giovedì 31 luglio 2003

LIBRO STORIA DELLA CENSURA

La storia dei mezzi di comunicazione è - anche ma forse innanzitutto - la
storia di quel che si può dire e di quel che non si deve dire, degli
argomenti di cui si può parlare e di quelli che è assai meglio tralasciare.
Sotto ogni regime o maggioranza politica, solo con connotazioni e accenti
diversi.
Da questa sacrosanta verità è partito Menico Caroli per scrivere il suo
«Proibitissimo!», sottotitolo «Censori e censurati della radiotelevisione
italiana» (Garzanti, pagg. 300, euro 14,50), per proporre una storia della
censura nel nostro Paese, più o meno dal fascismo ai giorni nostri.
Sì, perchè c’è stato un tempo in cui non si potevano ascoltare «Crapa
pelada» (brano jazz inciso nel ’36 da Gorni Kramer, incappato nelle ire dei
censori fascisti un po’ per la ritmica jazz ma molto di più perchè temevano
celasse un’allusione a un calvo allora molto potente...) e «Pippo non lo sa»
(vietata nel ’40 perchè si credeva che a far «ridere tutta la città» fossero
i gerarchi di Achille Starace...).
E ci sono state epoche più recenti in cui Domenico Modugno si vide censurata
dalla Rai una frase della sua prima canzone di successo, «Resta cu’ mme»:
nell’Italia clericale, bigotta e non divorzista del ’57 cantare «nun me
’mporta ’e chi t’ha avuto» era evidentemente troppo, molto meglio un
commiseratorio «sulo lacrime m’ha dato» (versione proposta dalla Rai). O
ancora quando i Nomadi nel ’67 si videro rispedire al mittente dalla Rai
«Dio è morto», giudicata blasfema, ma poi regolarmente trasmessa dalla Radio
Vaticana.
Erano anni in cui le gambe della ballerine dovevano essere inguainate in
calzamaglie a righe. E non si potevano usare termini come «alcova»,
«divorzio», «verginità», «gozzoviglie», ma neppure «membri del Parlamento» o
«amante della libertà»... Si arrivava al ridicolo di tagliare i versi di
Carducci e Pascarella, le commedie di Eduardo e «La dolce vita». I gialli
potevano essere ambientati solo e soltanto in Sudamerica, uno sketch sugli
infortuni sul lavoro si pagava con il licenziamento in tronco da
«Canzonissima» e l’allontanamento dalla Rai (Dario Fo e Franca Rame, nel
’62), si bruciavano gli archivi con i filmati delle manifestazioni
sindacali.
Tanti episodi che oggi possono far sorridere. Oggi che teoricamente si può
dir tutto, ma spesso ci pensa l’autocensura a decidere cosa dire e cosa non
dire, di cosa parlare e di cosa non parlare, cosa mostrare e cosa non
mostrare. A incoraggiare l’autocensura ci sono le «norme di comportamento»,
i «codici di autodisciplina» che si occupano del linguaggio, dei gesti, ma
anche dei contenuti.
Ma la censura in televisione, salvo rarissime eccezioni, non è dovuta a
pressioni o costrizioni esercitate dall’alto. Piuttosto al servilismo e
all’opportunismo di molti giornalisti, che sanno bene come le loro carriere
dipendano molto più dai favori resi ai propri sponsor (si può dire padrini?)
politici, che dalle loro reali capacità e dal lavoro svolto. Ecco allora che
si preferisce non dare quella notizia, non trattare quel tal argomento che
potrebbe essere sgradito ai politici di riferimento.
Di più. Se oggi il giornalismo investigativo è lasciato - come alcuni
sostengono - a programmi come «Striscia la notizia» o «Le Iene», forse è
perchè nel clima e nella situazione politica attuale è possibile occuparsi
di argomenti seri soltanto attraverso la lente deformante della satira,
dello sberleffo, dell’ironia.
Ecco allora che i comici in teoria possono dire tutto, o quasi tutto (non
dimentichiamo il caso di Daniele Luttazzi), ma poi - e siamo ai giorni
nostri - una schiacciante maggioranza che oggi nel Paese è fermamente
contraria alla guerra in Iraq è assolutamente oscurata, censurata, annullata
dall’informazione radiotelevisiva italiana. Dunque è come se non esistesse.
Questa è la situazione che viviamo nell’Italia del 2003. E non si può dire
si tratti di una situazione gradevole o istruttiva. Nel suo libro Caroli
racconta ottant’anni di vicende di censori e censurati. Seguendo le mosse
degli uni e degli altri, aiuta a comprendere l’evoluzione del (mal)costume
di un’intera società.

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