giovedì 31 luglio 2003

INTERVISTA VITTORIO AGNOLETTO

«Non chiamateci no global», dice Vittorio Agnoletto. Spiegando così le
ragioni che gli hanno fatto fotografare il «suo» movimento nel libro «Prima
persone - Le nostre ragioni contro questa globalizzazione (Editori Laterza,
pagg. 248, euro 14).
«Non chiamateci così - aggiunge il medico milanese, 46 anni, diventato suo
malgrado popolare nel luglio 2001, nei giorni drammatici del G8 a Genova -
perchè non siamo un movimento contro qualunque globalizzazione. Non vogliamo
insomma tornare all’età della pietra. Contestiamo invece questa
globalizzazione, che mette al centro gli interessi economici e i profitti di
poche persone e calpesta i diritti di tutte le altre».
Un lavoro mica da ridere.
«E infatti io sostengo che questo movimento non sarà passeggero, avendo
delle basi molto solide, destinate a durare anni e anni. Non ha infatti come
obiettivo unicamente la vittoria di un popolo oppresso, impegnato in una
lotta di liberazione. E nemmeno la vittoria di una classe sull’altra. Questo
movimento ha invece come obiettivo il fatto che possa esistere un futuro per
tutto il mondo, per i sei miliardi di persone che vivono sulla Terra».
Valori dunque universali.
«Infatti è un movimento portatore di valori universali, che riguardano
tutti. Perchè è una pia illusione pensare di condannare tre continenti alla
fame, alla miseria e alla povertà, e nel contempo di salvarci noi. È
un’illusione perchè milioni e milioni di persone, piuttosto che morire di
fame, cercheranno con tutti i mezzi di emigrare, di venire fra noi, di
impadronirsi di quello che a loro sembra l’eldorado».
Dicono che basta chiudere le frontiere.
«Folli. Non abbiamo nessuna possibilità di salvarci chiudendo le frontiere,
isolandoci nelle nostre torri d’avorio. Basta vedere la vicenda dell’Aids o
quella più recente della Sars: virus e batteri che arrivano da tutte le
parti, e che nessuno può fermare in maniera realmente efficace. Quindi la
nostra è una battaglia anche per noi, per il futuro di tutto il mondo, non
solo per il futuro di chi abita in Africa o in America Latina».
Dicono che sapete solo contestare.
«Non è vero. Il nostro non è un movimento che contesta e basta. Per questo
rifiutiamo la definizione no global: noi siamo un movimento solo contro
questa globalizzazione, tra l’altro siamo noi stessi un movimento globale,
non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare a Internet o alla facilità di
comunicazione nel mondo. Ma vogliamo una globalizzazione centrata sui
diritti umani».
E poi?
«Noi siamo un movimento competente, cioè preparato, proprio perchè veniamo
da dieci o vent’anni di lavoro nelle associazioni di base. Abbiamo delle
proposte da fare, e si tratta di proposte che pian piano stanno occupando il
centro del confronto del dibattito politico. Sull’agricoltura,
sull’alimentazione, sull’economia, sui farmaci, sui beni essenziali come
l’acqua che non vanno privatizzati, su tutte queste cose, insomma, noi
abbiamo delle proposte precise e dettagliate, che fra l’altro io illustro
nel libro, che da questo punto di vista può essere considerato una sorta di
vademecum».
Vi accusano di coprire i violenti.
«La scelta della non violenza è e deve essere una scelta netta e
irreversibile per il nostro movimento, ciò sia per motivi etici che per
motivi politici. Lo diceva Tolstoj: non si può spegnere l’incendio con il
fuoco, né fermare un allagamento con l’acqua, e dunque nemmeno sconfiggere
la violenza con la violenza. Quindi la scelta della non violenza è
assolutamente irreversibile. Si badi bene, però, che essere non violenti non
significa accettare supinamente lo status quo, non significa lasciare che le
cose vadano avanti sempre nello stesso modo. Ci sono tante pratiche non
violente, anche di disubbidienza civile, che possono e devono essere
utilizzate per provare a modificare questa realtà».
Perchè a Genova, due anni fa, finì male?
«A Genova i padroni delle nostre esistenze hanno cercato di uccidere una
speranza. La speranza rappresentata da questo movimento. Tutti gli
indicatori sociali ci davano in fortissima crescita, con la nostra capacità
di porre al centro del dibattito i temi da noi portati avanti: dalla fame
nel mondo all’uguaglianza, dalla lotta contro lo sfruttamento del lavoro
minorile alla Tobin Tax... Era da sei mesi che si discuteva di questi temi,
per questo si è deciso a freddo di stroncare il movimento».
Lei dunque rimane convinto di un’operazione premeditata...
«Quello che è avvenuto in quei giorni a Genova non può essere letto come una
cosa inventata all’ultimo momento. All’ultimo momento possono arrivare le
contrapposizioni, le lotte intestine fra polizia e carabinieri, di cui
comunque abbiamo poi pagato le conseguenze. Ma l’idea della repressione del
movimento era stata scelta e studiata precedentemente, a tavolino».
Come trent’anni prima, ai tempi della strategia della tensione?
«Qualcosa di simile c’è. Come per esempio il fatto che il governo non si è
fatto alcun problema, in nessuna delle due occasioni, di ricorrere a
strumenti che fanno letteralmente a pezzi la Costituzione. Perchè le bombe
di trenta e più anni fa di certo non sono... costituzionali, come
sicuramente non è costituzionale quello che è successo a Genova».
Lei perchè arrivò a Genova?
«Come medico, con la mia associazione che lavora nella lotta contro l’Aids.
Eravamo una delle cinquecento associazioni che aderivano al Genoa Social
Forum. E che mi chiesero di essere il loro portavoce in quell’occasione».
Quando si accorse che le cose non sarebbero andate come lei pensava?
«Quando la settimana prima del G8 mi accorsi che la realtà rappresentata sul
piano mediatico era diametralmente opposta a quella vera. Quando per esempio
abbiamo trovato sui giornali cose folli del tipo che noi saremmo passati su
Genova con degli aerei che avrebbero spruzzato sangue contaminato. O ancora
che qualche centro sociale avrebbe rapito dei poliziotti per usarli come
ostaggi. O farneticazioni su campi di addestramento all’estero per chissà
quale tipo di azione terroristica...».
Il terrore, attraverso i black bloc, a Genova poi però arrivò veramente...
«Le bombe e gli allarmi bombe arrivano prima dei black bloc. Giovedì, alla
grande manifestazione sugli immgrati, c’era mezzo milione di persone e non
successe nulla. Venerdì arrivarono loro, in un clima da guerra: cominciano a
sfasciare tutto, indisturbati, senza che nessuno intervenga».
Si saprà mai la verità?
«La verità ricostruita nei tribunali probabilmente non corrisponderà alla
verità storica. La scelta di non fare il processo a Placanica (il
carabiniere che sparò a Carlo Giuliani - ndr) è la scelta di non voler
arrivare a ricostruire la verità. Noi non vogliamo che vada in carcere.
Chiedevamo un pubblico dibattito nel quale ognuno potesse farsi una propria
opinione su quel che è accaduto, nel quale ci fosse un contraddittorio, nel
quale si potessero confrontare le prove raccolte...».
E invece?
«Invece tutto ciò non ci sarà. Ciononostante, anche grazie al lavoro di
tanti cronisti che erano a Genova, noi siamo riusciti a far emergere molte
cose, quel che è veramente avvenuto. Quindi ci sono gli elementi perchè in
futuro venga ricostruita la verità storica su quel che è avvenuto veramente
in quei giorni a Genova».

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