domenica 31 maggio 2015

COLONNA SONORA YOUTH

YOUTH colonna sonora / autori vari (Warner) Snobbato a Cannes (ma era successo anche a “La grande bellezza”...), il film di Paolo Sorrentino “Youth - La giovinezza” ha anche una gran bella colonna sonora. Musica protagonista, insomma, ad accompagnare le vicende di Fred e Mick (Harvey Keitel e Michael Caine), come in tutti i film del regista napoletano. Tra i brani, quelli di Mark Kozelek, un cantautore statunitense molto stimato tra gli appassionati di musica “indie” per i suoi lavori sia con i Red House Painters (anni Novanta), che col suo nome e con quello di Sun Kil Moon. Paloma Faith (premiata ai Brit Awards di quest’anno) nel film interpreta se stessa. Il singolo del videogioco della massaggiatrice è “She wolf (Falling to pieces)” di David Guetta con Sia. La band che suona cover nell’albergo è una vera band di Manchester con un repertorio vintage: si chiamano Retrosettes. Tra le altre musiche nel film c’è anche “Reality” dal “Tempo delle mele”. C’è anche Bill Callahan, cantautore “indie” che canta “The Breeze/My baby cries“, una cover di Kate Bloom. La “Simple song”, che nella storia è una composizione del personaggio di Michael Caine, è del compositore statunitense David Lang, che firma anche le musiche originali.

NUOVO ALBUM EROS RAMAZZOTTI, PERFETTO

«Quando si finisce un lavoro - dice Eros Ramazzotti, classe ’63, in carriera da oltre trent’anni -, un progetto o qualsiasi altra cosa, la si guarda, le si dà l’ultimo ritocco e poi si dice: perfetto. Ecco, il mio disco l’ho voluto chiamare cosi, un’espressione usata in tutto il mondo e riconoscibilissima...». Spiegata la genesi del titolo - che è comunque anche quello di una delle canzoni del disco -, ascoltiamo il nuovo lavoro del cantante romano, che fra l’altro è una delle pochissime popstar italiane conosciute in mezzo mondo. L’album - dodicesimo in studio, che arriva dopo il successo di “Noi” - esce infatti in una sessantina di Paesi. Già nel singolo che ne ha anticipato l’uscita, “Alla fine del mondo”, si coglieva una voglia di cose nuove, una sana curiosità per suoni e atmosfere in passato non frequentate dal nostro. Brano dal sound internazionale, che forse sorprende i vecchi seguaci del nostro perchè strizza l’occhio a sonorità country-folk, con l’utilizzo di strumenti acustici molto particolari. E poi quel testo (firmato dallo stesso Eros con la collaborazione di Francesco Bianconi dei Baustelle e del “Kaballà” Giuseppe Rinaldi), che è un vero e proprio inno alla libertà: per amore si va fino “alla fine del mondo”, si possono attraversare praterie sconfinate, territori inesplorati, insidie, pericoli. Quasi come moderni Don Chisciotte, per seguire un sogno siamo disposti a combattere contro i mulini a vento, contro giganti reali o immaginari. Per amore si corre liberi come “la pietra rotolante” di Bob Dylan, si muove “il cielo, il sole e l’altre stelle” come nella Divina Commedia di Dante. Il video - girato tra il deserto dell’Almeria, nel sud della Spagna, e la periferia di Milano - è il giusto compendio di un brano del genere. Ma tutto l’album - registrato a Los Angeles - conferma la scelta del cantautore romano: suoni semplici e diretti, arrangiamenti complessi e articolati, sonorità pop che più volte cedono a tentazioni country, folk e rock. Fra gli autori che affiancano Ramazzotti, da segnalare l’eterno Mogol, ma anche Federico Zampaglione e Pacifico, oltre ai citati Kaballà e Francesco Bianconi. Fra i musicisti che suonano nel disco, pezzi grossi come i batteristi Vinnie Colaiuta e Jim Keltner, i chitarristi Michael Landau, Lawrence Juber e Tim Pierce, il bassista Sean Hurley. Insomma, disco italianissimo che vibra di un’anima internazionale utilissima per essere accettato - e venduto - in tutti i continenti. Fra i brani, oltre a quelli citati, “Il tempo non sente ragione”, “Sbandando”, “L’amore è un modo di vivere”, “Tra vent’anni”... Il nuovo tour partirà l’11 settembre da Rimini, avrà una sola tappa triveneta (16 e 18 settembre, all’Arena) e altre tre più o meno vicine alla nostra zona: 22 settembre a Lubiana, 24 settembre a Belgrado, 22 ottobre a Monaco di Baviera.

FESTIVAL ROCK EUROPEI

Estate, tempo di rock, di concerti, di festival. Non sempre, anzi, raramente “a due passi da casa”. Anche l’imminente stagione calda del 2015 brilla infatti di tanti show che attirano ragazze e ragazzi in mezza Europa. Dove, quarantasei anni dopo Woodstock, al fascino della musica si aggiunge quello del viaggio e dell’avventura. Alcune segnalazioni, all’interno di un programma ricchissimo. Cominciamo dall’ormai leggendario Sziget di Budapest, dal 10 al 17 agosto. L’anno scorso la pioggia ha (in parte) rovinato la festa, quest’anno si spera nel sole per festeggiare Robbie Williams, Florence + The Machine, Kasabian, alt-J, Interpol, Sbtrkt, Infected Mushroom, Marina & the Diamonds, Goran Bregovic e altri protagonisti della scena internazionale. Info www.szigetfestival.com Due rassegne per chi vuole puntare sull’Inghilterra. Dal 24 al 28 giugno si converge su Glastonbury, che schiera fra gli altri The Who, Paul Weller, Florence and the Machine, Kanye West. E dal 28 al 30 agosto a Reading c’è l’ormai famoso festival nato all’inizio degli anni Settanta, quest’anno con Mumford & Sons, Metallica, Royal Blood, The Libertines, deadmau5, Jamie xx, The Wombats. Info www.readingfestival.com Se volete spingervi fino alla patria degli U2, dal 4 al 6 settembre, a Stradbally, c’è l’Electric Picnic, che è stato definito “la versione irlandese del Glastonbury”. Tanto rock alternativo e un pizzico di elettronica, con Manic Street Preachers, Florence + The Machine, Underworld, Tame Impala, The War On Drugs, Belle And Sebastian... A Dour, in Belgio, dal 15 al 19 luglio, c’è il Dour Festival. Nato nell’89, quest’anno propone Autechre, Floating Points, Fritz Kalkbrenner, Modeselektor, Snoop Dogg, The Wombats. Sempre in Belgio, a Boom, dal 24 al 26 luglio ritorna il festival di musica elettronica Tomorrowland. Dopo i 400mila spettatori dell’anno scorso, quest’anno sul palco principale suonano Avicii, David Guetta, Armin Van Buuren, Prosumer, Martin Garrix, Tiësto... Elettronica anche a Pola, in Croazia, dove dal 26 al 30 agosto si svolge Dimensions. Le star: Four Tet, Little Dragon, Floating Points, George Clinton & Parliament Funkadelic, John Talabot. Ultime due segnalazioni per chi ha già lo zaino pronto e non ha problemi di esami. Dal 5 al 7 giugno, a Mendig, in Germania, tutto è quasi pronto per il Rock Am Ring Festival. In scena fra gli altri Prodigy, Foo Fighters, Bastille, Slipknot, Interpol, Hozler. E dal 12 al 14 giugno, a Landgraaf, in Olanda, è in programma il Pinkpop Festival. Le star? Ancora Robbie Williams e Foo Fighters, Muse, Selah Sue, Elbow...

venerdì 29 maggio 2015

CARTA DI TRIESTE / dal sito di ARTICOLO 21

di Carlo Muscatello Conosciamo la Carta di Treviso sulla tutela dell’infanzia, la Carta di Roma sul rispetto per i migranti, conosciamo altri documenti deontologici che i giornalisti si sono dati nel corso degli anni, ma poco o nulla sappiamo della Carta di Trieste. Si tratta di un “codice etico per i giornalisti e gli operatori dell’informazione sulle notizie concernenti cittadini con disturbo mentale e questioni legate alle salute mentale in generale”, che è stato redatto a Trieste, nel 2010, nello splendido parco di San Giovanni che un tempo ospitava un manicomio: quello dove si realizzò la “rivoluzione basagliana” che ebbe il suo approdo normativo nella Legge 180. La Carta di Trieste fu fatta propria dal consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Sono passati cinque anni. Ma su quel documento così importante è calato il silenzio dentro e fuori la categoria. Molti, come si diceva, non ne conoscono nemmeno l’esistenza. Per questi motivi l’Assostampa del Friuli Venezia Giulia si è fatta promotrice di un incontro, che si è svolto a Trieste, al Circolo della Stampa, e che l’Ordine regionale dei giornalisti ha inserito fra i corsi di formazione professionale. Davanti a una folta platea di giornalisti (attirati – ahinoi – probabilmente più dai crediti da accumulare che dall’interesse per il tema…), protagonista del dibattito è stato lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, uno degli “eredi” di Franco Basaglia, per tanti anni direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, autorità in materia riconosciuta a livello internazionale, che è stato stimolato dalle domande della giornalista Gabriella Ziani, dei presidenti dell’Ordine e dell’Assostampa regionale e di diversi colleghi presenti. “Non sono qui per dire cosa dovete o non dovete scrivere – ha detto fra le tante cose Dell’Acqua -, vi invito solo a ricordare che davanti a noi, davanti a voi c’è sempre una persona. La Legge 180 non ha chiuso solo i manicomi: ha restituito diritti anche a persone affette da disagio o malattia mentale. Si badi bene, senza decolpevolizzare nessuno: credo infatti che bisogna sempre riconoscere al cittadino la propria responsabilità, senza la quale un uomo non esiste…”. Dell’Acqua ha fatto anche un interessante parallelo fra l’ormai famosa frase di Emma Bonino, pronunciata oltre un anno fa alla scoperta di avere un tumore ai polmoni (“Io non sono la mia malattia…”) e il lavoro avviato tanti anni fa da Basaglia assieme all’equipe di cui anche lui, giovane psichiatra arrivato da Salerno in quella Trieste che non avrebbe più abbandonato: anche allora di tentava di riaffermare il diritto di ogni essere umano, di ogni donna e di ogni uomo, a essere considerato tale, con i suoi diritti e i suoi doveri, a prescindere dal proprio disagio o dalla propria malattia. Da Peppe Dell’Acqua, dall’Assostampa e dall’Ordine del Friuli Venezia Giulia, l’appello a rilanciare, cinque anni dopo la firma, la Carta di Trieste. Che prescrive: usare termini non lesivi della dignità umana, o stigmatizzanti, per definire il cittadino con disturbo mentale qualora oggetto di cronaca, il disturbo di cui è affetto, il comportamento che gli si attribuisce, per non alimentare il già forte carico di tensione e preoccupazione che il disturbo mentale comporta e non indurre sentimenti o reazioni che potrebbero risultare dannosi per la persona, i suoi familiari e la comunità nell’insieme; usare termini giuridici pertinenti e non allusivi a luoghi comuni nel caso un cittadino con disturbo mentale si sia reso autore di un reato, tenendo presente che è una persona come le altre di fronte alla legge; non attribuire le cause e/o l’eventuale efferatezza del reato al disturbo mentale né interpretare il fatto in un’ottica pietistica, decolpevolizzando il cittadino solo perché che soffre di un disturbo mentale; considerare il cittadino con disturbo mentale un potenziale interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, tenendo presente che può ignorare le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media; non identificare il cittadino con il suo problema di salute mentale ovvero con la diagnosi di malattia; garantire al cittadino con disturbo mentale il diritto di replica; consultare quanti possono essere al corrente dei fatti per individuare visioni differenti come operatori della salute mentale e dei servizi sociali, associazioni, magistrati, per poter fornire l’informazione in un contesto il più possibile chiaro, approfondito e completo; fornire dati attendibili e di confronto tra i reati commessi da persone con disturbi mentali e persone senza disturbi mentali; integrare, se possibile, la notizia con informazioni sui servizi, strumenti, trattamenti, cure che sono disponibili nelle singole realtà locali; promuovere la diffusione di storie di guarigione e/o di esempi di esperienze positive improntate alla speranza e alla possibilità di vivere, pensare a un proprio futuro, lavorare, studiare, divertirsi, pregare; limitare l’uso improprio di termini relativi alla psichiatria in notizie che non riguardano questioni di salute mentale al fine di non incrementare il pregiudizio che i disturbi mentali siano sinonimi di incoerenza, inaffidabilità, imprevedibilità.

martedì 26 maggio 2015

DI TRAPANI (USIGRAI) OGGI LUN 25-5 A TRIESTE

Da anni aspettiamo una riforma della Rai, che liberi il servizio pubblico dal controllo dei partiti e dei governi. E ora che la riforma pare in dirittura d’arrivo, il timore di molti - sindacato dei giornalisti in testa - è che si tratti in realtà di una sorta di controriforma. «L’azienda - conferma Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai e gruppo di base della Fnsi, che partecipa oggi alle 17 al Circolo della Stampa di Trieste (Corso Italia 13) a un dibattito organizzato sul tema dall’Assostampa Fvg - ha approvato un progetto di riforma delle news che non ci piace: sembra essere pensato come operazione esclusivamente contabile, senza prendere in considerazione il prodotto e senza un’idea strategica per assicurare ai cittadini più informazione, e di migliore qualità». Voi invece cosa proponete? «Il progetto dell’azienda non parla di valorizzazione dei territori. La Rai, invece, deve tornare a essere presente in ogni provincia». Come nel Friuli Venezia Giulia? «Sì, la vostra sede regionale può essere presa d’esempio sia per la copertura capillare che per l’informazione e i programmi in lingua slovena. La Rai deve tornare a essere più vicina ai cittadini, unici proprietari del servizio pubblico». Il web? «Nel piano aziendale non si parla di web. L’informazione, soprattutto per giovani, passa da lì: per costruire la Rai del futuro bisogna mettere in campo un’idea strategica di presenza sui “social” e su tutte le piattaforme». L’approfondimento? «Oggi gran parte dell’approfondimento non è gestito dalle testate: un errore. Che determina anche un aumento dei costi. A nostro giudizio, quell’informazione deve tornare a essere guidata dalle testate giornalistiche. Ecco perché questi temi sono i pilastri della proposta Usigrai, la piattaforma RaiPiù, approvata con un referendum tra tutte le giornaliste e i giornalisti Rai con l’82% di sì». Nei giorni scorsi siete stati sentiti dall'ottava Commissione del Senato. «Siamo andati insieme Fnsi e Usigrai: il sindacato dei giornalisti unito per chiedere che finalmente si liberi la Rai dai partiti e dai governi, e la si restituisca ai cittadini. Abbiamo incontrato anche i presidenti del Senato e della Camera, siamo stati ascoltati in Commissione parlamentare di vigilanza Rai». Rischiamo di passare dal controllo dei partiti all’uomo solo al comando? «Lo dicevamo negli anni passati, lo diciamo ora. Un sindacato serio non cambia idea in base al colore del governo di turno. Renzi ha promesso: vogliamo prendere la Rai, eliminare gli sprechi, e restituirla ai cittadini che sono i veri titolari del servizio pubblico». «Noi - conclude Di Trapani - ci crediamo. Ma il disegno di legge non va in questa direzione. Anzi, rafforza il peso del governo e della maggioranza parlamentare».

FOLKEST RIPARTE DA HEVIA, FINARDI, BRANDUARDI...

Trieste Loves Jazz nel capoluogo giuliano. No Borders a Tarvisio. Ospiti d’Autore a Grado. Udine Jazz. L’itinerante Onde Mediterranee. Tanti altri festival e rassegne, grandi e piccoli, che animano ogni estate il Friuli Venezia Giulia. Che anche al netto della perdita del Rototom Sunsplash - emigrato da alcuni anni in Spagna, a Benicassim, dopo una persecuzione moralistico giudiziaria conclusa pochi giorni fa con l’assoluzione del suo patron Filippo Giunta -, rimane un grande palcoscenico per la musica dal vivo. In questo quadro, un ruolo di assoluto rilievo lo riveste Folkest, la rassegna che giunge quest’anno alla 37.a edizione e viene da tempo annoverata fra le manifestazioni più importanti a livello europeo nel campo della musica popolare. L’International Folk Festival (questo il sottotitolo della manifestazione organizzata dall’omonima associazione capitanata da Andrea Del Favero) si terrà quest’anno dal 2 al 27 luglio, a Spilimbergo e dintorni. Programma ancora in via di definizione, ma stanno uscendo le prime anticipazioni. Grandi nomi della musica italiana, come i cantautori storici Eugenio Finardi e Angelo Branduardi (rispettivamente 25 e 27 luglio a Spilimbergo), il suonatore di arpa celtica Vincenzo Zitello (23 luglio a Spilimbergo)), un virtuoso di cornamusa asturiana come lo spagnolo Hevia il 19 luglio a Tolmezzo, gli storici New Trolls il 17 luglio a Capodistria. Arrivano persino maestri del vecchio hard rock come gli Uriah Heep (31 luglio a Lignano), di cui da queste parti qualcuno ancora ricorda un leggendario concerto, nel dicembre del ’71 (oltre quarantatre anni fa...), al Dancing Paradiso di via Flavia, a Trieste. Da segnalare anche il ritorno, tre anni dopo, di un “non-musicista” di assoluto talento come Neri Marcorè, l’11 luglio a Udine. E ancora giovani come i piemontesi Folkestra e Folkoro di Bricherasio, gli irlandesi Goitse, gli istriani Manuel Savron e Rok Kleva, il Duo Bottasso... E la riedizione, il 15 luglio a San Vito al Tagliamento, dello storico “Bella ciao”, che debuttò nel ’64 a Spoleto, con Giovanna Marini, regia di Dario Fo. Un programma che si preannuncia dunque ricco e composito, come nella storia di questa rassegna che ha portato a Spilimbergo e in tutto il Friuli Venezia Giulia (con qualche puntata anche nei paesi confinanti) tantissimi artisti che hanno scritto la storia della musica popolare degli ultimi cinquant’anni. Con una formula itinerante quanto mai azzeccata, che il passare degli anni non ha fatto che esaltare. Info www.folkest.com.

LACOSEGLIAZ E L'ARTE DELLA GUERRA

Domani alle 11 alla Galleria Espositiva di Monfalcone, nell’ambito della mostra “Ali della storia”. Domenica a Trieste, al Caffè San Marco, dalle 10 alle 19. Stiamo parlando de “L’insostenibile arte della guerra”, sottotitolo “Installazione semi-tragica attorno alla Grande Guerra”, la performance multimediale che il musicista triestino Alfredo Lacosegliaz ha realizzato per il centenario del conflitto e presentato a Mittelfest. «L’idea dell’installazione - spiega l’artista - nasce nel 2013 come autodifesa nei confronti del bombardamento di retorica previsto in occasione del centenario della Grande Guerra. A ricordare valori un po’ sbiaditi, quando non grotteschi. Perchè resto convinto, come diceva Samuel Johnson, che “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”». Ancora Lacosegliaz: «Con sprezzo del dovere e senso del pericolo, ho allestito questa performance dedicandola al nonno paterno Matteo, caduto in Galizia, che mio padre mai conobbe». Lo spazio sonoro/visivo è diviso in tre postazioni contigue che si accendono e si spengono all’interno di un “ingranaggio in continuo movimento” in cui suono, luce, parola e immagine indicano il percorso allo spettatore. In video intervengono l’attore e musicista Moni Ovadia, la giornalista Barbara Schiavulli, lo storico Fabio Todero, la cantante Ornella Serafini e la poetessa Antonella Bukovaz. «Ho scelto questo titolo - prosegue l’artista - perchè il concetto di arte ha subito nel tempo trasformazioni e adattamenti dati dalle condizioni storiche e dalle conquiste scientifiche avvenute nel corso dei secoli. Ma nell’accezione odierna, l’arte rappresenta l’espressione estetica dell’interiorità umana, strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e messaggi soggettivi. Risulta dunque difficile inserire la pratica della guerra all’interno di una classificazione artistica. Eppure, i reportage continuano a definire “teatri/scenari di guerra” le aree degli avvenimenti bellici». «Ma è insostenibile - conclude - inserire la guerra fra le discipline artistiche...». La performance è proposta dall’associazione culturale Alpe di Trieste in collaborazione con il Consorzio Culturale del Monfalconese e l’Ecomuseo “Territori, genti e memorie tra Carso e Isonzo”.

lunedì 18 maggio 2015

SULL'ABOLIZIONE DEL CARCERE...

Chi ruba miliardi spesso la fa franca, ma per chi ruba una mela, ahinoi, non c’è scampo. Vecchia e disincantata saggezza popolare, che potrebbe finire in soffitta, almeno nella seconda parte dell’assunto. Grazie a una nuova norma, che comincia a essere applicata nelle aule dei nostri tribunali. Pochi giorni fa una donna, denunciata per il furto di un paio di ciabatte del valore di 12 euro, è stata infatti assolta a Trieste grazie all’applicazione di un nuovo istituto giuridico: la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa. Con il Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto”, è stato introdotto l’articolo 131 bis del codice penale. La norma, che ha lo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali, sembra anche ispirata a una logica di buon senso, introduce di fatto una depenalizzazione. E riguarda i reati puniti con pena detentiva non superiore a cinque anni o con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. La novità si applica a tutte le contravvenzioni e a molti delitti. Tra questi: violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia aggravata, alcuni delitti contro l’inviolabilità del domicilio e numerosi reati contro il patrimonio (furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita...). Condizioni per l’applicazione della nuova norma: essere in presenza di un reato che provoca un’offesa di particolare tenuità e il fatto che il comportamento del reo dev’essere non abituale. Ma la fattispecie citata potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova stagione giuridica. All’insegna dell’abolizione del carcere. Potrebbe sembrare una provocazione. Ma si ricordi che anche quando, proprio da Trieste e Gorizia, Franco Basaglia lanciò la sua battaglia per la chiusura dei manicomi, sfociata nel 1978 nella legge 180, nota come “legge Basaglia”, beh, anche quella all’inizio sembrò a molti una provocazione. In questi giorni è arrivato nelle librerie un saggio che analizza questi temi: “Abolire il carcere - Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” (pagg. 121, euro 12, edizioni Chiarelettere), che comprende i contributi di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Partiamo da alcuni dati. In Francia e in Inghilterra soltanto il 24% dei condannati va in carcere, in Italia siamo ancora all’82%. Ma perchè i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area della carcerazione? Non certo per lassismo, o per un permissivismo quanto mai fuori luogo. La carcerazione va ridotta ai casi strettamente necessari, e in ultima analisi bisogna andare verso l’abolizione delle carceri, per il semplice e comprovato motivo che queste ultime servono soltanto a riprodurre crimini e criminali. E inoltre tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Che all’articolo 27, dopo aver ricordato che “la responsabilità penale è personale”, che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e prima di aver confermato che “non è ammessa la pena di morte”, nel terzo comma recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducazione, sì. Le nostre prigioni, al di là dei serissimi problemi dovuti al sovraffollamento, sono delle vere e proprie università del crimine. Nelle quali chi ruba in un supermercato finora divide la cella con chi ha commesso crimini efferati. Poi, quando si esce, spesso ci si ricasca. La percentuale di recidiva è infatti altissima. Le statistiche dimostrano che chi ha scontato la pena in carcere torna a delinquere nel 68% dei casi. E con una frequenza maggiore rispetto a chi invece abbia beneficiato di misure alternative o comunque di sanzioni diverse dalla reclusione. Nel saggio si sostiene che la detenzione in strutture spesso fatiscenti e quasi sempre sovraffollate deve essere dunque abolita. E sostituita possibilmente da misure alternative più adeguate, efficaci e tutto sommato anche più economiche. Gli autori sono consapevoli del fatto che in questa partita di confrontano due esigenze diverse, ma solo apparentemente opposte: da un lato quella di soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori dei reati più gravi (che fra l’altro sono soltanto una piccola percentuale del popolo dei detenuti), dall’altro il diritto del condannato al reinserimento sociale al termine della pena. Attualmente disatteso. «Perché - si domanda nel libro Luigi Manconi, sociologo, parlamentare Pd, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente». Ancora Manconi: «Il carcere va abolito pure perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che e quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent’anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per liberarsi dalla necessità del carcere». Avverte Gustavo Zagrebelsky nella postfazione del libro: «La Costituzione non identifica la pena con il carcere, anche se le “restrizioni alla libertà personale” e la “carcerazione preventiva” dell’articolo 13 mostrano che, sullo sfondo, stava anche allora l’idea che la società non possa esistere senza appoggiarsi al carcere. Ma la pena carceraria non è certamente un istituto “costituzionalmente necessario”, né, per così dire, la “prima scelta” in materia di pene. È una possibilità giuridica alla quale si può attingere per necessità». Oppure fare una scelta diversa. Una scelta di civiltà.

domenica 3 maggio 2015

LINO STRAULINO, many sides

«Ho dedicato alla lingua friulana trent’anni, ora sentivo il bisogno di “attaccare” l’inglese che mi ha sempre affascinato dal punto di vista musicale. Considero “Straw Lee No” una specie di fratellastro giramondo che culturalmente non appartiene a nessuna nazione, anche se nella sua musica si sente l’influenza del blues e della musica afroamericana in genere». Lino Straulino presenta così il nuovo album “Many sides”, firmato ironicamente “Straw Lee No”, che sarebbe poi il modo in cui gli inglesi scriverebbero il suo cognome. Classe 1961, carnico di Sutrio, udinese di adozione, il cantautore è un ricercatore e interprete della tradizione musicale friulana. Suona nei teatri e nelle osterie, dopo una carriera trentennale sempre in bilico fra folk, rock e blues, è considerato uno dei maggiori esponenti della Nuova musica friulana. Ma ora canta in inglese. «Sono canzoni - spiega - che ho scritto in un momento difficile della mia vita, persone care se ne stavano andando per sempre e avevo bisogno di rigenerarmi spiritualmente per mantenermi vivo. Pertanto ho scritto queste canzoni "terapeutiche", semplici e buone, in grado di farti rifiatare prima di riprendere il cammino». Ancora Straulino: «Fin dagli inizi della mia carriera ho guardato con ammirazione alla scrittura dei grandi artisti internazionali e per anni mi sono sentito molti gradini al di sotto del loro livello. Li ho ascoltati e riascoltati mille volte, ho studiato la storia che sta dietro al loro modo di scrivere e credo alla fine di averne carpito alcuni segreti. Si tratta sempre comunque di musica popolare, che sia suonata con un ukulele o con un campionatore, e come tale va considerata». «Ho applicato - prosegue l’artista - tecniche compositive tipiche di folk, rock e blues di stampo anglosassone o americano. Dobbiamo riconoscere il valore musicale dell’inglese, se pensiamo a quanto è stato cantato e suonato negli ultimi 60 anni. Io ho voluto giocare con l’inglese, tirando fuori un repertorio “classico” ma composto da me. Magari ispirandomi agli amori musicali della mia adolescenza: da Bob Dylan a Nick Drake, passando per Curtis Mayfield e Bill Withers...». “It’s been a long way” è il singolo estratto dall’album. Per il quale è prevista una promozione a carattere nazionale.

LORENZO FRAGOLA, 1995

LORENZO FRAGOLA “1995” (Sony) Il rischio, in casi come questo, è bruciarsi. Dall’anonimato alla popolarità, passando per la vittoria a “X Factor” e il palco di Sanremo, in pochi mesi. Ma il ventenne ragazzo catanese sembra possedere l’antidoto per non fare la stessa fine toccata a molti prima di lui. Questo suo album di debutto, che ha per titolo il suo anno di nascita, suona bene: in quel terreno di mezzo che sta fra il pop e il soft rock, strizzando a tratti l’occhio al folk e persino alla dance, Lorenzo (le cui fan si fanno chiamare “Fragoline”...) si destreggia con abilità e una certa accortezza. Oltre all’ormai nota “The reason why”, i brani sono “The rest”, “La nostra vita è oggi”, “Distante”, “Best of me”, “Homeland”, “Da sempre”... C’è anche la cover di “Dangerous”, di David Guetta. Se non si monta la testa e non si fa stritolare dallo show business, potenzialmente è una popstar di livello e ambizioni internazionali. Tutto sta a vedere come muove i prossimi, decisivi passi.

VENDITTI, TORTUGA

Dice: «Tortuga è un luogo ideale, è un’isola, è la voglia di libertà, dove ci sono ragazze che ballano, voglia di divertirsi, voglia di futuro, generi musicali diversi dai tuoi». Tortuga, come quel bar di fronte al “suo” liceo Giulio Cesare, a Roma, quartiere Trieste. Antonello Venditti è un furbacchione. Sessantasei anni compiuti a marzo, quarantacinque anni di carriera, oltre trenta milioni di dischi venduti, il cantautore romano arriva al suo diciannovesimo album in studio (dunque raccolte e “live” esclusi), senza “tradire” il suo marchio di fabbrica. L’album arriva a quattro anni di distanza dal precedente “Unica” e segna la rottura della collaborazione durata oltre trent’anni con lo storico produttore Alessandro Colombini. Ma il cambio in cabina di regia, dove ora siede Alessandro Canini, non sembr aver portato particolari novità. A dimostrazione del fatto che le redini, in fase di realizzazione dei dischi, le tiene ben salde in mano Antonellone nostro. Canzoni d’amore, grandi melodie, storie da raccontare, suoni tosti, strizzatine d’occhio a qualche andatura più ritmata. Ricetta che funziona da tanto tempo, generazione dopo generazione, e che dunque non si ritiene necessario cambiare. Brani come “Non so dirti quando”, “Tienimi dentro te” e “L’ultimo giorno rubato” hanno per tema la fine di una storia d’amore: un classico, per l’autore di tanti classici sull’argomento, anni fa - e ora si presume e si spera non più - ispirati all’eterna musa Simona Izzo, con cui era stato sposato per qualche anno nei lontani anni Settanta. “Cosa avevi in mente” è il primo singolo estratto. Atmosfera pop-rock al punto giusto, peraltro come anche in “Nel mio infinito cielo di canzoni” e “Attento a lei”. Mentre “Ti amo inutilmente” denuncia persino qualche tentazione dance. “Non so dirti quando”, “Tienimi dentro te” e la stessa “Tortuga” sono le classiche ballatone d’impianto orchestrale che abitano spesso il canzoniere vendittiano. Nove canzoni nuove, che non aggiungono molto alla storia del nostro. Nessun capolavoro, nessun potenziale classico, dunque, ma un disco onesto e mai banale che piacerà a quanti hanno amato e amano questo artista. Un viaggio sentimentale che parte dal passato per arrivare ai giorni nostri, fra nostalgia, disincanto, senso di smarrimento. E Tortuga, non sappiamo quanto consapevolmente, diventa una metafora di Roma e dell’Italia, dei ragazzi di ieri che sono diventati gli adulti di oggi... Concertone il 5 settembre allo Stadio Olimpico, a Roma. Poi il nuovo tour autunnale.

ADDIO A CHIARA STRUTTI, DONNA DELLA "RIVOLUZIONE BASAGLIANA"

Chiara Strutti amava la vita. E alla vita è rimasta aggrappata fino all’ultimo, fino a quando l’altro giorno si è dovuta arrendere a un male che si era palesato all’inizio dell’anno scorso, poche settimane dopo aver festeggiato con la figlia Caterina e pochi cari amici il suo sessantesimo compleanno. La psichiatria, la rivoluzione basagliana hanno segnato e indirizzato la sua vita. A diciotto anni volontaria nel manicomio di San Giovanni, è fra i ragazzi che organizzano i primi concerti (Ornette Coleman, Area, Giorgio Gaslini...) che aprono il grande parco ai giovani, alla città, alla libertà. Una lunga carriera professionale partita dall’equipe di Franco Basaglia la porta a lavorare in Italia e all’estero: dopo Trieste, le periferie degradate di Napoli, le banlieu a Parigi, altri manicomi ad Atene. E ancora Belgrado, l’Albania, la Colombia, il Nord Africa. In Argentina e Uruguay collabora a importanti cambiamenti nella legislazione minorile e a programmi di formazione teorica e pratica del personale locale. In Tunisia cura progetti per facilitare l’accesso dell’infanzia e dell’adolescenza ai servizi sanitari. Impegni con l’Organizzazione mondiale della sanità, con l’Unicef. Progetti per le Nazioni Unite, per il ministero degli Affari Sociali in Francia, per la Cooperazione allo sviluppo italiana: psichiatria ma anche programmi sociosanitari a favore dei “bambini di strada” e dei minorenni ad alto rischio. Missioni sul campo nelle Villas Miserias, aree urbane marginali di Buenos Aires e Montevideo: un progetto dal nome “Ninos de la calle”, che diventa “Pibes unidos”. Poi di nuovo Trieste, Gorizia. Fondatrice fra l’altro della Conferenza per la salute mentale nel mondo intitolata a Franco Basaglia. Sabato 16 maggio alle 18, nel roseto di quel parco di San Giovanni che l’aveva vista arrivare ragazza, la ricorderanno in una cerimonia laica quanti l’hanno conosciuta e apprezzata. (Ca.m)