giovedì 31 luglio 2003

LIBRO STORIA DELLA CENSURA

La storia dei mezzi di comunicazione è - anche ma forse innanzitutto - la
storia di quel che si può dire e di quel che non si deve dire, degli
argomenti di cui si può parlare e di quelli che è assai meglio tralasciare.
Sotto ogni regime o maggioranza politica, solo con connotazioni e accenti
diversi.
Da questa sacrosanta verità è partito Menico Caroli per scrivere il suo
«Proibitissimo!», sottotitolo «Censori e censurati della radiotelevisione
italiana» (Garzanti, pagg. 300, euro 14,50), per proporre una storia della
censura nel nostro Paese, più o meno dal fascismo ai giorni nostri.
Sì, perchè c’è stato un tempo in cui non si potevano ascoltare «Crapa
pelada» (brano jazz inciso nel ’36 da Gorni Kramer, incappato nelle ire dei
censori fascisti un po’ per la ritmica jazz ma molto di più perchè temevano
celasse un’allusione a un calvo allora molto potente...) e «Pippo non lo sa»
(vietata nel ’40 perchè si credeva che a far «ridere tutta la città» fossero
i gerarchi di Achille Starace...).
E ci sono state epoche più recenti in cui Domenico Modugno si vide censurata
dalla Rai una frase della sua prima canzone di successo, «Resta cu’ mme»:
nell’Italia clericale, bigotta e non divorzista del ’57 cantare «nun me
’mporta ’e chi t’ha avuto» era evidentemente troppo, molto meglio un
commiseratorio «sulo lacrime m’ha dato» (versione proposta dalla Rai). O
ancora quando i Nomadi nel ’67 si videro rispedire al mittente dalla Rai
«Dio è morto», giudicata blasfema, ma poi regolarmente trasmessa dalla Radio
Vaticana.
Erano anni in cui le gambe della ballerine dovevano essere inguainate in
calzamaglie a righe. E non si potevano usare termini come «alcova»,
«divorzio», «verginità», «gozzoviglie», ma neppure «membri del Parlamento» o
«amante della libertà»... Si arrivava al ridicolo di tagliare i versi di
Carducci e Pascarella, le commedie di Eduardo e «La dolce vita». I gialli
potevano essere ambientati solo e soltanto in Sudamerica, uno sketch sugli
infortuni sul lavoro si pagava con il licenziamento in tronco da
«Canzonissima» e l’allontanamento dalla Rai (Dario Fo e Franca Rame, nel
’62), si bruciavano gli archivi con i filmati delle manifestazioni
sindacali.
Tanti episodi che oggi possono far sorridere. Oggi che teoricamente si può
dir tutto, ma spesso ci pensa l’autocensura a decidere cosa dire e cosa non
dire, di cosa parlare e di cosa non parlare, cosa mostrare e cosa non
mostrare. A incoraggiare l’autocensura ci sono le «norme di comportamento»,
i «codici di autodisciplina» che si occupano del linguaggio, dei gesti, ma
anche dei contenuti.
Ma la censura in televisione, salvo rarissime eccezioni, non è dovuta a
pressioni o costrizioni esercitate dall’alto. Piuttosto al servilismo e
all’opportunismo di molti giornalisti, che sanno bene come le loro carriere
dipendano molto più dai favori resi ai propri sponsor (si può dire padrini?)
politici, che dalle loro reali capacità e dal lavoro svolto. Ecco allora che
si preferisce non dare quella notizia, non trattare quel tal argomento che
potrebbe essere sgradito ai politici di riferimento.
Di più. Se oggi il giornalismo investigativo è lasciato - come alcuni
sostengono - a programmi come «Striscia la notizia» o «Le Iene», forse è
perchè nel clima e nella situazione politica attuale è possibile occuparsi
di argomenti seri soltanto attraverso la lente deformante della satira,
dello sberleffo, dell’ironia.
Ecco allora che i comici in teoria possono dire tutto, o quasi tutto (non
dimentichiamo il caso di Daniele Luttazzi), ma poi - e siamo ai giorni
nostri - una schiacciante maggioranza che oggi nel Paese è fermamente
contraria alla guerra in Iraq è assolutamente oscurata, censurata, annullata
dall’informazione radiotelevisiva italiana. Dunque è come se non esistesse.
Questa è la situazione che viviamo nell’Italia del 2003. E non si può dire
si tratti di una situazione gradevole o istruttiva. Nel suo libro Caroli
racconta ottant’anni di vicende di censori e censurati. Seguendo le mosse
degli uni e degli altri, aiuta a comprendere l’evoluzione del (mal)costume
di un’intera società.

GIOVANNA MARINI AL MIELA

Le radici, la memoria, la democrazia. Ascoltare Giovanna Marini che
canta, suona la chitarra, racconta le sue storie è sempre un’esperienza
bella e istruttiva ed emozionante. Che ha a che fare con la passione civile,
con la tradizione orale e l’attenzione alle classi subalterne, con i canti
contadini mischiati agli elementi colti. In tempi orfani della ragione e
dunque bui come quelli che viviamo, ascoltarla diventa forse qualcosa di
più.
Se ne sono accorti i duecento fortunati che l’altra sera, al Teatro Miela,
sono incappati nell’oasi di intelligenza e buon gusto rappresentata oggi in
Italia dall’artista romana. Cui il successo del disco con Francesco De
Gregori ha regalato finalmente (una parte di) quella popolarità che merita e
che già da tempo le arride in Francia.
La signora (classe ’37: complimenti...) attacca dicendo che in questi giorni
l’è tornata in mente una cosuccia che aveva scritto nel ’66, di ritorno da
due anni passati a Boston e dintorni, per rispondere a tutti quelli che le
chiedevano «ma com’è l’America?». Parole e giudizi che in seguito le erano
sembrati duri, ma che in queste ore ha risentito attuali. Ecco allora «Vi
racconto l'America», venti minuti di racconto musicato, una delle sue prime
«ballate lunghe» che poi sarebbero diventate una forma musicale tipica della
sua produzione. In cui alterna approcci vocali e strumentali di diversa
matrice: la filastrocca popolare, il recitativo operistico, la canzone di
protesta contro gli Stati Uniti, già allora trionfo di conformismo e
degrado, «gabbia maledetta, indistruttibile, perfetta...», in cui «non c'è
niente da salvare».
Neutralizzando le verbose disquisizioni degli esperti di turno, che vengono
inopportunamente ammessi al microfono, la Marini riparte dall’epopea del
’64: l’incontro con gli etnomusicologi Roberto Leydi (scomparso un mese fa)
e Gianni Bosio, il Nuovo Canzoniere Italiano e Cantacronache, il canto
popolare che si sposa alla storia sociale cantata con l’obbiettivo di far
arrivare il risultato al grande pubblico. Che è poi quello che è stato fatto
con «Il fischio del vapore», il disco pensato e realizzato l’anno scorso con
De Gregori.
Un canto abruzzese «finto» (di quelli che s’inventava per colpire
l’immaginazione di Leydi...), poi una cantata «vera» degli zingari abruzzesi
(con la voce di Francesca Breschi, una delle componenti del suo quartetto
vocale), ma soprattutto quella «Bella ciao» che, prima di diventare inno dei
partigiani, nella versione originaria era il canto delle mondine al lavoro.
E torna anche il ricordo dello spettacolo «Bella ciao», presentato nel ’64
al Festival dei Due Mondi di Spoleto, con Giovanna Daffini, e le urla, le
proteste, i cori contrapposti...
Arriva anche la prima delle due perle dello spettacolo: «Persi le forze mie
persi l'ingegno, la morte mi è venuta a visitare, e leva le gambe tue da
questo regno, persi le forze mie persi l'ingegno...». «Lamento per la morte
di Pasolini», scritta dalla Marini nel dicembre del ’75, è ovviamente
dedicata alla tragica morte del poeta e regista friulano, assassinato la
notte tra il primo e il 2 novembre ’75, sul lungomare di Ostia. Il testo
prende lo spunto da un canto religioso extraliturgico, ed è costruito sul
modulo musicale di una Passione contadina della tradizione abruzzese. Ancora
commovente, a ogni nuovo ascolto.
C’è ancora tempo per una ballata da «reporter musicale di strada», sulla
Milano delle pistolettate in piazza del ’77. E per due brani nuovi, che
verranno inseriti nel prossimo disco della cantante, prodotto da De Gregori:
«La torre di Babele», sul mondo prima e dopo il crollo delle Torri Gemelle,
e «Io vorrei che Dio tornasse a essere il Dio degli eserciti». E per il
primo bis, «L’attentato a Togliatti», la cui riscoperta da parte di De
Gregori ha contribuito all’operazione del disco citato.
Ma per poter godere della seconda perla della serata, il pubblico triestino
si deve far sentire. Arriva allora finalmente, a richiesta, in chiusura, «I
treni per Reggio Calabria». L’incalzante ed emozionante ballata è la
cronistoria della grande manifestazione popolare contro la rivolta fascista
di Ciccio Franco per «Reggio capoluogo». Era l'ottobre del ’72, quando
quarantamila operai arrivarono da tutta Italia nella città dello stretto per
riaffermare i valori della democrazia. Storia d’Italia, anche questa.

LIFT GALLERY

Che cosa fa un triestino trapiantato da otto anni a Roma? Per
esempio s’inventa la Lift Gallery, ovvero la galleria d’arte più piccola del
mondo, sistemata - e qui scatta il colpo di genio - nello scalcagnatissimo
ascensore di casa sua, in via Pasquale Tola 42, quartiere Appio.
Tutta la storia è cominciata nel gennaio del ’98 e in questi anni ha
bruciato le tappe, passando da un ambito condominiale, a uno rionale e
cittadino, e suscitando poi interesse a livello nazionale a anche
internazionale. E oggi alle 18, nell’ascensore della Casa della Musica (via
Capitelli 3), viene inaugurata la terza sede - dopo Roma e Firenze - della
Lift Gallery, con l’installazione dell’artista belgradese Vuk Cosic.
Ma andiamo per ordine. «L’idea è nata - spiega Rosati, che vent’anni fa era
stato fra i fondatori del Laboratorio P di arti visive nel comprensorio
dell’ex Opp, nella sua Trieste, e che da otto anni vive a Roma - osservando
ogni giorno le pareti scrostate del terribile ascensore del nostro
condominio. Abitando al quinto piano, lo frequentavo abbastanza. Un
ascensore vecchio, che peraltro si rompeva spesso. Starci dentro in due o in
tre creava imbarazzo, aumentava anche la paura di finire protagonisti di uno
di quei fatti di cronaca che ogni tanto leggiamo sui giornali...».
Prosegue Rosati: «E a poco era servito ridipingerlo. Anzi. La vernice grigia
aveva ricoperto ogni magagna ma ne aveva anche, impietosamente, evidenziato
lo spessore. Il tocco finale lo diede una mano sconosciuta sfregiando a
pittura ancora fresca... La misura, insomma, era colma. Posi fine al
martirio elevando l'ascensore al rango di Luogo d'Arte e lo nominai,
applicando una targhetta al suo interno, Lift Gallery...».
La ripitturazione fece insomma scattare la molla. «La prima ”mostra” - dice
ancora Rosati - fu una rivisitazione della pulsantiera con coloratissimi
disegni a pennarello: ogni sera appendevo un disegno diverso, così i più
mattinieri avrebbero già trovato il quadro cambiato. Poi introdussi cinque
oggetti, prelevati dall’ambiente domestico: un crocifisso, un orologio da
muro, un putto, un accendigas, una piantina di plastica. Se non si poteva
cambiare l’ascensore, dicevo a me stesso, come per un sortilegio gli oggetti
venivano ”ascensorizzati”...».
Prima reazione dei frequentatori dell’ascensore: l’indifferenza più
assoluta. Poi un giorno appare un disegno fatto da un bambino. E poi un
foglietto con i versi dall’Inferno di Dante «e uscimmo a riveder le
stelle...». È fatta, deve aver pensato il nostro. E infatti le adesioni si
moltiplicano: altri disegni, altri versi, persino dei collage. Non può
mancare nemmeno il tocco da vero artista, ovvero un post-it giallo con su
scritto un lapidario «stronzo»...
Per un anno si va avanti così, come in un gioco di società, con uno spirito
quasi carbonaro, che porta anche alla pubblicazione - rigorosamente
autoprodotta e autofinanziata dai condomini - di un Catalogo narrato.
L’amministratore dello stabile, che abita al terzo piano, diventa
addirittura un entusiasta sostenitore dell’iniziativa.
Poi il salto di qualità. Il coinvolgimento di altri artisti che accettano la
singolare sfida, i primi articoli sui giornali, i critici che se ne
occupano, i servizi delle televisioni locali, la creazione di
un’associazione culturale che vede riuniti i condomini...
Con tanto di statuto, che prevede fra le finalità dell’associazione
«...promuovere la creazione e la diffusione di iniziative culturali e
artistiche, oltre che negli ambienti già istituiti a tal uso, nei luoghi, in
particolare zone di transito, propri del vivere quotidiano, siano questi
pubblici o privati». E ancora «promuovere l’aggregazione sociale e la
riqualificazione ambientale nei suddetti luoghi».
Per la sede triestina della Lift Gallery, Pino Rosati ha coinvolto Vuk
Cosic, un artista belgradese residente a Lubiana, con cui aveva già
collaborato ai tempi del Laboratorio di arti visive a San Giovanni. La sua
installazione sarà visitabile fino al 7 maggio. Ma la «Gallery» sarà
permanente, e sono già allo studio successivi interventi artistici.
Da non perdere il sito - www.liftgallery.it -, che ripropone la pulsantiera
di un ascensore da cui tutta questa originale storia è cominciata...

MADONNA, AMERICAN LIFE

Non più «material girl», non più erotica, non più trasgressiva, non più
danzereccia, non più moglie e madre... Il 2003 è l’anno della Madonna
«paladina della libertà di pensiero», della Madonna se non proprio
guerrigliera (come suggerirebbe il basco alla Che Guevara con cui si è fatta
immortalare in copertina...), almeno che comincia a fare i suoi distinguo e
che mette in guardia dalla parte superficiale del sogno americano.
Mettetela come volete. Ma con «American life» la signora Ciccone fa di nuovo
centro. Il suo decimo album in studio è finalmente arrivato nei negozi di
tutto il mondo (prima in Italia - e prim’ancora sul web, su www.madonna.com
- e poi negli States: roba da non credere...) e si propone come l’evento
discografico della primavera-estate.
Lo si era già capito quando è uscito il video del brano che dà il titolo al
disco. Una dura invettiva contro Bush e contro la guerra in Iraq, con la
popstar vestita da guerrigliera, video poi ritirato e «corretto» per
rispetto delle forze armate americane, «che sostengo e per cui prego». «Non
sono contro Bush - ha poi dettato alle agenzie - sono solo per la pace e
voglio provocare una riflessione su dove il mondo sta andando...».
Ma quel video era stato sufficiente per capire che la cameleontica diva, lo
Zelig della pop music americana, alla vigilia dei quarantacinque anni (li
compie ad agosto) e dopo venti abbondanti di carriera, si era già incarnata
in qualcosa di diverso dalle ultime immagini pervenute.
Ora il disco aggiunge nuovi elementi a quelle intuizioni. Produzione
importante, elegante e di buona fattura, fra melodia e rap, ballate
cantautorali e ritmi tosti, atti d’accusa e confessioni autobiografiche («la
mia mamma morì quando avevo cinque anni», canta a un certo punto), chitarre
ma anche sonorità tecnologiche (per esempio in «Nobody knows me»).
Per una manciata di canzoni dignitose, intrise di rabbia e sgomento, che nei
prossimi mesi rilanceranno le quotazioni di una diva che troppo
precipitosamente (soprattutto dopo il clamoroso flop del film «Swept away»:
e nel disco non manca una pesante critica a Hollywood, nel brano omonimo...)
era stata indicata come avviata sul viale del tramonto. E che ora si
ripropone a milioni di fan come una sorta di cantautrice di protesta.
Madonna dice che il suo è un atto d’accusa contro la cultura americana.
Quella stessa cultura americana di cui lei è da tempo una delle maggiori
icone. Chissà se è sincera. Chissà se invece non si tratta dell’ennesimo
capitolo e dell’ennesima giravolta di una macchina promozionale che da oltre
vent’anni raramente sbaglia un colpo.
Sempre in bilico fra contraddizioni e polemiche, fra ambiguità e
provocazioni, fra una maturità umana e artistica ormai raggiunta e
l’affacciarsi di nuovi dubbi, nuove inquietudini, forse di nuovi ideali.

GRANDE FRATELLO 3

La «coattona» Floriana ha vinto, ieri sera su Canale 5, col consueto
contorno di lacrime e abbracci (e urla beduine...), la terza edizione del
«Grande Fratello». Come nei pronostici e nei sondaggi della vigilia, è stata
la texana Victoria a contenderle la vittoria fino all’ultimo. Dietro le due
donne, gli altri due finalisti: nell’ordine il torinese Luca e il fiorentino
Franco.
Non è un caso che nella «casa», alla fine, siano rimaste le due ragazze.
L’esuberante romanaccia e la biondona a stelle e strisce (che all’uscita ha
trovato ad attenderla il suo insopportabile «ciccino» palestrato) possono
forse essere prese a simbolo dello stato pietoso in cui versa oggi il nostro
Paese, terra di furbi e mezze calzette, come ha detto qualcuno. Terra da
dittatura televisiva, stretta fra il mito americano (è negli States che
nasce certa tivù che ha contribuito non poco a cambiare l’Italia) e le
nostre degradate periferie urbane, «plasmate» proprio da anni di telenovele
e soap opera.
Una media di otto milioni di spettatori a settimana (con uno share del 32%
abbondante) dimostra il successo di questa edizione, dopo che la seconda
aveva segnato una certa flessione rispetto al debutto. La punta record il 6
marzo: undici milioni e mezzo di persone a guardare Angela che duetta col
suo gruppo preferito, i Cugini di Campagna, mentre su Raiuno una platea meno
vasta segue la performance dei Negrita a Sanremo. Saltando fra un canale e
l’altro, per molti è dunque meglio il reality show che la corazzata del
Festival. Un dato illuminante.
Marco Bassetti, produttore italiano del «Grande fratello» nonchè marito e
socio di Stefania Craxi, è ovviamente tutto contento della buona riuscita. E
dice che il futuro della tv è proprio nel reality show, perchè «la
televisione dovrà interessarsi sempre più della realtà, ovvero del più
grande spettacolo del mondo».
Ma se la realtà è questa, dobbiamo dire che siamo messi davvero male. Un
gruppo di ragazzotti e ragazzotte nullafacenti, senz’arte né parte, chiusi
per mesi in una casa zeppa di telecamere, spiati golosamente da otto milioni
di persone evidentemente affette dalla sindrome del «buco della serratura».
Nella casa-bunker si allestiscono amorazzi, si disquisisce di funzioni
fisiologiche, ci si lamenta delle puzze conseguenti (Floriana anche in
questo supera tutti: un giorno ha protestato perchè in una stanza c’era
«odore di sperma»...), si fa baruffa per chi deve lavare i piatti. Tutto per
quel famoso quarto d’ora di celebrità che Andy Warhol prometteva a chiunque,
senza probabilmente immaginare a che livelli di volgarità ed esibizionismo
ci avrebbe portati la «civiltà televisiva».
Quando escono dalla «casa», i reclusi sono piccole star, grazie anche
all’effetto moltiplicatore delle comparsate garantite dalle reti Mediaset.
Ma basta aspettare qualche mese, e la maggior parte viene restituita al
quanto mai meritato anonimato. Guardiamo le prime due edizioni. Fra i
«pionieri» la vincitrice Cristina si arrabatta fra telepromozioni e serate
in discoteca, il vincitore morale Taricone ha fatto qualche particina al
cinema (come in «Ricordati di me», di Muccino), Marina «Gatta morta» Larosa
si è infilata in qualche fiction televisiva (compreso «Beautiful»). Fra i
protagonisti dell’anno scorso, desaparecido il vincitore Flavio, solo la
pantera siliconata Mascia (il cui flirt nella «casa» col napoletano
Alessandro pare sia sfociato in fidanzamento vero e proprio...) e
l’umbratile nobile Filippo hanno continuato a frequentare il piccolo
schermo: l’una a «Quelli che il calcio», l’altro a «Le Iene». Degli altri,
non si sa più nulla.
Sarà il destino anche dei nullafacenti di quest’anno? C’è da sperarlo. Ma
chi può dirlo. Le vie della televisione sono infinite. E comunque sono già
aperte le selezioni per l’edizione dell’anno prossimo.

BEPPE GRILLO AL ROSSETTI

Mascherina bianca, tanica verde sulle spalle con pompetta per le
disinfestazioni, maglietta e jeans blu d’ordinanza, solita criniera leonina.
L’entrata in scena di Beppe Grillo - ieri sera in un Politeama Rossetti
esaurito già in prevendita - è di quelle che lasciano il segno.
Scende subito in platea e sibila: «Disinfettiamo tutto, questo mondo è
atipico, questa regione è atipica...». E vai con il tradizionale tormentone
sul Friuli Venezia Giulia con o senza trattino. «Voi che eravate la culla
della cultura mitteleuropea, voi eravate lo sfogo dell’impero
austroungarico: siete passati da Maria Teresa d’Austria a Dipiazza, che
confonde le Foibe con la Risiera. La vostra sfiga è che l’Italia ha perso la
guerra, ma se vinceva l’Austria eravate a posto...».
Dopo le consuete sottolineature sulle stranezze triestine (il dialetto, gli
accenti, l’uso di certe parole con effetti opposti...), il fustigatore
genovese entra nell’attualità di queste settimane. Si fa portare una copia
del «Piccolo» e spara sul «bucone» di Franzutti: «una galleria di
diciassette chilometri che non serve a nulla, solo a prendere i
finanziamenti che se no andrebbero altrove, magari a Udine...».
Poi finge di annusare il pubblico, punta qualcuno: «Ci siete, voi di Forza
Italia, vi sento, lo so che siete qui perchè volete sapere da me perchè
avete votato per un partito nato anche come effetto dell’inesistenza della
sinistra, ma io non ve lo dico».
Sempre dalla platea fa aprire il sipario. Scena nuda: una sedia, dei
giornali, un bidone con la scritta Esso (più tardi inviterà a boicottare
quella marca di benzina, «sponsor della guerra»), una bottiglia d’acqua e
una gigantografia con Bush che ha alle spalle Cristo. «Ha fatto una guerra
in nome di Dio, ma roba da matti. L’Iraq l’hanno distrutto per poterlo
ricostruire, tanto che su ogni aereo c’era un pilota e un geometra. Clinton,
con la Lewinsky sotto la scrivania, almeno faceva meno danni. E soprattutto
non ha bombardato nessuno». Si rivolge verso l’alto, vede il cielo e le
nuvole affrescate e borbotta: «Ma è il soffitto così o sono io che ho le
allucinazioni?»
Un’altra bordata a Berlusconi, una a Buttiglione e poi è il turno dei mass
media: «Ho visto un’orgia di informazioni inutili, terroristiche». E
l’amplificazione delle notizie sulla Sars: «I milioni di morti per
tubercolosi o per malaria non contano, perchè non hanno la carta di
credito». Grillo cammina, parla, suda, ansima. Ancora Bush, che bombarda per
poter sopravvivere, «altro che democrazia da esportare. I musulmani ci fanno
paura perchè pregano quattro ore al giorno, applicano il Corano, mentre la
nostra fede arriva al massimo all’otto per mille».
Si procede a zigzag, molte gag e battute sono le stesse dell’anno scorso.
Torniamo all’informazione, anzi, alla «vespizzazione dell’informazione». Con
Bruno Vespa che ospita Previti, condannato in primo grado, che dice di
essere perseguitato ed espone documenti processuali senza contraddittorio.
Vespa, che scrive su Panorama, edita per Mondadori e ha una moglie
magistrato - abbassando la voce - «che al ministero della giustizia fa il
lavoro che fu di Falcone».
Il comico è un fiume in piena: «Vi rendete conto che Berlusconi parla di sé
in terza persona? Il caso allora non è più politico, è psichiatrico. Solo
due persone fanno minacce con le videocassette: lui e Bin Laden». Grillo si
accorge nella foga di aver quasi sputato sulla testa di uno spettatore.
Chiede scusa ma non si scompone e gli consiglia: «Fa finta che sia gel».
Non c’è più confine fra bene e male, ammonisce. E annota: «Eravamo abituati
ai politici che diventavano pregiudicati. Ora è il contrario. Oggi la mafia
è corrotta dalla finanza: non sta più a Corleone, ma a Bruxelles, nei
consigli di amministrazione. A Previti hanno chiesto dove aveva messo i
ventuno miliardi, ha risposto: segreto professionale. Riina, che non ha
studiato, altrimenti avrebbe fatto l’avvocato del premier, alle stesse
domande replica: nun mi scassate la minchia...».
Una legnata anche all’Avvocato Agnelli. Il referendum sull’articolo 18. Ed è
il turno della sinistra, che «cerca un leader e l’ultima volta ha proposto
Rutelli, che sa solo ribadire ed è stato scelto con gli stessi criteri
estetici usati da Berlusconi, che è entrato in politica perchè aveva
cinquemila miliardi di debiti». Non ci serve un leader, dice Grillo, ci
servono «due righe, due regole, un modo diverso di pensare la politica». E
sotto con gli esempi dei pannelli solari, del petrolio e dell’auto a
idrogeno, dell’acqua che sarà il problema del futuro, dei rifiuti e delle
fibre ottiche che sono già vecchie... «La politica - dice - è mettere un
paletto alle tecnologie, è sceglierne una e basta».
A Trieste, solito e annunciato e meritato trionfo di pubblico. Un pubblico
che va a vedere Beppe Grillo come una volta si andava a un comizio: per
credere ancora possibile un mondo migliore.

VELTRONI, IL DISCO DEL MONDO

Luca Flores era un pianista jazz, nato a Palermo il 20 ottobre del 1956 e
morto suicida nel 1995. Walter Veltroni lo ha scoperto per caso, due anni
fa, ascoltando un suo disco che qualcuno gli aveva regalato. Da quel momento
«mi assalì una strana malinconia - racconta il sindaco di Roma, già
vicepremier e ministro dei beni culturali con Prodi, già parlamentare e
segretario dei Ds, già direttore dell’Unità, ma sempre e comunque grande
appassionato di cinema e musica -, un improvviso e spropositato dolore. Mi
sembrò che quella musica mi facesse volare in una notte metropolitana
piovosa...».
Veltroni non sapeva chi fosse, Luca Flores. S’informò e scoprì che quella
musica che tanto lo aveva emozionato era stata incisa nella primavera del
’95, dieci giorni prima che l’artista si togliesse la vita. Allora capì il
dolore, lo struggimento, la malinconia, addirittura lo strazio di quella
musica. «Da quella sera - confessa - ho cercato di sapere e conoscere il
maggior numero di cose su di lui, sulla sua vita, sulla sua musica. Cercare
di capirlo mi sembrò un dovere. Quel dolore chiedeva aiuto, anche postumo».
Il risultato di questo lavoro è un libro, «Il disco del mondo - Vita breve
di Luca Flores, musicista» (pagg.118, euro 16), che esce oggi per Rizzoli -
e viene presentato alla Fiera del Libro di Torino - con allegato il filmato
in dvd che lo stesso Veltroni ha realizzato assieme a Roberto Malfatto, con
la musica e le testimonianze degli amici e dei parenti di «un amico che non
ho mai conosciuto - scrive l’autore - e che ora non c’è più».
Luca era figlio di un geologo impegnato nelle ricerche petrolifere in giro
per il mondo. Per questo i suoi due fratelli maggiori, Heidi e Paolo, erano
nati a Cuba. Per questo trascorse otto anni della sua infanzia in Mozambico.
Dove in un incidente stradale - un incidente del quale Luca si sentiva in
qualche modo colpevole - morì sua madre.
Stavano andando in Sud Africa dal dentista per lui: dunque quello che è
successo è colpa mia, pensa il bambino. Che non riesce a togliersi dalla
testa il ricordo dell’ultima sera prima della tragedia: la mamma che dà il
bacio della buona notte alla sorella, ma non a lui, forse per punirlo di
qualcosa, forse perchè era stato cattivo, forse perchè...
La musica era la sua passione sin da bambino. Non si stancava mai di
ascoltare un vecchio disco che aveva un cerchio sulla copertina: erano le
«Quattro stagioni» di Vivaldi, ma lui lo chiamava «il disco del mondo».
Tornato in Italia, dopo il diploma a pieni voti al Conservatorio di Firenze,
Luca si dedica al jazz e ben presto si impone sulla scena italiana,
collaborando anche con grandi nomi internazionali del genere afroamericano.
Ha l’occasione di suonare fra gli altri con Chet Baker e Dave Holland.
Sembra un giovane uomo di successo, stimato nella professione e amato dalle
donne. Solo gli amici più intimi ne conoscono la personalità complessa ed
estremamente sensibile. E il peso di quella tragedia infantile di cui il
giovane Luca non ha mai smesso di sentirsi in qualche modo responsabile.
A trentotto anni e mezzo, in un giorno di primavera, Luca Flores sale su una
scala a pioli e si impicca. «Non ha lasciato una riga - scrive Veltroni - ma
ha lasciato la sua musica, che era la sua vita. La sua musica meravigliosa,
la sua storia tenera e malinconica, dura e poetica. È stato sole e luna,
giorno e notte. Come la vita. Come il mondo che sognava, sentendo
Vivaldi...».

INTERVISTA VITTORIO AGNOLETTO

«Non chiamateci no global», dice Vittorio Agnoletto. Spiegando così le
ragioni che gli hanno fatto fotografare il «suo» movimento nel libro «Prima
persone - Le nostre ragioni contro questa globalizzazione (Editori Laterza,
pagg. 248, euro 14).
«Non chiamateci così - aggiunge il medico milanese, 46 anni, diventato suo
malgrado popolare nel luglio 2001, nei giorni drammatici del G8 a Genova -
perchè non siamo un movimento contro qualunque globalizzazione. Non vogliamo
insomma tornare all’età della pietra. Contestiamo invece questa
globalizzazione, che mette al centro gli interessi economici e i profitti di
poche persone e calpesta i diritti di tutte le altre».
Un lavoro mica da ridere.
«E infatti io sostengo che questo movimento non sarà passeggero, avendo
delle basi molto solide, destinate a durare anni e anni. Non ha infatti come
obiettivo unicamente la vittoria di un popolo oppresso, impegnato in una
lotta di liberazione. E nemmeno la vittoria di una classe sull’altra. Questo
movimento ha invece come obiettivo il fatto che possa esistere un futuro per
tutto il mondo, per i sei miliardi di persone che vivono sulla Terra».
Valori dunque universali.
«Infatti è un movimento portatore di valori universali, che riguardano
tutti. Perchè è una pia illusione pensare di condannare tre continenti alla
fame, alla miseria e alla povertà, e nel contempo di salvarci noi. È
un’illusione perchè milioni e milioni di persone, piuttosto che morire di
fame, cercheranno con tutti i mezzi di emigrare, di venire fra noi, di
impadronirsi di quello che a loro sembra l’eldorado».
Dicono che basta chiudere le frontiere.
«Folli. Non abbiamo nessuna possibilità di salvarci chiudendo le frontiere,
isolandoci nelle nostre torri d’avorio. Basta vedere la vicenda dell’Aids o
quella più recente della Sars: virus e batteri che arrivano da tutte le
parti, e che nessuno può fermare in maniera realmente efficace. Quindi la
nostra è una battaglia anche per noi, per il futuro di tutto il mondo, non
solo per il futuro di chi abita in Africa o in America Latina».
Dicono che sapete solo contestare.
«Non è vero. Il nostro non è un movimento che contesta e basta. Per questo
rifiutiamo la definizione no global: noi siamo un movimento solo contro
questa globalizzazione, tra l’altro siamo noi stessi un movimento globale,
non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare a Internet o alla facilità di
comunicazione nel mondo. Ma vogliamo una globalizzazione centrata sui
diritti umani».
E poi?
«Noi siamo un movimento competente, cioè preparato, proprio perchè veniamo
da dieci o vent’anni di lavoro nelle associazioni di base. Abbiamo delle
proposte da fare, e si tratta di proposte che pian piano stanno occupando il
centro del confronto del dibattito politico. Sull’agricoltura,
sull’alimentazione, sull’economia, sui farmaci, sui beni essenziali come
l’acqua che non vanno privatizzati, su tutte queste cose, insomma, noi
abbiamo delle proposte precise e dettagliate, che fra l’altro io illustro
nel libro, che da questo punto di vista può essere considerato una sorta di
vademecum».
Vi accusano di coprire i violenti.
«La scelta della non violenza è e deve essere una scelta netta e
irreversibile per il nostro movimento, ciò sia per motivi etici che per
motivi politici. Lo diceva Tolstoj: non si può spegnere l’incendio con il
fuoco, né fermare un allagamento con l’acqua, e dunque nemmeno sconfiggere
la violenza con la violenza. Quindi la scelta della non violenza è
assolutamente irreversibile. Si badi bene, però, che essere non violenti non
significa accettare supinamente lo status quo, non significa lasciare che le
cose vadano avanti sempre nello stesso modo. Ci sono tante pratiche non
violente, anche di disubbidienza civile, che possono e devono essere
utilizzate per provare a modificare questa realtà».
Perchè a Genova, due anni fa, finì male?
«A Genova i padroni delle nostre esistenze hanno cercato di uccidere una
speranza. La speranza rappresentata da questo movimento. Tutti gli
indicatori sociali ci davano in fortissima crescita, con la nostra capacità
di porre al centro del dibattito i temi da noi portati avanti: dalla fame
nel mondo all’uguaglianza, dalla lotta contro lo sfruttamento del lavoro
minorile alla Tobin Tax... Era da sei mesi che si discuteva di questi temi,
per questo si è deciso a freddo di stroncare il movimento».
Lei dunque rimane convinto di un’operazione premeditata...
«Quello che è avvenuto in quei giorni a Genova non può essere letto come una
cosa inventata all’ultimo momento. All’ultimo momento possono arrivare le
contrapposizioni, le lotte intestine fra polizia e carabinieri, di cui
comunque abbiamo poi pagato le conseguenze. Ma l’idea della repressione del
movimento era stata scelta e studiata precedentemente, a tavolino».
Come trent’anni prima, ai tempi della strategia della tensione?
«Qualcosa di simile c’è. Come per esempio il fatto che il governo non si è
fatto alcun problema, in nessuna delle due occasioni, di ricorrere a
strumenti che fanno letteralmente a pezzi la Costituzione. Perchè le bombe
di trenta e più anni fa di certo non sono... costituzionali, come
sicuramente non è costituzionale quello che è successo a Genova».
Lei perchè arrivò a Genova?
«Come medico, con la mia associazione che lavora nella lotta contro l’Aids.
Eravamo una delle cinquecento associazioni che aderivano al Genoa Social
Forum. E che mi chiesero di essere il loro portavoce in quell’occasione».
Quando si accorse che le cose non sarebbero andate come lei pensava?
«Quando la settimana prima del G8 mi accorsi che la realtà rappresentata sul
piano mediatico era diametralmente opposta a quella vera. Quando per esempio
abbiamo trovato sui giornali cose folli del tipo che noi saremmo passati su
Genova con degli aerei che avrebbero spruzzato sangue contaminato. O ancora
che qualche centro sociale avrebbe rapito dei poliziotti per usarli come
ostaggi. O farneticazioni su campi di addestramento all’estero per chissà
quale tipo di azione terroristica...».
Il terrore, attraverso i black bloc, a Genova poi però arrivò veramente...
«Le bombe e gli allarmi bombe arrivano prima dei black bloc. Giovedì, alla
grande manifestazione sugli immgrati, c’era mezzo milione di persone e non
successe nulla. Venerdì arrivarono loro, in un clima da guerra: cominciano a
sfasciare tutto, indisturbati, senza che nessuno intervenga».
Si saprà mai la verità?
«La verità ricostruita nei tribunali probabilmente non corrisponderà alla
verità storica. La scelta di non fare il processo a Placanica (il
carabiniere che sparò a Carlo Giuliani - ndr) è la scelta di non voler
arrivare a ricostruire la verità. Noi non vogliamo che vada in carcere.
Chiedevamo un pubblico dibattito nel quale ognuno potesse farsi una propria
opinione su quel che è accaduto, nel quale ci fosse un contraddittorio, nel
quale si potessero confrontare le prove raccolte...».
E invece?
«Invece tutto ciò non ci sarà. Ciononostante, anche grazie al lavoro di
tanti cronisti che erano a Genova, noi siamo riusciti a far emergere molte
cose, quel che è veramente avvenuto. Quindi ci sono gli elementi perchè in
futuro venga ricostruita la verità storica su quel che è avvenuto veramente
in quei giorni a Genova».

mercoledì 23 luglio 2003

MICK JAGGER FA 60 ANNI

Il vero volto del rock? Senz’altro quello irriverente e malandrino di Mick
Jagger. Nonostante Elvis e nonostante i vari padri del rock’n’roll che
c’erano prima di lui e ai quali lui e i suoi Rolling Stones si sono in
qualche modo ispirati. Nonostante Lennon e McCartney che sono stati sin
dall’inizio il loro contraltare «perbene». Nonostante tutti quelli che sono
venuti dopo, nonostante tutto.
Michael Phillip Jagger - questo il suo nome completo - compie sabato la
bell’età di sessant’anni. E può guardare dall’alto in basso gli ultimi
quattro decenni di storia della musica, del costume e della cultura popolare
non soltanto inglesi. Del rock, oltre che uno dei personaggi più importanti
e conosciuti in tutti i continenti, è infatti anche l’inattaccabile simbolo
e l’inarrivabile icona.
Passi che trentotto anni fa la sua «Satisfaction» nasceva come inno del
disagio giovanile, mentre oggi è diventata la sigla di un’industria
plurimiliardaria costretta dalle leggi del business a non fermarsi mai.
Passi che anni di stravizi e trasgressioni ostentate hanno ormai lasciato il
posto a uno stile di vita salutista e morigerato (sfrenata passione per le
giovani fanciulle ovviamente a parte...). Passi che il ragazzaccio di ieri è
diventato il baronetto di oggi.
Dettagli. Dettagli che i giovani di ieri e di oggi dimenticano
ogniqualvolta, nei suoi mille concerti, il nostro comincia a sgambettare e
proporre il campionario di mossette che ne hanno fatto il più grande
sex-symbol della storia del rock, con un suo posto riservato fra i maggiori
seduttori del jet set internazionale.
Il banalissimo segreto della sua incredibile longevità sta nel ripetersi,
nell’andare avanti sempre e comunque, nel non gettare mai la spugna. A costo
di trasformare la trasgressione in intrattenimento, la rabbia in guadagni
stramiliardari, l’innovazione di ieri nel clichè di oggi.
Altra aria, quella che si respirava all’inizio degli anni Cinquanta a
Dartford, sobborgo di Londra, dove sono nati e vivevano sia Jagger che il
suo eterno sodale Keith Richards. Pare si conoscessero già dai tempi delle
scuole elementari. Secondo la leggenda si ritrovano nove anni dopo, sulla
metropolitana londinese. Tornano entrambi a casa: Mick, famiglia di artisti
ma iscritto alla prestigiosa London School of Economics, ha sottobraccio
alcuni dischi di blues americano; Keith, appena espulso dal college, ha la
chitarra in spalla. Scoprono così di aver coltivato la stessa passione per
il blues di Chicago, per Chuck Berry e gli altri artisti neri d’oltreoceano.

Di lì a poco, nell’Inghilterra travolta dall’uragano chiamato Beatles, gli
Stones rappresentarono il rovescio della medaglia nella via verso la
liberazione dal rock’n’roll americano e la creazione di una vera musica
popolare inglese. Andando più a fondo nella ricerca delle radici, fino a
riscoprire il blues e la musica nera americana.
Di suo, Jagger ci ha messo anche una straordinaria capacità di incarnare
l’ebrezza e il mito della trasgressione. Da quarant’anni, nonostante tutto,
lui e gli Stones sono una delle realtà più importanti della storia della
musica perchè, partendo dalle radici afroamericane del rock, hanno saputo
creare un suono riconoscibile, che ha segnato un’epoca e influenzato
migliaia di gruppi. Un merito che rimane loro attaccato, nonostante la parte
più recente della storia somigli sempre più a una scialba routine.
Repertorio e impostazione dei concerti sono da anni sempre uguali: veri e
propri kolossal all’uscita dai quali - passata la comprensibile eccitazione,
soprattutto dei fan e di chi li vede per la prima volta - spesso si viene
colti dalla strana sensazione di aver fatto visita a un museo del rock.
Col passare degli anni - e del fiume di denaro che significa il marchio
Rolling Stones - Jagger ha fatto tesoro degli studi giovanili di economia,
trasformandosi in un accorto business man e amministratore di se stesso. «La
gente - ha detto una volta - pensava che i cantanti rock fossero tutti
completamente stupidi e incapaci di mettere assieme due parole. E rimaneva
di stucco quando scopriva che avevo frequentato l'università, che mi ha dato
un'introduzione a un mondo intellettuale diverso, rispetto alle mie
esperienze di vita suburbana».
L’ex cattivone sabato festeggerà i sessant’anni a Praga, dove domenica è in
programma una tappa del tour mondiale degli Stones. E l'ex presidente della
Repubblica ceca, Vaclav Havel, gli ha preparato un regalo («si tratta di una
sorpresa...», ha fatto sapere). Suo fratello Chris Jagger, di cinque anni
più giovane, intanto ha dichiarato a un tabloid inglese: «Molte teste vuote
di ricchi si muovono solo fra di loro, questo è veleno, Mick ha la sua
famiglia e i suoi amici che lo criticano anche: io provvedo a che non si
monti la testa». Se non è successo fino ad adesso...

lunedì 21 luglio 2003

TRIBALISTAS

Effetto Lula anche sulla musica leggera? Sembra proprio di sì. La stagione
del presidente operaio del Brasile (e del suo ministro della cultura
Gilberto Gil, che l’altra sera ha incantato la platea di Umbria Jazz assieme
a Maria Bethania) sembra infatti avere dei riflessi anche sul panorama
musicale. Se è vero com’è vero che l’estate 2003 promette di essere
ricordata come quella dei suoni, delle suggestioni, dei profumi brasileiri.
Capofila di questo fenomeno sono decisamente i Tribalistas, la cui «Jà sei
namorar» («So già come si ama») si propone come il tormentone gradevole e
intelligente dell’estate in corso, lasciando ad altri stucchevoli motivetti
(come in Europa «Chihuahua» di Dj Bobo e in Italia «La canzone del capitano»
di Dj Francesco, fra l’altro figlio di Roby Facchinetti dei Pooh) la palma
di tormentoni da cui sfuggire precipitosamente.
I Tribalistas sono in realtà tre grandi della musica d’autore brasiliana,
ovvero la cantautrice Marisa Monte, il percussionista Carlinhos Brown
(presente nelle classifiche anche con il suo album solista «Carlito Marron»)
e il poeta-rocker Arnaldo Antunes. Il loro album ha già venduto l’inverno
scorso quasi un milione di copie in Brasile e ora è ai vertici delle
classifiche anche da noi. Ma i tre non hanno - per ora - tournèe in
progetto, o almeno non come Tribalistas.
Le canzoni di questo disco, lontane dagli stereotipi del Carnevale di Rio e
in qualche modo figlie della «rivoluzione» di Lula, sono nate qualche anno
fa, a Salvador di Bahia, nelle pause di lavorazione del disco di Antunes,
prodotto da Brown e con ospite Marisa Monte. I rispettivi impegni dei tre
hanno poi fatto rinviare la messa a punto del progetto, che finalmente ha
visto la luce e ha fatto il botto.
I tre si propongono come epigoni, trent’anni dopo, dei tropicalisti Caetano
Veloso e Gilberto Gil (di nuovo lui). Perchè «i tribalisti non vogliono aver
ragione a ogni costo, non desiderano sicurezze, non hanno senso comune né
religione, i tribalisti vanno alle basi della costruzione, hanno nostalgia
del futuro, il tribalismo è un antimovimento, potrebbe disintegrarsi tra un
attimo...».
Il nome, spiega Marisa Monte, «è venuto fuori perchè cercavamo di trovare
una parola che venisse da tre, da trio, ma anche da tribù». E aggiunge
Antunes: «Inoltre il termine ”tribalistas” consente tutte le associazioni
possibili: può essere collegato allo scrittore brasiliano Oswald De Andrade,
alle comunità hippie, all’idea di villaggio globale di Marshall McLuhan. Nei
testi si parla della gioia quotidiana data dal vivere in comunione, ed è
proprio da qui che nasce l’idea della tribù».
Ne è venuta fuori una manciata di canzoni d’amore delicate e sognanti, in
magico equilibrio fra samba e pop, fra bossanova e world music, con echi
portoghesi nemmeno lontani, che regalano all’ascoltatore un senso di
serenità e rilassatezza assai tropicale.
...in due? si è già un esercito... (giorgiogaber)
...ta-ta-ra-tat, ta-ta-ra-tat, ta-ta-ra-ta-ta-ta-ta-ta-tà... (paoloconte)
...una giornata al mare, solo con mille lire... (paoloconte x equipe84)
...via via, vieni via con me... (paoloconte)

domenica 20 luglio 2003

...a volte bisogna avere fiducia, sai, nella gente... (woodyallen)
...voi che volevate mettere il mondo a ferro e fuoco... (lamegliogioventù)
...liberate adriano sofri, liberate adriano sofri, liberate adriano sofri... ...e se poi è necessario liberate pure tutti gli altri, basta che questo spettacolo immondo finisca...
...solo su una piccola barca, in mezzo al mare: simbolo della precarietà della vita...
...se gli oscar servissero a premiare i film migliori, "la meglio gioventù", di marco tullio giordana, ne dovrebbe ricevere almeno un paio... la prima parte è bella e intrigante, la seconda è splendida e a tratti straziante... un'opera d'arte che può essere paragonata al "novecento" di bertolucci... e che ci aiuta a capire quattro decenni di vita italiana, di ideali, di speranze, di errori, di incomprensioni, di voglia di vivere, di andare avanti, sempre e comunque...

domenica 13 luglio 2003

...aria in ogni angolo della mia stanza io ti sto cercando, aria nei labirinti della mia mente io ti sto inseguendo... (alansorrenti, trent'anni fa)
...ti ho salutata un giorno di caldo stringendoti al petto girando le spalle al tuo ultimo sguardo, volevo strisciare baciare i tuoi piedi e chiedere a un altro di prendere il mio posto per essere libero di venire con te... (alansorrenti, trent'anni fa)
...vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica, vorrei incontrarti lungo le strade che portano in india, vorrei incontrarti ma non so cosa farei... (alansorrenti, trent'anni fa)

giovedì 10 luglio 2003

...la vecchiaia è soltanto l'incapacità di rinnovarsi...
...la pigrizia non è altro che una categoria dello spirito...
...e siamo piccoli mediocri viaggiatori soli... (ivanofossati)
..."my name is tanino", di paolo virzì, è il miglior film attualmente in circolazione...
...c'è grande confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente... (mao)
...via della scala è sempre là, e io dal letto ventisei, malato di pazienza sto, e aspetto chi non torna più, è un ragazzino magro che cantava sempre insieme a me... (stefanorosso, venticinque anni fa)
...ho deciso di perdermi nel mondo, anche se sprofondo, lascio che le cose mi portino altrove, non importa dove... (morgan)

lunedì 7 luglio 2003

...baby, we were born to run... (brucespringsteen, quasi trent'anni fa)
...when you're down and troubled and you need some lovin' care, and nothing, nothing is goin' right, close your eyes and think of me and soon I will be there to brighten up even your darkest night... (caroleking, oltre trent'anni fa)
...and your wise men don't know how it feels to be thick as a brick... (jethrotull, trent'anni fa)

venerdì 4 luglio 2003

...si discute amabilmente di razzismo, mafia, fascisti...
...stiamo diventando dei veri signori... (altan)
...lei: ti sembra che ci sia troppo sesso in tv...?
...lui: sì, nel senso che si vedono troppe teste di cazzo...
...chi non ha, non è... (antico proverbio calabrese)

martedì 1 luglio 2003

...quando ci libereremo della nostra curiosità idiota per tutto quello che non ci riguarda...?