costruirono su quell’apparizione carriere miliardarie che in certi casi durano ancor oggi. L’icona dei ”tre giorni di pace amore e musica” fu replicata all’infinito, in mezzo mondo, grazie ai dischi ma soprattutto al film di Michael Wadleigh.

A proposito di film. In queste ore esce negli Stati Uniti ”Taking Woodstock”, il film di Ang Lee già visto in anteprima a Cannes. E in assenza del concerto celebrativo, tocca a questa pellicola dettare il ricordo, riscrivere ancora una volta l’autobiografia di una generazione che ha pensato di cambiare il mondo con la musica, che si è battuta per la pace, che ha appoggiato la lotta alla segregazione razziale e per i diritti civili, ispirando con le sue parole d'ordine le generazioni successive. In tutto il mondo. Il resto, tutto il resto, purtroppo è diventato soltanto business.

CONCERTI, SETTORE SENZA CRISI


Nell'estate della grande crisi economica, c’è un settore che viaggia a gonfie vele. Ed è quello della musica dal vivo, nel quale cantanti e gruppi - più stranieri che italiani - si rifanno con gli interessi della crisi che da anni sta falcidiando l’industria discografica.

Un esempio? I biglietti più cari, ieri e l’altra sera a Zagabria per gli U2, costavano la bellezza di 280 euro cadauno. I più economici quaranta, un prato settanta, una dignitosa tribuna centoquaranta. L’agenzia triestina Multimedia, che ha anche riempito di fan cinque bus, rientrati dalla capitale croata ieri mattina alle sei, ha venduto in tutto milletrecento biglietti. Lasciamo a voi il calcolo della cifra complessiva che Trieste ha versato nelle casse di Bono e compagni, cui vanno peraltro aggiunte tutte le ovvie e sacrosante spese di contorno: un panino, una bibita, un gelato, la benzina per chi è andato con la propria auto...

Ma quella degli U2 è solo la punta dell’iceberg. Il pubblico regionale ha appena speso, senza batter ciglio, belle cifre anche per le altre star che hanno animato l’estate musicale 2009: fra i 65 e i 130 euro per vedere da vicino Madonna, fra i 35 e gli ottanta per vibrare all’unisono con Bruce Springsteen, fra i 35 e i cinquanta euro per vedere Laura Pausini o per passare ”Ancora una notte insieme” ai Pooh. E poi quaranta per Lenny Kravitz e Paolo Conte, fra i trenta e i trentacinque per David Byrne, fra i venticinque e i trenta per Cristiano De Andrè, venti per Goran Bregovic e Vinicio Capossela.

E sono in tantissimi che si sono già prenotati per i Coldplay il 31 agosto allo Stadio Friuli di Udine (quarantamila biglietti già venduti, a un costo che spazia fra i 35 e i cinquanta euro) e per Claudio Baglioni il 4 settembre a Villa Manin (fra i 25 e i sessanta euro). Cifre alle quali vanno sempre aggiunti i famigerati diritti di prevendita, un buon quindici per cento: anomalia tutta italiana, visto che all’estero se copri un biglietto in anticipo ti fanno pure lo sconto...

Insomma, si risparmia su tutto ma non sul concerto del proprio artista preferito. Forse perchè, mentre il disco ormai te lo puoi scaricare a piacimento, con buona pace delle case discografiche che hanno tentato di chiudere le stalle quando i buoi erano già scappati, lo spettacolo dal vivo rimane un evento unico, in qualche modo irripetibile, non ”piratabile”.

Artisti e organizzatori lo sanno. E ne approfittano. Il costo dei biglietti - legato ovviamente alle pretese delle star - ha subito nel corso degli ultimi anni un aumento molto forte. Assolutamente non paragonabile con quello di altri generi e quello più generale del costo della vita.

A farne le spese, per ora, oltre ovviamente al pubblico che paga, sono gli artisti diciamo così ”di fascia media”. Soprattutto italiani. Ferma la star Vasco Rossi, e con Ligabue che sta preparando la maratona all’Arena di Verona (otto concerti che sono appena diventati dieci, fra settembre e ottobre), gli altri tirano un po’ la fiacca. Al massimo qualche concerto a ingresso gratuito, pagato dagli sponsor o dagli enti locali. E in autunno si vedrà.

domenica 9 agosto 2009

TORMENTONI


Il tormentone dell’estate 2009? Bella domanda. Che, fatta a dieci persone diverse, porterà con ogni probabilità a risposte, diciamo così, personalizzate.

Qualcuno punterà a occhi chiusi su ”Poker face”, canzoncina elettro-pop della platinata ventitreenne americana Stefani Joanne Angelina Germanotta, in arte Lady Gaga. Altri opteranno per ”Not fair” di Lily Allen, o per ”Wonderful” di Gary Go. O ancora per ”LaLa song” di Bob Sinclair, per ”The boys does nothing” di Alesha Dixon, per ”When love takes over” di David Guetta e Kelly Rowland. O persino per ”Magnificent” degli U2. Con i quali almeno si va sul sicuro.

Ma ci sono anche gli aspiranti tormentoni (qualcuno li chiama già ”tormentini”...) di casa nostra. Ecco allora i fan di ”Domani è già qui” degli Artisti uniti per l’Abruzzo, quelli di ”Indietro” di Tiziano Ferro e di ”Stupida” di Alessandra Amoroso, trionfatrice di ”Amici”, addirittura quelli delle sanremesi Malika Ayane e Arisa, ancora in sella rispettivamente con ”Come foglie” e ”Sincerità”.

Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti. La confusione sotto il cielo della musica è enorme, la situazione forse è eccellente, ma di certo c’è soltanto una cosa: il tormentone dell’estate 2009 non c’è, non esiste, alla vigilia di ferragosto non è ancora pervenuto. Al massimo c’è una decina di canzoni che in queste settimane vanno per la maggiore e sono dunque quelle che formeranno, fra qualche mese, tirati fuori i maglioni dall’armadio, la colonna sonora dell’estate ormai passata e forse rimpianta.

Vi ricordate invece i tempi in cui il tormentone estivo era quasi sempre uno e soltanto uno? Non ti potevi sbagliare. Nel ’68? ”Luglio” di Riccardo Del Turco. Nel ’77? ”Ti amo” di Umberto Tozzi. Nell’83? ”Vamos a la playa” dei Righeira (che fra l’altro sono a Trieste giovedì alle 21, in piazza Unità) ma anche ”Tropicana” del Gruppo Italiano. Nel ’90? ”Sotto questo sole” di Francesco Baccini con i Ladri di biciclette. Nel ’96? la ”Macarena” dei Los del Rio, successo planetario impostosi senza un vero lancio pubblicitario o promozionale, solo sulla forza della sua contagiosa potenza ripetitiva. Praticamente il tormentone perfetto.

Complici manifestazioni come il Disco per l’Estate o il Festivalbar, le stagioni calde degli anni Sessanta e Settanta avevano una sola ”canzone regina”. Al massimo, entrando nei decenni successivi, si arrivava a due o tre brani per estate. Gli ingredienti erano noti: pezzo commerciale, ritornello orecchiabile, possibilmente ballabile.

All’inizio c’erano anche quelle parole in grado di richiamare subito la stagione delle vacanze. Edoardo Vianello era uno specialista: ”Pinne fucile ed occhiali”, ”Abbronzatissima”, ”Guarda come dondolo”, ”Il peperone”... Ma anche Franco Battiato, quando scrisse ”Un’estate al mare” per la compianta Giuni Russo, con quell’invenzione degli ”ombrelloni-oni-oni...”, dimostrò di essere un grande anche della canzonetta, oltre che della musica colta.

Bei tempi. Ora, con la complicità di internet, la frammentazione regna sovrana. La musica popolare si divide in tanti generi e sottogeneri, ognuno con le sue star, il suo pubblico, le sue usanze. E il vero tormentone estivo, quello che non potevi evitare dal mattino fino a notte fonda (alla radio, in tivù, sulla spiaggia, nel traffico, in discoteca, dal juke-box finchè c’erano i juke-box...), diciamo pure che non c’è più.

Forse proprio per questo, è diventato materia di studio. Il francese Peter Szendy, filosofo e musicologo con un curriculum lungo così, ha infatti scritto un saggio (”Tormentoni! La filosofia nel juke-box”, Isbn Edizioni, pagg. 105, euro 12) nel quale si cimenta nell’impresa di «elevare le canzoni al rango di oggetti filosofici per capire che esse, proprio come il denaro per la merce e il desiderio, sono la moneta di scambio delle nostre emozioni». Marx applicato alle canzonette, insomma, e allora si salvi chi può...

«Si possono amare o odiare - scrive Szendy dei tormentoni, che in francese si chiamano ”tubes” -: può capitare di riascoltarli dopo molti anni e di sentirsi rapiti da un’ondata di nostalgica commozione che ci trascina nel passato come se fosse ancora presente; oppure, al contrario, a volte cerchiamo di difenderci con tutte le nostre forze da questo parassita musicale che osa impadronirsi di noi... Non c’è nulla da fare, è come un virus che ci invade, e che certuni chiamano ”tarlo nell’orecchio” (in inglese ”earlworm” - ndr)...». Insomma, vere e proprie macchine di persuasione nate per caso o costruite a tavolino, con l’obbiettivo nemmeno nascosto di sopravvivere a se stesse come un virus potente e indistruttibile.

Da segnalare, nel libro di Szendy, anche una dotta analisi dell’italianissima ”Parole parole parole”, incisa nel ’71 da Mina e Alberto Lupo. «Più si riascolta questa canzone - scrive l’autore - più essa appare come un teatro allegorico a due voci che mette in scena il dialogo tra il Parlato e il Cantato in persona, personificati». Praticamente un tormentone.

mercoledì 5 agosto 2009

LIBRO DI MAURO PAGANI


Dicembre 1969, giugno 1979. Nemmeno dieci anni, praticamente un secolo. Il primo flash è sulla Milano dell’autunno caldo, che passa inopinatamente - e tragicamente - dallo sberleffo creativo delle uova piene di vernice rossa lanciate sul pubblico borghese della prima scaligera alla ferita, al trauma della bomba di piazza Fontana.

L’ultimo flash fotografa una Milano molto diversa, nella quale una folla di amici, colleghi e ammiratori partecipa al funerale di Demetrio Stratos, cantante e musicista degli Area, massimo sperimentatore della vocalità umana, ammazzato dalla leucemia il giorno prima dello svolgimento del grande concerto all’Arena Civica che doveva raccogliere fondi per pagare le cure mediche e si trasformò invece in un estremo ricordo dell’artista.

Fra queste due date, fra questi due momenti si dipana la storia raccontata nel libro <CF102>”Foto di gruppo con chitarrista” (Rizzoli, pagg. 363, euro 17.50)</CF>, di <CF102>Mauro Pagani</CF>, già flautista e violinista della Pfm, la Premiata Forneria Marconi, poi musicista e produttore in proprio e per tanti grandi artisti di casa nostra. Un nome per tutti: Fabrizio De Andrè.

La storia narrata è quella di Sonny, chitarrista di belle speranze ma di assai moderate fortune, che il giorno dopo la strage di piazza Fontana decide di partire: Londra, Estremo Oriente, Amsterdam, Miami, Cuba, di nuovo Milano... Ogni tanto, sui Navigli o a King’s Road, fra un ingaggio su una nave da crociera e un amore ai tropici, il nostro incrocia proprio Mauro (Pagani): il vecchio amico, quello fortunato, quello che ce l’aveva fatta. Un giorno ce la fa anche a non lasciarsi ingabbiare dalla vita comoda ma bastarda della rockstar, ha il coraggio di scendere dal carro per seguire la propria testarda vocazione di uomo e musicista libero.

«La cosa che più mi stava a cuore - spiega Mauro Pagani, classe 1946 - era quella di ricreare l’atmosfera quotidiana degli anni Settanta. E con ciò intendo la vita spiccia di tutti i giorni. Quelle case, quei bar. Quelle cose che hanno reso meravigliosi quegli anni. Ciò non si poteva fare a prescindere dai dialoghi e dalle parole. La mia è stata una generazione molto verbosa, parlavamo molto e il fascino di quello che ci dicevamo molto. A mio parere, non c’era altro modo di trasmettere quelle atmosfere senza provare a fotografare di nuovo quegli attimi che erano nella memoria ma che, non essendo stati immortalati allora, erano privi del carisma dell’autenticità».

Ecco allora la vita dei localini dove si suona la sera, le puttane (oggi si direbbe escort...) di via Archimede, il movimento studentesco, il personale che è politico e la politica che entra nel personale, il sogno infranto di Parco Lambro, il girovagare per il mondo senza troppa nostalgia di casa, fino all’ultima speranza giocata a chemin de fer al Casinò di Campione.

«L’impressione di molti - fa dire Pagani a un amico di Sonny nelle ultime pagine del libro, datate dunque 1979 - è che stiamo andando incontro ad almeno vent’anni di sana e robusta reazione. Prima di tutto abbiamo dato un così triste spettacolo di noi che nessun ragazzo vorrà più sentir parlare di politica per lustri e lustri. E poi la grande Macchina del Sogno, del Consumo e del Consenso è ripartita a tutto vapore e nessuno riuscirà più a fermarla, almeno per un bel po’. E non c’è nemmeno molto che possiamo fare al riguardo, se non cercare di sopravvivere alla furia del vento...». Parole profetiche, seppur scritte con il senno di poi.

Solo dieci anni, quelli raccontati nel libro, che ha l’unico difetto di essere a tratti un po’ verboso (proprio come la generazione dell’autore...). Dieci anni, ma sembrano davvero molti di più. Gli entusiasmi collettivi virano in pacato disincanto. Si parte che si era ragazzi, si finisce che non lo si è più. E la musica, in qualche modo, se non ti ha salvato la vita sicuramente te l’ha segnata.

Quelli che invece hanno seguito la stella cometa della politica-politica, a guardarsi attorno, non si può dire che siano finiti meglio.

lunedì 3 agosto 2009

VAN DER GRAAF GENERATOR


Persino dall’Ungheria, con tanto di bandiera, ieri sera in piazza Unità per il concerto dei Van der Graaf Generator. Che in due ore di musica hanno dimostrato che si può avere alle spalle una storia lunga ormai quarant’anni (...!) ma proporre ugualmente suoni e suggestioni di grande attualità.

Il Trieste Rock Festival si è dunque concluso con un grande merito: farci rivedere e risentire - seppur mischiati ad altri esponenti assolutamente minori - alcuni dei maggiori protagonisti della miglior musica, italiana e straniera, degli anni Sessanta e Settanta. Farci insomma sapere ”che fine hanno fatto” quei musicisti che trenta o quarant’anni fa facevano sognare tanti ragazzi dell’epoca.

Ieri sera, con i Van der Graaf Generator, chiamati a chiudere questa sesta edizione della rassegna, a tratti è sembrato che quell’epoca, così ricca di furori creativi, non si fosse mai conclusa. Sì, perchè il cantante e pianista (e chitarrista) Peter Hammill, il tastierista Hugh Banton e il batterista Guy Evans sono fior di musicisti, artisti di razza, capaci ancora di dire la loro a quarant’anni dagli esordi.

C’erano tutti e tre, infatti, in quel nucleo originario del gruppo, che nacque all’università di Manchester. Lo strano nome? Copiato dal Generatore di Van der Graaff, strumento per creare differenze di potenziale elettrico. L’errata trascrizione del nome, con una sola effe, pare sia accidentale.

Un paio di 45 giri nel ’68, il debutto vero e proprio nel ’69 con ”Aerosol Grey Machine”, poi un altro paio di album (”The least we can do is wave to each other” e ”H to he who am the only one”), prima della consacrazione arrivata con un disco intitolato ”Pawn hearts”, uscito nel ’72. Per alcuni anni Hammill, da sempre il leader, alternò l’attività con il gruppo (”Godbluff”, ”Still life”...) all’esperienza solista, prima di dedicarsi completamente a quest’ultima e chiudere la ditta nel ’78.

Pochi anni fa, nel 2004, quando forse nessuno ci sperava più, la reunion. Con a fianco di Hammill sempre il sassofonista David Jackson, che però ha da poco abbandonato la compagnia, e che il pubblico triestino ha visto l’anno scorso, qui al festival rock, ospite nel concerto dei napoletani Osanna.

Ma se qualcuno pensava che i Van der Graaf, senza i sassofoni di Jackson, avessero il fiato corto, ieri sera si è dovuto ricredere. Il ”generatore” pompa ancora grande energia, regala emozioni e suggestioni tuttora degne di nota.

Apertura con ”Interference patterns”, dal nuovo album ”Trisector”, pubblicato lo scorso anno. Ma poi subito indietro nel tempo, con ”Scorched earth” e soprattutto con ”Lemmings” (con il nostro che lascia il piano per la chitarra elettrica), da ”Pawn hearts”. Il concerto, teso vibrante ed emozionante, ha alternato pagine del presente (l’ultimo disco ma anche quello prima, ”Present”) e perle del passato. Come nel finale l’epica ”Man-erg”.

Il magrissimo Hammill, ora che ha passato la boa dei sessanta, si conferma personaggio geniale e controverso. Per lui la musica è sempre stata autoanalisi, percorsi mentali contorti, squarci visionari, forse lucida follia. Evans e Banton fanno la loro parte, e la formazione in trio si rivela molto equilibrata. Grande concerto, altro che reperti del passato.