mercoledì 22 aprile 2015

GIOVANNI ALLEVI domenica a trieste, rossetti

Guerre, attentati, violenza, miseria. Eppure, come cantavano i Beatles, “all you need is love”, tutto quello di cui hai bisogno è amore. Quasi quarant’anni dopo (il brano-manifesto dei Fab Four è del ’67...), ne è ancora convinto anche Giovanni Allevi, il pianista marchigiano mezzo classico e mezzo pop, ormai riconosciuta star internazionale, il cui ultimo album s’intitola appunto “Love”. E il cui tour fa tappa domenica a Trieste, al Politeama Rossetti. Sul sito del Piccolo (www.ilpiccolo.it) è possibile vincere due pass per il concerto, rispondendo a una semplice domanda. «Viviamo un tempo - dice l’artista, classe ’69 - in cui l’odio sembra prendere il sopravvento. A me piacerebbe essere strumento delle parole di Papa Francesco e del suo invito a ritrovare lo stupore nei confronti dell’altro, ad accettare le differenze, andando oltre le ideologie». Nel disco troviamo anche “Loving you”, “Lovers”, “Amor sacro”... «Sì, l’amore è il tema del disco: mi conduce verso realtà misteriose dove regna l’inconoscibile, il buio dell’anima dal quale all’improvviso irrompe una luce. L’amore è qualcosa di centrale attorno al quale costruire la nostra esistenza, più importante della felicità». Come è arrivato a concepire questa dichiarazione d'amore universale? «Vivendo più intensamente possibile, ascoltando i pianti di donne impazzite, osservando bimbi giocare. Ho voluto dare una voce musicale ad un mondo fantastico inascoltato». Quattro anni dopo “Alien” e dopo l'esperienza sinfonica di “Sunrise”: cosa le è successo in questo periodo? «Mi sono più volte perso e trasformato in un cuore pulsante. Non ho un approccio analitico alla mia musica. Sono istintivo, ho lasciato le redini, lascio che la musica si esprima senza che io mi ponga delle domande. Prossimi progetti? «Come artista tento di esplorare in maniera sempre più profonda differenti parti di me, raccontare in note lo sconosciuto, in un viaggio che non avrà mai fine». L’album comprende tredici brani, tredici pagine di un diario musicale che raccontano l’amore nelle sue molteplici forme. Ecco allora l’amore romantico della citata “Loving you”, quello quotidiano in “Come with me”, quello fisico di “Lovers” e quello struggente di “Asian eyes”. E ancora quello sublime di “Amor sacro”, quello per le persone più care di “My family” e “La stanza dei giochi”, l’estasi d’amore di “Yuzen”, l’amore per le cose semplici di “Sweetie pie” e per quelle più complicate in “It doesn’t work”. Ma c’è anche l’amore per se stessi, forse il più difficile, in “L’Albatros” (ispirato alla poesia di Baudelaire), e per i lati più complessi della propria personalità in “The other side of me”. Fino al desiderio di libertà cosmica di “Asteroid 111561”, dal nome dell'asteroide che la Nasa ha intitolato all’artista. L’album - il nono in studio, uscito a gennaio e anticipato dai singoli “My family” e “Loving you” - è stato masterizzato agli Abbey Road Studios di Londra: di nuovo Beatles, dunque, ma anche tanti altri capolavori della musica moderna. «Masterizzare un album - spiega Allevi, da un anno e mezzo ambasciatore mondiale di Save The Children - significa realizzare il suono finale. Degli Abbey Road Studios ho grandi ricordi visivi: molte stanze piene di bobine con il nastro grande e di apparecchiature a valvole, sembrava di essere a metà Novecento. Ricordo bene il lampo negli occhi dei tecnici orgogliosi di essere aggrappati a un mondo che fu senza iper tecnologia. Il decano degli ingegneri del suono, Ian Jones, che ha curato gli ultimi dischi della Callas mi ha detto: il sound va bene così, è bello, appagante. Ascoltando quelle parole il mio ingegnere del suono si è commosso». Jones, autentica autorità in materia, ha detto anche: «Un suono morbido eppure potente, mai aspro e con una ricca estensione in bassa frequenza, per un’esperienza d’ascolto estremamente appagante». Il “Love solo piano tour” che ora arriva nel Friuli Venezia Giulia (la tappa triestina è l’unica regionale) è cominciato un mese fa, dopo la parentesi europea e la presentazione in anteprima mondiale a Londra di fine febbraio. Biglietti e informazioni su Ticketone.it e VivaTicket.it, nei punti autorizzati Azalea Promotion e al Rossetti.

domenica 19 aprile 2015

JAMES TAYLOR merc 22-4 a trieste

«Quando comincio a registrare un nuovo brano ho un’idea che mi gira per la testa di come il brano dovrebbe suonare. È raro che il prodotto finito sia all’altezza delle mie aspettative; per contro a volte sono completamente stupito del contrario. Questa volta sono assolutamente soddisfatto che ciascun brano sia esattamente quello che intendevo dovesse essere fin dall’inizio...». Parole di James Taylor, riferite al nuovo album “Before this world”, che uscirà a giugno, dopo questo nuovo tour italiano che fa tappa mercoledì al Rossetti di Trieste. È la prima volta nel capoluogo giuliano e la terza nel Friuli Venezia Giulia per il cantautore americano del Massachusetts, classe 1948, in carriera da quasi mezzo secolo. Stiamo parlando infatti di un gigante della musica del Novecento: oltre cento milioni di album venduti, cinque Grammy Awards, dischi d’oro e di platino, “uno dei più cento più grandi artisti di sempre” secondo la rivista Rolling Stone. «Sono felice - ci ha detto nell’intervista pubblicata nei mesi scorsi - di tornare a suonare in Italia, ci torno ogni volta che mi è possibile e cerco di portare con me sempre un maggior numero di musicisti. Sarò sul palco con musicisti straordinari, questa band è la goia della mia vita, è un piacere poter ascoltare la mia musica suonata da loro». Che sono Steve Gadd (batteria), Larry Goldings (tastiere), Michael Landau (chitarra), Jimmy Johnson (basso), Andrea Zonn (violino, cori), Kate Markowitz e Arnold McCuller (cori). Il nuovo album arriva a tredici anni dal precedente lavoro in studio “October road” e cinque anni dopo “Live at Troubadour”, cd/dvd seguito al concerto nello storico locale di Los Angeles e al tour con Carole King. Nelle dieci canzoni di “Before this world” (nove gli inediti) l’artista sviluppa i temi che hanno caratterizzato tutta la sua produzione: la riconciliazione (“Stretch of the highway”), la ripresa, (“Watchin’ over me”), la religione (“Before this world”), ovviamente l’amore (“You and I again”), persino il baseball (“Angels of Fenway”), l’inizio del suo viaggio (“Today today today”). Nella versione “de luxe”, il cd è accompagnato da un dvd contenente “There we were: The recording of James Taylor’s Before this world”, un documentario di trenta minuti girato durante la realizzazione del nuovo album. Nel brano che dà il titolo al disco c’è anche la voce di un ospite d’eccezione: Sting. «Il mio modo di esprimere me stesso e gli aspetti autobiografici - spiega James - è un “fil rouge” che collega tutti i miei album. Ritengo di essere cresciuto musicalmente e credo che la gente lo possa capire paragonando quello che suonavo nel ’68 e quello che canto oggi. Sono sempre io, ma in continua evoluzione. Mi sento come se volessi solo fare musica. Ho pensato parecchio al perchè io continui a fare questo mestiere, ma sento di avere ancora un profondo collegamento con ciò che faccio». Il nostro Paese, ci diceva nell’intervista, ormai lo conosce «abbastanza, qualche volta vengo anche in vacanza. Per me l’Italia è il paese più eccitante in cui suonare. A prescindere dalla bellezza dei luoghi, in un mondo globalizzato e sempre più omogeneo per via della diffusione comune di una cultura moderna, amo molto l’Italia perchè ha delle caratteristiche che la rendono sempre unica. Da musicista, invece, apprezzo molto l’energia che il pubblico mi trasmette, soprattutto in Italia, quando sono sul palco». Sull’essere ancora in scena dopo tanto tempo: «In vita mia non ho mai pensato a lungo raggio, all’inizio non sapevo nemmeno cosa mi sarebbe successo di lì a cinque o dieci anni, il massimo a cui la mia immaginazione mi avrebbe potuto portare era l’anno successivo. In tutto questo tempo ho solamente e sempre seguito un mio modo di comporre. Ho cominciato a quattordici anni, ascoltando musica folk e cercando di emulare quel che ascoltavo alla radio. Fu allora che formai la mia prima band...». La famiglia? «Del New England, nonni pescatori, siamo cresciuti sull’acqua. D’estate andavamo a Martha’s Vineyard, lì ho conosciuto Danny Kortchmar, suonava la chitarra, formammo assieme la nostra prima band nel ’65, The Flying Machine, suonavamo nei coffee shop, poi ci trasferimmo a New York per inseguire la musica». I Beatles? «Era il ’68, non avevo nulla da fare, andai a Londra a trovare un amico. La verità è che volevo suonare, vedere un po’ il mondo. Tramite un amico di Danny arrivai a Peter Asher, appena assunto alla Apple, la casa discografica dei Beatles. Ottenni un’audizione, c’erano McCartney e Harrison: andò bene, mi fecero pubblicare il mio primo album. Fu un’esperienza straordinaria. Ero un fan dei Beatles, vedermi apprezzato da loro rappresentò una svolta». Il ritorno negli States? «Ero dipendente dall’eroina, avevo bisogno di curarmi e disintossicarmi. Ci ho messo anni per uscire e recuperare e salvare mia vita. Sono felice di essere vivo, di non essere morto in quel periodo. Sì, sono stato fortunato». Prevendite dei biglietti in corso su www.ticketone.it e nei circuiti abituali. Informazioni sulla tappa triestina anche su www.progettolive.com

JACK SAVORETTI sab 18-4 a trieste INTERVISTA

Quando l’anno scorso tenne i primi concerti nel Friuli Venezia Giulia (prima a Udine, poi a ottobre a Trieste, in piazza Unità per la Barcolana, con un duetto con Elisa), non lo conoscevano in tantissimi. Sono passati in fondo solo pochi mesi, ma la popolarità di Jack Savoretti, inglese di origini italiane, classe ’83, è cresciuta in maniera esponenziale. Ora torna in Italia sulla scia del successo riscosso nel recente tour inglese, conclusosi con un “sold out” a Londra, nello storico “02 Shepherd’s bush empire”. Prima tappa venerdì a Treviso, seconda sabato a Trieste, al Teatro Miela. Dove presenterà il nuovo album “Written in scars”, pubblicato a febbraio ed entrato direttamente nei primi posti delle classifiche di vendita inglesi. Aprono la serata The Leading Guy. Jack, che cosa aggiunge questo disco alla sua storia? «”Written in scars” è il risultato della presa di coscienza del mio percorso e di quello che per me è stato ed è tuttora fare musica ed essere un cantautore. Il disco è un concept album vero e proprio. Ascoltando ogni brano si può comprendere ciò che ho vissuto e le cicatrici (scars - ndr) che ci si procura per ottenere un risultato. In Italia è di casa. E le sue radici sono qui... «Sì, sento di avere le mie radici in Italia ma sono cresciuto nel mondo vivendo negli Stati Uniti, in Svizzera, in Inghilterra. Spesso mi chiedono: qual è la tua casa? Ho sempre fatto fatica a rispondere. Sono arrivato a capire che il concetto di “casa” è uno stato d’animo più che un luogo. Proprio da questa mia particolare condizione è nato uno dei singoli del mio disco: “Home”». È vero che da piccolo sentiva i cantautori italiani grazie a suo padre? «Sì, quando mio padre, genovese, ascoltava la musica italiana si chiudeva nella sua stanza, si rilassava ed entrava a contatto con una parte di sé più intima: quella legata alle sue origini e ai suoi ricordi. Per me era qualcosa di speciale ed ero sempre incuriosito da quel suo modo di vivere la musica. È così che mi sono avvicinato ai cantautori italiani ed è così che sono riuscito a capire un'emotività che non era completamente mia ma mi apparteneva». Il paragone con Dylan? «Beh, quando sento questi commenti ne sono onorato ma allo stesso tempo mi rendo conto che è solo un modo per rendere identificabile quello che faccio. Io cerco di pensare alla musica e nient'altro anche perché ho imparato che se inizi a credere troppo ai commenti positivi rischi poi di credere anche a quelli negativi». Con Elisa, dopo il concerto triestino e quello di Verona? «La stimo molto, tra noi è nata subito una forte intesa. A Trieste, in particolare, si è creata una magia speciale e questo anche grazie al calore del pubblico». Qualche altro italiano con cui vorrebbe collaborare? «Ho sempre sostenuto che l'Italia è piena di talenti ma che servirebbe più spazio da dedicare a loro. Ad ogni modo, uno degli artisti italiani che più stimo e con cui ho collaborato già più volte è Zibba». Progetti? «Dopo i concerti italiani proseguirò il tour negli Stati Uniti e nel resto del mondo». Nel nuovo spettacolo? «Durante lo spettacolo verrà data importanza ai brani del mio nuovo album, ma non mancheranno i brani dei dischi precedenti a cui sono più legato e qualche sorpresa. Per saperlo dovete venirmi ad ascoltare...».

NINO D'ANGELO lun 13-4 a udine INTERVISTA

«Il mio tour riparte da Udine, dal Nordest italiano, perchè sono sempre più convinto che l'Italia sia una e vada considerata sempre nella sua interezza. Chi ha pensato o ancora pensa di dividerla non ha capito nulla. Bisogna rispettare la storia del nostro Paese, questo sì, ma nessuno può e deve pensare di tornare indietro...». Parla Nino D'Angelo, napoletano, classe '57, che lunedì presenta il suo nuovo spettacolo al Nuovo di Udine, primo di una nuova serie di concerti (sabato 18 sarà a Padova) dopo i successi riscossi nella prima parte del tour, cominciata a novembre al Palapartenope della sua città. «La novità del concerto - spiega - sta nel repertorio rigorosamente anni Ottanta, nel riproporre quelle canzoni con i suoni dell'epoca. È un regalo ai miei tanti fan che, da anni, mi chiedevano un "live" del genere. Stavolta ho voluto accontentarli». Anni Ottanta: tempi di "'Nu jeans e 'na maglietta". «Quell'album vendette oltre un milione di copie. Il film, partito con aspettative molto basse, per settimane tenne testa al botteghino a "Flashdance". Fu un successo che mi cambiò la vita». Com'era cominciata? «Famiglia povera, studi interrotti molto presto, tanti lavori e cantante ai matrimoni. Poi a vent'anni un concorso di voci nuove, il primo 45 giri e i primi successi, il debutto a teatro con le sceneggiate, anche con Regina Bianchi e il grande Mario Merola». E divenne "il caschetto d'oro". «Che fu per anni il mio marchio di fabbrica, appunto negli anni Ottanta, con "'Nu jeans e 'na maglietta" e i dischi che vennero dopo. Mi emoziono ancora quando canto i brani di quel periodo, quando capii per la prima volta cosa significa essere amati per davvero dal pubblico. Non rinnego nulla. Se sono arrivato fin qui lo devo anche a quegli anni, a quelle canzoni». Oggi è un'altra persona, un altro artista. «Allora ero un ragazzo. Ora ho quasi 58 anni, sono nonno, ho attraversato varie fasi di una carriera bellissima. Negli anni Novanta, dopo un periodo difficile seguito alla perdita dei miei genitori, ho intrapreso un nuovo percorso artistico, più vicino alla ricerca, più attento alle contaminazioni, alla musica etnica. È normale: con gli anni si cresce, si cambia, guai a restare sempre fermi». Un grazie a chi? «A tanti. Dai giovani musicisti con cui ho suonato e suono, che mi hanno fatto conoscere musiche e suoni che non frequentavo, fino al grande Peter Gabriel: l'ho conosciuto a un Sanremo degli anni Novanta, mi ha aperto la testa, mi ha indicato una strada nuova. Lo considero il mio maestro». Cosa le ha insegnato? «Che con la musica si può arrivare dappertutto, con i suoni si parla ai popoli di tutto il mondo. Pensi che i miei dischi hanno successo in Russia, in Ucraina, in Romania... Oggi ho la libertà di scrivere e cantare quel che voglio». L'esperienza come direttore artistico del Trianon? «Un grande lavoro sociale e culturale, nello storico teatro napoletano nel rione di Forcella. Abbiamo avviato un'orchestra multietnica, abbiamo preso i ragazzi per le strade, figli di immigrati e di carcerati, e abbiamo regalato loro un'alternativa di vita grazie alla musica, grazie alla cultura. Purtroppo quell'esperienza si è poi interrotta, oggi il teatro è in grave crisi, la politica non investe più sulla cultura». La soddisfazione più grande? «Tante. Difficile sceglierne una. Direi essere riuscito a diventare credibile anche cambiando completamente genere. E ovviamente quando Miles Davis disse che gli piacevano le mie canzoni...». Pino Daniele? «Una grande perdita per tutti, lascia un vuoto incolmabile. Per me era anche un amico. Mi volle con sè al suo megaconcerto in piazza Plebiscito, cantammo assieme "Donna Cuncetta. Amo Sergio Bruni e la Napoli più classica, ma Pino è stato il primo che mi ha fatto letteralmente impazzire con la sua musica. Il contaminatore per eccellenza». Papa Francesco è stato a Scampia. «E ha detto parole di grande forza. Ha capito che lì non tutti sono camorristi, c'è tantissima gente per bene. Che oggi dice all'Italia: non rubateci la speranza...». twitter@carlomuscatello ©RIPRODUZIONE

sabato 4 aprile 2015

EROS RAMAZZOTTI, disco e tour

Eros Ramazzotti riparte alla conquista della ribalta mondiale. Ma il nuovo tour dell’artista romano avrà una sola tappa triveneta (16 e 18 settembre, all’Arena) e altre tre più o meno vicine alla nostra zona: 22 settembre a Lubiana, 24 settembre a Belgrado, 22 ottobre a Monaco di Baviera. Tutto il tour, che seguirà la pubblicazione del nuovo album intitolato “Perfetto” e annunciato per il 12 maggio, è nel segno del personaggio ormai di caratura internazionale. Dopo il debutto il 12 settembre da Rimini e le citate tappe veneta, slovena e serba, sarà infatti il 26 a Sofia (Bulgaria), il 29 a Cracovia (Polonia), il 5 ottobre a Zurigo (Svizzera), il 7 e 9 a Milano, il 12 a Firenze, il 14 e 16 nella sua Roma, il 20 a Bologna, il 24 a Mannheim (seconda tappa tedesca dopo quella a Monaco), il 26 e 27 a Bruxelles (Belgio), il 30 a Praga (Repubblica Ceca), il primo novembre a Colonia (ancora Germania), il 3 ad Amsterdam (Olanda), il 5 a Stoccarda (quarta e ultima tappa tedesca), per concludersi il 7 novembre a Torino. In tutto ventitre date, che arrivano a due anni dal precedente “Noi tour”, e nelle quali l’artista sarà affiancato da una band internazionale. Perchè “Perfetto”? «Quando si finisce un lavoro - ha spiegato Ramazzotti, classe ’63 -, un progetto o qualsiasi altra cosa, la si guarda, le si dà l’ultimo ritocco e poi si dice: perfetto. Ecco, il mio disco l’ho voluto chiamare cosi, un’espressione usata in tutto il mondo e riconoscibilissima...». Da pochi giorni è stato intanto diffuso nelle radio e nei negozi digitali il singolo che anticipa l’uscita dell’album. S’intitola “Alla fine del mondo” ed è stato pubblicato in sessanta Paesi. Un brano dal sound internazionale, che forse sorprende i vecchi seguaci del nostro perchè strizza l’occhio a sonorità country-folk, con l’utilizzo di strumenti acustici molto particolari. Il testo (firmato Eros con la collaborazione di Francesco Bianconi dei Baustelle e del “Kaballà” Giuseppe Rinaldi) è un vero e proprio inno alla libertà: per amore si va fino “alla fine del mondo”, si possono attraversare praterie sconfinate, territori inesplorati, insidie, pericoli. Quasi come moderni Don Chisciotte, per seguire un sogno siamo disposti a combattere contro i mulini a vento, contro giganti reali o immaginari. Per amore si corre liberi come “la pietra rotolante” di Bob Dylan, si muove “il cielo, il sole e l’altre stelle” come nella Divina Commedia di Dante. Il video del brano è girato tra il deserto dell’Almeria, nel sud della Spagna, e la periferia di Milano.

venerdì 3 aprile 2015

DANILO DOLCI GIORNALISTA, DA SESANA A PARTINICO

dal sito Articolo 21: Da Sesana, un tiro di schioppo da Trieste, alla Sicilia profonda di Partinico. Attraversando tutto lo stivale, per illuminare le periferie degradate dalla povertà e dal malaffare del nostro Paese che usciva dalla guerra. Danilo Dolci educatore e sociologo, attivista della non violenza e poeta, "Gandhi italiano". Ma anche giornalista. Sessant'anni fa, nel ‘55, pubblica su "Nuovi Argomenti", la rivista diretta da Alberto Moravia, alcuni racconti autobiografici di ragazzi che vivevano nella Palermo più povera: è il lavoro preliminare per il libro "Inchiesta a Palermo", che nel '58 gli vale il Premio Viareggio. Subisce per questo dal ministro degli Interni Tambroni il ritiro del passaporto, con la bizzarra motivazione di avere con le sue opere diffamato l'Italia all'estero. Segue persino un processo a porte chiuse per pornografia (...?), lo difende Carlo Arturo Jemolo, lo storico della Chiesa. Al suo fianco altri avvocati, intellettuali, giornalisti, comuni cittadini. Quarantacinque anni fa, il 26 marzo 1970, dopo un giorno solo di vita (ventisei ore, per la precisione), viene distrutta e sequestrata la "Radio libera di Partinico", ricordata come la prima radio libera italiana, fondata su iniziativa del Centro studi e iniziative per la piena occupazione da lui fondato a Partinico per dar voce ai "poveri cristi". Nello stesso periodo, per L’Ora di Palermo, viaggia anche in vari paesi d’Europa e nell’Est, studiando forme di programmazione economica e le relative problematiche sociali, e scrivendo vari articoli su questo argomento. Articoli che saranno pubblicati nel volume "Verso un mondo nuovo" e tradotti e pubblicati in varie lingue. Il che lo farà conoscere e apprezzare anche all’estero in molti ambienti progressisti. Nell’88 Dolci lancia un’iniziativa per la costituzione di un Manifesto sulla comunicazione: avverte infatti i pericoli connessi alla cosiddetta "comunicazione di massa", al dilagare della televisione e dei nuovi mass-media. Insomma, un anticipatore. Ma torniamo alla Radio libera di Partinico, al messaggio introduttivo letto da Danilo Dolci dalla piazza del paese: "Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza. Sos, Sos, siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto, di enorme gravità, assurdo: si lascia spegnere un’intera popolazione. La popolazione delle Valli del Belice, dello Jato e del Carboi, la popolazione della Sicilia occidentale non vuole morire. Siciliani italiani, uomini di tutto il mondo, avvisate immediatamente i vostri amici, i vostri vicini: ascoltate la voce del povero cristo che non vuole morire, ascoltate la voce della gente che soffre assurdamente. Siciliani italiani, uomini di tutto il mondo, non possiamo lasciar compiere questo delitto: le baracche non reggono, non si può vivere nelle baracche, non si vive di sole baracche. Lo Stato italiano ha sprecato miliardi in ricoveri affastellati fuori tempo, confusamente: ma a quest’ora tutta la zona poteva essere già ricostruita, con case vere, strade, scuole, ospedali". Ancora Dolci: "Le mani capaci ci sono, ci sono gli uomini con la volontà di lavorare, ci sono le menti aperte a trasformare i lager della zona terremotata in una nuova città, viva nella campagna con i servizi necessari, per garantire una nuova vita. Gli uomini di tutto il mondo protestino con noi: L’Italia, il settimo paese industriale del mondo, non è capace di garantire un tetto solido e una possibilità di vita ad una parte del proprio popolo. Uomini di governo: lasciate spegnere bambini, donne, vecchi, una popolazione intera. Non sentite la vergogna a non garantire subito case, lavoro, scuole, nuove strutture sociali ed economiche a una popolazione che soffre assurdamente? Se si vuole, in pochi mesi una nuova città può esistere, civile, viva. Chi lavora negli uffici: di burocrazia si può morire. I poveri cristi vanno a lavorare ogni giorno alle quattro del mattino. Occorrono dighe, rimboschimenti, case, scuole, industrie, strade, occorrono subito. Questa è la radio della nuova resistenza: abbiamo il diritto di parlare e di farci sentire, abbiamo il dovere di farci sentire, dobbiamo essere ascoltati. La voce di chi è più sofferente, la voce di chi è in pericolo, di chi sta per naufragare, deve essere intesa e raccolta attivamente, subito, da tutti". Quasi un grido disperato: "Qui si sta morendo. La nostra terra pur avendo grandi possibilità sta morendo abbandonata. La gente è costretta a fuggire, lasciando incolta la propria terra, è costretta ad essere sfruttata altrove. Qui si sta morendo. Si sta morendo perché si marcisce di chiacchiere a di ingiustizia. Galleggiano i parassiti, gli imbroglioni, gli intriganti, i parolai: intanto la povera gente si sfa. Qui si sta morendo. E’ la cultura di un popolo che sta morendo: una cultura che può dare un suo rilevante contributo al mondo. Non vogliamo che questa cultura muoia: non vogliamo la cultura dei parassiti, più o meno meccanizzati. Vogliamo che la cultura locale si sviluppi, si apra, si costruisca giorno per giorno sulla base della propria esperienza". Meglio di un'inchiesta giornalistica, meglio di un programma politico. Parole forti che rimangono di grande attualità a tanti anni di distanza. E che ci servono per ricordare Danilo Dolci, nato nel '24 a Sesana, paesino allora in provincia di Trieste, ora territorio sloveno. Slovena e molto religiosa la madre, ferroviere siciliano il padre. Diploma da geometra ma anche maturità artistica a Milano, antifascista (viene anche arrestato a Genova), dopo la guerra studia architettura a Roma e ancora a Milano. Dal '52 si trasferisce in Sicilia, dove promuove la lotta non violenta contro la mafia e lo sfruttamento della povera gente. Muore nel '97 a Trappeto, in provincia di Palermo. Vive nel ricordo di chi lo ha conosciuto. Carlo Muscatello