martedì 29 gennaio 2008

SANREMO


Siamo senza governo, la situazione è grave ma non è seria: abbiamo il Festival di Sanremo. Manca un mese al 25 febbraio, ma la kermesse è praticamente già cominciata. Lo si è capito ieri, dalla conferenza stampa di presentazione. Pippo Baudo, alla tredicesima conduzione: «Sanremo non è al tramonto. Tra le manifestazioni più durature è al primo posto...». E Piero Chiambretti, di rimando: «Più che per il Pd io tifo per il Pb, ovvero Pippo Baudo. Dura cinque giorni, quasi più del centrosinistra...». Battuta fin troppo facile, che comunque la situazione merita.

Povia e qualche altro escluso più o meno eccellente, nei giorni scorsi, aveva addebitato la propria bocciatura al fatto di non essere organico alla sinistra. All’Indipendent Music Day, che si terrà a Sanremo negli stessi giorni del Festival, ci sarà spazio per tutti: esclusi, emergenti e riemergenti dalle nebbie del tempo. Un quarto d’ora, o almeno cinque minuti di notorietà, nei giorni della rassegna, non si nega a nessuno.

Intanto è scoppiata la prima polemica, sale necessario di ogni edizione che si rispetti. La canzone «Il rubacuori», di Federico Zampaglione, in gara fra i big, è stata prima accettata e poi rifiutata dalla casa discografica dell’artista romano, la Emi, trattando il tema del precariato e dei licenziamenti di massa, decisamente di attualità anche nell’industria discografica in perenne crisi. Zampaglione si è presentato da indipendente, ma il brano è saltato dalla compilation del Festival, gestita dalle major discografiche.

Ha detto Giuseppe Giulietti, parlamentare, portavoce dell’associazione Articolo 21: «Ci auguriamo che la casa discografica si appresti a smentire e qualche dirigente spieghi che è stata una non felicissima trovata pubblicitaria, altrimenti saremmo di fronte a un fatto gravissimo; non solo a un'altra forma di censura ma a qualcosa di più grave, una testimonianza palese di insensibilità per una tema al centro delle preoccupazioni di milioni di italiani».

Poi si è saputo che il brano farà parte della compilation e che Zampaglione al Teatro Ariston duetterà assieme ad Annie Lennox, già con gli Eurythmics, appena licenziata dalla Sony. Ma l’episodio è significativo di un clima. Del tipo: non disturbate il manovratore. Nemmeno con le canzoni...

Rimangono i numeri e gli annunci. Si parte lunedì 25 febbraio con dieci Campioni e sette Giovani; voto della giuria demoscopica, che manda i quattro Giovani più votati alla prima finale di venerdì. Martedì 26 idem, con la designazione degli altri quattro Giovani finalisti. Mercoledì 27 pausa calcistica: di scena il solo Dopofestival, che quest’anno torna alla sede abituale del Casinò (con Chiambretti ci saranno Elio e le storie tese).

Giovedì 28 ritornano i venti Campioni, ognuno dei quali affiancato da un partner, italiano o straniero. Venerdì 29 finale dei Giovani (decide la somma fra giuria demoscopica, televoto e giuria di qualità) e spazio ai superospiti: per ora si parla di Lenny Kravitz, Kylie Minogue e la nuova stella del soul inglese Leona Lewis; fra gli italiani Jovanotti, Giorgia, Antonello Venditti, Gianni Morandi e Fiorella Mannoia.

Sabato primo marzo finalissima, con prevedibili ore piccole nella miglior tradizione baudiana, maestro sopraffino nell’allungamento dei brodi. Anche in questo caso decidono giuria demoscopica, televoto e giuria di qualità.

Il vincitore verrà fuori da questa lista: Fabrizio Moro con «Eppure mi hai cambiato la vita», Tricarico con «Vita tranquilla», Loredana Bertè con «Musica e parole», Max Gazzè con «Il solito sesso», Toto Cutugno con «Un falco chiuso in gabbia», Sergio Cammariere con «L’amore non si spiega», i Finley con «Ricordi», Eugenio Bennato con «Grande sud», Mietta con «Baciami adesso», Amedeo Minghi con «Cammina cammina», Giò Di Tonno e Lola Ponce con «Colpo di fulmine», Frankie Hi Nrg con «Rivoluzione», Gianluca Grignani con «Cammina nel sole», L'Aura con «Basta!», Little Tony con «Non finisce qui», Paolo Meneguzzi con «Grande», Anna Tatangelo con «Il mio amico», Mario Venuti con «A ferro e fuoco», Michele Zarrillo con «L'ultimo film insieme», il citato Zampaglione con «Il rubacuori».

Con Baudo e Chiambretti, archiviato il ciclone Hunziker, sul palco ci saranno di nuovo due vallette: la mora attrice di Bitonto Bianca Guaccero (la sua perla: «mi sento come una bambina nel castello delle favole...») e la biondona ungherese Andrea Osvart (altra perla: «ho passato metà della mia vita a studiare l'italiano, ora i miei sacrifici sono stati ricompensati...»). Ce lo meritiamo, Sanremo, ce lo meritiamo...

sabato 26 gennaio 2008


 


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TRIESTE Gino Paoli ha cantato a Trieste tante volte. Da solo o con Ornella Vanoni, al Rossetti o nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni. Sabato primo marzo, alla Sala Tripcovich, il concerto che terrà sarà del tutto particolare. Primo, perchè il cantautore nato a Monfalcone ma genovese d’adozione sarà accompagnato dal quintetto jazz del trombettista Enrico Rava (torinese nato per caso a Trieste, in via Tor San Piero, a Roiano, e poi diventato in realtà «cittadino del mondo»), formato da Flavio Boltro alla tromba, Danilo Rea al pianoforte, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Dunque le canzoni immortali di Paoli saranno presentate al pubblico in una veste diversa dalla solita: «risciacquate in jazz», se così si può dire.

Ma c’è anche un altro motivo che renderà particolare il concerto del primo marzo alla Tripcovich: il fatto che viene organizzato dall’Associazione culturale Franco Basaglia, nell’ambito delle iniziative per il trentennale della Legge 180, che chiuse i manicomi e fu il frutto di un lavoro svolto soprattutto a Trieste, negli anni Settanta. Anni in cui Gino Paoli fu uno dei primi musicisti (con gli Area, Giorgio Gaslini, Ornette Coleman...) a venire a cantare e suonare nel grande parco di San Giovanni che era ancora un manicomio ma si stava lentamente e progressivamente aprendo alla città.

Il jazz è un vecchio amore di Paoli, tornato in primo piano lo scorso anno grazie all’album «Milestones, un incontro in jazz» (etichetta Blue Note), inciso dal vivo con gli stessi musicisti che vedremo a Trieste. In quel disco - e nel concerto - alcune delle più celebri canzoni del cantautore vengono spogliate e rivestite di abiti nuovi, passando da una swingante «La gatta» a una toccante «Sassi», da «Senza fine» trattata alla maniera di uno standard alla struggente «Una lunga storia d’amore». Con incursioni in classici del jazz come «Time after time», «I fall in love too easily», «Stardust»...

Nella mattinata del primo marzo, Gino Paoli sarà protagonista di un incontro pubblico nel quale verrà presentata l’iniziativa - già anticipata dal «Piccolo» - dell’Orchestra dei matti di Trieste, di cui l’artista potrebbe diventare un testimonial.

venerdì 25 gennaio 2008

ALLEVI / EINAUDI


TRIESTE Altri due pezzi da novanta si aggiungono al calendario musicale triestino di questo inizio del 2008. Si tratta di due stelle del pianoforte: mercoledì 2 aprile arriva infatti al Politeama Rossetti Giovanni Allevi (che il 31 marzo sarà anche al Teatro Verdi di Gorizia), mentre lunedì 5 maggio raccoglie il testimone, sempre al Rossetti, Ludovico Einaudi.

Per Giovanni Allevi si tratta di un ritorno: negli ultimi due anni ha infatti suonato diverse volte a Udine, Monfalcone, Villa Manin e anche a Trieste. È considerato una delle rivelazioni della scena musicale - e pianistica in particolare - italiana degli ultimi anni. Apprezzato ormai anche fuori dai confini nazionali, avendo suonato da New York al Giappone.

A conferma di quanto di buono aveva intuito Jovanotti anni fa, quando nel ’97 decise di produrre per l’etichetta Soleluna il primo album di quel ragazzo alto e magro, con gli occhiali e una gran testa di capelli ricci, diplomato con il massimo dei voti al Conservatorio Morlacchi di Perugia e al Verdi di Milano, ma anche laureato in filosofia con una tesi su «Il vuoto nella Fisica Contemporanea».

Il pianista - nato nel ’69 ad Ascoli Piceno - ha poi continuato a collaborare con Jovanotti, in studio e dal vivo. E forse anche da lì ha tratto questa sua splendida sensibilità pop ben innestata su un impianto classico e jazz, che si coglie nei dischi e nei concerti. Di Allevi l’ascoltatore apprezza il senso melodico del pianismo, quel suo muoversi oltre ogni barriera di genere e al di fuori di categorie e definizioni. Sembra di ritrovare, trent’anni dopo, gli insegnamenti di un altro celebre pianista, Giorgio Gaslini, sulla musica totale.

Forse non sarà il Mozart del Duemila, come ha subito sparato qualcuno, ma di certo è oggi una delle voci più interessanti e originali della scena musicale italiana. Che rielabora la tradizione classica europea aprendola alle nuove tendenze pop e contemporanee.

L’AlleviLive Tour 2008 parte il 23 febbraio da Roma e prende il nome da «AlleviLive», l’album uscito nell’ottobre scorso del compositore e pianista marchigiano: un doppio disco dal vivo che ha già venduto oltre sessantamila copie e comprende l’inedito «Aria» e ventisei brani tratti dai quattro album di Allevi per pianoforte solo («13 dita», pubblicato nel ’97, «Composizioni», del 2003; «No Concept», del 2005; «Joy», del 2006, oltre 110 mila copie vendute). Due mesi fa è uscito inoltre «Joy Tour 2007», il primo dvd del pianista, registrato dal vivo nell’agosto scorso allo Sferisterio di Macerata.

E siamo a Ludovico Einaudi, nato a Torino nel ’55, figlio dell’editore Giulio e nipote del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Diplomato al Conservatorio Verdi di Milano con Azio Corghi, studi con Luciano Berio, comincia la sua carriera professionale con composizioni orchestrali e da camera, poi eseguite alla Scala, al Maggio Musicale Fiorentino, al Festival di Tanglewood (Stati Uniti), al Lincoln Center di New York, alla Queen Elisabeth Hall di Londra, ma anche a Parigi, Madrid, Budapest...

Einaudi lavora soprattutto per cinema (tantissime le sue colonne sonore) e teatro, componendo nell’88 l'opera teatrale «Time Out», nel ’90 «The Wild Man» per la Oregon Dance Company e nel ’91 «Emperor». Il lavoro discografico che l’ha fatto conoscere al pubblico è «Stanze», uscito nel ’92: una raccolta di sedici brani per arpa, composti nel corso di tre anni e definiti dall'autore «spazi musicali separati l'uno dall'altro come le stanze di una casa». Sono seguiti fra gli altri «Salgari» (’95), «Le onde» (’96), «Ultimi fuochi» (’98), «I giorni» (2001), «Una mattina» (2004), «Divenire» (2006).

Il pianista torinese ha recentemente fondato l'Einaudi Electric Ensemble</CF>, il gruppo di cinque musicisti che lo accompagnano dal vivo. L’anno scorso ha suonato nel disco «Dormi amore, la situazione non è buona» di Adriano Celentano.

Ricordiamo che i concerti triestini di Allevi ed Einaudi vanno ad aggiungersi a quelli già annunciati di Mario Biondi (11 marzo, Rossetti), Gigi D’Alessio (21 marzo, Rossetti), Pooh (2 aprile al PalaTrieste, la stessa sera di Allevi al Rossetti...), Biagio Antonacci (9 aprile, PalaTrieste).

sabato 19 gennaio 2008

TRIESTE Ieri sera, dopo tanti anni, Claudia Cardinale ha rivisto al Trieste Film Festival il film «Senilità», che non vedeva da tanto tempo. Ha rivisto la sua Angiolina, ha forse ricordato quei lontani giorni delle riprese triestine del film di Bolognini, la sorpresa nello scoprire per la prima volta la bora... E stamattina la grande signora del cinema italiano riparte per Parigi, dove vive da diciotto anni, forse proprio con l’immagine della sua giovane Angiolina negli occhi.


Claudia Cardinale arriva con la bellezza dei suoi imminenti settant’anni portati senza trucchi e senza inganni. Una bellezza che è figlia di quella acerba e sfrontata che fu di Angiolina nel film «Senilità».

Quanto tempo è passato? Troppo. Ma lei pare infischiarsene. Giustamente. Entra nella saletta del moderno hotel vicino piazza Unità dove si svolge l’incontro con il pubblico. L’applauso è al tempo stesso caloroso e rispettoso del mito che si materializza. La signora dribbla le presentazioni rivendicando il suo essere innanzitutto «una persona normale».Una persona normale che non è mai stata tradita dalla macchina da presa, e che detiene forse il record dei film tratti da opere letterarie. Scorrere la sua filmografia è come ripassare la storia del cinema. «Sì - ammette Claudia Cardinale, nata in Tunisia da genitori di origine siciliana - ho avuto il privilegio di lavorare con i maestri del cinema, in un periodo magico com’erano gli anni Sessanta, quando c’era ancora il bianco e nero che io amo molto perchè ti permette di sognare».

E chissà quanti sogni faceva, quella ragazzina eletta a diciott’anni «la più bella italiana di Tunisi» e spedita in viaggio premio a Venezia. «Il cinema - confessa - mi ha salvato la vita. Mi ha aiutato a tirar fuori quel che avevo dentro. Ero una ragazzina introversa, non parlavo mai. Praticamente una selvaggia. Grazie al cinema ho vissuto cento vite. Sono stata principessa e puttana, santa e donna del popolo. Mi ha sempre affascinato vivere altre vite. Ma non ho mai fatto me stessa, al cinema. Perchè mi sono sempre imposta di separare la vita dalla finzione cinematografica».

Una finzione che all’inizio ha riguardato anche quella voce così particolare. «Agli esordi sembrava un ostacolo. Dicevano che non andava bene, che era strana, troppo bassa, un po’ alla Louis Armstrong. Avevo finito per crederlo anch’io. E mi ero ormai abituata a essere doppiata, nei film. Finchè non è arrivato Fellini, con il suo fiuto straordinario, e mi è stata restituita la mia voce».

Fellini, dunque, che sul set era tutto caos e improvvisazione. Mentre Visconti pretendeva silenzio assoluto. Quasi come a teatro. Quel teatro scoperto tardi. «Tanti anni fa ho detto no anche a Strehler. Che stupida... Poi hanno insistito sia Scaparro che il mio compagno, Pasquale Squitieri. Finchè ho detto sì. Prima una ”Venexiana” a Parigi, nel 2000, poi Pirandello, Tennessee Williams, ma anche Andrea Liberovici».

Cinema e teatro: due mondi, due dimensioni antitetiche. «A teatro c'è il rischio, se sbagli non puoi ripetere l'inquadratura come si fa al cinema. E non c’è più nemmeno il suggeritore che ti salva quanto dimentichi una battuta. Al cinema è fondamentale la capacità di trasmettere emozioni con il viso, con i gesti, con tutto il corpo. Per questo Marlon Brando era il più grande di tutti».

All’inizio, a teatro, aveva paura. «Poi l'ho superata. Non volevo sentir parlare di palcoscenico. Ero terrorizzata. Io, che sono abituata a flirtare con la macchina da presa, qualche volta mi sento fragile, ma so anche prendermi i miei rischi. Proviamo, mi sono detta. A Parigi, nelle prime settimane di prova, non riuscivo nemmeno a mangiare. Però tutti mi sono stati vicini, tutti mi hanno aiutata. Da un certo momento in poi, non ho avuto più tempo per aver paura...».

C’è tempo per altri ricordi: citazioni, aneddoti, commossi ultimi incontri. «Bolognini mi manca, è sempre dentro di me. Ci capivamo al volo, senza bisogno di parole. Quasi come Zurlini, un vero esteta, che mi chiamava Lumumba per le mie origini africane...». Già, l’Africa, quel cuore africano che batte sempre forte. Il cuore di una figlia di emigranti che non ha mai spesso di emigrare. «Vivo a Parigi da diciotto anni. Ci sto bene, lì c’è rispetto per gli artisti, per la cultura. È una città dove posso condurre una vita normale».

Ma qui non si può non parlare anche di Trieste, di «Senilità», di Angiolina. «Trieste l’ho sempre trovata meravigliosa. Così austera, con i suoi palazzi, la sua piazza. In tutti questi anni sono tornata tante volte, anche l’anno scorso, per fare ”Lo zoo di vetro” a teatro. Ma di quella prima volta ricordo ancora la sorpresa della bora, di questo vento forte che un giorno, durante le riprese del film, quasi mi ha spaventato. E poi il freddo, tanto che anche stavolta, nel dubbio, mi sono portata la pelliccia... Cambiata la città? No, non mi sembra. Forse è un po’ migliorata, ma ho sempre subito il fascino di questo luogo dove si incontrano e convivono etnie e tradizioni diverse».

Ieri sera, dunque, Claudia Cardinale ha rivisto «Senilità». E chissà che non porti un pezzetto di Angiolina nei tre progetti che ha per il 2008: un film francese a Marsiglia, con il Jacques Perrin de «La ragazza con la valigia»; uno in Tunisia con un giovane regista tunisino, e poi un film («con un grande regista italiano... il più grande... ma non dico il nome perchè non abbiamo ancora firmato il contratto...») tratto da «Il primo uomo» di Camus. Ancora cinema e letteratura, insomma. Per una grande signora che confessa: «Io amo il silenzio, vivo da sola nel silenzio...».

DIONNE WARWICK


TRIESTE A volte i miti, per rimaner tali, devono essere difesi soprattutto da se stessi. O magari da certi manager che, per qualche migliaio di dollari in più, non esitano a mandare al massacro onoratissime carriere. È il caso purtroppo di Dionne Warwick, il cui tour italiano si è concluso ieri sera al Politeama Rossetti.

Esibizione francamente imbarazzante, cui i milletrecento spettatori triestini (età media piuttosto avanzata) hanno riservato un’accoglienza fin troppo generosa. Memore probabilmente, e giustamente, di quel che è stata Dionne Warwick in quasi mezzo secolo di carriera. E sorvolando sull’attuale stato dell’arte.

Affiancata dalla sua formazione tradizionale nota al grande pubblico (Katheline Rubicco al pianoforte, Renato Pereira alle percussioni, Todd Hunter e Valbert Lewis alle tastiere, Jeffrey Lewis alla batteria, Robert Short al basso e Ted Hunter alla chitarra: tutti in abito da sera), colei che è stata la «golden voice» del soul-pop internazionale ieri sera è sembrata la pallida controfigura di se stessa, della grande interprete che conoscevamo.

Entra in scena ancora claudicante per un infortunio al piede, che la costringe a calzare comodi zoccoloni. Raggiunge lo sgabello sistemato accanto al pianoforte, sorride, ringrazia per l’applauso, dice due parole di circostanza e attacca con «Close to you», raddoppia con «Walk on by», tenta di prendere il largo con «Anyone who had a heart» e «I’ll never fall in love again»... Gli applausi non si fanno attendere. Certo, quando uno va a pescare in un repertorio infinito, ricco di perle lucentissime firmate da un certo Burt Bacharach, la partita è comunque in discesa.

Ma Marie Dionne Warrick (è questo il suo vero cognome: quello d’arte nasce da un errore di stampa sulla copertina del primo disco, nel lontano ’62...) è diventata Dionne Warwick grazie a una voce da brividi. Una di quelle voci che quando partono non si fermano più. Scalano cattedrali, giocano con le note, formano ghirigori sonori da lasciarti a bocca aperta.

Ieri sera, nulla di lontanamente paragonabile a tutto questo. All’inizio sembrava quasi che cantasse con la voce trattenuta, con una sorta di metaforico freno a mano tirato. Poi, esattamente dopo mezz’ora (lo show è durato complessivamente un’ora e un quarto), quando sul finale di «A say a little prayer» al posto dell’acuto sono arrivati un paio di colpi di tosse, con conseguente stop e sorriso imbarazzato e tentativo di ripartire, beh, allora si è almeno capito che a Trieste Dionne Warwick - sia detto con rispetto per il mito da preservare - non era nelle condizioni di salire su un palcoscenico.

Poi è arrivato un altro classico, quella «Heartbreaker» donatale dai fratelli Gibb (i Bee Gees), con cui nell’82 scalò le classifiche di tutto il mondo: il ritornello affidato al pubblico, per evitare ulteriori passi falsi, fa virare l’atmosfera, che fino a quel momento aveva ricordato uno di quei vecchi night club di una volta, verso i lidi di un villaggio vacanze intento a dilettarsi nel karaoke.

Il medley dedicato alla musica brasiliana e un’altra manciata di classici («I know I'll never love this way again», «What the world needs now is love», «That's what friends are for»...) non potevano, in queste condizioni, risollevare la breve serata. Alla fine della quale, i calorosi applausi e la mezza standing ovation sono sembrati un dovuto atto di cortesia nei confronti del mito. Che, zoppicando, guadagnava la quinta più vicina.


 

ORCHESTRA DEI MATTI DI TRIESTE

TRIESTE Nasce l'Orchestra dei matti di Trieste. Nel trentennale dell'unica rivoluzione che la città ha visto nascere e compiersi, quella basagliana, e quasi a far da apripista alle tante iniziative che dal mese prossimo ricorderanno la Legge 180, si fa strada un'idea dalla grande forza simbolica.

Il progetto? Dare vita a una formazione orchestrale composta da persone in qualche modo imparentate con il disagio. Il disagio psichico, quello legato alle dipendenze, ma anche quello che nasce più semplicemente dalla solitudine. E assieme a loro persone che invece quei problemi magari non li hanno, ma semplicemente lavorano per alleviare quel disagio. Tutti uniti dall'amore, dalla passione, dalla frequentazione musicale.

«L'idea - spiega Peppe Dell'Acqua, direttore del Dipartimento di salute di mentale di Trieste - mi è venuta guardando all'Orchestra di Piazza Vittorio, la formazione multietnica nata nel quartiere romano dell’Esquilino, che da anni porta in giro la grande ricchezza di suoni e musicisti provenienti da mezzo mondo. Ebbene, ho pensato che qualcosa di simile può nascere anche a Trieste, città dove la formazione musicale di base è molto diffusa...».

Qui, dice ancora Dell’Acqua, che <CF><CP>assieme a Franco Rotelli può essere considerato l’erede di Basaglia, «per molti ragazzi suonare è come giocare a pallone: una cosa naturale, che si impara da piccoli e non si scorda più. Merito dei ricreatori, ma anche delle comunità carsoline dove c’è la tradizione del canto corale, della fisarmonica, della chitarra, degli strumenti a fiato suonati in compagnia».

Su questo filone s’inserisce lo specifico che riguarda il disagio, mentale e non solo. «Nei nostri Centri di salute mentale - prosegue Dell’Acqua - abbiamo molte persone che sanno suonare uno strumento. Magari suonavano da giovani, e poi hanno smesso, per colpa della malattia o semplicemente perchè le cose della vita hanno voluto così. E ho notato che esistono anche delle piccole eccellenze, gente con trascorsi musicali di un certo livello, storie di gruppi degli anni Sessanta e Settanta, o a volte ancor più lontane nel tempo».

Che poi nella storia della rivoluzione basagliana la musica ha sempre avuto un ruolo importante. Come dimenticare, infatti, i concerti nei primi anni Settanta, in quello che era ancora il manicomio di San Giovanni: gli Area, Ornette Coleman, Giorgio Gaslini, Gino Paoli... «Sì, la musica è stata una costante nel nostro lavoro - ammette Dell’Acqua -, quei giovani che negli anni Settanta entravano per la prima volta a San Giovanni per seguire i concerti ci permisero di entrare in contatto con la città. E non a caso quel primo contatto avvenne con la parte più giovane della popolazione, quella priva di pregiudizi, aperta al confronto con l’altro. Ricordo i grandi concerti, ma anche le esperienze dei laboratori teatrali, il cinema...».

Ma torniamo al 2008. Anno del trentennale della Legge 180 (approvata dal parlamento il 13 maggio 1978) ma anche del centenario del manicomio di San Giovanni (aperto il 4 novembre 1908). «Tre utopie che si incontrano: quella positivista del parco di San Giovanni; quella basagliana; quella di oggi, con il parco che ritorna alla città e diventa luogo di incontro, di incrocio, di confronto...».

Anche per celebrare queste tre utopie Dell’Acqua e i suoi stanno reclutando persone che sappiano suonare o cantare. «Per ora è girata una circolare nei nostri ambienti di lavoro: i Centri di salute mentale, il Sert, le cooperative, le associazioni con cui siamo in contatto. In pochi giorni abbiamo ricevuto già una ventina di adesioni, ma sogniamo di arrivare a un centinaio...».

Poi, gli organizzatori già lo sanno, arriva il difficile. Ci vogliono una grande sala prove («non necessariamente nel comprensorio di San Giovanni: stiamo pensando anche a un capannone o a un loft in centro...»), uno o più musicisti che coordinino il lavoro, che sostengano questa iniziativa. E magari un progetto cui finalizzare l’idea.

Sottolinea Dell’Acqua: <CF><CP>«Sarà l’orchestra dei ”matti” perchè questa parola qui è stata sdoganata due volte: la prima con il lavoro che ha portato alla chiusura del manicomio, la seconda attingendo al dialetto triestino, nel quale la parola ”matto” indica semplicemente una persona...».

«E la musica - prosegue lo psichiatra - diventa allora mezzo per veicolare la cultura dell’accoglienza, la lotta al pregiudizio. Ma anche per stimolare scambi, rinsaldare legami sociali, promuovere conoscenza e consapevolezza attorno alle più svariate esperienze che accadono, lottare contro la solitudine».</CP></CF>

Per l’Orchestra dei matti di Trieste ci sono già dei (possibili) testimonial illustri: da Simone Cristicchi, che ha vinto il Sanremo 2007 proprio parlando di «matti», e che l’estate scorsa in occasione del concerto in piazza Unità ha visitato il comprensorio di San Giovanni, all’amico di sempre Gino Paoli, che negli anni Settanta fu tra i primi all’appello dei «basagliani».

«Ma ho in programma - conclude Peppe Dell’Acqua - anche un incontro con Mario Tronco (componente degli Avion Travel e ”inventore” dell’Orchestra di Piazza Vittorio - ndr). Sarebbe bello organizzare, magari per il Natale prossimo, o a Capodanno, un concerto a Trieste della sua orchestra e in quell’occasione presentarci alla città. Con la nostra orchestra, l’Orchestra dei matti di Trieste...».


 


Il mondo della canzone d’autore italiana cela al suo interno alcuni insondabili e affascinanti misteri. Uno di questi si chiama Flavio Giurato, romano, classe 1949, regista televisivo, figlio di un diplomatico e fratello minore del giornalista Luca, ma soprattutto autore fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta di una trilogia («Per futili motivi», «Marco Polo» e l’insuperato «Il tuffatore»), sconosciuta ai più ma sufficiente a farlo diventare artista di culto per una ristretta ma fedelissima schiera di estimatori. Tale è rimasto per tutti questi anni, fra serate quasi clandestine e nuove canzoni diffuse in maniera più o meno autarchica. Alcune delle quali anche in un cd dal vivo allegato a un libro pubblicato nel 2004 e intitolato proprio come il suo disco-capolavoro, «Il tuffatore».


Ora esce un suo nuovo disco, «Il manuale del cantautore » (Interbeat), che ha lo stesso titolo di un mini-cd pubblicato nel 2001 e comprendente cinque canzoni incise tra 1990 e 1996. Che adesso ritornano in questo lavoro, con nuovi arrangiamenti e qualche ritocco, assieme ad altre sette brani più o meno nuovi. E il mistero, si domanderà a questo punto il lettore, dove sta? Sta nel fatto che lo sconosciuto Flavio Giurato - «antidivo e antimercato », come scriveva Carlo Massarini nella prefazione del libro - è una delle penne più originali e creative che abbiano mai abitato la nostra canzone. È uno che si muove con abilità sul crinale perigliosissimo che divide genialità creativa e follia visionaria, che scrive canzoni bellissime e struggenti, non riconducibili a nessun filone, a nessuna scuola musicale né cantautorale, e forse proprio per questo capaci di mantenere tuttora intatta una loro attualità fuori del tempo e ovviamente delle mode. L’illuminata discografia italiana lo ha tenuto ai margini. E trent’anni dopo quel lontano esordio discografico del ’78, pochissimi sanno della sua esistenza. Il nuovo album - che non è comunque all’altezza de «Il tuffatore» - difficilmente cambierà la situazione descritta. Nè contribuirà a svelare il mistero. Le canzoni più antiche, già pubblicate nel mini-cd di cui si diceva, assumono finalmente una veste definita, ufficiale. Al di là dell’approssimazione delle precedenti versioni e di quelle dal vivo. «Core addannato » è un quadretto sospeso nel tempo, che emana un vago senso di frustrazione ma brilla anche del calore e del colore della lingua napoletana; «L’ufficialino» ha lo spessore delle sue cose migliori, ed è forse il pezzo che guadagna di più dalla nuova versione; «Ustica» mischia pubblico e privato, ricordi da ragazzo e misteri (quelli veri...) italiani; «Praga » e «Mi-Lang» alternano parlato e melodia (una caratteristica di Giurato), squarci di storia del Novecento e follia pura che ti penetra e non ti molla più... E poi ci sono le canzoni più recenti, alcune delle quali comunque già note alla ristretta schiera dei fan. Da «La tentazione» a «Il caso Nesta» (scritta evidentemente quando il difensore milanista giocava nella Lazio), da «La giulia bianca» (sospesa fra il martirio di Pasolini e l’illusione di una rivoluzione sognata e inseguita dalla generazione di Giurato) fino a «I dinosauri », da «Silvia Baraldini» a «Centocelle» (i due episodi forse più deboli), fino a «Il manuale del cantautore» che dà il titolo al disco. Un disco che poteva uscire trent’anni fa. E forse potrebbe uscire, uguale, fra trent’anni. Impermeabile ai modi, alle mode, ai tempi. Come tutte le vere opere dell’arte e dell’ingegno. Per gli interessati c’è anche il sito www.flaviogiurato.it


 


 



Molte uscite discografiche in arrivo. Mentre gli U2 sono impegnati a registrare il nuovo album nel sud della Francia, anche i Verve, che hanno da poco concluso il loro secondo tour in Gran Bretagna, sono in studio per realizzare un nuovo album. Madonna - che debutta a febbraio come regista con «Filth and wisdom», che sarà in anteprima al Festival di Berlino e ha per protagonista Eugene Huntz, leader dei Gogol Bordello - uscirà con «Licorice» ad aprile: mescolerà dance e hip hop. L'11 febbraio sarà la volta di Michael Jackson: per i 25 anni di «Thriller», l'album più venduto nel mondo, uscirà un cofanetto con canzoni originali rimasterizzate, materiale inedito, alcuni remix e due bonus track già finite sul web. Grande attesa per il ritorno di Lenny Kravitz: la rockstar newyorkese uscirà ai primi di febbraio con «It's time for a love revolution», e ha scelto Myspace per pubblicizzare il suo nuovo lavoro, realizzato nei mesi scorsi in Brasile. A metà febbraio arrivano i nuovi album di Robbie Williams («Let's swing again») e Sheryl Crow («Detours»). A marzo arrivano anche i nuovi lavori di Moby («Last night») e di Nick Cave and the Bad Seeds («Dig, Lazarus, Dig»). Tante novità anche in casa nostra: a tre anni dal precedente cd «Buon sangue», il 18 gennaio arriva «Safari» di Jovanotti, atteso a Sanremo come superospite. Il suo undicesimo album da studio è stato anticipato dal singolo «Fango ». Alex Britti uscirà il primo febbraio con «Mtv Unplugged: Alex Britte», cd live registrato il 24 settembre scorso negli studi milanesi di Mtv Italia. Il primo singolo estratto è «Milano». Il nuovo cd di Lucio Dalla è atteso per il 25 gennaio: si tratta di «LucioDallaLive - La neve con la luna...», doppio cd più dvd registrato a Bologna a novembre. E poi Pooh (primo febbraio «Beat ReGeneration »), Ligabue (metà maggio «Ligabue - Secondo Tempo») e in autunno il nuovo Vasco Rossi.


 



«ROCK & POEMS» autore: MASSIMO PRIVIERO (cd Universal). Dal rocker veneto arriva un viaggio fra i grandi classici degli anni '60 e '70. Riletture di Bob Dylan (una «Blowing in the wind» molto elettrica), Tom Waits («Ol’55»), Bruce Springsteen («Promised land»), Eagles («Desperado »), Creedence («Have you ever seen the rain»)... «Resistance » è la versione inglese di «Dolce resistenza», dal precedente album.  Marchin’ On» è l’altra canzone firmata Priviero: parla di soldati solitari, in qualunque latitudine e in qualunque tempo a chiedersi la ragione incompresa di una marcia, di una guerra, di un nemico da combattere. Energia vocale, emozione e poesia, in quello che somiglia a un commosso e appassionato omaggio agli idoli della propria adolescenza.


 «OXYGENE» autore: JEAN MICHEL JARRE (cd Emi Capitol). Ritorna, nel trentennale della sua uscita, il miglior album del musicista francese, considerato fra i pionieri della musica elettronica e noto anche per i suoi amori famosi (Charlotte Rampling, Isabelle Adjani, Anne Parillaud...). È un lavoro soltanto strumentale, caratterizzato da suoni ampi e melodici, che ebbe negli anni Settanta un grandissimo successo commerciale. La quarta traccia del disco, «Oxygene Part IV», uscita all’epoca come singolo di lancio, rimane uno dei pezzi più conosciuti della musica elettronica di tutti i tempi. Ora l’album ritorna in edizione singola rimasterizzata ma anche in un lussuoso cofanetto triplo.

martedì 15 gennaio 2008

TRIESTE L’altra sera al Teatro Sistina di Roma, dove ha fatto tappa il suo tour italiano che oggi alle 21 si conclude al Politeama Rossetti di Trieste, Dionne Warwick è salita sul palcoscenico in ritardo. E invece di attaccare subito a cantare sulle note di «Walk on by», come previsto dalla scaletta, si è sentita in dovere di rivolgersi al pubblico. «Scusatemi per il ritardo - ha detto la cantante americana - ma ho appena scoperto di essere stata derubata in albergo...».

Già, poche ore prima, dalla sua stanza del lussuoso Hotel De Russie, in via del Babuino, a due passi da piazza di Spagna e da piazza del Popolo, erano infatti spariti un anello con diamanti, un brillante da cinque carati, una collana, un Rolex e altre sciocchezzuole. Per un valore complessivo di circa 120 mila euro. Cose che succedono. E che certo non si ripeteranno nella più tranquilla Trieste...

Dove arriva la cantante del New Jersey e il Politeama Rossetti si mette il vestito della festa. Per ospitare - come si diceva - la conclusione del breve tour, seguito a quello dell’estate scorsa, cominciato il 5 gennaio a Campione d’Italia e già passato da Roma, Napoli, Bari e Firenze.

Classe 1940, vero nome Marie Dionne Warrick, l’artista è una grande signora della musica contemporanea. Dopo gli esordi da ragazza in un coro gospel, debutta nel ’63 col singolo «Don't make me over», sulla copertina del quale il suo cognome viene riportato in maniera errata (Warwick anzichè Warrick) originando però quello che sarebbe rimasto il suo cognome d’arte. Dello stesso anno è l’album intitolato «Presenting Dionne Warwick».

Successivamente «Walk on by» ma soprattutto nel ’67 «Here where there is love» (in particolare grazie al singolo «I say a little prayer», rispolverato per il film «Il matrimonio del mio migliore amico», interpretato da Julia Roberts, Cameron Diaz e Rupert Everett nel ’97) la consacrano come cantante di successo mondiale. Sono di quegli anni anche le sue partecipazioni al Festival di Sanremo, nel ’67 con «Dedicato all'amore» e nel ’68 con «La voce del silenzio». E sempre nel '68 è la prima cantante di colore a vincere il Grammy Award, con il brano «Do you know the way to San Jose?».

Nei decenni successivi Dionne Warwick - famosa soprattutto per le sue interpretazioni delle canzoni di Hal David e Burt Bacharach - si è sempre mantenuta su un buon livello qualitativo, collaborando fra gli altri con Barry Manilow, gli Spinners, Barry Gibb dei Bee Gees (il famoso duetto di «Heartbreaker», nell’82).

Nell’85 partecipa alla registrazione di «We are the world». L’anno dopo è alla guida di un progetto benefico per la ricerca sull'Aids e canta «That's what friends are for» con Gladys Knight, Elton John e Stevie Wonder. È il suo quinto Grammy Award, dopo quelli vinti fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Nello spettacolo che arriva anche a Trieste l’artista propone i suoi brani più celebri, da quelli degli esordi fino alle cose più recenti. Passando per «Alfie», «That's what friends are for» e «I never fall in love again».</CF> Nella scaletta non mancano «I’ll never fall In love again», brano scritto da Burt Bacharach e Hal David, e interpretato anche da Ella Fitzgerald, Elvis Presley ed Elvis Costello, e «That's what friends are for».

La cantante del New Jersey - che attualmente vive in Brasile e considera possibile una nuova collaborazione con Bacharach - presenta nello show anche un medley di successi brasiliani, una novità per il suo repertorio ma anche la sua più recente passione musicale. E l’anno scorso è uscito il suo nuovo album intitolato «My friends & me», tutto al femminile, nel quale duetta fra le altre con Cindy Lauper, Gloria Estefan, Angie Stone, Kelis e Gladys Night.

In questo tour Dionne Warwick è accompagnata da Katheline Rubicco al pianoforte, Renato Pereira alle percussioni, Todd Hunter e Valbert Lewis alle tastiere, Jeffrey Lewis alla batteria, Robert Short al basso e Ted Hunter alla chitarra.

domenica 6 gennaio 2008

I Finley ma anche Little Tony, Frankie Hi Nrg ma pure Amedeo Minghi, L’Aura e persino Toto Cutugno... L’unico luogo al mondo dove possono coesistere artisti così diversi è ovviamente il Festival di Sanremo, i cui partecipanti di quest’anno sono stati svelati ieri sera, in diretta su Raiuno, da Pippo Baudo.  Affiancato da Piero Chiambretti - che dal 25 febbraio sarà con lui al Teatro Ariston, a officiare il rito della 58.a edizione della massima rassegna canora di casa nostra - il patron di Militello ha comunicato alle masse televisive il frutto del lavoro di selezione svolto dalla commissione artistica da lui presieduta e formata da Marino Bartoletti, Federica Gentile e Paolo Buonvino.

I magnifici venti sono allora Fabrizio Moro con «Eppure mi hai cambiato la vita» (vincitore lo scorso anno fra i Giovani), Tricarico con «Vita tranquilla» (cantautore originale, fra gli autori dell’ultimo Celentano), Loredana Bertè con «Musica e parole» (Baudo ha risposto alla sua richiesta di aiuto...), Max Gazzè con «Il solito sesso» (ha già portato in passato la sua musica di qualità nella Città dei fiori), Toto Cutugno con «Un falco chiuso in gabbia» (ritorno al passato remoto), Sergio Cammariere con «L’amore non si spiega» (torna dopo il terzo posto a sorpresa nel 2003 con «Tutto quello che un uomo»), i Finley con «Ricordi» (gruppo amatissimo dagli adolescenti), Eugenio Bennato con «Grande sud» (la musica popolare partenopea sul palco dell’Ariston), Mietta con «Baciami adesso» e Amedeo Minghi con «Cammina cammina» (destini che riprendono a incrociarsi).

E ancora Giò Di Tonno e Lola Ponce con «Colpo di fulmine» (coppia del musical «Notre Dame de Paris»), Frankie Hi Nrg con «Rivoluzione» (padre dell’hip hop italiano), Gianluca Grignani con «Cammina nel sole» (bello e dannato, sempre in cerca di una consacrazione che però tarda ad arrivare), L'Aura con «Basta!» (voce che arriva dalla musica di oggi, amata dai giovanissimi), Little Tony con «Non finisce qui» (altro ritorno al trapassato remoto: festeggia mezzo secolo di carriera), Paolo Meneguzzi con «Grande» (amato dalle ragazzine, soprattutto in Sud America), Anna Tatangelo con «Il mio amico» (canzone scritta dal fidanzato Gigi D’Alessio), Mario Venuti con «A ferro e fuoco» (valido interprete catanese, già nei Denovo e già a Sanremo), Michele Zarrillo con «L'ultimo film insieme» (la quintessenza del pop che sposa la melodia), Federico Zampaglione e Tiromancino con «Il rubacuori» (la scena pop romana che da anni si è imposta anche a livello nazionale).

Insomma Baudo - che a giugno compie settantadue anni e detiene il record delle edizioni presentate (dodici) - non si discosta dalla nota ricetta: un occhio alla tradizione e l’altro ai giovani, un pizzico di nazionalpopolare e una buccia di qualità, un grande ritorno e un paio di outsider. La solita macedonia, con diverse presenze di qualità e l’obiettivo di far contenti tutti. E il rischio, sempre in agguato, di scontentare ognuno.

Fra gli scontenti, quest’anno come ogni anno, ci sono quelli che avevano presentato una canzone ma non hanno passato l’esame: Povia con Francesco Baccini, Raf, i Quintorigo con la Banda Osiris, i Matia Bazar, i Tazenda, Ron, Anna Oxa, Samuele Bersani, Gerardina Trovato, Pacifico, Paola Turci, Alex Britti, Francesco Renga, Marco Masini, Mario Biondi, Manuela Villa, Massimo Ranieri, Peppino Di Capri, lo stesso vincitore dell’anno scorso Simone Cristicchi e tanti altri nomi, magari meno noti, che avevano mandato un brano.

Chissà se è contento Enzo Mazza, presidente della Fimi, Federazione industria musicale italiana, che giorni fa ha detto: «Sanremo tra cinque anni sparirà, la tv generalista sta per essere travolta dallo tsunami che ha investito l'industria discografica, e ormai il Festival è un prodotto puramente televisivo, seguito tra l'altro da un pubblico in età avanzata». Tutto vero, ma attenzione a fare previsioni azzardate: la «ricetta macedonia» potrebbe garantire alla rassegna ancora molte edizioni...

PAOLO ROSSI

TRIESTE Ormai Paolo Rossi passa più tempo a Trieste (dove sta anche facendo «un mezzo pensierino di metter su casa»...), che nella sua Milano. L’attore non ha fatto in tempo a concludere il «Cantiere sul teatro popolare» organizzato da Bonawentura e dal Teatro Miela in collaborazione con il Comune di Muggia e la Regione Friuli Venezia Giulia, svoltosi fra settembre e dicembre, che è già tornato alla base. Stasera sarà sul palco del Teatro Miela con un’altra scommessa.

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Stasera alle 21, in quel Teatro Miela dove ormai è di casa, si terrà infatti una «prova aperta» del suo nuovo spettacolo «Ubu re d’Italia», sua personalissima versione del celebre «Ubu Roi» di Alfred Jarry, testo amato dai teatranti di tutto il mondo per le sue potenzialità simboliche e politiche.

«Ma non aspettatevi una sorta di anteprima - mette le mani avanti Paolo Rossi, monfalconese di nascita, milanese d’adozione, classe 1953 -, si tratta solo di una ”prova aperta” dopo appena dieci giorni di lavoro. Lo spettacolo sta nascendo ora. Saranno importanti le anteprime che faremo a partire dal 20 gennaio. Mentre la prima vera e propria credo che si terrà il 20 febbraio a Napoli...».

Per lei le anteprime sono particolarmente importanti...

«Sì, recitare con un pubblico davanti cambia completamente le cose, per chi sta su un palcoscenico. Almeno questo è il mio modo di intendere il teatro. Il pubblico delle prove, delle anteprime ha un piccolo grande privilegio: cogliere il brivido dell’atto creativo all’inizio, nell’atto del suo nascere. Poi, quando uno spettacolo va in scena, quel brivido viene a mancare, sostituito magari da altre cose».

L’Ubu Re è sempre stato una maschera del potere. Un pretesto per parlare anche dell’Italia di oggi?

«In un momento così confuso, in cui le prospettive e le aspettative di un cambiamento si rivelano sempre più fragili, affido a Padre Ubu - uno dei personaggi più esemplari del teatro, maschera grottesca e arrogante del potere - il compito di interpretare i giorni nostri, di denunciare la stupidità delle convenzioni sociali e il vuoto culturale e politico della nostra realtà».

Quindi stavolta non si ride...

«No, nello spettacolo si sarà anche da ridere, assieme a momenti commoventi, drammatici. Nel teatro proprio come nella vita. Jarry nel 1896 (se ricordo bene, con le date sono sempre stato una frana...) mise in scena a Parigi una commedia satirica originariamente pensata come uno spettacolo di marionette. Il mio sarà un viaggio nel cuore di quel burattino, consapevole del fatto che oggi la vera provocazione è cercare un palpito di fronte a un mondo meccanico».

Come sarà allora questo «Ubu Re d’Italia»?

«Non tenterò di far un'ulteriore o più moderna versione dell'opera di Alfred Jarry, creatore non solo di questo burattino ma di romanzi, saggi e primo padre della patafisica. L'Ubu è un classico ma stavolta non sarà come con Moliere, Shakespeare, Rabelais, o con lo stesso spettacolo sulla Costituzione. Quelli erano pretesti per esercizi d’attore o di satira. Lì ho raccontato una mia versione, ho giocato o cercato un pretesto per ridisegnare quel mondo, che si consuma in una sera. Non realizzerò quindi il mio Ubu. Nemmeno dirò: questo è l'Ubu».

Bensì?

«Con la Compagnia BabyGang - Federico Bonaconza, Carolina De La Calle Casanova, Paolo Faroni, Valentina Picello, Woody Neri, assieme a Emanuele Dell'Aquila, Davide Palla e Irene Serini - metterò semplicemente in scena qualche domanda: che cos'è L'Ubu? Chi era Jarry? E cosa c'entrano l'Ubu e Alfred Jarry con me e l'Italia?».

Si è già dato delle risposte?

«No, raccontare storie che chiudono con una domanda è per noi il teatro popolare. E l'ultima domanda che mi faccio e porrò nel mio lavoro è: quando il creatore di un burattino muore, il suo cuore a chi va?».

Oltre alla BabyGang chi c’è con lei?

«Lo spettacolo l’ho scritto con Carolina De La Calle Casanova, mi hanno aiutato nella messa in scena Elio De Capitani (che si definisce "il grande tormentatore maieutico") e Maria Consagra. Poi ci sono le canzoni scritte appositamente da Vinicio Capossela, le scene e i costumi di Emanuele Crotti, la consulenza - per l'elaborazione di un linguaggio - dello scrittore Giampaolo Spinato e del mio ”consigliere maccheronico” Riccardo Piferi».

Il «Cantiere» muggesano che cosa le ha lasciato?

«Beh, posso dire che questo progetto è nato all’interno di quel Cantiere. Quei tre mesi di lavoro sono stati il perfezionamento della nostra metodologia. Le sorprese venivano fuori quasi ogni giorno...».

Senta, ma ormai possiamo dire che lei vive a Trieste...

«Non ancora, ma quasi... Ci sto facendo un mezzo pensierino. È da quattro anni che lavoro a Trieste, una sorta di ritorno al passato per trovare il futuro. Qui si lavora meglio che a Milano: c’è più tensione creativa. Chissà, forse è dovuta al confine che c’era, è caduto ma in qualche modo rimane ancora nell’aria, nell’odore, a livello di sensazioni».

E che odore sente, oggi, nella Trieste dove i suoi genitori la portarono a tre o quattro anni in piazza Unità....?

«Quella volta ricordo che mi fece impressione questa grande piazza che si apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... Oggi sento l’odore del cambiamento. Di qualcosa che bolle in pentola. Sento parlare di grandi potenzialità, di grandi opportunità: cose che si accompagnano di solito ai grandi rischi. La ricetta è sempre quella: tornare al passato per trovare il futuro...».

sabato 5 gennaio 2008

PORDENONE E poi ci sono Irene Grandi il 15 gennaio (ahia, stessa sera di Dionne Warwick a Trieste...) al Teatro Verdi di Pordenone, Francesco De Gregori il 13 febbraio sempre al Verdi di Pordenone, i Subsonica il 14 febbraio al palasport Carnera di Udine, i Korn il 22 febbraio e i Megadeth il 5 marzo, entrambi al palasport di Pordenone... Sì, il calendario musicale del 2008 prende forma e si preannuncia ricco almeno quanto quello - davvero speciale - del 2007, appena mandato in archivio.

Irene Grandi ritorna in regione per far assaggiare anche al nostro pubblico la sua ultima metamorfosi: da cantante rock arrabbiata, una sorta di Vasco Rossi in gonnella (e infatti il Blasco nazionale l’aveva anche accolta sotto la sua ala protettrice, scrivendo per lei «La tua ragazza sempre», che le era valso un prestigioso secondo posto al Sanremo 2000), a interprete di classe, in versione più soft, quasi intima. La prova generale è stata rappresentata dalle cover di «Sono come tu mi vuoi» (con video in stile anni Sessanta molto programmato dalle emittenti tv musicali), testo di Antonio Amurri e musica del grande Bruno Canfora, portata al successo nel 1966 dall’inarrivabile Mina, e della classicissima «Estate» di Bruno Martino. Entrambi i brani stavano nell’antologia «irenegrandi.hits», uscita nel maggio scorso: trentaquattro brani su due dischi, il primo contenente brani dagli esordi al 2001, il secondo coi successi del periodo successivo, con l’aggiunta di due inediti: «Bruci la città», scritta con Francesco Bianconi dei Baustelle, fra i maggiori successi dell’estate 2007, e «La finestra». La tappa del 15 gennaio a Pordenone (a cura della Virus Concerti, che firma anche la data di De Gregori) fa parte del nuovo tour teatrale di Irene Grandi, che sul palco sarà accompagnata da Alex «Class» Po al basso, Massimo «Maxi» Gallesi al piano e all’organo, Massimo «Max» Po alla batteria, Gabriele «Lele» Leonardi alle chitarre e da un quartetto d’archi.

Anche per Francesco De Gregori si tratta di un ritorno in regione, grazie a questo nuovo tour teatrale partito nel novembre scorso dal Malibran di Venezia, e che andrà avanti fino a primavera. Il cantautore romano, che ad aprile farà cinquantasette anni, ha da poco pubblicato il disco dal vivo «Left & Right», registrato l’estate scorsa. Il titolo, sinistra e destra, non deve far pensare a coloriture politiche. Si riferisce infatti molto più semplicemente al suo esser stato registrato su due piste dai canali - quello di destra e di sinistra, per l’appunto - del mixer di sala. Fra le canzoni: «Numeri da scaricare», «Compagni di viaggio», «Un guanto», «Mayday», «La leva calcistica della classe '68», «L'agnello di Dio», «La donna cannone»... C’è anche un dvd, allegato come bonus e intitolato «Takes & Out Takes»: contiene scene di backstage, versioni inedite e una lunga intervista realizzata da Renato Nicolini.

Solo due parole anche sui tre gruppi in arrivo, sui quali ci sarà tempo per tornare. I torinesi Subsonica hanno appena pubblicato l’album «L'eclissi»; dal vivo ultimamente propongono anche «Up patriots to arm», di Franco Battiato. Gli americani Korn e Megadeth sono fra i maggiori esponenti dell’attuale scena «metal» statunitense.



TRIESTE Bum, bum, bum... Che sarebbe come dire: stasera al PalaTrieste Nick the Nightfly con Monte Carlo Nights Orchestra e Sarah Jane Morris, il 15 gennaio Dionne Warwick al Rossetti, dove poi arrivano anche Mario Biondi e Gigi D’Alessio (l’11 e il 21 marzo). E ancora i Pooh e Biagio Antonacci al PalaTrieste ad aprile (rispettivamente il 2 e il 9). Insomma, dopo un 2007 musicalissimo per Trieste e tutto il Friuli Venezia Giulia, e con la caduta del confine che promette di trasformare il 2008 nel primo anno di una futuribile «euroregione della musica», ecco che il calendario dei prossimi appuntamenti prende subito forma e si arricchisce di nuovi nomi.

Ne parlavamo giusto sette giorni fa. Con Lubiana che adesso è anche psicologicamente più vicina a Trieste di Lignano o Pordenone, il 2008 diventa il primo anno in cui il pubblico di queste terre avrà a disposizione una scelta di spettacoli che tiene testa a zone in passato molto più ricche di spettacoli.

Se ieri eravamo «periferia dell’impero», oggi siamo «al centro della musica». E Trieste stavolta non ci sta a farsi mettere ai margini. La vecchia cenerentola, per decenni bypassata dai circuiti delle musica dal vivo, ora gioca la sua parte e lo fa da protagonista. Ciò grazie anche alla proficua collaborazione fra pubblico e privato.

Una conferma arriva dai primi nomi annunciati per il 2008. Come sottolinea in una nota il vicesindaco Paris Lippi «il ricco e interessante programma, frutto della preziosa collaborazione sviluppata dal Comune di Trieste e Azalea Promotion, prevede una prima serie di concerti ed eventi musicali che puntano a confermare anche quest'anno Trieste sulla scena del panorama musicale nazionale e internazionale».

Ma il debutto di stasera è firmato dall’Associazione dei commercianti con il tradizionale concerto «Buon anno Trieste». Quest’anno al PalaTrieste arrivano il dj-musicista Nick the Nightfly, impegnato con la sua Monte Carlo Nights Orchestra e la grande Sarah Jane Morris in un «Tribute to Beatles» che promette di far rivivere le immortali melodie dei quattro di Liverpool. Parte dell’incasso della serata - di cui parliamo in cronaca - alla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, che è un bel modo di cominciare l’anno.

La prossima settimana, martedì 15 gennaio, Dionne Warwick sarà in concerto al Rossetti, nell'ambito di un breve tour italiano in cui sarà accompagnata da un gruppo di sette musicisti. La cantante, che nel 2008 festeggia quarantacinque anni di attività, proporrà il meglio del suo repertorio. Originaria del New Jersey, classe 1940, la Warwick (sorella di Dee Dee, madre di Whitney Houston), è una parte della storia del pop, avendo esordito dopo Elvis e prima dei Beatles. Difficilmente etichettabile perchè ha sempre spaziato in vari contesti sonori, cresciuta cantando nelle chiese battiste, ha offerto interpretazioni di straordinario livello: dalle collaborazioni con Burt Bacharach (che con Hal David ha scritto per lei canzoni memorabili, dal primo singolo «Don't make me over» in poi) al rhythm'n'blues, da «I’ll never love this way again» di Barry Manilow, al rapporto con i Bee Gees e con Andrè Previn, che scrisse per lei la title-track della colonna sonora de «La valle delle bambole». Anche quando si è cimentata in un repertorio commerciale, Dionne ha sempre mantenuto un buon livello qualitativo, evitando di cadere nel revival. La sua carriera è ricca di dischi d'oro e di platino (per una produzione supera i quaranta titoli, oltre a molte raccolte), collezionando diversi Grammy Award (il primo nel ’68). Il successo internazionale la impose anche in Italia, dove negli anni Sessanta partecipò al Festival di Sanremo, nel ’67 con «Dedicato all'amore» e nel ’68 con «La voce del silenzio».

Ma andiamo all’11 marzo, quando al Rossetti arriva Mario Biondi, sorta di Barry White trapiantato in Sicilia. Catanese, classe 1971, il suo vero nome è Mario Ranno. Ma ha scelto di chiamarsi così per ricordare il cognome d’arte del padre, il cantante Stefano Biondi. Il grande pubblico lo ha scoperto l’anno scorso a Sanremo, quando ha duettato con Amalia Grè nel brano «Amami per sempre». E il suo primo album solista è uscito nel 2006, «Handful of soul». Ma alle spalle ha una storia già importante, fatta di esperienze come corista, di collaborazioni prestigiose, di esperienze negli Stati Uniti, dove alcuni suoi brani sono stati inseriti nella colonna sonora del telefilm «Sex and the City». Due mesi fa ha pubblicato con la Duke Orchestra il doppio album «I love you more Live», registrato dal vivo al Teatro Smeraldo di Milano nell'ottobre scorso. E al prossimo Sanremo (in programma pochi giorni prima del concerto triestino) potrebbe partecipare anche lui, stavolta in veste di solista.

Appena dieci giorni, e il 21 marzo arriva al Rossetti Gigi D’Alessio, il cantante napoletano che ormai da diversi anni si è saputo trasformare da cantante neomelodico (aveva cominciato con i matrimoni, diventanto una star nella sua città, grazie anche all’appoggio di Mario Merola) a grande protagonista della musica italiana, con tournèe di successo anche all’estero. Un successo che è stato consacrato dalle tre partecipazioni a Sanremo: nel 2000 con «Non dirgli mai», nel 2001 con «Tu che ne sai», nel 2005 con «L'amore che non c'è». «Mi faccio in quattro» è il sedicesimo album della sua carriera, uscito nel 2007 e suddiviso in quattro cd (sottotitoli: «Napoletano», «Pop», «Latino» e «Ballad»), con due tracce inedite: «Non mettermi in croce» e «Bambina». Gigi D’Alessio è una presenza fissa anche dei periodici rosa, grazie alla sua relazione con la cantante Anna Tatangelo.

E passiamo ai due appuntamenti - preannunciati dal Comune di Trieste e da Azalea Promotion - per il mese di aprile, al PalaTrieste. Il 2 aprile arrivano i Pooh con una tappa del loro «Beat ReGeneration Tour 2008». Che parte il 29 marzo da Mantova e prende il nome dall’album, intitolato per l’appunto «Beat ReGeneration», in uscita il primo febbraio, e preceduto dal singolo «La casa del sole», vecchia canzone dei Bisonti, riarrangiata per l’occasione, in rotazione nelle radio da ieri. Tutto il disco è un omaggio ai complessi che animavano la scena italiana in quegli anni Sessanta ai quali i Pooh e pochissimi altri sono sopravvissuti: dai Califfi («Così ti amo») ai Ribelli («Pugni chiusi»), dai Quelli (che poi avrebbero dato vita alla Pfm) all’Equipe 84, dalla Formula 3 ai Sorrows («Mi spezza il cuor»), dai Corvi («Un ragazzo di strada») alle Orme, fino ai Rokes (di cui vengono rilette «È la pioggia che va» e «Che colpa abbiamo noi».

Sempre al PalaTrieste il 9 aprile arriva il «Vicky Love Tour» di Biagio Antonacci, cominciato nel novembre scorso e seguito ai due megaconcerti dell’estate scorsa allo Stadio San Siro di Milano e al Velodromo di Palermo. «Vicky Love», uscito nel marzo 2007, a due anni da quel «Convivendo parte 2» che assieme a «Convivendo parte 1» aveva dato vita al primo progetto discografico «a puntate» del mercato italiano: oltre un milione e 200 mila copie che erano valso al cantautore milanese la prestigiosa statuetta ai World Music Awards 2005 come «Best Male Selling Italian Artist».

Il resto alle prossime puntate...