venerdì 30 dicembre 2011

CORRIERE 135


Il “Corriere della Sera” ha cinque anni più del “Piccolo”. Fu fondato nel 1876 da Eugenio Torelli Viollier, e se dunque il quotidiano triestino compie 130 anni, sono ben 135 le annate in archivio del giornale di via Solferino. Attraversando tre secoli di cronaca diventata storia, il “Corrierone” - oggi diretto da Ferruccio De Bortoli - è sempre stato considerato il maggior e più autorevole quotidiano italiano, anche quando altri, arrivati dopo, ne hanno insidiato diffusione e tirature. Per celebrarsi, ma anche per ripercorrere una vicenda che l’ha visto testimone e protagonista, il Corriere - attraverso la sua Fondazione e l’editore Rizzoli - pubblica un’opera monumentale: la “Storia del Corriere della Sera”, a cura di Ernesto Galli della Loggia. Un’opera che era stata concepita e messa in cantiere nel 2001, in occasione del 125° anniversario del giornale.

Quattro volumi, ognuno con due tomi. I primi due - appena usciti - sono dedicati a “Il Corriere e la costruzione dello Stato unitario” e “Il Corriere nell’età liberale”, con profili storici realizzati dagli studiosi Simona Colarizi e Angelo Varni. Ripercorrono i primi 50 anni di vita del giornale, dal 1876 al 1925, dai tempi della Destra storica a quelli del Fascismo.

«Anche in altri Paesi - scrive nell’introduzione Ernesto Galli della Loggia, - esistono giornali che hanno adempiuto, e adempiono, a una funzione analoga a quella del quotidiano di via Solferino. Assai raramente, però, è accaduto che un giornale di questo tipo sia stato sempre lo stesso con l'identica testata da un secolo e mezzo a questa parte. Il “Corriere” era quello che è oggi, infatti, già all'inizio del ’900, quando molti dei giornali che attualmente tengono il campo in Europa erano ancora lontanissimi dal vedere la luce».

Ancora il curatore: «È una singolarità che richiede una spiegazione. La prima e più importante riguarda indubbiamente la società italiana. Una società caratterizzata, pur attraverso le sue tormentate vicende, da una forte continuità non solo nel modo d'essere ma soprattutto dei propri gruppi dirigenti. Lungi dal conoscere rotture significative interne, infatti, l'élite italiana ha conservato un grado assai alto di coesione, frutto della persistenza di modelli di relazione, di atteggiamenti culturali, di legami personali, familiari e di gruppo, che hanno sfidato il tempo dimostrandosi più forti dei mutamenti di regime politico».

La forza del “Corriere”, dunque, come degli altri giornali che hanno alle spalle una storia analoga, sta proprio in questa capacità di sopravvivere alle varie ere storiche e politiche. Dalle pagine dei volumi emerge infatti una vicenda affollata di personaggi storici, di mutamenti sociali, di eventi nazionali e mondiali anche drammatici, che hanno segnato il destino dei popoli. Una ricostruzione storica e documentaria, una sorta di autobiografia che poteva intitolarsi “La storia d’Italia attraverso il Corriere della Sera”.

lunedì 26 dicembre 2011

CARMICHAEL 30


Dici “Georgia on my mind” e tutti pensano, giustamente, all’immenso Ray Charles. Ma non tutti sanno che la celeberrima canzone che dal 1979 è anche l’inno nazionale dello stato americano della Georgia - proprio come la celebre “Stardust”, “Polvere di stelle” - fu scritta da Hoagy Carmichael, pianista, cantante, attore, ma soprattutto uno dei maggiori autori della musica leggera statunitense del secolo scorso. E di cui ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla morte, avvenuta il 27 dicembre del 1981 a Rancho Mirage, in California.

Quando un infarto se lo porta via, il grande Hoagy - che ebbe una carriera di tutto rispetto anche come attore cinematografico - ha ottantadue anni. Nel suo caso si può davvero dire una vita spesa per la musica.

Nato il 22 novembre 1899 a Bloomington, nello stato americano dell’Indiana, Hoagland Howard “Hoagy” Carmichael comincia giovanissimo a studiare pianoforte con la madre e a comporre musica mentre frequenta l’Indiana University, dove comunque porta a compimento gli studi e si laurea in legge nel 1925.

Si sa come vanno queste cose. Da ragazzi molti studiano uno strumento, molti compongono qualcosa. Dunque all'inizio la musica è per il ragazzo americano di belle speranze, e potenziale futuro avvocato, solo una occupazione parallela allo studio. Ma il genio non bacia in fronte chiunque, e se arriva bisogna saperlo riconoscere.

Hoagy Carmichael a un certo punto sente che non può più dividersi fra gli studi, e magari domani un lavoro “normale”, e la musica. Che è sempre più la sua grande passione. Decide allora di dedicarvisi completamente. Nel 1927 realizza le sue prime incisioni per l'etichetta “Gennett”.

Scrive e a volte interpreta lui stesso brani caratterizzati da una forte vena lirica ma anche da espliciti riferimenti alla musica afroamericana: un mix che, sapientemente calibrato, si dimostra subito in grado di evocare le atmosfere più tipiche dell'America negli anni fra le due guerre.

Nel 1927 compone anche “Chimes of Indiana”, che viene regalata alla sua università come dono da parte della sua intera classe e che dal 1978 è l’inno ufficiale dell'Indiana University. Dalla quale l’artista è stato insignito della laurea honoris causa in musica dalla stessa università nel 1972. Nel ’31 si associa alla American Society of Composers, Authors and Publishers.

In quegli anni iniziali, il suo pezzo più famoso è “Stardust”, ma poi non vanno dimenticati “Riverboat shuffle”, “Rockin' chair”, “Washboard blues”, “Heart & soul”, “New Orleans” e ovviamente quella “Georgia on my mind” cui abbiamo già accennato. Collabora con Sidney Arodin per il classico “Up and Lazy River” e con Johnny Mer.

Nel 1945 è in Italia, a Napoli, al seguito delle truppe americane, proprio come organizzatore di spettacoli per i militari. L’atmosfera partenopea gli ispira “Somewhere on via Roma” (in italiano “Io t'ho incontrata a Napoli”), firmata con Deani, Forte e Rivi, e lanciata alla radio dal cantante Armando Broglia. L'anno successivo, prendendo spunto dal grande successo riscosso dalla canzone, viene anche realizzato l'omonimo film “Io t'ho incontrata a Napoli”, diretto da Pietro Francisci.

Già, c’è anche il cinema. Carmichael partecipa come attore ad almeno quattordici film, recitando al fianco di attori del calibro di Humphrey Bogart, Lauren Bacall e Kirk Douglas. E spesso, in questi film, appare cantando una sua composizione accompagnandosi con il pianoforte.

Fra i titoli: il classico “Acque del sud” (“To have and have not”), con la coppia Humphrey Bogart-Lauren Bacall; “Chimere” (“Young man with a horn”), ancora con la Bacall e Kirk Douglas; “I migliori anni della nostra vita” (“The best years of our lives”), con Myrna Loy e Frederic March.

Nel 1951 vince l'Oscar per la migliore canzone originale. Nel 1969 è uno dei primi dieci autori di canzoni introdotti nella Songwriters Hall of Fame. Grazie a brani come “Little old lady”, “Skylark”, “I get along without you very well”, “In the cool cool cool of the evening”, “The nearness of you”, “Come easy go easy love”, oltre a quelli già citati.

Fra le curiosità, una sua parodia doppiata da lui stesso in un episodio dei leggendari “Flinstones”. E Ian Fleming, che nei suoi romanzi “Casino Royale” e “Moonraker” descrisse l'agente segreto britannico James Bond come somigliante proprio a Carmichael, con una cicatrice lungo la guancia.

Hoagy Carmichael - che scrisse anche due autobiografie: “The stardust road” (pubblicata nel 1946) e “Sometimes I wonder” (nel 1965) - a vent’anni dalla morte viene ricordato come un autore che ha attraversato con le sue composizioni tutto il secolo scorso, e che nel suo genere è considerato compositore di musica leggera inventivo e sofisticato, vicino al linguaggio jazzistico.

venerdì 23 dicembre 2011

DISCHI STRENNE


Un disco sotto l’albero. Complice la crisi, che taglia la possibilità di spesa. Vediamo allora di capire come orientarci, fra le tantissime uscite che storicamente si concentrano nelle ultime settimane dell’anno, proprio per essere pronti agli acquisti natalizi. Quest’anno più parsimoniosi che in passato.

Prima segnalazione Amy Winehouse, la cantante inglese morta l’estate scorsa, della quale è appena uscito “Lioness: hidden treasures”, presentato come “il suo unico album postumo”. I “tesori nascosti” sono quelli che il padre dell’artista e i suoi produttori hanno trovato nei cassetti e assemblato in maniera tutto sommato dignitosa. C’è ovviamente “Body and soul”, il duetto con l'ottantacinquenne italoamericano Tony Bennett. E altre chicche, fra cui “Our day will come”, brano del ’63, originariamente previsto nel primo album della cantante, “Frank”, e poi messo da parte.

Altra donna inglese Adele, il cui “Live at the Royal Albert Hall” (cd e dvd, registrati nel settembre scorso) è un monumento alla grandezza di questa giovane star planetaria, reduce dal successo di “21” e da una seria malattia per fortuna superata. Non mancano “Someone like you” e “Rolling in the deep”, due fra i brani favoriti dai fan della ragazza di Tottenham.

Ci spostiamo oltreoceano con i Black keys, ovvero Dan Auerbach e Patrick Carney, due ragazzi di Akron, Ohio, che con l’album “El Camino” si confermano come una delle novità più interessanti della nuova scena rock-blues americana. Dopo il successo di “Brothers”, il duo continua a mischiare suoni contemporanei e tradizione della vecchia America, virando a tratti verso il rock’n’roll. Il singolo “Lonely boy” li ha lanciati, facendo scoprire anche il resto del disco.

Ancora Stati Uniti con il memorabile - e inaspettato - incontro fra Lou Reed e i Metallica. Li hanno ribattezzati LouTallica. E due anni dopo l’esibizione alla R’n’r Hall of Fame del 2009, quando il gruppo californiano accompagnò l’artista di Brooklyn, è arrivato questo “Lulu”: celebrazione dell’umiltà di un supergruppo e della capacità di rimettersi in gioco di un rocker quasi settantenne. Storie e stili diversi, effetto sorprendente.

Altro grande vecchio, Tom Waits. “Bad as me” è il suo 17° album in studio, a sette anni dal precedente disco di inediti “Real gone”. Rock, blues, rumori, da parte di un geniale narratore di storie surreali. Notturno, jazzato, scevro da autocelebrazioni, con l’inizio dedicato a Chicago. “Satisfied” è un omaggio a “Satisfaction” e a Mick Jagger, ospite del disco. La cui perla è proprio “Last leaf”, ballata acustica in duetto fra i due.

Altre cose? “Immortal” di Michael Jackson (con 40 brani originali), “My life II: The journey continues (Act 1)” di Mary J. Blige, “Live from Paris” di Shakira. E ancora la classica strenna “Sinatra: best of the best”, con classici tipo “My way”, “I’ve got you under my skin”, “Strangers in the night”... E persino, a quarant’anni dalla pubblicazione, “Aqualung 40th anniversary edition”, con la magia dei Jethro Tull e del loro leader Ian Anderson.

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STRENNE / ITALIANI

E fra gli italiani? “Decadance” di Ivano Fossati, che con questo disco e l’omonimo tour ha annunciato, a sessant’anni, di ritenere conclusa la sua carriera di cantautore che fa dischi e concerti (ma vedrete che qualcos’altro si inventerà...). “L’amore è una cosa semplice” di Tiziano Ferro e “Inedito” di Laura Pausini (nella foto a destra), ovvero: i due cantanti italiani che attualmente funzionano di più anche all’estero, e soprattutto nell’America Latina. Entrambi, con questi dischi, hanno rapidamente scalato le classifiche di vendita. “Piccolino” dell’eterna Mina, con una canzone scritta da un ottico friulano, e “Facciamo finta che sia vero” di Adriano Celentano. “Unica” di Antonello Venditti e la raccolta “I colori del buio” di Roberto Vecchioni. Fra i nuovi, “Io tra di noi” di Dente e “Il sorprendente album d’esordio dei Cani”, ovviamente dei Cani.

giovedì 22 dicembre 2011

INTERVISTA PAOLO VILLAGGIO

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PAOLO VILLAGGIO

«Perchè due libri a poca distanza l’uno dall’altro? Perchè avevo e ho un bisogno maledetto degli anticipi per sopravvivere, nella speranza di vendere almeno cinquantamila copie. Le case editrici per la verità contano di arrivare a duecentomila, ma loro sono un po’ folli. Lo so, è un’operazione bieca...».

Paolo Villaggio non si smentisce mai. Fra pochi giorni compie 79 anni, essendo nato a Genova il 30 dicembre 1932. Gli è appena stato assegnato il Premia Chiara alla carriera. Ma lui al solito prende in giro innanzitutto se stesso, anche se gli chiedi di parlare dei suoi due nuovi libri: il romanzo “La fortezza sulle nuvole” (Morganti, pagg 157, euro 16) e “La vera storia di Carlo Martello” (Dalai, pagg 222, euro 17).

Maestro, da dove cominciamo?

«Non mi chiami maestro - intima con tono burbero -. Comunque cominciamo dal romanzo. Che cosa vuole sapere?»

La megaditta, il megapresidente, il coglionazzo. Sembra di essere tornati a Fracchia, invece la storia è ambientata nel Medioevo.

«Sì, abbiamo sempre sentito cose terribili sul Medioevo: la divisione in classi, i ricchi con la loro rete di favori, lo sfruttamento, i soprusi. Ma il Medioevo di oggi è peggiore di quello di allora. Viviamo in un mondo pieno di brogli, furti, omicidi per pochi soldi. Le condizioni sono molto peggiorate. E ormai siamo rassegnati a vivere in mezzo alle difficoltà».

Dove abbiamo sbagliato?

«Preferiamo la finzione alla felicità. Guardi i giovani, hanno accettato di essere falsi e infelici. Ci si accontenta di spiare dal buco della serratura i ricchi, i cosiddetti vip».

Villaggio, c’è la crisi.

«Ma il problema non è la mancanza di lavoro, non è il precariato. E’ che abbiamo perso di vista la qualità della vita. Dai quindici ai quarant’anni, a volte oltre, sono tutti vestiti uguali. I ragazzi vogliono fare i calciatori, le ragazze le veline. Viviamo un periodo di involuzione culturale».

Quando scrisse le parole di “Carlo Martello”, invece?

«Negli anni Sessanta, e Cinquanta, l’Italia era davvero un’altra cosa. Non è questione di crisi o di boom, era davvero un altro Paese, pieno di iniziativa, di voglia di risollevarsi dopo gli anni bui, di crescere, di migliorarsi. E poi eravamo quaranta milioni di persone, non settanta come adesso: c’erano spazio e opportunità per tutti. Davvero, non credo di essere mai stato così felice come in quegli anni».

Come nacque quella canzone?

«Era una sera piovosa del novembre del ’62, a casa mia, a Genova. Con Faber (ovviamente Fabrizio De Andrè, ndr) ci conoscevamo da sempre, le nostre famiglie erano amiche, io avevo otto anni più di lui. Si mise a strimpellare con la chitarra quell’aria che gli era venuta in testa: po, poppò, poppò... Quasi un inno da corno inglese. Mi disse: dai, scrivici un testo. Obbedii, il testo fu completato in due settimane. E nacque “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers”».

Di cui ora ha scritto “la vera storia”.

«Parlando ancora di un Medioevo pieno di allusioni alla contemporaneità. Re Carlo che spia i suoi sudditi, li uccide, somiglia a tanti dittatori che hanno insanguinato il Novecento. Tutti circondati da un codazzo di servitori e maggiordomi che danno loro sempre ragione, nella speranza di un personale tornaconto. Esattamente come avviene oggi».

E’ vero che sulle navi ha lavorato con Berlusconi?

«E’ lui che ha lavorato con me, se permette. Eravamo fra il ’52 e il ’54. Io facevo l’entertainer sulle stesse navi da crociera sulle quali lui cantava canzoni francesi accompagnato al pianoforte da Fedele Confalonieri. Di Berlusconi non ho un gran ricordo, la sua forza era la simpatia, faceva di tutto per piacere».

Un episodio lo ricorderà?

«Certo, ma riguarda ancora De Andrè. Eravamo molto amici e alcune volte lo portai con me, presentandolo come una giovane promessa della canzone italiana. Avevo garantito agli organizzatori che Fabrizio avrebbe rallegrato il pubblico di prima classe, si badi bene composto da vegliardi ultraottantenni, gli unici che all’epoca potevano permettersi una crociera».

Ebbene?

«Fu un disastro. Lo presentai con fare allegro, della serie “Ed ecco a voi il grande...”. Cominciò ad arpeggiare la sua chitarra classica, e quando partì con i versi “Quando la morte mi chiamerà...”, feci un balzo e credetti di morire io, ma all’istante...».

Invece sono passati sessant’anni, lei per fortuna è ancora vivo, e alcuni falsi annunci continuano ad allungarle la vita...

«Quando dieci giorni fa l’Ansa mi ha chiamato dopo che era girata su internet la notizia della mia avvenuta dipartita, ho risposto che mi sentivo benissimo, ma a questo punto sarei andato farmi un check up... La verità è che io temo il decadimento mentale. Quello fisico meno. Temo di perdere la memoria, che è parte consistente della creatività».

Da ragazzo com’era?

«Molto timido. Alle feste da ballo, io e il mio fratello gemello stavamo in un angolo, ai lati opposti della stanza. Poi ci si metteva anche mia madre. Quando mi cercava una ragazza al telefono, rispondeva lei, diceva che non c’ero e riattaccava. Ditemi voi...».

Progetti? E’ vero che torna a teatro?

«Devo pur inventarmi qualcosa per sopravvivere. Sì, sto lavorando a una tournée teatrale con Lina Wertmüller per la prossima primavera. Non mi chieda cosa faremo. So solo che sarà qualcosa di divertente».

Un’ultima cosa: ma coi friulani cos’è successo?

«Ma niente. Avevo scritto in un altro libro - scritto per lo stesso motivo degli ultimi due - che ruttano fragorosamente, parlano un rozzo idioma e per giunta hanno l’alito insostenibile. E questi che fanno? Si offendono, non capiscono che era solo una boutade, uno scherzo, una presa in giro. Ma si può? Mi è toccato pure scusarmi...».

Non erano frasi gradevoli.

«Ha ragione, è tutta colpa mia. Io pensavo che esistesse ancora lo humour, il senso critico, la capacità di ridere innanzitutto di se stessi».

E invece?

«E invece - conclude Paolo Villaggio - qui la gente non sa nemmeno prendersi un po’ in giro. L’Italia è un posto strano, il mondo ci invidia, ma noi abbiamo la monnezza a Napoli, il Sud in mano alla malavita, coste e mare deturpati. Davvero, qui non c’è nulla da invidiare. Nel Rinascimento, forse...».

domenica 18 dicembre 2011

CESARIA EVORA +


Non batte più il cuore di Cesaria Evora. Aveva settant’anni. Era ricoverato in un ospedale della sua Capo Verde. Tre mesi fa aveva annunciato il ritiro a causa di una malattia. Veniva chiamata “la diva dai piedi scalzi”, perchè effettivamente aveva l’abitudine di esibirsi senza calzature ai piedi, anche se una diva non lo era mai stata.

Se lo ricordano bene gli spettatori della nostra zona, che l’hanno seguita in concerto qualche anno fa ad Aquileia e ancor prima a Udine. E un po’ della nostra regione stava anche nella sua discografia, nei cd “Capo Verde, Terra d'amore”, che erano anche un progetto culturale e umanitario nato proprio nel Friuli Venezia Giulia.

Cesaria Evora era nata a Mindelo, nella splendida isola vulcanica di Capo Verde, il 27 agosto del ’41. Infanzia difficile, perde il padre a sette anni, la madre cuoca fa i salti mortali per mantenerla ma poi si deve arrendere a la affida alle cure di un orfanotrofio. Una scelta che segna la sua vita ma le offre un jolly per il futuro: è infatti nel coro dell’orfanotrofio che la piccola Cesaria ha cominciato a cantare.

La ragazza cresce, impara gli stili tradizionali della musica della sua isola, la coladeira e la morna. Comincia a cantare nei locali pubblici, diventa la “regina della morna”, musica triste, dal ritmo lento, che coniuga malinconia e desiderio. La sua fama pian piano attraversa il mare.

Dopo un periodo economicamente difficile, durante il quale è anche costretta a interrompere la sua attività musicale, comincia a essere chiamata a cantare prima in Portogallo e poi a Parigi. Dove nell’88, a quarantasette anni, registra il suo primo vero album, “La diva aux pieds nus”, la diva dai piedi nudi, appunto. Il brano “Sodade” - la “saudade” portoghese, che significa nostalgia, struggimento, rimpianto - è il suo primo successo internazionale, ma anche il primo successo per una canzone non francese in Francia, e segna l’inizio della notorietà internazionale.

Il resto, dopo anni di stenti, è finalmente in discesa. Album (“Distino de Belita”, “Mar Azul”, “Miss Perfumado”, “Cesária”, “Cabo Verde”...) e tournèe ne fanno una grande interprete della musica etnica, a una sorta di crocevia fra le musiche della sua isola e il fado portoghese, fra il samba brasiliano e gli echi dal tango argentino. Racconta storie d'amore e di vita, di gente abituata a emigrare per cercare pane e lavoro lontano da casa. Canta melodie struggenti, che sanno parlare al cuore e alla mente.

Qualcuno diceva che le sue canzoni vanno ascoltate a occhi chiusi. Forse per immaginare i paesaggi e il mare di quel minuscolo arcipelago sospeso in mezzo all'Atlantico, per ascoltarne i suoni, gli odori, i colori.

Nei concerti, al pubblico di mezzo mondo si rivolgeva sempre in creolo, la sua lingua. E a metà esibizione quasi sempre chiedeva il permesso di fumare una sigaretta, per concedersi una piccola pausa dedicata magari alla musica della sua band. Come faceva probabilmente tanti anni prima, quando da ragazza cantava nei bar e negli hotel della sua Mindelo.

Fra i suoi brani ricordiamo soprattutto “Tiempo y silencio”, “Sangue de Beirona”, “Angola”, “Africa nossa”, ovviamente “Sodade”, e poi “São Vicente di Longe”, dedicato all'isola natale mai dimenticata, dove non a caso è tornata per vivere il suo ultimo tempo. Davanti all’Atlantico ventoso e insidioso, nella sua terra povera, fra la sua gente abituata a lavorare duro e soffrire. Certo da lì nasceva quella vena dolente sempre presente nella sua grande musica. Che non dimenticheremo.

mercoledì 14 dicembre 2011

TRAGEDIA PALATRIESTE / 2, I PRECEDENTI


Fra i 1100 morti sul lavoro in Italia nel solo 2011, che fanno una drammatica media di tre lutti al giorno, purtroppo anche il mondo della musica e dei concerti fa atto di presenza. Per la verità, gli incidenti sono di solito causati maggiormente da eventi atmosferici, ma esistono dei precedenti della tragedia del PalaTrieste, anche in Italia e persino nella nostra regione.

Nell’agosto del ’92, dopo un concerto di Claudio Baglioni allo stadio di Lignano Sabbiadoro, nella fase di smontaggio del palco il forte vento causò il crollo di un ponteggio e la morte di Peter Kramer, cinquantenne operaio svizzero residente però a Pavia.

Nell’estate di quattro anni fa, al parco San Giuliano di Mestre, l’Heineken Jammin Festival fu funestato da una tromba d’aria che provocò danni e feriti, oltre ovviamente all’annullamento della manifestazione.

Estero. L’estate scorsa, durante un concerto country nello stato dell’Indiana, il forte vento (96 km all’ora, roba che a Trieste non farebbe notizia...) causò il cedimento del palco, quattro morti e una cinquantina di feriti. Praticamente in diretta tv.

Nel luglio 2009, al Velodrome di Marsiglia, durante l’allestimento del palco per un concerto di Madonna, la struttura cedette: due morti e sei feriti. Del palco rimase un groviglio di sessanta tonnellate di tubi e cavi metallici.

Otto persone morirono a un concerto dei Pearl Jam in Danimarca, al Festival di Roskilde, nel 2000. La causa quella volta fu la pressione del pubblico verso le prime file, nonostante i ripetuti appelli del gruppo, affinché i fan indietreggiassero.

E alla lista dei lutti vanno aggiunti anche i venti morti e le centinaia di feriti alla “Love Parade” dell’estate 2010, a Duisburg, in Germania, dove migliaia di ragazzi cercavano di entrare nell’acciaieria dove si svolgeva l’evento e invece rimasero intrappolati nel tunnel che era stato scelto come accesso, ma che si dimostrò troppo stretto e inadeguato.

Eventi atmosferici, cedimento, cattiva organizzazione dei flussi. Queste dunque le cause principali degli incidenti più recenti. Nonostante standard di sicurezza più elevati rispetto a tanti anni fa, con barriere antipanico che non diventano trappole come le transenne rovesciate, controlli sugli impianti elettrici, regolazione di afflussi e deflussi. Strutture e palchi sempre più faraonici, purtroppo, non aiutano una situazione che, come dimostra la tragedia triestina, va tenuta maggiormente sotto controllo. 

TRAGEDIA PALATRIESTE / 1


Nel dicembre ’99, durante uno dei due concerti inaugurali del PalaTrieste (l’altro, pochi giorni prima, lo tenne Ligabue), fu proprio Jovanotti a notare la particolarità dell’allora nuovissima struttura triestina. Qui non si possono appendere al soffitto le strutture che reggono le luci e l’amplificazione, fece notare l’artista, e per i concerti si tratta di un problema.

Un problema che, dodici anni dopo, ha di fatto causato la morte di un ragazzo e il ferimento di otto persone, ma che avrebbe potuto provocare una strage se il cedimento della struttura fosse avvenuto qualche ora dopo, a concerto iniziato.

«Normalmente - spiega infatti Maurizio Salvadori, della Trident Management che produce il tour di Jovanotti - tutti gli apparati vengono appesi mediante motori ai tetti dei palazzi dello sport ma, visto che la configurazione di quello di Trieste non permette quest’operazione, era stata noleggiata per questo concerto una struttura denominata “ground support”, che ha improvvisamente ceduto».

«I motivi del cedimento della struttura - prosegue Salvadori - sono al momento sconosciuti e incomprensibili, dato che il piano di lavoro era stato redatto, come sempre, da un ingegnere abilitato. Spetterà alla magistratura e ai periti nominati stabilire le cause del crollo».

L’altra sera Jovanotti, oltre ovviamente ad annullare il concerto triestino, ha deciso di sospendere l’intero tour, che avrebbe dovuto far tappa a Modena, Ancona, Caserta e Roma, prima di concludersi a Taranto il 30 dicembre.

«Questa tragedia - ha scritto l’artista su Twitter, poche ore dopo i fatti - mi toglie il fiato e mi colpisce profondamente. Il mio dolore è rivolto a Francesco Pinna, studente lavoratore, la cui vita si è fermata nell’incidente che ha travolto la mia squadra. Questa tragedia mi toglie il fiato e mi colpisce profondamente».

Ancora Lorenzo Cherubini: «Un tour è una famiglia e si lavora per portare in scena la vita e la gioia. I ragazzi rimasti feriti sono lavoratori specializzati, che amano quello che fanno restando nell’ombra. Sono con voi, vi voglio bene. Sono con la famiglia di Francesco e con i suoi amici. Il mio cuore è pieno di dolore».

Ieri, dopo le polemiche sulle condizioni di lavoro, il musicista è tornato sull’argomento su Facebook: «Francesco Pinna era un lavoratore a giornata ed era assunto con contratto regolare. Io pretendo sempre che tutti quelli coinvolti anche indirettamente in un lavoro che riguarda la mia musica siano sempre tutelati in ogni forma e anche in questo caso era così. Il mondo dei concerti è un settore serio dove non c’è approssimazione e improvvisazione e nei miei tour c’è totale rispetto delle leggi e delle persone». «I ragazzi come lui - è ancora Jovanotti che parla - non sono in tour con la squadra itinerante, composta di tecnici specializzati, ma lavorano agli allestimenti che passano nella loro città. Aspettano l’arrivo dei camion e fanno la loro parte. Si tratta di lavori di supporto alla squadra itinerante. Questi ragazzi li incontro spesso quando arrivo al palazzetto e capita che ci si scambi due parole, che ci si scatti una foto. Sono migliaia a fare questi lavori in Italia, spesso sono studenti che non hanno un lavoro fisso e che così si guadagnano qualche giornata». «Francesco era uno di loro e aveva tutta la vita davanti a sé, e questa è la tragedia. Io so, e mi è stato confermato anche in questo caso, che in un tour come il mio (e come tutti i grandi e piccoli tour che girano l’Italia) ogni lavoratore locale è assunto con un contratto in regola con le leggi dello Stato. Anche in questo caso era così. La tragedia è amplificata dal fatto che si stava lavorando per allestire “una festa”, un evento effimero che lascia il dolore e la morte fuori dai cancelli per una sera. E invece stavolta tutto si è ribaltato e ora c’è solo dolore sul mio palco distrutto».

Secondo Jovanotti, la morte di Francesco è «una fatalità davvero difficile da prevedere. Stamattina (ieri, ndr) le prime indagini degli ingegneri non sono riuscite ancora a capire le dinamiche dell’incidente. Francesco è morto costruendo una festa».

Già poche ore dopo la tragedia, l’altra sera, sul web sono rimbalzati i messaggi di cordoglio, oltre che della gente comune, di tanti artisti: da Fiorello ai Negramaro, da Celentano con Claudia Mori a Fiorella Mannoia, da Ornella Vanoni a un campione dello sport come Valentino Rossi, a tanti altri.

domenica 11 dicembre 2011

LIBRO LUCIA VISCA SU P2

 
Se è esistita la P2, se è vero che esiste la P3 e perfino la P4, non può che esserci stata anche la P1... Da questa incontestabile, quasi lapalissiana considerazione parte la giornalista e scrittrice romana Lucia Visca nel suo nuovo libro “Propaganda, L’origine della più potente loggia massonica” (Castelvecchi, pagg. 189, euro 14), dedicato a uno dei misteri più insondabili delle vicende nazionali degli ultimi decenni, la loggia P2.

Ne vien fuori una singolare storia d’Italia, come scrive Gian Carlo Caselli nella prefazione, «che si propone di tratteggiare a tinte vivide alcune vicende che hanno attraversato e tuttora sembrano attraversare i palazzi del potere».

Ancora il magistrato: «Quello che emerge è una sorta di network relazionale, caratterizzato dalla capacità (necessità?) di riprodursi e perpetuarsi in una saldatura culturale, politica ed economica sorda a ogni interesse generale, sostenuta invece da pulsioni sovversive...». Insomma, una sorta di “un fiume carsico” che attraversa centocinquant’anni di storia d’Italia.

Visca, trent'anni dopo Gelli e la P2 l'argomento è ancora di stretta attualità. Perchè?

«A noi italiani piacciono i misteri. E quello della P2 resta tale. Le stesse conclusioni dell'inchiesta parlamentare del secolo scorso lasciano aperti dubbi mai risolti. Poi basta osservare gli avvenimenti. Non c'è anno che sodalizi e conventicole tenterebbero di ricostituire quel potente nocciolo duro di deviazioni istituzionali varie».

Lei risale fino al Regno d'Italia. Che cos'era allora la massoneria, c'era già allora una loggia Propaganda?

«Sarei potuta andare oltre ma non sono una storica, non mi permetterei. Da cronista mi è sembrato comunque giusto andare alle origini dell'Unità nazionale e tentare di raccontare, nel bene e nel male che cosa fosse la massoneria. Durante i moti risorgimentali è stata un forte motore del cambiamento. Poi, come in tutte le cose, ci sono costole che si staccano, si ammalano e fanno ammalare».

Lei identifica anche un rapporto prima con lo sbarco dei Mille e poi con quello degli Alleati in Sicilia nel '43.

«Che molti protagonisti del Risorgimento prima e della Resistenza poi fossero anche massoni non è un segreto. Sarebbe stato del resto difficile il contrario. Il rapporto che mi ha inquietato è invece quello che si è stabilito fra mafia e alcuni settori della classe dirigente particolarmente attaccati al potere».

Spadolini teneva a distinguere massoneria e loggia P2. Perchè?

«Ho tentato di spiegarlo nel libro. E' semplice nella sua complessità storica. La massoneria, come qualsiasi altra forma di aggregazione umana e sociale, dalla religione alla politica, nasce con nobili intenti e per servire o raggiungere un interesse superiore. La P2, o secondo me la loggia Propaganda in tutte le sue numerazioni, altro non è stata che una manifestazione patologica, un comitato d'affari costuituito per servire gli interessi di chi ne faceva o fa parte».

Quando quei “nobili intenti” dei primi massoni sono stati traditi?

«A occhio direi quando l'eroe del Risorgimento Francesco Crispi fa reprimere nel sangue i moti dei fasci siciliani».

Lei parla di “una maledizione” di cui il Paese stenta a liberarsi. Ci spieghi.

«Sono sempre stata convinta che i tempi della storia siano un po' più lunghi della percezione legata al tempo della nostra vita. Per la storia lo sbarco dei Mille è l'altro ieri, l'Unità nazionale italiana ancora emette vagiti, siamo lontani dal celebrare un bicentenario. I patti fatti nel Risorgimento e rinnovati con la seconda guerra mondiale ancora valgono in tutta la loro forza».

Che rapporti ha avuto la loggia con la mafia?

«Di utilità reciproca. Se una intuizione ha avuto la loggia è stata quella di capire che il potere istituzionale, nel Sud, non era quello fragile dei Borboni, ma quello solido delle istituzioni criminali, soprattutto in Sicilia».

Di Berlusconi sappiamo, ma gli altri iscritti eccellenti alle liste Propaganda?

«Due nomi? Fabrizio Cicchitto e Luigi Bisignani. Trovo più interessante il primo che il secondo. Bisignani è sub judice e prima o poi sapremo se detiene, o meglio ha detenuto, un vero potere. Cicchitto il potere ce l'ha e la sua azione politica è l'incarnazione del Piano di rinascita democratica di Gelli, quello che prevedeva, e secondo me prevede ancora, di sovvertire lo Stato con una dittatura morbida. E poi una montagna di giornalisti, purtroppo. A cominciare da Maurizio Costanzo».

JOVANOTTI A TS


Torna Jovanotti, ed è già un evento. Da Fiorello si è presentato con tanto di farfallino. In ossequio alle regole del vecchio varietà televisivo, attualizzato e rilanciato dallo showman siciliano, che si è ispirato proprio a una sua canzone (“Il più grande spettacolo dopo il big bang”) per il titolo del suo programma da record. Ma la comparsata su Raiuno, per Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti è stata solo una piccola pausa della tournèe che domani, alle 21, fa tappa al PalaTrieste (disponibili ancora poche decine di biglietti). Il suo “Ora in Tour, Lorenzo Live 2011” - dopo le date di primavera-estate - è ripartito a fine novembre da Forlì, e ha già toccato Torino, Genova, Firenze, Roma e - ieri e venerdì - Milano.

Da pochi giorni il video di “Ora” è sul web e in tv. Si tratta - udite udite - del primo video in 3d, visibile senza bisogno di occhialini o schermi speciali, con ogni tipo di supporto, dal cellulare al grande schermo. Un video semplice, realizzato con un budget basso, per mettere in scena l’idea che il tempo non è una costante invariabile ma una vibrazione viva, una sostanza nella quale la nostra esistenza è immersa.

L’album “Ora” - pubblicato a inizio 2011 - è appena uscito in una nuova versione deluxe con due bonus track - “Regalito” con Juanes e “The sound of sunshine” con Michael Franti - e il doppio dvd con i concerti del tour e il film documentario “La quarta dimensione”, che mostra le prove, il pubblico e il retropalco del tour. E una sezione in cui Lorenzo duetta con gli amici Ben Harper, Michael Franti, Cesare Cremonini, Luca Carboni, Giuliano Sangiorgi.

Tornando al titolo del brano di Jovanotti “riveduto e corretto” da Fiorello per il suo programma tv, non è la prima volta che il quarantacinquenne artista romano vede le sua canzoni usate in altri contesti. E’ stato il caso, nel 2008, di “Mi fido di te”, colonna sonora della (sfortunata) campagna elettorale del Pd.

«Non era una canzone adatta - dice ora Lorenzo - a diventare bandiera per una campagna elettorale. Quando Veltroni me la chiese, io glielo dissi: guarda che in realtà questa canzone parla di perdita, perchè dice “cosa sei disposto a perdere”. Non è proprio un inno per trionfare».

Quella canzone, che stava nell’album “Buon sangue” del 2005, «parla dell’accettare la perdita come unico modo per progredire, per accettare la vita. A Veltroni però piaceva l’inizio, forse non aveva sentito la fine del ritornello... Ma non credo che si perdano le elezioni per via delle canzoni».

E per quanto riguarda ancora “Il più grande spettacolo dopo il big bang”, le ultime due parole del titolo, quelle che Fiorello ha cambiato, sono servite da ispirazione al sindaco di Firenze Matteo Renzi per il suo recente raduno alla Stazione Leopolda. «Che effetto fa vedere una tua canzone al centro di un’iniziativa politica nazionale? Ormai - ha detto Jovanotti - sono abituato a questa cosa, anche se la guardo sempre con un po’ di sospetto».

Nel concerto di domani sera a Trieste, Jovanotti dovrebbe - come nelle tappe precedenti del tour - far convivere i brani dell’ultimo album e i suoi vecchi successi: “Megamix” e “Falla girare”, “La porta è aperta” e “Amami”, “L’elemento umano” e “La notte dei desideri”. E poi ancora - dopo un medley acustico giocato su “Le tasche piene di sassi”, “Come musica”, “A te” - “Tutto l’amore che ho” e “Ora”, “Io danzo” e “Battiti di ali di farfalla”, “L’ombelico del mondo” e “Mi fido di te”. Fino al medley finale con “Bella”, “Ciao mamma”, “Raggio di sole”, “Punto”, “Serenata rap”, “Piove”, “Una storia d’amore”, “Lungomare”...

giovedì 8 dicembre 2011

DISCHI / DENTE + vecchioni


Giovani cantautori crescono. E dimostrano di avere tante cose da dire, a volte più dei loro stanchi maestri. Prendete Giuseppe Peveri, in arte Dente (soprannome che pare si porti dietro dall’infanzia...), parmigiano di Fidenza ma milanese d’adozione, classe ’76, dunque non più di primissimo pelo. Il suo nuovo album s’intitola “Io tra di noi” (Ghost Records/Venus), comprende dodici canzoni che lo confermano voce originale, interessante e mai banale del moderno cantautorato di casa nostra.

Sono passati cinque anni dall’album di debutto, “Anice in bocca”, cui sono seguiti in rapida successione “Non c'è due senza te” (2007), l’ep “Le cose che contano (2008) e “L'amore non è bello”, premio Pimi come miglior album del 2009. E Dente - il cui nome viene collegato soprattutto al brano “Beato me”, con cui due anni fa ha partecipato al progetto collettivo di Manuel Agnelli e degli Afterhours “Il paese è reale” - dimostra di aver imparato a trarre il meglio dalla propria vena creativa.

Le sue canzoni mischiano con sapienza malinconia e ironia, hanno tratti intimisti e a volte surreali, pescano nelle lezioni di De Andrè, De Gregori e Tenco (gli artisti che ricorrono più spesso, quando si parla di lui), ma sanno innervarle di un approccio assolutamente contemporaneo. Il risultato s’insinua al crocevia fra una canzone d’autore di qualità e un pop romantico e a tratti stralunato.

Il titolo del nuovo album - che lo stesso Dente definisce “molto malinconico e per niente allegro” - è una citazione riveduta e corretta del classico di Charles Aznavour “E io tra di voi”, annata 1970.

Anche i titoli delle canzoni sono spesso dei giochi di parole, sospesi fra la citazione e il divertissement. Esempi? “Giudizio universatile”, con il suo ritmo incalzante e il ritornello che rimane incollato quasi subito alle orecchie. Ma anche “Settimana enigmatica” e “Da Varese a quel paese”, oppure “Puntino sulla i” e “Pensiero associativo” (che in effetti ricorda un po’ qualcosa di Lucio Battisti, anche se da qui a parlare del talentuoso emiliano come del “nuovo Battisti”, beh, ce ne corre...).

“Piccolo destino ridicolo” racconta come troppo spesso nascono tutte quelle relazioni che poi quasi sempre proseguono nella noia e nell’infelicità quotidiane. Per concludere con “Rette parallele”, che brilla anche per un’inaspettata coda caraibica.

Oltre mezzo secolo dopo la nascita dei cantautori italiani, Dente si fa ascoltare e apprezzare proprio in quanto un classico cantautore: testi lievemente autobiografici, attenzione alla melodia, canzoni costruite su accordi di chitarra acustica. In effetti, dopo gli anni delle mille band, da un po’ sembra tornato il momento di questa (vecchia?) formula.

DISCHI / VECCHIONI

“I COLORI DEL BUIO”  (Universal) C’è una perla, in questa prima antologia ufficiale del Professore, che arriva a chiudere l’anno del suo trionfo sanremese e del conseguente “sdoganamento” - dopo 40 anni di onorata carriera - dinanzi al grande pubblico. La perla è il duetto con Mina nella classicissima “Luci a San Siro”, uno dei trentatre brani, non tutti famosi, del doppio cd. Scelti, dice il sessantottenne cantautore milanese, «chiudendo gli occhi e trovandomi davanti le cose che sono state fondamentali nella mia vita. Ho scartabellato tutto il mio repertorio e ho scelto le canzoni dal significato trasformante, attinenti a realtà che ho vissuto, all’affetto per i miei cari, alle cose per cui ho combattuto». Ecco allora “Figlia” e “Velasquez”, “Non lasciarmi andare via” e “Ninni”, “Stranamore” e “Canzone per Laura”, “Samarcanda” e “Sogna ragazzo sogna”... Ovviamente “Chiamami ancora amore”. Due inediti: “Un lungo addio” e il brano che dà il titolo al disco.  

LIBRO FALETTI


Silver è il più classico degli antieroi, uno di quelli cui la vita non ha mai fatto sconti. Ex pugile finito in galera per una questione di scommesse, fa da troppi anni il magazziniere in una squadra di calcio che ora è attesa dall’ultima sfida, quella che può valere la promozione in serie A. Di quella squadra, il bomber è il figlio di Silver. E sta per impelagarsi proprio in una di quelle faccende che il padre ha già pagato molto caro...

“Tre atti e due tempi” (Einaudi, pagg 151, euro 12) è il nuovo libro di Giorgio Faletti ed è già - assieme al nuovo Fabio Volo - il best seller del Natale 2011. Tanti anni fa comico televisivo, poi autore e cantante di successo (ha scritto brani per Mina e ha portato la sua “Signor tenente” al secondo posto a Sanremo ’94), a volte attore cinematografico, il sessantunenne astigiano è l’esempio vivente della versatilità a livelli sempre altissimi.

Quando nel 2002 uscì il suo primo thriller, “Io uccido”, più d’uno credette non fosse cosa da prendere sul serio. Quattro milioni di copie vendute, e gli altri libri seguiti in questi anni (“Niente di vero tranne gli occhi”, “Fuori da un evidente destino”, “Io sono Dio”, “Appunti di un venditore di donne”...), tutti premiati da analogo gradimento del pubblico, hanno messo a tacere gli scettici. E la consacrazione è arrivata quando Jeffery Deaver, maestro del thriller, ha speso parole più che lusinghiere nei suoi confronti.

Sì, perchè Faletti sa inventare storie avvincenti, scrive bene ed è un perfezionista. In più, sa rinnovarsi. Stavolta per esempio abbandona il thriller da cinquecento e passa pagine per un romanzo snello, molto diverso da quelli che lo hanno preceduto. Ingredienti della nuova portata: la provincia, il mondo del calcio, il denaro e la corruzione, la mancanza di futuro per un giovane, ma anche i valori della lealtà e della correttezza, nel rapporto difficile tra un padre e un figlio divisi da un passato che non si può dimenticare.

«Mi sento molto vecchio e molto stupido - dice Silver, che in realtà si chiama Silvano, ma in provincia e in certi ambienti è facile vedersi affibbiare un soprannome - per le cose che ho fatto in passato e quelle che devo fare ora. L’esperienza è una cazzata, una cosa che non esiste, un bacio che non sveglia da nessun sonno. È utile per cambiare una lampadina o imbiancare una stanza o prendere un gatto senza farsi graffiare. Per il resto, è sempre la prima volta».

Forse è anche il segreto di Giorgio Faletti: impegnarsi in ogni nuova avventura, in ogni nuova sfida, come se fosse la prima volta. Quale sarà la prossima?

mercoledì 7 dicembre 2011

TRAVAGLIO AL ROSSETTI


«Cosa penso? Che non c’era bisogno di Monti e della sua squadra di fenomeni, per partorire una manovra che alza le tasse e finge di tagliare i costi della politica e di far pagare anche i ricchi...».

Marco Travaglio non le manda mai a dire. Voce e penna caustica, da anni spara a zero sui giornali (attualmente sul Fatto Quotidiano, di cui è vicedirettore), in televisione (ha seguito Santoro anche nell’avventura “multipiattaforma”), nei libri (è appena uscito per Chiarelettere “Silenzio, si ruba”...), a teatro.

E stasera alle 21, proprio a teatro, al Rossetti, presenta il nuovo spettacolo “Anestesia totale”, ovvero: «il primo spettacolo (poco spettacolare) del dopo B, che prova a immaginare ed esorcizzare il futuro dell’Italia senza Berlusconi». Con lui, l’attrice Isabella Ferrari. Sul palco un’edicola, una panchina, due microfoni. E l’aristocratica viola di Valentino Corvino che commenta.

«Quando proponevo di tassare i capitali scudati - prosegue Travaglio - mi dicevano che così si violava un patto sottoscritto con i cittadini. Cosa chiaramente non vera, visto che altri patti sono stati e vengono violati tranquillamente. Comunque ora Monti ha deciso di mettere mano a quella voce, e che fa? Aggiunge un misero 1,5 per cento, al 5 già pagato, a gente che ha portato i soldi all’estero, li ha fatti rientrare pagando un’inezia di tasse e ha evitato pure l’aspetto penale della vicenda. E questa sarebbe equità?»

Timidezza di Monti o paletti dei partiti?

«Credo lui volesse effettivamente fare una patrimoniale, ma Berlusconi lo ha bloccato. Come lo ha bloccato sul tema delle frequenze televisive, che valgono a seconda delle stime fra i sei e i sedici miliardi di euro, a occhio mezza manovra, e che invece vengono regalate a Rai e Mediaset...».

Prosegua.

«Passera ha detto: non abbiamo esaminato il problema. Ma mi faccia il piacere. Si cambino i termini dell’asta e si vada all’incasso. Chi vuole le frequenze, le paghi. Non si capisce perchè se io occupo il suolo pubblico devo giustamente pagare una tassa. Se loro occupano le frequenze, e ci impiantano un ricco business, gliele danno gratis».

Le lacrime della Fornero?

«Armi di distrazione di massa, come direbbe Sabina Guzzanti, o nella migliore delle ipotesi di coccodrillo. Ma insomma, quelle misure le hanno decise loro, se non vanno bene, se fanno piangere, che ne presentino delle altre. Perchè torna l’Ici sulla prima casa mentre il Vaticano continua a non pagare un euro sulle sue proprietà e sulle sue attività commerciali? Ancora nessuno me l’ha spiegato».

Lo spettacolo?

«E’ rimasto praticamente uguale al debutto, avvenuto nell’aprile scorso a Bologna, anche se ovviamente si nutre dell’attualità di questi giorni e mesi. Parto da una frase, una constatazione: finalmente è finita, lui non c’è più. E questa è la buona notizia. Quella cattiva è che le radiazioni restano. Nella primavera scorsa si era già capito tutto, era evidente che Berlusconi era arrivato a fine corsa. Per la verità lo si era capito già quando aveva rotto il patto a destra con Fini. Lì ha perso la partita».

Non c’è più Berlusconi, ma il berlusconismo?

«A parte che io di Berlusconi non voglio più parlare, il nome stesso mi provoca fastidio, e infatti nello spettacolo se ne parla solo al passato. Ma il punto è proprio quello che lei dice: Berlusconi è finito, ma il berlusconismo gli sopravvive, per il semplice motivo che gli preesisteva. L’uomo è arrivato vent’anni fa come caricatura, come esasperazione del conflitto di interessi».

Che è sempre esistito.

«Appunto. Non dimentichiamo che i partiti occupavano la Rai ben prima della sua cosiddetta discesa in campo. E fino a quando la televisione sarà in mano ai partiti e i giornali in mano a banche, imprese, concessionarie pubbliche, palazzinari, fabbricanti di scarpe, proprietari di cliniche private, il berlusconismo non finirà».

Ma un giornalista a teatro che ci fa?

«Dipende da quello che uno ci fa, a teatro. Io faccio le stesse cose che faccio in tivù, ma quello che lì racconto in dieci minuti, a teatro posso raccontarlo con calma, in due ore e mezzo. Il teatro è lo spazio ideale per raccontare, per spiegare con tutto il tempo che occorre, davanti a un pubblico che è venuto per te. La televisione richiede lo slogan, per controbattere e sovrastare le opinioni altrui. Il libro richiede tanto tempo, a chi scrive e a chi legge».

Qualche difetto l’avrà anche il teatro.

«Più che difetti, rischi. Il rischio che la sala sia vuota, cosa che per fortuna ancora non mi è mai successa. Quando avviene, significa che quel che dici non interessa. E poi c’è anche il rischio che ti tirino pomodori, cosa che in tivù è impossibile. Anche questo ancora non mi è accaduto. Ma a teatro, utile per capire quali messaggi passano e che cosa interessa veramente alla gente, si crea quel contatto diretto impossibile altrove. Se uno sospira, lo senti. Se tossisce, te ne accorgi. Come ti accorgi se qualcuno si addormenta mentre parli... Una cura che servirebbe ai nostri giornali»

Isabella Ferrari?

«Realizza in scena una sorta di controcanto, rappresenta la parte della speranza. Mentre io descrivo il virus, lei propone l’antidoto. E per uscire da quella misteriosa epidemia che ha cloroformizzato e lobotomizzato un intero Paese, riducendolo all’anestesia totale del titolo, si affida ai testi di Indro Montanelli».

lunedì 5 dicembre 2011

I GRANDI TOUR A TRIESTE


«Stavamo per portare anche i Radiohead in piazza Unità, l’estate prossima...». Poi la band inglese è stata sistemata a Villa Manin, dove si esibirà il 4 luglio, e tutti contenti lo stesso. Ma la confidenza sfuggita al sindaco springsteeniano Roberto Cosolini è sintomatica di un cambiamento di clima e prospettive.

Sì, perchè un indizio rimane sempre e solo un indizio. Ma quando gli indizi diventano due, tre, quattro, beh, allora potremmo pensare di essere in presenza - se non di una prova - almeno di un’inversione di tendenza.

L’argomento è ovviamente il rapporto fra la musica dal vivo e Trieste, da anni considerata la cenerentola regionale dinanzi alla vitalità e alla ricca offerta di proposte di Udine e degli altri centri regionali, tutti ovviamente più piccoli del capoluogo giuliano.

La novità è che il calendario triestino dei prossimi giorni, settimane e mesi sforna un appuntamento dietro l’altro. Domani al Rossetti ci sono gli intramontabili Nomadi di Beppe Carletti, al PalaTrieste arriva lunedì 12 dicembre l’«Ora Tour» di Jovanotti, giovedì 22 di nuovo al Rossetti c’è Vinicio Capossela. Un tris dicembrino di tutto rispetto, insomma, calato in appena due settimane.

Siamo all’anno nuovo. Il 27 febbraio al Rossetti suona Johnny Winter, leggendario chitarrista blues/rock statunitense. Sempre nel maggior teatro triestino il 18 marzo è la volta di un altro mito del rock: Roger Daltrey, voce degli Who, che riproporrà l’opera rock “Tommy” e altri classici di un repertorio quarantennale.

Maggio è il mese di Biagio Antonacci, il cui nuovo tour fa tappa il giorno 22 al PalaTrieste per quello che si preannuncia come un concerto da “tutto esaurito”, con uno dei nomi di punta della canzone pop italiana.

Dulcis in fundo, il grande appuntamento dell’11 giugno allo Stadio Rocco con Bruce Springsteen: la prima volta in città del Boss, nella tappa del suo breve tour italiano (le altre sono Firenze il 7 e Milano il 10), che sta già attirando nelle prevendite l’attenzione dei fan dell’Europa centro-orientale. A Est di Trieste, il rocker di Freehold suonerà infatti soltanto a Praga e Vienna (rispettivamente l’11 e 12 luglio).

Come si vede, è già di un buon calendario. Al quale con ogni probabilità verranno aggiunti altri appuntamenti fra l’inverno e la primavera, oltre ovviamente a tutta la programmazione estiva, di cui il megaconcerto di Springsteen vogliamo sperare sia solo l’eccellente anteprima.

Da come il pubblico locale risponderà a questa inedita abbondanza (e qualità) di offerte, e da come la città saprà attirare e accogliere tutti quelli che arriveranno da lontano, dipenderà il futuro di quel rapporto con la musica dal vivo di cui si diceva.

Per anni siamo stati tagliati fuori dai circuiti internazionali e tenuti a stecchetto anche in quelli nazionali. Con la scusa che Trieste è decentrata, difficile da raggiungere, non baricentrica rispetto a Udine, demograficamente anziana, e chi più ne aveva più ne metteva.

Ora, complici i lavori previsti l’estata prossima allo Stadio Friuli di Udine e la “sensibilità” sull’argomento del sindaco springsteeniano di Trieste, la città può battere metaforicamente un colpo. Anzi quattro: one, two, three, four... Proprio come comincerà il concerto del Boss.