mercoledì 30 novembre 2011

Trieste, un miliardo per tornare mitteleuropea



di PAOLO POSSAMAI (da REPUBBLICA AFFARI e FINANZA)

S
e l’Italia dispiega un estro formidabile nel mettere i bastoni tra le ruote a chi fa impresa, Trieste manifesta impareggiabili tensioni suicide. A quale altro pezzo di mondo sarebbe riuscito di impiombare a volo Generali, quando a metà anni ’80 voleva realizzare il proprio head quarter all’interno di Porto Vecchio? Tant’è che la maggior compagnia assicurativa italiana, decise di costruire alle porte di Mestre il suo centro direzionale e la fabbrica prodotti. E il copione è stato ripetuto 56 anni fa, quando Porto Vecchio era candidato a sede dell’Expo e i campioni della conservazione sabotarono il progetto. Ebbene, stavolta potrebbero essere delusi quelli che smaniano dal desiderio che caschino definitivamente a pezzi i magnifici magazzini portuali costruiti dagli imperialregi asburgici ingegneri. In palio vi è un investimento superiore al miliardo di euro e una partita immobiliare di scala europea, e con essi il riscatto possibile di Trieste. I protagonisti dell’intervento sono le imprese di costruzioni Maltauro (406 milioni di ricavi, Ebit pari a 8,8 milioni) e RizzaniDe Eccher (ricavi consolidati per 412 milioni, Ebit per 23) con il gruppo Banca Intesa (Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo, Cassa di risparmio del Friuli Venezia Giulia) e Sinloc, tutti insieme riuniti nella società di scopo chiamata Portocittà. «Siamo in presenza di una sfida che non ha pari in Italia. La vinceremo se saremo capaci di riunire Trieste al suo mondo di riferimento naturale e storico, che è davvero la Mitteleuropa. E la vinceremo perché in questo senso ci assistono la nostra esperienza di general contractor internazionali e partners finanziari di prim’ordine. Puntiamo a coinvolgere fondi pensione non speculativi, orientati al lungo periodo, e in questo senso i nostri partners ci saranno di sicuro d’aiuto», dice Enrico Maltauro, presidente del gruppo di famiglia e amministratore delegato di Portocittà. Nelle parole di Maltauro troviamo l’eco della composizione sociale di Sinloc, che è espressione di varie Fondazioni bancarie e della Cassa Depositi e Prestiti.

Portocittà nel 2010 ha ricevuto in concessione dall’allora presidente dell’Autorità portuale, Claudio Boniciolli, per 70 anni un’area di 44 ettari, con fabbricati monumentali da recuperare per una superficie complessiva coperta di 158mila metri quadrati, edifici di nuova edificazione per 84mila metri quadrati, specchi d’acqua per 86mila metri quadrati, spazi verdi per 35mila metri quadrati, un waterfront lungo 3 chilometri e mezzo. Il tutto a trecento metri da piazza Unità d’Italia, perché il Porto Vecchio è la naturale estensione urbanistica verso Nord della città disegnata sulle saline nella prima metà del ‘700 per volere di Maria Teresa d’Austria. «Ci metteremo dieci anni a completare il mosaico. Cominceremo nel 2012 con la prima delle due darsene previste e con il restauro di due Magazzini, che si aggiungeranno al Magazzino 26 già disponibile», spiega Maltauro. Pensiamo che il Magazzino 26 è lungo 244 metri, e sui quattro piani sviluppa una superficie di quasi 30mila metri quadrati. Mattoni a vista, colonne in ghisa guarnite di capitelli corinzi, travi in ferro: il Magazzino 26 è un testo di archeologia industriale che richiama le glorie di un tempo ormai lontano, quando Vienna nell’ultimo quarto del XIX secolo impiantò a Trieste e a Amburgo i due porti dell’impero. Uno sul Mare del Nord e l’altro era l’affaccio più settentrionale del Mediterraneo, quando il Mare Nostrum veniva messo in comunicazione con il Far East tramite il canale di Suez.

Mentre Amburgo il suo porto Vecchio l’ha ampiamente recuperato e i suoi Speicherstadt sono tornati a essere motore dell’economia, Trieste si è perduta nel dedalo dei veti incrociati. E sarà da vedere, dunque, come partiranno i lavori l’anno venturo per il recupero "filologico" dei Magazzini 24 e 25 destinati a accogliere strutture di servizio alla nautica, alberghiere e di commercio. Nell’ambito dello stesso primo lotto, sarà realizzato il porticciolo per 180 approdi, chiuso dal cosiddetto Molo Zero. E forse in pari tempo sarà avviata anche la costruzione della seconda darsena da 200 posti, accanto al Molo III.

Sono importanti le darsene, in questo progetto, perché simbolicamente possono ricongiungere Trieste allo storico suo retroterra naturale, che solo in piccola parte è contenuto nei confini nazionali. La darsena per i megayacht, per esempio, implica la possibilità di offrire al grande industriale bavarese o al super manager viennese o praghese la riscoperta del suo primo affaccio al mare. Che è a Trieste, appunto. In una città che d’estate è di norma porto di servizio per le navi di proprietà dei vari Abramovich di cui la Vecchia Europa è densamente popolata, la scommessa non è configurabile come un mero azzardo. «E se la Mitteleuropa ritrova i fili della storia che la riportano a Trieste, il nostro investimento troverà il suo habitat più appropriato», rimarca Maltauro.
 


LIBRO ZAVOLI


Il fascismo e la guerra, la Liberazione e il dopoguerra, gli anni del boom e il Sessantotto, lo sbarco sulla Luna e la guerra nel Vietnam, la tragedia del terrorismo ma anche il Giro d’Italia, Rimini e Roma, Fellini e Basaglia. E ovviamente la Rai.

Esistono delle storie personali che, rilette a distanza di tanti anni, con il classico senno di poi, somigliano tanto all’autobiografia di una comunità, di una nazione. E diventano una sorta di personalissimo viaggio nella memoria di un Paese. Il Paese è ovviamente l’Italia, l’uomo che si racconta è Sergio Zavoli, il libro s’intitola “Il ragazzo che io fui” (Mondadori, pagg. 261, euro 18,50).

Ravennate, classe 1923, giornalista, alla Rai Zavoli entra giovanissimo ed è storico autore di grandi inchieste televisive negli anni Sessanta e Settanta (Montanelli lo definì “principe del giornalismo televisivo”), condirettore del Tg1, direttore del Gr1 e infine presidente dell’azienda pubblica. Da tre legislature è senatore, dal 2009 presiede la Commissione bicamerale per l’indirizzo e la vigilanza sulla Rai.

Dopo tanti libri scritti, alla vigilia dei novant’anni, era scontato che arrivasse il momento dell’autobiografia. Giunge con la formula della “lezione” a un bambino, il nipote cui lo scrittore si rivolge nella dedica (“Per Andrea, al suo bellissimo immaginare”) e già nelle prime righe che riportano il lettore indietro fino alla Rimini in bianco e nero del 1929, a una mamma che si preoccupa per il figlio, «bisognerà portarlo dal dottore...».

Da quell’episodio lontano e mai rimosso, Zavoli parte per un viaggio nel quale ripercorre il passato ma guardando sempre al futuro, al futuro del Paese e delle giovani generazioni. Attento al domani di ragazzi che pagano «il conto più alto - spiega - a questi anni colmi di recessioni non solo economiche, ma anche civili e morali. Come? Socialmente irrilevanti e politicamente estranei persino a ciò che li condanna a una sorta di supplizio per avere accesso a un elementare diritto, il lavoro, finiscono per essere chiamati “bamboccioni” perchè, disoccupati, vivono ancora tra i muri di casa».

Ma il racconto prosegue. I ricordi portano all’amico Federico Fellini, a Rimini, al cinema Fulgor. Poi Roma, gli anni della radio, l’arrivo a via Asiago 10, gli anni del Giro d’Italia, con Fausto Coppi e la “sua strana, triste bellezza”.

Un salto temporale. Nel viaggio ci sono anche gli anni del terrorismo, delle stragi, le Brigate rosse, la “Notte della Repubblica” in cui gli anni di piombo vengono rivissuti in diciotto puntate, la prima andata in onda il 12 dicembre 1989.

L’autore invita a riflettere sulla mancanza di immaginazione del nostro tempo. «Chi immagina più? Non c’è riuscito il Sessantotto che ha fatto correre per il pianeta, su e giù, la parola “contro”. Che cosa possiamo aspettarci da un tempo che oggi ha in testa solo l’utile, il pratico e il conveniente, cioè le parole dei “quartierini”? Chi parla più con le parole di tutti?».

Non manca un capitolo, intitolato “Tra giardini e boscaglie”, sull’esperienza di Franco Basaglia, che Zavoli seguì negli anni goriziani. Erano gli anni Sessanta, quando il giornalista viene a sapere di quello strano psichiatra che aveva trovato l'ardire di rimettere in libertà i “matti”. Parte con una piccola troupe televisiva e realizza per “Tv7” il reportage “I giardini di Abele”.

«Volevo documentare - spiegò una volta il giornalista - un evento straordinario non solo per il mondo della psichiatria. Aprendo le porte del manicomio, infatti, Basaglia si impegnava a restituire voce a un'umanità dimenticata. Al più debole tra gli ammalati. Cioè a colui che perde il governo della propria mente. Ricordo di avere trovato a Gorizia una grande, gioiosa novità. Per la prima volta, gli ammalati potevano varcare i cancelli di un mondo, come quello del manicomio, chiuso, blindato, esorcizzato. E fare ritorno nelle famiglie, riprendere contatto con la società. Dimenticando, almeno per un po', la loro reclusione».

Una vera e propria rivoluzione, che portò ben presto all'abolizione di metodi curativi terrificanti come i letti di contenzione e l'elettroshock. «I manicomi - scrive Zavoli nel libro, nel quale definisce la 180 “la più umana ma anche la più controversa delle leggi” - sono “ufficialmente” vuoti. Li chiusero il 31 dicembre 1996. Un malato mi aveva detto: “Si aprono le gabbie, ma molti non sanno più volare”...».

Ricordi, storie, riflessioni. Il libro, dice Zavoli, «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare “scriventista”, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall'immaginazione innocente di mia madre».

Già, l’importanza della memoria. Senza ricordo, diceva Borges, ci si avvia verso un’amnesia finale che cancella ogni traccia della nostra vita privata e pubblica: «L’importante è non chiedere alla memoria di sostituire il presente: abbiamo già avuto». E al nipote Andrea, nel commiato dopo il lungo viaggio, Zavoli lascia queste parole: «L’importante è che i ricordi risveglino le cose senza la pretesa di prenderne il posto».

domenica 27 novembre 2011

HARRISON 10


Domani sono dieci anni che se n’è andato George Harrison. E fra dieci giorni ne saranno passati trentuno da quando il folle Chapman uccise John Lennon. Ma la notizia - come dimostra anche il successo di Paul McCartney l’altra sera a Bologna, vedi nota qui a destra - è che nel mondo c’è ancora tantissima voglia di Beatles. Ovvero delle canzoni lasciateci in eredità dalla più bella avventura musicale della seconda metà del Novecento. Quattro ragazzi che sono stati in grado di cambiare musica, ma anche cultura e costume dell’ultimo mezzo secolo.

Dei quattro, George era il più giovane e forse il più defilato. Nato il 25 febbraio del '43, figlio della “working class” di Liverpool, ha solo quindici anni quando, nel ’58, si unisce a John e Paul nei Quarrymen. Nonostante l’età, è già un abile chitarrista.

Si trova in mezzo al mito quasi senza accorgersene. Da quelli che poi sarebbero diventati i Beatles, viene considerato una sorta di fratello minore. Lo chiamano “the quiet Beatle”, o anche “the sad Beatle” (il Beatle tranquillo, o triste), non può competere con il carisma e il genio dei due leader. Ma studia. E ha un suo talento, che lo porta negli anni a comporre alcune tra le più importanti canzoni del gruppo. Come “Something”, che assieme a “Yesterday” (firmata al solito Lennon-McCartney ma scritta dal solo Paul) è il loro brano più reinterpretato.

I suoi fraseggi alla chitarra solista diventano un tratto essenziale della casa. E la sua passione per il sitar caratterizzerà un classico come “Norwegian wood”. Ma il culto per l’India - che contagerà anche John e Paul - non si limita agli strumenti: già dal '65 s'immerge nella lettura nei sacri testi indiani. E poi, in piena era psichedelica, coinvolge i suoi tre compagni e li porta in India in cerca di nuove emozioni.

Dopo lo scioglimento del gruppo nel '70, continua a sfornare titoli di successo. Il più celebre è “My sweet lord”, per il quale viene però condannato per plagio (era uguale a “She's so fine”, successo delle Chiffons del '64). Nel '71 organizza gli storici concerti di beneficenza per aiutare le popolazioni del Bangladesh - antesignani dei vari Live Aid - che diventeranno anche un album di grande successo. Poi alterna momenti di silenzio ad album di buona fattura (vedi “Dark horse”).

Due anni prima di morire a Los Angeles, rischia di fare la stessa fine di Lennon: un ex tossico entra nella sua villa-fortezza inglese, vibrandogli una coltellata al torace. Se la cava. Con il cancro contro cui combatteva da anni, invece, non c’è nulla da fare.

Nel decennale della scomparsa, Martin Scorsese gli ha dedicato il film documentario “Living in the material world”, presentato l’altra sera al Torino Film Festival. Un modo per dire: George, ci manchi.

venerdì 25 novembre 2011

LIBRO BEPPE GRILLO


L’avevano già indicato come “il guastafeste”. Berlusconi non è più al governo, Monti è a Palazzo Chigi, le elezioni politiche non sono più dietro l’angolo. Ma, sempre se il Paese non crolla prima, la sinistra rivede comunque la possibilità di vincere - prima o poi - le elezioni. Si troverà sulla sua strada Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle, che al comico genovese si ispira e che già alle regionali (lo scorso anno in Piemonte, poche settimane fa in Molise) ha fatto mancare al centrosinistra voti poi risultati decisivi.

Edoardo Greblo, docente di filosofia all’Università di Trieste, ha scritto il libro “La filosofia di Beppe Grillo, il movimento 5 stelle” (Mimesis, pagg. 120, euro 12), in uscita il 23 novembre. «Fra i movimenti di opposizione - spiega lo studioso - quello che si ispira a Grillo è il più innovativo perché ha saputo valorizzare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, facendo emergere un fenomeno da noi inedito: un movimento reticolare che si aggrega grazie al web e che, attraverso la partecipazione politica diretta e la cittadinanza informata e consapevole, mira a far uscire partiti e istituzioni dall’autoreferenzialità».

Web decisivo, dunque...

«Assolutamente. La rete si è rivelata capace di creare un’alternativa alla struttura asimmetrica della comunicazione di massa, che impedisce uno scambio di ruoli tra il numero limitato degli attori e il più vasto pubblico degli spettatori muti e passivi. La sua modalità di fruizione interattiva e la sua struttura orizzontale si sono rivelate capaci di promuovere forme di interazione flessibili, aperte e democratiche, in grado di promuovere nuove possibilità di socializzazione, comunicazione, partecipazione, oltre che di creare reti sociali tra soggetti altrimenti isolati e minoritari, dotati di limitate capacità di accesso ai media tradizionali».

I grillini sono in grado di passare dalla protesta alla proposta?

«Direi di sì. Nonostante le infiammate denunce di Grillo nei confronti di partiti e istituzioni, il loro movimento non si nega a rapporti sostanzialmente “costruttivi”, come si dice, con gli amministratori di numerose realtà locali. Né rifiuta la possibilità di accostarsi a sponde politiche, se e quando la politica riscopre la sua funzione, quella di essere attività capace di incorporare esercizio intellettuale, saggezza pratica, competenza tecnica».

Grillo simbolo dell'antipolitica?

«No. L’antipolitica è espressione generica quanto ingannevole, può significare molte cose. Può essere l’espressione di una sfiducia indistinta verso tutto e verso tutti, uno stato d’animo sempre pronto a trasformarsi in una jacquerie scomposta e qualunquista. Ma qui la crisi dei partiti porta ad altro, a cittadini che mettono sotto accusa la gestione del potere piuttosto che la politica democratica e i suoi sistemi di controllo, e che cercano canali alternativi di coordinamento delle azioni collettive».

Politica che parte dal basso?

«Certo. Come nel rinnovato ciclo di mobilitazioni cui stiamo assistendo, non solo in Italia, e che mira a contrastare un’idea di democrazia limitata al gioco periodico dei sì e dei no che si conclude nella mera conta e aggregazione dei voti. Se si vuole evitare la deriva oligarchica della democrazia, il potere di intervento diretto dei cittadini deve essere previsto anche per le situazioni, fasi e contesti che preludono alle decisioni politiche.

Nel libro parla di "rinascita della fenice democratica": cosa intende?

«La reinvenzione dell’attivismo civico, ovvero i segnali sempre più numerosi di risveglio partecipativo. Sino a ieri andava di moda parlare di “postdemocrazia” per definire una situazione di frustrazione e disillusione per le istituzioni rappresentative, considerate al servizio di una minoranza potente capace di orientare il sistema politico a proprio esclusivo vantaggio. Ciò a cui stiamo assistendo sembra suggerire una prospettiva radicalmente diversa, in cui l’azione politica tende a basarsi su una titolarità di cui i protagonisti sono portatori grazie a un insieme di pratiche sociali che valorizzano l’elemento relazionale, associativo e di partecipazione civica, riscoprendo il valore della democrazia grassroots, “dal basso”».

Le accuse di populismo sono giustificate?

«Penso di no. È vero che non pochi sostengono che il Movimento 5 Stelle presenta tutti gli elementi caratteristici del populismo, a cominciare dal suo leader, che contrappone sistematicamente il popolo, inteso come un tutto indistinto e indifferenziato – Grillo si rivolge genericamente agli “italiani” – a una classe politica descritta come una casta consumata dalla corruzione».

Ma...?

«Ma il Movimento 5 Stelle, che non può essere considerato come il braccio politico di un leader carismatico, è invece uno strumento di confronto democratico, uno spazio comune in cui si incrociano esperienze culturali e provenienze politiche diverse, l’esempio forse più vistoso dell’energia e della forza legittima contenuta nella manifestazione libera e civile dell’opinione politica. Al verticismo dei partiti e al paternalismo di chi considera la politica come una forma di “educazione delle masse” oppone una politica riflessiva, reticolare e individualizzata, fatta a immagine e somiglianza della rete, di cui condivide l’orizzontalità democratica e l’assenza di un principio di autorità».

Gli attivisti dei “meet up” hanno fra i 30 e i 45 anni. Che significa?

«Che per una intera generazione i luoghi di incontro e di discussione messi a disposizione da questo movimento sono la sola occasione per far sentire la propria voce e porsi in controtendenza rispetto al potere manipolatorio e parassitario dei media e al simulacro di opinione pubblica prodotto dall’infotainment».

Ritorna l'eterno dilemma fra democrazia diretta e democrazia partecipativa?

«Per certi aspetti, sì. La funzione che si attribuisce al principale degli strumenti della democrazia diretta, il referendum, è tutt’altro che univoca, e oscilla tra interpretazioni radicali, che attribuiscono all’istituto referendario la capacità di produrre un decisivo impatto sistemico sul sistema politico, e interpretazioni più limitate, che affidano alle spinte referendarie il compito di far emergere le istanze delle realtà locali».

La democrazia partecipativa, invece...?

«La funzione che le si attribuisce – come l’ingresso negli organi amministrativi ma anche, in prospettiva, l’intervento sulle condizioni sistemiche e sulle forme istituzionali da cui dipende la vita dei cittadini – sembra essere quella di evitare un ulteriore scivolamento oligarchico della rappresentanza. In generale, l’impressione è che, almeno sul piano delle dichiarazioni di principio, il modello normativo prevalente sia costituito dalla democrazia diretta, e che la democrazia partecipativa venga considerata “concorrenziale”, piuttosto che complementare, rispetto alla democrazia rappresentativa».

Grillo pesca a sinistra, ma rischia di farla perdere. Come se ne esce?

«Difficile a dirsi. La sindrome dello scorpione è un vizio ricorrente in certi settori del mondo politico. Per uscirne non ci sono ricette. Ma sarebbe utile, per esempio, che i partiti di opposizione evitassero di proporre una politica moderata a un elettorato che è ben più radicale dei suoi rappresentanti».



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DISCHI / TIZIANO FERRO

Dieci anni di carriera, un disco nuovo, un tour che partirà ad aprile (tappa in zona: 7 maggio al Palaverde di Treviso), forse addirittura una nuova maturità creativa e interpretativa. Parliamo di Tiziano Ferro, il cantante e autore di Latina che aveva debuttato nel 2001 con “Xdono” e lunedì esce con “L’amore è una cosa semplice” (Emi), quinto album in carriera, composto da quattordici brani registrati a Los Angeles e nati «dopo aver sciolto dei nodi ed essermi liberato da alcuni fantasmi».

A tre anni dal precedente “Alla mia età”, che era rimasto cento settimane in classifica, il nostro non si siede sugli allori (in questi dieci anni è stato capace di imporsi anche a livello internazionale), non sforna la classica raccolta natalizia di successi e invece prosegue nella sua ricerca musicale che parte dal pop ma pesca a piene mani nell’elettronica, nella musica nera (si senta al proposito l’iniziale “Hai delle isole negli occhi”), persino nello swing e nella bossanova.

Album semplice e solare, in bilico fra l’anima italiana dell’artista trentunenne e la fattura americana, grazie anche a musicisti del calibro di Mike Landau (chitarra), Vinnie Colaiuta (batteria) e Reggie Hamilton (basso). C’è pure un duetto con John Legend (“Karma”), a perpetuare la tradizione di collaborazione internazionali di prestigio, come già avvenuto con Kelly Rowland e Mary J. Blige. E a far da contraltare al quale forse non bastano il brano scritto da Irene Grandi (“Paura non ho”) e un altro del rapper tricolore Nesli (“La fine”, lui è il fratello minore di Fabri Fibra). Ed è la prima volta che l’artista sceglie di inserire in un suo album brani scritti da altri.

«E’ il disco - ha detto Ferro - che sognavo di fare da anni, con le canzoni che scrivevo in segreto in un mondo che non avevo ancora affrontato. È un po’ una mia raccolta: avevo troppo materiale nuovo per non pubblicarlo, ma questo album nasce da un compendio di quello che è successo in questi anni, di quello che ho fatto, visto, conosciuto, raccolto, ascoltato».

“L’amore ti salva la vita” - anticipato dal singolo “La differenza tra me e te”, con i ritmi sincopati per lui caratteristici - è una dichiarazione d’amore per la vita e l’amore stesso, quasi un grido di liberazione e di gioia per un artista e un uomo ancora alla ricerca di se stesso ma già in gran parte riconciliato con le sue problematiche esistenziali.

Domani sera Tiziano Ferro sarà ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. Il clima sarà gradevole. Non adatto a parlare della grana riferita dal settimanale “Oggi”, secondo il quale l’Agenzia delle entrate del Lazio avrebbe notificato al cantante un avviso di accertamento fiscale di 5 milioni di euro per imposte evase, più altri 5 milioni di euro tra sanzioni e interessi. Guai che capitano alle popstar.

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DISCHI / MINA

“PICCOLINO” (Sony)

Sulla copertina stavolta sembra un’aliena. Che può permettersi di inserire nel nuovo disco una canzone sketch (contenuta solo nella versione deluxe del cd) scritta vent’anni fa da Stefano Gislon, ottico di Aviano del Friuli, che gliel’aveva mandata e non ne aveva saputo più nulla. Fino a pochi mesi fa, quando è stato chiamato negli studi di Lugano - dopo una ricerca passata anche attraverso gli uffici della Siae di Trieste - a interpretare lui stesso questa “Dottor Roberto”, nella quale la suprema Mina si limita a fare dei vocalizzi quasi di sottofondo.

Le altre canzoni sono “normali”: “L’uomo dell’autunno” di Maurizio Fabrizio, “Brucio di te” e “E così sia” di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, “Canzone maledetta” di Andrea Mingardi, “Fly away” del nipote Alex Pani, “Ainda bem” di Marisa Monte e Arnaldo Antunes, “Compagna di viaggio” di Giorgio Faletti, “Questa canzone” di Paolo Limiti e Mario Nobile (altro brano ritrovato fra le migliaia che le arrivano ogni anno, e di cui ignorava gli autori).

Il resto? La solita, inarrivabile voce di Mina. 



giovedì 17 novembre 2011

LIBRO BEATLES


A ovviamente come Apple, nome della storica casa discografica dei Beatles, ben prima di diventare la premiata “ditta” di Steve Jobs, a cui fra l’altro il libro di cui parliamo è dedicato. B come Beatlemania, fenomeno che da musicale, negli anni Sessanta, divenne ben presto sociologico e si diffuse a livello planetario. C come cinema, a ricordare il fondamentale rapporto dei quattro di Liverpool con la settima arte, da “A hard day’s night” del ’64 fino a “Let it be” del ’70. E poi avanti con tutte le lettere dell’alfabeto, giù giù fino alla Z di zuppa, dal titolo di un ricettario ispirato proprio alle canzoni dei “fab four”.

Fra i mille libri dedicati in tutti questi anni al quartetto inglese, “B come Beatles” dei triestini Eugenio e Viviana Ambrosi - che esce in questi giorni per Mgs Press - si distingue per la mole di notizie e curiosità pubblicate con la formula di questa sorta di dizionario per voci, ma anche per la riproduzione fotografica di tanti oggetti e memorabilia beatlesiani.

Copertine di giornali e ovviamente di dischi, fotografie e locandine, figurine e calendari, accendini e modellini, orologi e persino salvagenti gonfiabili a forma di “Yellow submarine”... Tutte cose che tre anni fa erano state protagoniste della mostra “Here, There, Everywhere”, organizzata a Trieste (quella volta con l’aiuto dell’altra figlia, Valentina) dallo stesso Ambrosi, fan della prima ora e grande appassionato dei quattro, che è riuscito a trasmettere la sua passione anche alla figlia, che firma con lui il libro.

«È passato quasi mezzo secolo - scrive l’autore, classe ’51, nell’introduzione - da quando ne ho sentito parlare la prima volta, quando illustri esperti del settore proclamavano autorevolmente che di lì a pochi anni non se ne sarebbe nemmeno ricordato il nome».

La confessione del primo amore continua così: «Già, il nome: all’inizio non era un problema, quello che colpiva era il sound, diremmo oggi, la vitalità di una musica nuova che sprizzava energia e che faceva passare in secondo piano la pressoché assoluta incomprensione delle parole: chi sapeva allora l’inglese? Oltretutto, io studiavo tedesco, retaggio di una cultura che a Trieste faceva trovare il tedesco sui banchi di scuola e la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” sui tavoli dei suoi caffè mitteleuropei...».

Il libro è dunque la storia di una grande passione adolescenziale, poi mantenuta e sviluppata anche nell’età adulta. Che è poi quello che è successo a tanti ex ragazzi cresciuti fra gli anni Sessanta e Settanta a pane e musica, quella musica - innanzitutto dei Beatles, poi anche di altri artisti e gruppi - che è stata parte integrante nell’evoluzione della cultura e del costume della seconda metà del Novecento. E il merito di Ambrosi è anche quello di essere riuscito a coinvolgere le due figlie, in questa sorta di “Beatlemania di famiglia”.

Fra una lettera e l’altra, ci viene ricordato che il primo a parlare dei “fab four” alla tv italiana fu il goriziano Gianni Bisiach, nel novembre ’63 a “Tv7”, storico rotocalco giornalistico della Rai in bianco e nero e con due soli canali. E poi il loro rapporto con i fumetti, quello ben più controverso con le droghe (compresa ovviamente la leggenda di “Lucy in the sky with diamonds”, in sigla “Lsd”, ma ispirata a Lennon da un disegno del figlio Julian, che aveva immaginato la compagna d’asilo Lucy sospesa in un cielo di diamanti...), le loro tante donne, i rapporti con la regina e la casa reale britannica.

Particolarmente gustosa la I di Italia. Apprendiamo infatti che un tal onorevole Greggi «interrogò il Governo per avere rassicurazioni – anche in relazione alle polemiche esplose in Inghilterra circa l’”idiozia” di certe manifestazioni – che la Rai Tv non avrebbe collaborato alla propaganda e diffusione di certi degradanti fenomeni, in particolare gli spettacoli “dei cosiddetti Beatles”, in alcuni teatri italiani». E che il sottosegretario alle Poste «ne condivise le perplessità e la tv di Stato rifiutò di trasmetterne un concerto».

Era il giugno del ’65. I Beatles arrivarono nel nostro Paese e tennero otto spettacoli a Milano, Genova e Roma. Ogni volta quattordici canzoni, solo mezz’ora in scena. Perchè dovevan esibirsi anche le star locali Peppino di Capri, New Dada e Guidone. Il quattordicenne Ambrosi non c’era, perchè il babbo - apprendiamo dal libro - non gli diede il permesso. Anche questa una storia comune a tanti, tantissimi ragazzi di allora, attirati dalla nuova musica e dai loro nuovissimi protagonisti, ma che dovevano combattere in famiglia per strappare agognati sì che non sempre arrivavano.

“B come Beatles” esce - come ricorda Massimo Polidoro nella prefazione - nel cinquantenario di un evento in qualche modo fondamentale, nella loro leggenda. Era infatti il novembre del 1961 quando Brian Epstein, una sera, a Liverpool, andò a sentirli al Cavern, il locale dove suonavano di ritorno da Amburgo. Ne aveva sentito parlare tanto, voleva verificare di persona, ne fu talmente colpito che divenne il loro manager.

Dopo qualche rifiuto, fra cui quello della Decca passato alla storia, ottenne per loro un contratto discografico con la Emi-Parlophone. Ma al produttore George Martin non piaceva il batterista, il povero Pete Best (il famoso “Beatle mancato”...) venne dunque congedato e fu assoldato Richard Starkey, alias Ringo Starr, vecchio amico di Liverpool, considerato poi alla stregua di uno che aveva trovato la schedina vincente per strada.

Tutto il resto è storia. A partire dalla pubblicazione, il 5 ottobre del ’62, del primo 45 giri “Love me do” (sul retro “I love you”. Fino ai trionfi mondiali, fino allo scioglimento e all’ultimo album, “Let it be”, uscito nel ’70 a gruppo ormai finito. John Lennon seguì la sua Yoko Ono a New York, dove venne assassinato l’8 dicembre di dieci anni dopo. Anche George Harrison è morto, di cancro, a 58 anni, il 29 novembre di dieci anni fa a Los Angeles, nella villa di Ringo Starr. Che oggi è, assieme a Paul McCartney (che apre il suo nuovo tour mondiale il 26 novembre a Bologna, con tappa il giorno dopo a Milano), uno dei due Beatles superstiti. Dicono che suoneranno di nuovo assieme. Ma noi preferiamo ricordarli tutti e quattro com’erano. Forever young.

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Se ne parla domani

al Caffè San Marco

Chi non ha mai canticchiato “All you need is love” oppure “Yellow Submarine”? E chi non ha mai sentito parlare della leggenda della morte di Paul McCartney, che sulla copertina di “Abbey Road” appare, unico dei quattro, a piedi nudi proprio per segnalare in maniera subliminale che non fa più parte del mondo dei viventi?

A questa e ad altre domande danno risposta Eugenio e Viviana Ambrosi nel libro dedicato ai Beatles che presenteranno domani, alle 18, al Caffè San Marco di Trieste. A dialogare con loro sarà il giornalista del “Piccolo” Carlo Muscatello. La prefazione a questo dizionario per voci, pubblicato da MgsPress, è firmata da Massimo Polidoro 



mercoledì 16 novembre 2011

IL GOVERNO MONTI E' REALTA'

IL GOVERNO MONTI E' REALTA'
Che strana (e bella) sensazione, abbiamo un governo di gente normale

domenica 6 novembre 2011

YVES MONTAND 20


A volte ci sono personaggi diversissimi, apparentemente molto lontani, che il caso si diverte ad accomunare. Prendete Yves Montand, scomparso giusto vent’anni fa, il 9 novembre del 1991, e Silvio Berlusconi. Quest’ultimo si vanta spesso di aver avuto nel suo repertorio, da giovane cantante sulle navi da crociera, alcuni classici del primo. Soprattutto “Le feuilles mortes” e “A Paris”, brani che tuttora ama intonare, assieme a “Que reste-t-il de nos amours” di Charles Trenet, quando nelle sue seratine non infligge all’uditorio le composizioni scritte da lui medesimo assieme al fido Apicella.

Ma il filo rosso - in onore alla fede politica del cantante e attore, ma anche all’anticomunismo viscerale del Cavaliere - che congiunge i due va in realtà cercato in una scena del film “Facciamo l’amore”, di George Cukor, con Marilyn Monroe e lo stesso Montand. Contestato da un dipendente reso sincero dall’alcol, il protagonista risponde: «Le barzellette? Lo so che i dipendenti ridono esageratamente perché le racconto io, ma che vuole, mi piace raccontarle». E subito dopo: «I braccialetti di diamanti alle signorine che cenano con me? Ma che vuole, se li aspettano...». Che dite, vi ricorda qualcosa o qualcuno?

Bando alle tristezze. E torniamo al doveroso ricordo di Ivo Livi, classe 1921, toscano di Monsummano, Pistoia. Ultimo di tre fratelli. Babbo Giovanni aveva un negozietto di casalinghi. Socialista, picchiato dalle camicie nere, con l’avvento del fascismo scappa all'estero con tutta la famiglia. Pensavano di andare in America, rimasero in Francia, a Marsiglia.

Lì, il giovane Ivo lascia presto la scuola. Fa tanti mestieri: portuale, fattorino, metalmeccanico, operaio in una fabbrica di pasta, parrucchiere per signore. Ma sogna Fred Astaire, balla e canta per strada, dove mamma Giuseppina dalla finestra lo apostrofa così: «Ivo, monta...!» (qualcosa come: «vieni a casa»). Da cui, di lì a poco, il nome d’arte.

Montand divenne chansonnier e attore, ma era anche un gran seduttore. Si considerava un francese nato in Italia. Comunista, almeno fino al Sessantotto. Insofferente ai soprusi, alle ingiustizie e agli inganni: nella vita, nello spettacolo, nella politica. E la Francia del dopoguerra, da cantante e attore che era, lo trasformò pian piano in eroe nazionale.

Nel ’38, a Marsiglia, fa le imitazioni di Charles Trenet e Maurice Chevalier e canta “scat” proprio come Louis Armstrong. Mimo, cantante, ballerino. A Parigi nel ’44 canta al Moulin Rouge, conosce Edith Piaf, più grande e molto più famosa di lui, e accade il miracolo: la grande cantante s'innamora di lui o gli regala il successo. Prima come interprete con lo show all'Etoile e poi al cinema, sempre accanto a lei, con l'esordio in “Etoile sans lumiére” (’45). Montand raggiunge subito un enorme successo con la musica, che quasi mette in ombra il lavoro di attore. Nel quale l'affermazione completa arriva solo dalla metà degli anni Cinquanta.

Nel 1960 sbarca in America. Gira con Marilyn Monroe il citato “Facciamo l'amore”, diretto da George Cukor: e i due protagonisti - nonostante Montand fosse già sposato dal ’51 con Simone Signoret, con cui formava una coppia simbolo dell’impegno politico - prendono alla lettera il titolo anche nella realtà. È il suo momento d’oro. Lo vogliono registi come Jules Dassin, John Frankenheimer, Costa Gavras, Alain Resnais, Claude Sautet, René Clement, Jules Berry...

Ma Montand non trascura la canzone: recital a Parigi e nelle più importanti capitali del mondo, con i versi di “Les feuilles mortes” e “C'est si bon”, “Barbara” e “J'aime t’embrasser ma anche”, e ancora delle più impegnate “Quand un soldat”, “Le chemin de la libertè”, “Le dormeur du val”.

Per quasi mezzo secolo Montand - amato e stimato come pochi - è il cantante e l'attore della Francia, ma anche l'artista vicino al Partito Comunista. Schierato contro il proliferare nel 1950 delle armi atomiche, contro la guerra in Indocina e in Algeria, e che solo dopo il Sessantotto cecoslovacco si allontanerà deluso dalla sinistra e dalla politica. Ciononostante, molti anni dopo, un sondaggio rivelò che il trenta per cento dei francesi vedeva in lui un buon presidente della repubblica.

Negli ultimi anni di vita, Montand aveva ritrovato la serenità accanto a Carole Amiel, molto più giovane di lui, che nell'88 gli aveva dato il figlio Valentin. Molti anni dopo Catherine, nata dal matrimonio con la Signoret. Non ha avuto invece esito la battaglia legale condotta da Aurore Drossart, una ragazza che sosteneva di essere nata da una relazione di Montand con la madre, l'attrice Anne-Gilberte Drossart, in arte Fleurange.

L'attore aveva ammesso la relazione negando però la paternità, e si era sempre rifiutato di sottoporsi al test del Dna. Che nel ’97, dopo la riesumazione della salma ordinata dal giudice, diede responso negativo. E ciò che resta di Yves Montand è tornato nella tomba del cimitero del Pere Lachaise. Fra i resti di altri grandi come lui.

mercoledì 2 novembre 2011

LUTTAZZI, CD x CINEMA


Lelio Luttazzi, innanzitutto musicista. Sì, perchè quelli di una certa età lo ricordano come presentatore, anzi, come il principe dei presentatori televisivi dell’Italia in bianco e nero degli anni Sessanta. I meno giovani non dimenticano l’Hit Parade radiofonica che conduceva negli anni Settanta sempre con brio, garbo e raffinato humour. E poche sere fa, al Festival del cinema di Roma, è stato svelato anche il Luttazzi regista, con la presentazione del suo film del ’72 “L’illazione”, che prendeva spunto dall’errore giudiziario - con conseguente, ingiusta detenzione subita: ventisette giorni di carcere nel ’70, per questioni di droga cui era estraneo - che ne sconvolse vita e carriera.

Ma il nostro grande Lelio che non c’è più, e che venne a concludere la sua vicenda terrena nella Trieste che non aveva mai dimenticato, era anche e soprattutto un musicista. Un percorso cominciato quando ragazzino andava a prendere lezioni di piano dal burbero don Krizman a Prosecco («ricordo le bacchettate sulle dita...», confessò una volta), proseguito con l’ascolto dei primi dischi di Louis Armstrong, transitato per le serate swing all’Hotel de la Ville sulle Rive triestine che dopo la guerra puppulavano di americani. Poi “Il giovanotto matto”, Milano, Torino, Roma, la Rai... Sempre nel segno della musica.

Musica che torna in due cd, “Le colonne sonore per il cinema di Lelio Luttazzi”, che escono per la Sugar, su iniziativa della fondazione intitolata al musicista, e propongono del materiale quasi interamente inedito, realizzato dall’artista appunto per il cinema.

Lavoro di ricerca e recupero - svolto dalla vedova Rossana Luttazzi, animatrice della fondazione, e dal musicista Paolo Mòsele - doppiamente meritorio, visto che i master originali erano dispersi un po’ qua e un po’ là, in condizioni spesso non buone. In certi casi, segnalano i curatori dell’opera, le condizioni erano talmente deteriorate che non è stato possibile inserire tutte le musiche ritrovate.

Il periodo abbracciato sono i vent’anni che vanno dal ’56 al ’76 (con una pausa forzata proprio fra il ’70 e il ’75, per i motivi citati). Fra i film: “Totò Peppino e la malafemmina” (’56), “Classe di ferro” (’57, con la voce e la chitarra di Fausto Cigliano), “Souvenir d’Italie” (’57, film che prendeva il titolo proprio da una canzone di Luttazzi), “Il marito bello (il nemico di mia moglie)” (’59), “Peccati d’estate” (’62), “L’ombrellone” (’65, con una superlativa Mina che canta “Chi siete?”), “Un sorriso uno schiaffo un bacio in bocca” (’75), giusto per citare solo una parte delle pellicole presenti con le loro musiche nei due cd. Film che hanno in comune il fatto di aver avuto Luttazzi protagonista come attore o come musicista nelle colonne sonore. Con canzoni, musiche, a volte solo con i titoli di testa o di coda.

Dietro le melodie, in mezzo a qualche accenno swing e persino blues, fra tributi alla canzone napoletana e citazioni dei generi alla moda che arrivavano da oltreoceano, da queste musiche emerge soprattutto il buon umore, l’allegria, l’energia, la voglia di vivere che animavano la vena creativa davvero notevole dell’artista triestino. E rispondevano al grande bisogno di leggerezza che gli italiani sentivano soprattutto nei primi dei vent’anni abbracciati dall’opera.

Citazione obbligata per le performance pianistiche del nostro in “Una zebra a pois” (da “Risate di gioia”, con Totò e Anna Magnani, del ’60) e “Come on twist” (nei titoli di testa e di coda di “Peccati d’estate”, del ’62).

In questi come negli altri brani dei cd brilla il talento - come autore, come pianista, come arrangiatore - di quel grande musicista che è stato Lelio Luttazzi. Conduttore radiofonico e televisivo, attore e regista, showman, ma soprattutto artista di quell’universo che sono le sette note.

Universo che il giovanissimo Lelio aveva cominciato a scoprire negli anni difficili della sua infanzia, con le lezioni di piano di don Krizman a Prosecco. E che per tutta la vita non ha mai smesso di esplorare.